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Bum, bum !

Scritto da Giorgio Rinaldi il 1 gennaio 2013
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Pochi botti per queste feste, per fortuna.

Certe usanze vivono, e sembra che nessuno possa farne a meno, sino a quando –per una ragione o per l’altra- scompaiono, quasi improvvisamente, così come erano nate.

Così certe convinzioni.

Così come certe istituzioni.

Nel 1406 nasceva a Genova il Banco di San Giorgio, la prima banca organizzata scientificamente: nell’antichità il denaro veniva raccolto e prestato dai sacerdoti delle diverse religioni nei vari luoghi di culto, dietro banchi (trapeziti), da qui il nome poi universalmente conosciuto di “banca”.

Da quel momento vedeva la luce, ufficialmente, il sistema bancario, poi sviluppatosi  nel Rinascimento con le necessità di approvvigionamento degli orafi e così via.

Una parte del Mondo e poi, man mano, la quasi totalità, più ha potuto fare a meno delle banche.

Dai depositi ai prestiti, le banche sono passate ad attività più complesse, sino a diventare i padroni del mondo, sostituendo all’economia la finanza, al lavoro le carte.

Dopo la famosa crisi del 1929, che colpì duramente gli USA, qualcuno si accorse che le banche avevano non poche responsabilità in quello che era successo.

Non a caso venne approvata una legge, la Glass Steagall Act,  che operava una netta distinzione tra le banche di commercio pubblico e quelle di investimento pubblico, per l’evidente conflitto di interessi, prescrivendo il divieto per le banche commerciali di negoziare titoli emessi da imprese private.

Legge poi abrogata durante l’amministrazione Clinton: la riconsentita opportunità conflittuale assicurata alle banche ha -di sicuro- dato il via alla crisi che qualche anno fa è partita dagli Stati Uniti e che ha travolto, e continua a minacciare, tutte le economie occidentali.

Per meglio capire, semplificando al massimo: un’azienda che è quasi già in stato di insolvenza immette nel mercato, per ottenere liquidità, titoli il cui valore da li a poco sarà uguale a zero.

Le banche, che li negoziano, inducono la propria clientela ad acquistare tali titoli ad un prezzo irreale e il denaro incassato viene trattenuto per estinguere i debiti che le aziende avevano con loro.

In questo modo, le banche eliminano la loro esposizione con le aziende decotte e la (malcapitata) clientela resta creditrice di un’azienda sull’orlo del fallimento (esempio illuminante il caso Parmalat).

Poi, quelle stesse banche rivendono questi titoli centinaia e centinaia di volte inserendoli in “pacchetti” di prodotti finanziari; utilizzando varie formule matematiche di “panieri” in perdita o in guadagno; assegnando per l’ignara clientela nomi improbabili per nascondere spesso delle vere e proprie truffe (“derivati”), indicati però tra gli addetti ai lavori solo come “tossici” (il che è tutto dire!);  arrivando a lucrare quantità stratosferiche di danaro sotto forma di commissioni, premi ecc.

Il sistema ha operato, all’evidenza, fuori da ogni controllo, stante la carenza di leggi adeguate che le banche non vogliono ed hanno il potere di impedirne l’approvazione, così come hanno avuto il potere di imporre il risanamento dei loro debiti con denaro pubblico…

I meccanismi di raccolta dei depositi e dei mutui diventano ogni giorno più obsoleti e le “lettere o note di banco”, che cinquecento o seicento anni fa servivano a proteggere i mercanti dagli assalti dei banditi, possono di certo essere sostituiti da altri adeguati ai nostri tempi.

E, allora, la domanda sorge spontanea: abbiamo ancora bisogno delle banche ?

Abbiamo ancora bisogno di quei padroni che fanno il bello e il cattivo tempo ?

Davvero non si può fare a meno di un sistema bancario ?

Alla peggio, e ritenuta la famigerata “globalizzazione”, non basterebbe una banca statale, o poco più, con severi limiti di operatività e controlli stringenti ?

Passiamo ora al secondo “bum”, alla seconda provocazione.

Da anni si parla di abolizione delle Province, enti francamente inutili, come –del resto- le comunità montane e tanti altri che fanno da corollario e che servono da mangiatoia per un esercito di incapaci.

Ogni sforzo teso allo smantellamento di questi carrozzoni si scontra con le demagogie elettorali di turno e il problema viene sempre rimandato.

Ma, siamo sicuri che siano solo le Province di cui si può fare agevolmente a meno e  non anche le Regioni ?

Ragioniamoci seriamente.

La nostra Carta Costituzionale prevede il decentramento amministrativo (art.5), ed è cosa giusta.

Ma, questo non significa che se un povero cristo si ammala in Calabria deve avere un trattamento diverso da un lombardo, un veneto, un emiliano ecc.

Così come non dovrebbe voler dire che la tassa di circolazione deve essere diversa, così come il costo del carburante, da una Regione ad un’altra.

E, l’elenco potrebbe continuare.

Sino agli anni ’20 in una Provincia si guidava a destra e in un’altra a sinistra, la lira non era moneta nazionale…

Si è lottato per un’unificazione dell’Italia a tutti i livelli ma da circa 40 anni assistiamo, però, ad una moltiplicazione di competenze in materie diversissime, rendendo il sistema anziché più snello, addirittura più complesso ed iniquo per cittadini di uno stesso Stato, sol che abitano magari a qualche metro di distanza.

Il vero decentramento amministrativo è fatto dai Comuni, il resto non serve a nulla, se non ad ingrassare furbi e furbetti di ogni risma.

Basterà vedere come sarà rimediato al terremoto che ha colpito l’area emiliana e quello che ha investito la zona del Pollino per rendersi conto di quanto sia irrinunciabile la presenza dello Stato e solo sperpero e spreco di risorse quella regionale.