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Poesia e retorica

Scritto da Carlo Di Stanislao il 1 giugno 2012
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Se l’Italia contemporanea ha avuto un suo poeta civile, un testimone implacabile della corruzione e dell’alienazione novecentesca, questo è Pier Paolo Pasolini.

Egli ha rappresentato la coscienza critica dell’Italia per due ragioni contrastanti.

Da una parte Pasolini è lo specchio, poetico e esistenziale, di un’Italia avvilita e degradata, in preda al vuoto dei valori e all’assoluto permissivismo; un’Italia disgregata, uscita dalla storia.

In questo quadro Pasolini è davvero il D’Annunzio della nostra epoca, il poeta civile e l’esteta di un’Italia “malata”. E in tanto diventa l’anti-D’Annunzio, in quanto egli è il poeta di un’Italia che è la negazione dell’Italia dannunziana, sia nel bene (come rifiuto della retorica e della violenza) sia nel male (come rifiuto di ogni altezza e bellezza), perché, soprattutto, rinunzia alla retorica.

Come spiega il grande Errico Centofanti, inesausto intellettuale aquilano, in una città che vuole proclamarsi “capitale della cultura” senza nessun reale investimento, se non retorico e strumentale, Pasolini (la nota sul libro le Meraviglie d’Italia, Gli anni, edito da Garzanti nella collana Gli elefanti nel 1993), ha sempre misurato i suoi esiti come distanza proprio da D’Annunzio, da vuoto suonare di rime e parole, che rendono inutile vaniloquio ogni produzione.

E sembra ben strano, ancora adesso, dopo tanti anni, che Pasolini rivolga il suo testamento a un fascista, “tu ragazzo che mi odii” e che a lui, e non a un compagno, affidi il suo “fardello”.

Un fardello in cui c’è l’essenza di Pasolini: il pauperismo,  ma anche la difesa della tradizione, delle radici, dell’ambiente, della cultura (“difendi, conserva, prega”).

Scrive il poeta:

“Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io sussisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età  sepolta.
Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno d’ogni moderno
a cercare i fratelli che non sono più″.

E Pasolini insegna la non retorica come primo passo verso la vera poesia, anche nel suo cinema, nei film sui “ragazzi di vita”, film molto imitati ma mai raggiunti nell’essenza di un discorso davvero poetico ed antropologico, non macvchiettistico o picaresco come è accaduto anche nel recentissimo “La Palestra”, film sui rom di Pescara di Francesco Calandra, regista motivato e sognatore, ma non ancora spogliata da quella retorica imperante che comunque condiziona gli spazi di visione.

Aristotele definisce la retorica come “la facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto”, ma aggiunge, nel suo meraviglioso saggio successivo alla “Poetica”, che esiste (o dovrebbe) un giudizio, sicchè  ogni deliberazione deve essere giudicata e in ciò svolgono un ruolo fondamentale sia l’atteggiamento del retore (ethos), sia la disposizione d’animo di chi ascolta (pathos).

Il “nostro Ovidio”, insieme a Marziale, insegnarono che la poesia supera la retorica, la smonta del suo ruolo scontato e persuasivo e trattando di casi sempre universali diventa mimesi: vera rappresentazione della realtà.

Nella puntata di ieri sera sono saliti sul palco, ciascuno con la propria parola adottata, Gaetano Saffioti, Rosaria Capacchione, Giulio Cavalli, Giovanni Tizian e Vincenzo Conticello, giornalisti e testimoni di giustizia  sotto protezione.

Ed il pubblico presente in studio per la seconda puntata di  “Quello che (non) ho”,  ha ascoltato ed applaudito, mentre Saviano, parlando di mafia e di chi le resiste, nonostante tutto, ha parlato soprattutto di se stesso,  tornando implicitamente su un discorso che in questi anni ha più volte contrapposto agli attacchi di quanti mettevano in discussione il suo ruolo di intellettuale/testimone anti-mafia.

Ed allora ho pensato che in fondo, solo qualche goccia di poesia, almeno ieri, è stato diluita in un mare di retorica ed il savianismo è divenuta una sorta di religione, con Fazio a fare più da chierichetto che da sacerdote.

Certo è che la coppia Fazio Saviano esprime il disagio di chi (e sono tanti in Italia), senza nostalgia per cose e persone migliori, ma il modo con cui si è proceduto ieri sera è apparso scontato e retorico.

Guccini sceglie la parola “aiuto”. Elisa canta “One” degli U2 e “Bridge over troubled water” di Paul Simon nella versione che nel 2001 regalò al tributo degli eroi dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Capossela “Quello che non ho”. E la musica, compreso il pianoforte di Nicola Piovani, si alterna con le parole. Importanti e da mettere da parte. Come “rivoluzione”, “claudicanza”, “benefattore”, citata da Massimo Gramellini (sua “la parola del giorno”) a proposito di “Renatino” De Pedis e della riesumazione nella cripta  della basilica di Sant’Apollinare a Roma. O come l’apologia della parola “stronzo” che esplora Luciana Littizzetto.

Ma tutto mi è sembrato stucchevole, tronfio e scontato.

Rocco Papaleo declina la parola “pietra”, che “può distruggere, edificare”; Piovani rievoca lo “stupore” di Fellini di fronte all’oboe scelto per una scena di La voce della luna; ma anche loro appaino retorici.

Mi convince di più Arturo Artom, ingegnere milanese che ieri dalla Gruber, sempre su La7, ha spiegato l’iniziativa chiamata “Notte dei talenti”, una serata promossa Forum della meritocrazia, che si propone di contaminare quella parte di Paese soggetta ancora a vecchie logiche clientelari e far capire come in Italia sia possibile crescere professionalmente con il proprio curriculum.

Una serata ed una notte, giovedì prossimo, cui hanno già aderito Ignazio Visco, Alberto Quadrio Curzio, Alberto Meomartini, Ivan Lo Bello, Umberto Veronesi, Gabriele Galateri, Clarence Seedorf, Gaetano Pesce, Carlo Cracco, Giulia Bongiorno, Livia Pomodoro e tanti altri italiani meno noti ma non meno eccellenti.

Così, domani, con inizio alle 20,30, l’Auditorium di Milano sarà il palcoscenico per la presentazione di 15 storie di talento, per dimostrare che anche in Italia è possibile emergere grazie alle proprie capacità e non attraverso “raccomandazioni”.

Ce lo diranno  Antonella Camerana, Carlo Cracco, Ivan Lo Bello, Matteo Marzotto, Giovanni Perosino, Livia Pomodoro, Clarence Seedorf e le molte altre persone presenti, fuori dalla tv e dalla retorica dello spettacolo,  ma nel cuore di una realtà che, nel nostro paese, fatica ad emergere.

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