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Soldi e salute

Scritto da Giorgio Rinaldi il 1 settembre 2012
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Il caso dell’Ilva a Taranto e quelli del Sulcis in Sardegna hanno riportato drammaticamente alla ribalta delle situazioni in cui nessuno di noi vorrebbe mai trovarsi : o muori di fame o muori per terribili malattie.

Negli anni successivi al 1969, il periodo conosciuto come “Autunno caldo”, i lavoratori dell’industria rifiutarono decisamente una pratica allora molto in voga, cioè quella conosciuta come “monetizzazione della salute” : gli industriali anziché rendere sicuri gli impianti produttivi per i lavoratori, prevedevano un piccolo aumento del salario a compensazione di probabili malattie dovute alle pericolosità degli impianti.

In questo modo, gli industriali avevano risparmi smisurati sui costi e i lavoratori, pur di intascare qualcosa in più in busta-paga, correvano il rischio di ammalarsi e morire prematuramente.

Il grande assente di questo scellerato andazzo restava sempre lo Stato, che non tutelava la parte più debole (i lavoratori) e che ignorava, quanto meno, i disagi e i problemi delle popolazioni che vivevano a ridosso delle industrie.

In più, lo Stato si accollava tutti i costi medico-sanitari (medicine, ricoveri ospedalieri, cure, interventi, assistenza ecc.), di previdenza (pensioni per infortuni e malattie) e di successiva bonifica dei siti in conseguenza dell’inquinamento di aria, terreni, fiumi e mari da parte degli impianti insalubri.

Poiché la messa in sicurezza degli impianti industriali costava e costa quantità enormi di danaro, gli industriali si sono sempre ben guardati dal rinunciare a parte dei loro profitti e, complice lo Stato, hanno sempre giocato la carta del ricatto : o così o si chiudono le fabbriche e lavoratori con tutte le loro famiglie, oltre a tutti quelli che vivono dell’indotto, saranno ridotti alla fame.

La paura di un avveramento della minaccia ha fatto chiudere gli occhi a tutti coloro i quali avrebbero avuto il diritto e il dovere di intervenire, ignorando colpevolmente o dolosamente, o sottovalutando, i pericoli che arrivavano dagli insediamenti industriali.

Ad una legislazione difettosa e claudicante, se non proprio addomesticata ed asservita agli interessi del padronato industriale, si è unito il silenzio di quanti avrebbero dovuto vigilare e reprimere, demandando sempre ad altri la risoluzione del problema.

Uno Stato non può certo lasciare morire i suoi cittadini perché l’industria minaccia di andare a produrre in luoghi dove la vita di un individuo vale meno di zero.

Uno Stato che si rispetti deve tutelare la vita dei propri consociati come il bene primario e irrinunciabile, non barattabile, non alienabile.

Uno Stato degno di questo nome sa e può utilizzare tutti gli strumenti legali per imporre produzioni nel rispetto della salute e dell’ambiente in cui tutti noi viviamo e impedire criminali ricatti di trasloco di impianti.

Ovvio che una classe dirigente di incapaci e/o di troppo capaci a salvaguardare il proprio portafogli non potrà mai tutelare il Paese, ma solo una piccolissima parte di esso, che di certo non abita dove i veleni si producono e si smaltiscono.

Non c’era certo bisogno di chiamare degli esperti per capire, passando per Taranto, che le ciminiere dell’Ilva (prima Italsider) appestavano l’aria, che le polveri avevano modificato lo stesso paesaggio, rendendolo deserticamente lunare.

Non c’era certo bisogno di chiamare degli esperti per capire che il numero di morti per gravi malattie tumorali era aumentato vertiginosamente nella zona.

Situazione che va avanti da decenni e che solo qualche settimana fa la magistratura tarantina ha scoperto in tutto il suo dramma, arrivando al sequestro degli impianti.

Per anni, evidentemente, nessuno si è accorto di nulla, nonostante la puzza, le polveri rosse e nerastre, le morti sospette, le greggi di pecore abbattute e il latte alla diossina distrutto.

Così in Sardegna.

Ciò capita quando chi deve applicare le leggi vuole fare politica e chi fa politica non vuole applicare le leggi.

I mancati tempestivi interventi oggi rendono la matassa difficilmente sbrogliabile.

Taranto, stanti così le cose, con o senza l’Ilva è destinata a morire, per salute o per fame.

Così in Sardegna.

E, come al solito, toccherà a Pantalone pagare i danni che altri hanno fatto.

Questa è l’occasione, però, per il Parlamento nazionale e per quelli regionali di legiferare adeguatamente in materia e per la magistratura di avere più coraggio, senza farsi condizionare da nessuno, nell’applicare le leggi in modo severo, anche arrivando alla confisca degli impianti e all’imposizione di risarcimenti a carico di chi le fabbriche neanche sa dove siano allocate ma dalle quali attinge fiumi di denaro.

Il Paese, nella contingenza, ben potrà fare uno sforzo ulteriore, magari attingendo fondi dalle spese di rappresentanza di chi malamente ci rappresenta, ed aiutare queste povere popolazioni che alla sofferenza, sino ad oggi, hanno pagato un grosso tributo.