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Campane, campane e… ancora campane

Scritto da Ines Roscio Pavia il 1 ottobre 2012
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La più vecchia pasticceria di Milano è presumibilmente la Pasticceria Cova. Fondata nel 1817 divenne, anni dopo, il luogo di ritrovo dei partigiani delle cinque giornate di Milano. Pasticceria patriottica, passata alla storia meneghina ed italiana. E’ in via Montenapoleone e, dopo una sbirciatina ai negozi che si susseguono in gran sfarzo uno dopo l’altro, bisogna proprio soffermarsi davanti alle sue vetrine accattivanti, così adorne e ricche, addobbate con stile e grande gusto. Varcata la soglia  si è avvolti da un buon profumo di confetteria, un po’ intimoriti dall’eleganza dell’ambiente e dal sussiego dei camerieri. E’ il salotto della Milano bene, dove periodicamente vengono esposte opere di artisti contemporanei. E’ rinomata anche  per la torta Sacher che ci porta a ricordare Vienna. In Montenapoleone basta uno sguardo intorno per renderci conto di quanto è cambiata la città. Alla fine della guerra e per molti anni ancora,  quello che ora è chiamato il quadrilatero del lusso e della moda, era un vivace borgo di artigiani  ed un susseguirsi di indaffarate botteghe.

Entrando da Taveggia – Pasticceria che si affaccia sulla via Visconti di Modrone, dove alcune decine di anni fa scorreva all’aperto il naviglio – si è accolti da una piacevole atmosfera inizio novecento. Il tè viene servito in una antica sala dominata da un gran lampadario e rivestita da boiserie Art Déco, proprio come alla “belle epoque”. E’ romantico venire qui, istintivamente si abbassa la voce e non si fa tintinnare il cucchiaino nella tazza.  E’ difficile resistere alla ghiotta tentazione di assaggiare la fine pasticceria mignon,  i  cioccolatini deliziosi al sapore di arancio, limone,   latte o fondente,  le accattivanti praline e le innumerevoli  qualità di bomboni.

Quattro passi ed eccoci in corso Matteotti: richiamo irresistibile la Pasticceria Sant’Ambroeus. Accogliente e signorile, qui viene servita una cioccolata calda arricchita di panna che conquista  ed invita a tornare. Se ci vogliamo bene, non dobbiamo resistere alla tentazione di gustare l’inimitabile “ambrogiotto”,  afrodisiaco cioccolatino ripieno di zabaglione.

Sotto la Pasqua c’è dovizia di ogni dolciume. Le vetrine sono accattivanti, fastose e ricche. Colombe, torte, canditi, marron glacè, gocce al rosolio,  mandorlati, uova pasquali e ….campane di cioccolato di tutte le dimensioni.

Le campane attirano il mio sguardo come una calamita. Mi ricordano la Pasqua, e il pensiero va alle cartoline di una volta che illustravano gli auguri pasquali, con riferimento a campanili festanti, alle rondini, a nuvole rosa, a fiori di mandorlo e pesco: alla primavera.  Le campane di cioccolato non sono tutte uguali: possono essere di cioccolato al latte, bianco o fondente, lisce o ricamate. Si va da confezioni modeste – un normale sacchettino di campanelle avvolte in carta stagnola – a confezioni regalo, infiocchettate ed abbellite da  fiori e nastri colorati. Ce ne sono anche in porcellana: due metà che unite permettono di contenere dolciumi ed alle volte, se richiesto, un importante regalo. In questo casa le confezioni diventano maestose.

A proposito lo sapete che il cioccolato fondente non contiene colesterolo? E’ riportato in una affidabile tabella, dove si dice che quello al latte ne contiene il dieci per cento.

Fra tante golose  campane di cioccolato, perché non curiosare  e parlare di ….campane vere?

Secondo la tradizione, fu il Vescovo di Nola (Napoli), San Paolino, a introdurre il suono delle campane durante le festività religiose nel 400 d.C.  La parola proviene dal latino aera o vasa campana”, alla lettera “vasi di bronzo dalla Campania”.

