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Ferrari, forconi e forchette

Scritto da Giorgio Rinaldi il 1 gennaio 2014
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L’Italia può essere paragonata, per bellezza, tecnologia, performance e genialità ad una Ferrari, non a caso uno dei simboli del Belpaese nel mondo.

Noi italiani ne siamo i proprietari.

La Ferrari non è un’auto da poter guidare facilmente, bisogna essere molto bravi.

Se la tiriamo fuori dal garage e vogliamo usarla per spostarci, ma non siamo piloti provetti, dobbiamo trovare qualcuno molto esperto che la guidi per noi.

Di sicuro, non la metteremmo in mano al primo che capita.

Di certo, selezioneremmo con puntiglio quello con le garanzie migliori, con le referenze migliori, il curriculum migliore, il migliore in prova.

Se, invece, si tratta dell’autovettura Italia, incredibilmente, quando andiamo a scegliere il conducente (nulla a che vedere con quel sedicente conduttore di treni che ambiva all’arrivo in orario e che fece arrivare senza intoppi solo una catastrofe mondiale) finiamo sempre per assumerne uno o più senza patente.

Come è possibile che il proprietario di un’autovettura così prestigiosa, un vero gioiello della tecnologia, poi ne affidi l’uso ad un incapace?

Detta in questo modo appare davvero inverosimile, eppure è così.

Da anni affidiamo la guida del nostro Paese a persone che non sono all’altezza del compito loro affidato.

Oppure, all’interesse pubblico antepongono gli interessi propri e di bottega, sicchè anche le rare volte che dicono cose sensate, essi non risultano più credibili.

Si pensi, per esempio, alla riforma della giustizia, comprensiva di quella parte che riguarda la responsabilità dei magistrati, non più eludibile né rinviabile.

Da vent’anni Berlusconi in un modo o nell’altro è riuscito, con la scusa della riforma della giustizia, a farsi approvare leggi a favore suo o delle sue aziende (cd leggi ad personam).

Ora, quando invoca la riforma della giustizia come una priorità nazionale, anche se dice il vero e ciò che lamenta e denuncia rappresenta si e no il 20% di ciò che ogni addetto ai lavori ben sa, nessuno gli crede perché pensa che il suo “grido di dolore” nasconda qualche interesse personale.

Cosicchè, le altre forze politiche, già incantate dalle sirene dei magistrati (o ex, o semplicemente in aspettativa con privilegi immensi ai quali si guardano bene dal rinunciare) e inebriate da un falso senso dell’autonomia del giudice, non riescono a liberarsi da un radicato timore riverenziale e continuano a sfornare leggi e leggine che non fanno altro che complicare una legislazione già ingarbugliata sino allo spasimo.

Colpevoli, e non poco, della errata scelta degli autisti della nostra preziosa autovettura, gruppi eterogenei di delusi della politica, di rovinati dalla congiuntura economica, di disoccupati ed inoccupati senza speranza, di esodati truffati, di tartassati dal gabelliere di Stato, di estremisti buoni per tutte le stagioni e varia umanità, oggi sotto le insegne di un antico strumento di lavoro contadino, il forcone, minacciano fuoco e fiamme e guardano a Palazzo Chigi come i sanculotti alla Bastiglia.

A volerlo, ciascuno di noi può riconoscersi in questo movimento molto raffazzonato, il cui connotato principale è –genericamente- l’antipolitica.

Chi di noi non ha qualcosa di cui lamentarsi?

Chi non ha qualche piccolo o grande rancore contro quel burocrate o quell’ufficio o  quel politico o  quel politicante?

Anni di latitanza della politica hanno prodotto gravi lesioni in seno alla società che difficilmente possono essere riparati, o comunque non in poco tempo.

Il compito della politica è quello di indirizzare il Paese governato verso scelte di progresso, offrendo gli imput migliori, fornendo le risorse necessarie per una crescita generalizzata di tutti i consociati.

Ciò che non è perdonabile alla casta dei politici non sono gli errori, che possono essere commessi da tutti, quanto il non avere scelto; l’avere anteposto i piaceri di corte al duro lavoro quotidiano di chi deve condurre il carro; di avere dato sfogo ai gorgoglii della pancia del Paese senza imporre la forza della ragione.

Solo per non perdere la poltrona, si è accontentata la LegaNord, movimento politico dalle forti connotazioni razziste, nato per soddisfare i localismi, i particolarismi e gli egoismi di una parte del Paese che, troppo facilmente, ha dimenticato i propri nonni e i propri padri che con la valigia di cartone legata con lo spago hanno chiesto lavoro e ospitalità ai Paesi più sperduti del mondo.

Solo per placare la sete di quel potere che i voti di Bossi e compagnia cantando poteva assicurare, si è modificata la Costituzione provocando un pateracchio di decentramento che ha mostruosamente moltiplicato i costi della politica.

Si è dato corso ad una legge elettorale che ad applicarla si sarebbe vergognato anche il famigerato Bokassa.

E’ stata emanata una legge, la cd Bossi-Fini, che avrebbe dovuto regolamentare l’immigrazione e, invece, si è rivelata –da subito- una vera e propria vergogna per qualsiasi essere civile.

