Una vita, tante storie – Caterina Gammaldi - Natan edizioni -
Il 27 Gennaio, come tutti ormai sanno, è il giorno in cui gli alleati entrarono ad Auschwitz località ubicata in Polonia dove i Tedeschi compirono parzialmente il folle progetto: attuare la soluzione finale cioè lo sterminio degli ebrei. Giornali e tv si affannano a ricordare con interviste ai sopravvissuti, con film commoventi e intensi, alimentando non solo la memoria di quegli eventi ma talvolta anche la loro retorica. Stranamente in molte scuole, luogo precipuo della formazione dei giovani, le iniziative sono lasciate ai singoli docenti e questa data viene sminuita se non ignorata, tanto film e tv sono sufficienti per commemorare, si pensa. Ciò che voglio raccontare è un’ esperienza dolorosa singolare ma non unica , divenuta collettiva: appartiene a un italiano Nicola Gammaldi un medico recluso per 25 mesi in un lager tedesco ma anche a numerosi soldati italiani(600.000 mila) deportati dai Tedeschi dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943. La storia di un uomo annotata in un libriccino nero dalle ridotte dimensioni suggerisce che la vicenda di un singolo non è mai di un solo uomo ma come in questo caso di migliaia e diventa da privata, memoria storica, Per i militari dell’esercito italiano allo sbando le scelte erano due: un Si significava entrare a far parte della Repubblica di Salò ed essere corpo ausiliario degli ex- alleati, un NO era di conseguenza darsi alla macchia e per chi era in Italia unirsi alle brigate partigiane. Moltissimi fra loro dissero NO e, non potendo o volendo fuggire, furono deportati nei campi di lavoro e di concentramento tedeschi come Leopoli e Wietzendorf.. L’autenticità di questo percorso sta tutta nella forza e nel valore della parola scritta che va oltre lo spazio e il tempo: note, ricordi, voci giunte di eventi lontani, il menu del pochissimo cibo elargito ai prigionieri, razioni descritte minutamente, dosate in grammi , assurde per uomini in giovane età. I giorni non vissuti in “camerate buie e basse” dormendo per terra, su panche, i più fortunati sulla paglia mai cambiata ,al freddo glaciale con formazioni di ghiaccio simili a stalattiti che pendevano dal soffitto. La fame, ossessione dei prigionieri nei campi, più del freddo, fiaccherà le difese di tanti che anche dopo la liberazione, malati di tubercolosi, non si salveranno. Gli internati, infatti, a differenza degli altri, non ricevevano aiuti dalla Croce Rossa e potevano essere utilizzati come manodopera nell’industria bellica, ciò che la convenzione di Ginevra vietava per i prigionieri di guerra. Alla fine della guerra saranno 40.000 gli Italiani morti d’inedia nei campi per sevizie, per fame, a seguito di esecuzioni sommarie che avvenivano al minimo cenno di ribellione. Il lavoro forzato massacrante per dodici ore al giorno con un riposo settimanale unito alla condizioni proibitive sia ambientali sia alimentari unisce i militari italiani ai prigionieri russi, ai politici, agli ebrei come Primo Levi, impiegato come chimico, in lavori indispensabili per l’economia di guerra. Le testimonianze dell’ufficiale italiano Nicola Gammaldi, protagonista della storia , ci dicono moltissimo della loro esistenza di questi campi ; i menu di pranzi luculliani soltanto sognati, “i sogni di Wietzendorf”, provano che talvolta i desideri possano aiutare a sopravvivere. Il desiderio trova linfa nei ricordi e si proietta nella speranza di resistere in un inferno creato da una malvagia volontà. I “sogni” sono un itinerario gastronomico fra ristoranti italiani e piatti preferiti e testimoniano che le conversazioni fra prigionieri vertevano sulla qualità del cibo , la realizzazione di una fantasia sufficiente per continuare a essere se stessi in un ambiente disumano. Sulla fame scriveva anche Primo Levi in “Se questo è un uomo” Dopo quindici giorni dall’ingresso, già ho la fame regolamentare, la fame cronica sconosciuta agli uomini liberi, che fa sognare di notte e risiede in tutte le membra dei nostri corpi”. Levi allo stesso modo degli internati è l’ebreo che affidava la sua attesa di riappropriarsi del proprio IO alla memoria dei versi classici. Il sogno è spesso profetico come sappiamo dall’antichità. Montale scrive nella sua lirica “Il sogno del prigioniero”
…ma la paglia é oro,
la lanterna vinosa é focolare
se dormendo mi credo ai tuoi piedi.
affidando il prigioniero alla speranza che persiste nella dimensione della visione; in questo caso la donna, figura salvifica, rigenera l’ identità di chi ha perduto la sua umanità.
Dopo la chiusura del campo il 16 aprile 1945 liberato dagli alleati, inizia il difficile ritorno protrattosi per mesi attraverso tutta l’Europa come quello degli ebrei scampati allo sterminio che Levi racconterà nel suo romanzo “La tregua”. L’odissea degli italiani non è diversa da quella dei migranti odierni che subiscono sopraffazioni, sperimentano traversie terribili , mettono a repentaglio la loro vita e quella dei loro figli e spesso la perdono in mare, cadaveri sospinto su spiagge sconosciute da onde infide. Aylan il bimbo di tre anni annegato restituito dal mare sulla spiaggia di Bodrum in Turchia è il simbolo dell’orrore, della strage degli innocenti in questa guerra che non dà possibilità di scampo a chi tenta di ritrovare libertà e dignità. Questa volta le parole di Nicola Gammaldi , sempre loro, scritte e consumate dal tempo in una piccola agenda ci ricordano antiche e nuove tragedie in un mondo in cui la guerra , male assoluto, uccide i corpi e ricorda che siamo sempre quelli della pietra e della fionda.. senza amore, senza Cristo.
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