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IL PALIO (elettorale)

Scritto da Giorgio Rinaldi il 1 marzo 2013
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Se da qualche parte nell’Universo ci fossero, per davvero, degli esseri extra-terrestri che ci osservassero, sicuramente si sarebbero già fatti una pessima opinione di noi italiani.

Nonostante la fantasia, la verve, la duttilità, la curiosità, l’intelligenza, etc., etc., qualità tutte che ci accreditano gli stranieri, ma solo perché non ci conoscono bene, noi siamo, per la verità, solo un popolo composto a grande maggioranza da creduloni, furbastri e consistenti truppe di cosiddetti “magliari” (dall’omonimo film di Rosi con Renato Salvatori e  Alberto Sordi).

In genere, amiamo fare sempre le stesse cose, siamo ripetitivi e ci illudiamo che la routine  possa, invece, riservare continuamente delle sorprese, ovviamente piacevoli.

Il celeberrimo Palio di Siena è una corsa di cavalli sui generis, che si corre due volte all’anno, con lo stesso percorso, più o meno con le stesse contrade concorrenti, con le stesse regole, con lo stesso premio (palio), un po’ come le partite di calcio o altri sport che si muovono in schemi ben delineati

Al Palio non ci sono solo i cavalli forti resistenti, agili, veloci, e i fantini leggeri, capaci, scaltri, ma c’è –soprattutto- un preciso rituale che è fatto di accordi, corruzioni, minacce …

Un meccanismo che tutti conoscono alla perfezione, ma che ognuno pensa di saper regolare ed adattare, meglio di ogni altro avversario, ai propri desideri.

Il sostenitore della Contrada “X” sa bene che quelli della Contrada “Y” cercheranno di corrompere il fantino della Contrada “K” perché non vinca la Contrada “Z” e così via.

Dopo la corsa, discussioni interminabili, sogni infranti, frustrazioni nuovamente alimentate, vendette consumate e, poi, via a preparare il nuovo Palio.

Così per le elezioni politiche.

Così anche in quest’ultima competizione elettorale, che proviamo ad immaginarla come se gareggiata al Palio.

Subito oltre il box c’era un poderoso cavallo morello, con il limite di essere stato accudito da una moltitudine di stallieri incapaci, pronti a rubargli financo la biada, ma con il vantaggio di essere montato da un fantino dall’occhio lungo: un furbone di tre cotte, spregiudicato, affarista, pronto a promettere anche una Ferrari agli indios delle tribù primitive di Papua pur di tagliare per primo il traguardo.

Nello schieramento che si stava formando era facile notare anche un bellissimo mezzosangue sauro, che si muoveva con fare baldanzoso.

Il suo fantino, nonostante la grande esperienza, sembrava frastornato: qualcuno gli aveva detto che le regole del Palio erano state cambiate  e certi trucchetti , nei quali era avvezzo il fantino prima detto, non erano più ammessi (pia illusione).

Lui, che apparteneva a quella scuderia di zitelle e zitelloni che non erano riusciti mai a trovare l’anima gemella, perché ogni qual volta scattava il momento del corteggiamento, anziché adulare, ricoprire di fiori e ubriacare di complimenti la persona da conquistare, non riuscivano mai a non dirle che aveva il naso brutto, se effettivamente lo era, o che le gambe erano storte, se davvero curvavano.

Per loro era impossibile non dire il vero neanche quando il potenziale partner, ancorché cosciente dei propri difettucci, quasi li pregava di dire qualche bugia, quantomeno per creare un’atmosfera…

Così, finiva sempre che quelli della scuderia del fantino-furbone facevano man bassa di amanti e lui restava sempre a discutere con gli stallieri su cosa non aveva funzionato.

Solo grazie al formidabile cavallo, anche in questo Palio se la sarebbe cavata con non molti danni.

Al centro del recinto si stagliava, a cavallo di uno strabiliante morello, la figura di un simil-donchisciotte che risplendeva in tutto il suo fulgore, richiamando subito alla mente i fasti della Vecchia Europa.