Prima di allora i sacerdoti radunavano i fedeli per la preghiera percuotendo pezzi di legno o di metallo con un bastone. Nel medioevo l’artigiano fabbricante di campane viveva itinerando, sostando presso chiese o pievi  in costruzione, per fondere direttamente in loco le campane.

In tutta Europa esistono solo una decina di fonderie che gelosamente tramandano da generazione a generazione i loro segreti di fusione, per ottenere la giusta sonorità. Il procedimento di fabbricazione di una campana è complicato e pieno di “suspense” perché, fino all’ultimo, si teme per il risultato della fusione e la qualità del suono. Una campana di bronzo perfetta deve mantenere il suono per due o tre minuti. Le campane sono in bronzo, una lega che risale a 5000 anni fa, formata da 78 parti di rame rosso e 22 di stagno bianco. E’ lo stagno che rende squillante la campana ed è proprio l’accurata dosatura, unita al profilo ed allo spessore della fusione che promuove o meno la bontà della lega, lasciando l’artigiano fino all’ultimo col cuore in gola. Se la campana è perfetta, è una virtuosa esecutrice musicale. La nota fondamentale di una campana è accompagnata da una sequenza bassa e da numerose note alte, emesse dallo stesso colpo di battaglio. L’armonia di una campana dà un  suono globale “una dolcissima voce” inimitabile, con un tono profondo e sonoro che dà gioia all’orecchio. Non esistono due campane con lo stesso identico suono.

Famosa per la sua eccezionale bellezza, la dolcezza e l’armonia del suono è la campana maggiore della Basilica di San Pietro a Roma, fusa in bronzo dall’orafo Luigi Valadier e collocata in opera dal figlio nel 1786.

La più grande campana d’Italia è la “Maria Dolens” (22 tonnellate) che dal 1966 rintocca per i Caduti di tutte le guerre sul colle “Miravalle” di Rovereto.

La più grande campana del mondo (200 tonnellate) è la “Zar Kolokol” (regina delle campane) alta 5,87 metri, fusa nel 1733 a Mosca per il campanile di Ivan III  Il Grande, all’interno del Cremino. La campana venne danneggiata durante l’installazione ed ora giace silenziosa ed inutilizzabile su una piattaforma di granito.

 

Nella vita moderna il suono delle campane è solo melodia, alcuni addirittura non gradiscono i suoi rintocchi, ma nel passato ha segnato per secoli lo svolgersi della vita delle comunità, praticamente sostituivano l’orologio.

Di notte, senza luce elettrica, era il rintocco delle campane a dare l’ora, il quarto e la mezza. Al risveglio ci si radunava per il “Mattutino” ed il rintocco delle ore seguiva l’operosità dell’uomo fino a mezzogiorno. Tante schiene ricurve nei campi, al lavatoio o ai pascoli ad aspettare l’allegro scampanio che portava il meritato riposo dell’ora di pranzo. Poi di nuovo al lavoro fino al “Vespro” e l’ “Ave Maria”. Le campane seguivano costantemente la vita degli uomini. Dal suono del rintocco si capiva se qualcuno “era tornato al Padre” e si capiva pure se chi aveva finito di soffrire fosse una donna o un uomo. Le campane suonavano per avvertire di calamità, di incendi, di invasioni, guerre, ma suonavano pure per rallegrare nelle cerimonie liturgiche, nei matrimoni, nella pace, nelle ricorrenze, per la S.Messa, per indicare ai bimbi che era l’ora della scuola. Il campanaro era soprattutto un virtuoso e la sua mansione non da sottovalutare. Nelle solennità religiose si suonava la “tribundina”, il suono congiunto di tre campane con tre diverse tonalità.  In basso, nel campanile era un rocambolesco tripudio di salti e rincorse mentre il campanaro e gli aiutanti tiravano le corde per far oscillare alternativamente il gruppo di campane, il tutto con lodevolissima orecchiabilità.  Intorno uno stuolo di bimbi incantati ed eccitati da tanta gestualità. Ora tutto questo è sostituito da  un disco che, sicuramente, non sbaglia i rintocchi, ma li ripete passivamente.

 I nostri bimbi conoscono poco le campane di campanile e molto le campane di cioccolato. Quante tradizioni, purtroppo irrecuperabili, sono andate perdute nello scorrere della vita!