Così, mentre i pesci d’acqua dolce aspiravano alla (falsa) laurea extracomunitaria, gli extracomunitari laureati (veri) affogavano nell’acqua salata.

Davanti allo scempio di una civiltà, non basteranno i forconi, i trattori o i Tir a risanare la società, ma occorrerà che le forze politiche più serie ricomincino un serrato dibattito con tutti i cittadini affinchè questi possano esprimere consapevolmente chi ha le idee migliori e debba guidare il Paese: ad aumentare le tasse  non c’è bravura, anche il più sprovveduto ne sarebbe capace.

Se vogliono, i forconi ben possono fare la guardia ai forchettoni, cioè a quei politici che una volta venivano chiamati così per via del loro appetito ciclopico.

L’epiteto era rivolto soprattutto dai comunisti ai democristiani durante le campagne elettorali del 1951 e 52 per il clima di corruzione che si era creato nello Stato, occupato capillarmente da uomini della Democrazia Cristiana.

Oggi la corruzione ha raggiunto, nuovamente, limiti di estrema pericolosità per la stessa tenuta democratica dello Stato.

Quelli che erano partiti lancia in resta al grido di “mani pulite”, si sono rivelati, alla prova dei fatti, solo delle buone ed insaziabili forchette, ad ogni livello.

Più di uno si è fatto un partito per conto proprio.

Tantissimi hanno costruito carriere e fortune.

Moltissimi hanno sistemato parenti e affini.

Tutti hanno continuato a raccontare chiacchiere, per anni.

Ora che il mangime è finito, tanti uccelli stanno lasciando i nidi o le gabbie e si levano in volo.

Chiamare oggi “forchettoni” questa masnada di ladroni è davvero usare con magnanimità un eufemismo.

Non solo è stata fatta incetta del pubblico denaro in modo indecente, ma –ed è questa la cosa più grave – nessuno ha lasciato la propria sedia o poltrona volontariamente, né i supporters di ciascuno si sono indignati più di tanto.

Qualche segnale positivo, comunque, arriva, anche se difficile da decifrare per il continuo rimescolamento di situazioni, ruoli e compiti.

L’anima comunista del PD, alle primarie di questo partito, ha votato in massa per quella ex DC, rappresentata da un novello Masaniello dalla “c” aspirata.

Il PDL è stato messo in liquidazione dal suo padrone che ne ha fatto due enti, un controllante e un controllato, disorientando, però, gli azionisti, per il momento privati dei capitali necessari (Forza Italia è formalmente all’opposizione ma una sua nutrita pattuglia è nel Governo, di cui fa parte NCD, vestendo i panni dei vice-ministri…).

La Lega ha scaricato il suo fondatore, seppur rimasta prigioniera di dirigenti di scarsissima consistenza politica e culturale.

Italia de Valori si è disintegrata dalla sera alla mattina (letteralmente), quando dalla conta delle parole si è passati a quella dei soldini.

Diversi politici hanno dovuto accettare la dura quanto ovvia legge nota agli umani: si è necessari  ma non insostituibili.

Si può essere forchettoni non solo captando denaro in ogni dove, ma anche assicurandosi potere dove capita, anche solo facendo l’amico del giaguaro.

Specialmente quando il potere è occulto e sfugge ad ogni trasparenza.

Più che agitare i forconi, bisognerebbe imporre per legge la selezione in modo democratico che ogni partito dovrebbe fare dei propri candidati alla direzione del Paese.

E, ogni candidato dovrebbe produrre non solo le proprie consistenze patrimoniali e dei di lui familiari, ma dovrebbe dichiarare anche il nome delle persone con lui imparentate, degli incarichi pubblici e privati delle persone a lui vicine, dell’appartenenza a qualunque organizzazione politica e non.

Perché, se non lo sapete, in Italia comandano realmente poche migliaia di persone, imparentate tra di loro o con stretti vincoli di affari o di amicizia, più o meno interessata.

E, la stragrande maggioranza di loro, non ha mai preso la patente.

Ricordatevene (ma non ci confido molto) quando selezionerete, nel segreto dell’urna, l’autista e i meccanici della Ferrari-Italia.

 

One Response so far.

  1. Minnie J. Moses scrive:

    La prima questione che si pone è, dunque, capire sino a che punto l’Italia abbia conosciuto una fase di «modernismo» o «welfarismo penale», se, insomma, quel progetto riformista avviato da Giolitti, volto all’integrazione delle masse nella vita democratica del paese, abbia avuto modo di svilupparsi – al termine di quella lunga parentesi (1915-1945) segnata dalle due guerre e dall’intermezzo fascista – anche in un sistema penale teso a privilegiare quale strategia di controllo sociale la “decarcerizzazione”, in vista di un lento e progressivo reinserimento sociale dei suoi clienti. Un sistema basato quindi su una vasta rete di istituzioni di controllonel sociale in grado di ridimensionare l’importanza – nella sua economia complessiva – del momento strettamente carcerario quale strumento di politica sociale e di fondare quest’ultima su strategie non poliziesche.