A guardarlo si potevano sentire le note della Marcia di Radesky.

Troppo alto e troppo altero per una gara a cui partecipavano torme di manigoldi, che non vedevano l’ora di buttarlo per terra.

Ai lati del recinto tanti somari camuffati da cavalli e strani personaggi truccati da fantini, speranzosi di partecipare in qualche modo al banchetto finale, seppur rivestendo i soli panni dei servi nella casa di Ulisse occupata dai Proci.

Non appena il “mossiere” mollò il canapo, come un razzo partì un cavallo “scosso” (cioè senza fantino) che guadagnò d’impeto il traguardo.

Il cronista, abbacinato dall’altisonanza dei concorrenti, aveva ignorato quel cavallo dal mantello pezzato.

Sgomento e confusione tra i contradaioli, pubblico e competitori.

Interviste e riunioni.

Il fantino-furbone dichiarava subito di non avere perso perché da bambino aveva avuto la varicella e i postumi gli avevano impedito di correre al meglio, infine era arrivato prima delle Contrade “N” e “G”, e già solo questo lo riempiva di gioia.

I supporters, con argute considerazioni, riprese anche da numerosi giornali sportivi, facevano notare che in realtà non solo non aveva perso, ma aveva vinto, perché i paragoni dovevano farsi non tra risultati di corse di Palio, ma con i sondaggi che lo davano perdente: il fatto che quegli stessi sondaggisti in corso di gara lo davano invece vincente doveva ritenersi ininfluente, perché il campione analizzato si era ammalato di influenza di stagione e chi affermava il contrario era contro il libero mercato.

I somari, liberati dai finimenti cavallereschi, guadagnavano mesti le stalle, mentre i conducenti si azzuffavano fra di loro accusando questo o quel fantino di non avergli tirato la volata, nonostante che le bestie non avessero percorso più di un centimetro e mezzo dalla linea di partenza.

Qualche altro mulattiere, aduso a lunghe partite di rubamazzetto, arzigogolava citando bolle papali e supremi decreti della gabella generale.

Il fantino d’esperienza era attonito, perché non comprendeva l’atteggiamento della tifoseria che gli aveva letteralmente voltato le spalle (e di ciò il cavallo si era molto irritato) solo perché avrebbe lasciato intendere che i festeggiamenti di fine gara sarebbero stati aboliti per mancanza di soldi e sulle stalle sarebbero continuate a gravare le tasse.

Cosa che, invece, il fantino-furbone aveva promesso di eliminare, mentre i festeggiamenti li avrebbe finanziati di tasca sua.

Come è possibile, avevano lamentato i baristi, i tassisti, i pizzicagnoli, i cocomerai, i cantinieri, i pecorai, i fungaioli, etc., che un fantino possa pagare con i suoi soldi ciò che il Comitato pro Palio non può fare?

C’è di sicuro un imbroglio, un Comitato non può avere meno soldi di un fantino, anche se in deficit, sostenevano i muratori e i proprietari delle Jaguar type-E.

Il fantino-furbone ammiccava pensando con riconoscenza a quel venditore di coca-cola che gli aveva parlato dei messaggi sublimali.

Il fantino-donchisciotte, con celato disappunto, guardava male Sancio Panza, che non aveva capito che ben poteva rinunciare al pranzo quotidiano per contribuire al risanamento delle casse del Comitato.

Il gaglioffo irriconoscente, invece, per vendetta non aveva abbeverato adeguatamente il gagliardo cavallo.

Non gli restava che guardare, speranzoso, al Palio di Bruxelles, sponsorizzato dal “Fan club Rockfeller”, di cui faceva parte.

Intanto, tutti adulavano il cavallo scosso, il cui fantino gli aveva dato e dava ordini da una finestra di un palazzo, a destra della piazza, che evocava strane commistioni religiose.

Quel cavallo aveva stravolto tradizioni, abitudini, consuetudini, regole e comodità: solo qualcuno se ne era già accorto, altri godevano della lettura del “Gattopardo”.