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La Memoria sbiadita -27 Gennaio 2016-

Scritto da Maria Teresa Armentano il 1 febbraio 2016
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Una vita, tante storie – Caterina Gammaldi   - Natan edizioni  -

Il 27 Gennaio, come tutti ormai sanno, è il giorno in cui gli alleati entrarono ad Auschwitz località ubicata in Polonia  dove i Tedeschi   compirono parzialmente il folle progetto: attuare la soluzione finale cioè  lo sterminio degli ebrei. Giornali e tv si affannano a ricordare con interviste ai sopravvissuti, con film  commoventi e intensi,  alimentando non solo la memoria di quegli eventi ma talvolta anche la loro retorica. Stranamente in molte scuole, luogo precipuo della formazione dei giovani,  le iniziative sono lasciate ai singoli docenti  e questa data viene sminuita se non ignorata, tanto film e tv  sono sufficienti per commemorare, si pensa. Ciò che voglio raccontare è un’ esperienza  dolorosa singolare ma non unica , divenuta collettiva: appartiene a un italiano Nicola Gammaldi un medico recluso per 25 mesi in un lager tedesco ma  anche  a numerosi soldati italiani(600.000 mila) deportati dai  Tedeschi  dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943.  La storia di un uomo annotata in un libriccino nero dalle ridotte dimensioni  suggerisce che la vicenda di un singolo non è mai  di un solo uomo ma come in questo caso di migliaia e diventa  da privata, memoria storica, Per i militari dell’esercito italiano allo sbando  le scelte erano due: un Si significava  entrare a far parte della Repubblica di Salò ed essere corpo ausiliario degli ex- alleati, un NO era di conseguenza darsi alla macchia e per chi era in Italia unirsi alle brigate partigiane. Moltissimi  fra loro dissero NO e, non potendo o volendo fuggire,  furono deportati nei campi di lavoro e di concentramento tedeschi come Leopoli e Wietzendorf.. L’autenticità di questo percorso  sta tutta nella forza e nel valore  della parola scritta che va oltre lo spazio e il tempo:  note, ricordi, voci giunte di eventi lontani, il menu del pochissimo cibo elargito ai prigionieri, razioni descritte  minutamente,  dosate in grammi , assurde per uomini in giovane età.  I giorni  non vissuti  in  “camerate buie e basse” dormendo per terra,  su panche, i più fortunati sulla paglia mai cambiata ,al freddo glaciale con   formazioni di ghiaccio simili a  stalattiti che pendevano dal soffitto. La   fame, ossessione dei prigionieri nei campi, più del freddo, fiaccherà le difese di tanti che anche dopo la liberazione, malati di tubercolosi, non si salveranno. Gli internati, infatti, a differenza degli altri, non ricevevano aiuti dalla Croce Rossa e potevano essere utilizzati come manodopera nell’industria bellica, ciò che la convenzione di Ginevra vietava per i prigionieri di guerra. Alla fine della guerra  saranno 40.000 gli Italiani morti d’inedia  nei campi per sevizie, per fame, a seguito di esecuzioni sommarie che avvenivano  al minimo cenno di ribellione. Il lavoro forzato massacrante  per dodici ore al giorno con un riposo settimanale unito alla condizioni  proibitive  sia ambientali sia alimentari unisce i  militari italiani ai prigionieri russi,  ai politici, agli ebrei come  Primo Levi, impiegato come chimico,  in lavori indispensabili per l’economia di guerra. Le testimonianze dell’ufficiale italiano  Nicola Gammaldi, protagonista della storia , ci dicono moltissimo della loro esistenza di questi campi ; i menu di pranzi luculliani soltanto sognati, “i sogni di Wietzendorf”, provano che talvolta  i desideri possano aiutare  a sopravvivere. Il desiderio  trova linfa nei ricordi e  si proietta  nella speranza di resistere  in un inferno  creato  da una malvagia volontà. I “sogni” sono un itinerario gastronomico fra ristoranti italiani e piatti preferiti e testimoniano  che  le conversazioni fra prigionieri vertevano sulla qualità del  cibo , la realizzazione di una fantasia sufficiente per continuare a essere se stessi in un ambiente disumano. Sulla fame  scriveva anche Primo Levi  in “Se questo è un uomo” Dopo  quindici giorni dall’ingresso, già ho la fame regolamentare, la fame cronica sconosciuta agli uomini liberi, che fa sognare di notte e  risiede  in tutte le membra dei nostri corpi”. Levi  allo stesso modo degli internati è l’ebreo che affidava la sua attesa di riappropriarsi del proprio IO alla memoria dei versi classici. Il sogno è spesso profetico come sappiamo dall’antichità. Montale scrive nella sua lirica “Il sogno del prigioniero”

…ma la paglia é oro,
la lanterna vinosa é focolare
se dormendo mi credo ai tuoi piedi.
affidando il prigioniero  alla speranza che persiste nella dimensione della visione; in questo caso la donna,  figura salvifica,  rigenera l’ identità di chi ha  perduto la sua umanità.

Dopo la chiusura del campo il 16 aprile 1945 liberato dagli alleati, inizia il difficile ritorno protrattosi per mesi attraverso tutta l’Europa  come  quello degli ebrei scampati allo sterminio  che Levi racconterà  nel suo romanzo “La tregua”. L’odissea degli italiani non è diversa da quella dei migranti odierni che subiscono sopraffazioni, sperimentano traversie terribili , mettono a repentaglio la loro vita e quella dei loro figli e spesso la perdono in mare, cadaveri sospinto su spiagge sconosciute da onde infide. Aylan il bimbo di tre anni annegato restituito dal mare sulla spiaggia di Bodrum in Turchia è il simbolo dell’orrore, della strage degli innocenti in questa guerra che non dà possibilità di scampo  a chi tenta di  ritrovare  libertà e dignità. Questa volta le parole di Nicola Gammaldi , sempre loro,  scritte e consumate dal tempo in una piccola agenda ci ricordano antiche e nuove tragedie in un mondo in cui la guerra , male assoluto,   uccide i corpi e   ricorda che siamo sempre quelli della pietra e della fionda.. senza amore, senza Cristo.
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