FARONOTIZIE.IT  - Anno III - n° 28, Settembre 2008

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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi

IL MATTONE E LA PAGNOTTA

Editoriale del Direttore  Giorgio Rinaldi

Inflazione, deflazione, recessione, stagflazione, bolla immobiliare, crisi dei mutui americani…

Un continuo bombardamento di parole che, spesso, neanche gli addetti ai lavori capiscono e che non riescono, ovviamente, a spiegare.

La confusione regna sovrana e ciascuno di noi è in una continua corsa contro il tempo per cercare di capire quale futuro ci attende.

L’impresa, però, si rivela sempre più impossibile.

Da mesi apprendiamo dai mass media che negli Stati Uniti c’è la crisi dei mutui immobiliari, che diverse banche sono già fallite ed altre sono prossime al tracollo.

Ebbene, quanti hanno capito esattamente di che cosa si tratta?

Da quanto si può leggere sui giornali, immagino non molti.

Proviamo a spiegare: Le banche americane hanno finanziato l’acquisto di case con mutui al momento appetibili per la clientela.

I prezzi dei fabbricati, sull’onda della speculazione borsistica, perché molti fondi (pensionistici, assicurativi ecc.) investono in titoli immobiliari, nel giro di qualche anno hanno raggiunto soglie da capogiro.

Non potendosi sostenere una continua corsa al rialzo, che inevitabilmente avrebbe paralizzato la domanda d’acquisto, i prezzi hanno cominciato a scendere (la famosa bolla che si sgonfia).

Contemporaneamente, l’aumento dei tassi bancari e la crisi economica hanno costretto molti americani a rinunciare alla casa acquistata e chiudere il mutuo,  magari indirizzandosi all’acquisto di un’altra abitazione che, per la diminuzione dei prezzi, ne costava meno.

Le case rinunciate, così, sono diventate di proprietà piena delle banche, con liberazione d’ogni altro onere per il cliente.

Purtroppo per i banchieri, quelle case che erano state valutate al momento dell’accensione del mutuo, poniamo 500.000 dollari, all’atto della rinuncia da parte dell’acquirente ne valevano 400.000 $US, sicchè la perdita per l’istituto che aveva finanziato l’acquisto è stata di 100.000 $US.

Moltiplicando la perdita per migliaia e migliaia di case, gli istituti bancari che più avevano finanziato gli acquisti si sono trovati rovinati nel giro di qualche mese, e con essi i loro piccoli azionisti.

Come si è visto, nulla di tanto complicato, eppure le cose non vengono mai spiegate.

Ora si attende l’autunno che, a detta dei cosiddetti esperti, porterà con sé un aggravamento della crisi economica in atto.

uanta intelligenza occor

Crisi mondiale, si dice.

Ma, i problemi economici degli USA non sono certo quelli dell’Italia, così come quelli del Giappone o di altri Paesi Europei.

Il prezzo del petrolio vola alle stelle e tutti in coro a dare la colpa all’aumento dei consumi dei nuovi colossi dell’economia mondiale: Cina e India.

Poi, intervistano il monarca saudita Fadh e scopri che la produzione dei pozzi è aumentata per sopperire alla maggiore richiesta, senza –però- che il prezzo ne abbia subito conseguenze.

Anzi, l’OPEC, l’organizzazione che raggruppa i maggiori produttori mondiali di petrolio, avrebbe in animo di diminuire il prezzo del famigerato “barile” per evitare conseguenze disastrose all’economia mondiale, e quindi anche agli stessi paesi esportatori dell’oro nero.

Di più, il petrolio viene contrattato in dollari e l’euro, come è noto, si è apprezzato a dismisura sulla moneta statunitense.

Ma, alla “pompa” gli automobilisti italiani ed europei sono quelli che pagano di più il carburante !

C’è qualcuno che vuole spiegarci l’arcano, per favore?

Nessuno chiarisce, ovvero quando qualcuno ci prova, si aggiunge confusione a confusione.

L’economia ristagna, ci si angoscia per l’azzeramento del PIL (prodotto interno lordo) e poi nulla si fa per frenare la corsa delle aziende italiane (molte delle quali nate e/o cresciute con i contributi pubblici) che vanno a produrre all’estero, aumentando così il PIL degli altri paesi a scapito del nostro.

Nell’attesa che gli esperti si mettano d’accordo su come definire la congiuntura economica in atto e indicare i rimedi (quelli per combattere l’inflazione sono, ovviamente, diversi da quelli contro la deflazione, per non parlare di quelli anti recessione senza scordarsi della stagflazione…), forse è il caso di ricorrere alle antiche medicine: lavorare, tenere duro e tirare dritto.

Tanto, questo paese è sempre sopravvissuto a sé stesso, e i suoi abitanti sono sempre stati più saggi di chi ha preteso di guidarli.

 AMBIENTE E FONTI DI ENERGIA NEL PROGRAMMA DI BARACK OBAMA

di Emanuela Medoro

Il Blueprint for Change, ovvero  Il progetto per il cambiamento,  libro di 70 pagine contenente il programma del partito democratico americano per le prossime elezioni, dedica un capitolo ai problemi dell'energia e dell'ambiente.

