Georges Brassens era un anarchico non credente, ma più di una volta dichiarò: “quando si ha un Dio, si ha sempre una risorsa, a me questa risorsa manca”. Non aveva un credo il maestro degli chansonniers francesi e, probabilmente dentro di sé ne portava rimorso, eppure tutta la sua opera cantautorale si propone come un luminoso Magnifcat laico in funzione della redenzione degli ultimi. Ma c’è di più: si può pacificamente riconoscere che l’anarchia (come la poesia) è una delle sorelle del cristianesimo se si pensa a quanto hanno evidenziato nei loro scritti il sociologo e teologo Jacques Ellul, il filosofo e scrittore austriaco Ivan Illich, quel prete di strada che è stato Don Andrea Gallo e, in ultimo sulle pagine del quotidiano cattolico Avvenire, il poeta Davide Rondoni. E le canzoni di Brassens sono intensamente attraversate ed impregnate di un sentimento cristiano, di un sentire religioso inteso come attenzione verso l’uomo e, in particolare, verso quella umanità ferita ed arresa. Brassens, insomma, ha cantato gli ultimi che chiedono giustizia, ma non solo. A lui si deve altresì il merito di aver messo in musica brani come Le passanti, che uno dei più alti testi poetici e d’amore di Antoine Paul (“Io dedico questa canzone/ ad ogni donna pensata come amore/in un attimo di libertà….”). Il Nostro nacque nel 1921 a Sète, una piccola cittadina marina della Francia del Sud, il padre era un muratore anarchico e la madre Elvira aveva sangue lucano per mezzo dei genitori, che erano partiti intorno alla fine dell’ ottocento da Marsico Nuovo. Brassens nelle sue interviste non fece mai riferimento alle origini lucane dei nonni Michele Dagrosa e Maria Augustalia Dolce, ma piaceva ricordare che la sua era una famiglia di “veri militanti del canto”. In casa nostra – dirà – cantavano tutti, da mio padre ai miei nonni, da mia madre a mia sorella. E di conseguenza , e penso a me bambino, mi rivedo cantante fin dall’età di quattro anni-cinque anni. Principalmente intonavo canzoni che andavano di moda allora, ma anche O sole mio e Santa Lucia che facevano parte del repertorio di mia madre e mia sorella”. Non era portato per stare sul palcoscenico Brassens, lui si sentiva un compositore, ma dopo vari anni di gavetta e pure di delusioni, riuscì a vincere la timidezza davanti al pubblico e, una volta esploso il suo talento, divenne il principe dei cantautori d’Oltralpe. Una leggenda la sua che a trentatre anni dalla scomparsa non conosce declino, anzi i suoi brani più famosi (Il gorilla, Gli amici di sempre, Marcia Nuziale, Morire per delle idee) vengono sempre più reinterpretati da artisti di ogni parte del mondo. A Georges Brassens bisogna essere grati per aver abitato con poesia questa terra, per averci donato ballate (impegnate e popolari) che non smettono di farci riflettere sulle cose serie del mondo, per averci fatto cogliere quell’atmosfera fascinosa della Parigi anni cinquanta – sessanta in cui la vita di un artista aveva l’ambizione di sfiorare l’impossibile. E per ritornare al discorso iniziale del sentimento cristiano, anche chi in Italia ha cantato Brassens - ad iniziare da Fabrizio De André, Nanni Svampa, Fausto Amodei, passando per Giorgio Ferigo, Beppe Chierici, Alberto Patrucco, Mirò – oltre a cercare di renderlo credibile e non di imitarlo, ha lasciato che il seme della sua poetica libera si consegnasse come dolente visionarietà, “preghiera per l’altro”, annuncio della promessa che il cielo rischiari sulla terra di chi è rimasto nell’ombra.