Riporto l'introduzione alle proposte, che  contiene una minuziosa descrizione dei problemi da affrontare: il riscaldamento globale è reale ed è il risultato delle attività umane; il numero degli uragani di categoria 4  e 5, quelli distruttivi, è quasi raddoppiato negli ultimi trent'anni; i ghiacciai si  sciolgono più rapidamente e le calotte polari si stanno restringendo; gli alberi fioriscono prima, gli oceani cambiano la qualità dell'acqua e mettono in pericolo la vita nel  mare; la gente muore per ondate di caldo insolito; le specie migrano ed infine molte di esse si estingueranno; gli scienziati predicono che senza una consistente riduzione delle emissioni nocive i cambiamenti climatici peggioreranno le carestie e la siccità in alcuni dei paesi più poveri del pianeta. Negli USA, la crescita del livello del mare minaccia di causare danni economici ed ecologici nelle aree costiere popolate.

Quanto alle fonti di energia, il problema centrale è la dipendenza dal petrolio straniero. Gli scritti di Obama ricordano che sin dai tempi di R. Nixon  è noto che questa dipendenza  mette a rischio la sicurezza interna, perché, se da un lato gli USA fanno guerra al terrore, dall'altro, con l'acquisto di petrolio, sostengono i regimi più dispotici del mondo ed arricchiscono paesi  con culture ed interessi contrari ai loro. Inoltre  gli USA  nel mercato interno risentono dell'andamento del prezzo del petrolio, che con il suo saliscendi ha forti conseguenze sull'economia.

Per combattere il riscaldamento globale e raggiungere l'autonomia e la sicurezza per quanto riguarda l' energia, il programma di Obama prevede di: ridurre le emissioni ad effetto serra ai  livelli raccomandati dagli scienziati per evitare calamità naturali, investire nello sviluppo di fonti di energia alternative che non abbiano influenze negative sul clima, e così  produrre tantissimi nuovi posti di lavoro, accrescere il risparmio di energia, ridurre la dipendenza dal petrolio straniero ed i consumi interni di petrolio, almeno del 35% entro il 2030, conquistare la leadership mondiale nello sforzo di combattere i cambiamenti climatici.

In un discorso tenuto a Des Moines nell'ottobre 2007, parlando dell'energia pulita, Obama ha ribadito:“... Non vado a dire questo ad ambientalisti della California. Sono andato a Detroit,  ed ho detto ai fabbricanti di macchine che quando sarò presidente non ci saranno più scuse, li aiuteremo a riconvertire  le fabbriche, perché dovranno fare automobili che usano meno petrolio.”

La crescita dell'energia nucleare è oggetto di  attente  riflessioni. Secondo Obama il futuro dell'espansione del nucleare comporta quattro problemi chiave: il diritto del pubblico all'informazione, la sicurezza del combustibile e delle scorie, l'immagazzinamento delle scorie,  e la proliferazione incontrollata, problemi che toccano sia la politica interna che  quella estera. Obama ha presentato leggi al senato per fissare linee guida per il

controllo degli impianti nucleari. Inoltre ribadisce che il controllo di materiale nucleare sia all'estero che negli USA è la principale priorità dell'antiterrorismo e che  nello stesso tempo è urgente assicurarsi che le scorie accumulate nei siti dei reattori attualmente in funzione siano conservate usando le più avanzate tecnologie attualmente disponibili. 

 John McCain, invece, nel  progetto Lexington, che riguarda ambiente e fonti di energia, prevede semplicemente la costruzione  di 45 nuovi impianti nucleari, per la produzione di energia ad emissioni zero, con l'obiettivo finale di arrivare a 100  nuovi impianti, dopo un lungo elenco di provvedimenti per produrre energia pulita e risparmiare petrolio. In quel testo mancano cenni alle problematiche relative alla crescita del nucleare.              

M E D I C O

di Francesco M.T. Tarantino

Ero piccolo nel tuo studio respiravo un’aria solenne

Di rispetto per la tua professione come di un santo

Non capivo niente ma ero affascinato io undicenne

Con l’ascolto attento a non perdere parole d’incanto

Che consolavano gente affranta da dolori e tristezze

Medico rigoroso competente riservato e comprensivo

Con la tua professione non hai accumulato ricchezze

Ma hai arricchito i figli con un bagaglio complessivo

Di valori di onestà di serietà di bontà senza complicità

Eri la figura d’altri tempi d’altra carne e d’altro stampo

Diverso nel tuo stile di medico consapevole di capacità

Hai vissuto con fierezza e sei andato via come un lampo

Per non smentire la tua riservatezza e la tua discrezione

Che ti ha contraddistinto in un ambiente di arroganti

Dove regna incontrastata l’ignoranza e la presunzione

Non aspettarti riconoscimenti oltre Dio e gli angeli santi

Con te è andato un pezzo di storia: si è spenta un’icona

Che non sarà sostituita in questi tempi chiamati moderni

Fatti di niente insulsi e perdenti senza rispetto di persona

Ci altaleniamo su cose che si smentiscono a giorni alterni

Anche se non puoi curare il nostro corpo aiutaci a capire

Non c’è bisogno di raccontarti i lamenti che senti diversi

È un altro punto di vista quello da dove ora ci vedi patire

E mi rammarico di non poterti dare altro che questi versi

IRAQ: BARACK OBAMA E JOHN McCAIN

di Emanuela Medoro

Il 15 luglio 2008, prima del suo impegnativo viaggio  in Europa e Medio Oriente, Barack Obama ha tenuto un discorso su scottanti argomenti di politica interna ed estera, al centro dei quali c'è la sicurezza degli Usa. Il filo conduttore del discorso sono gli slogan  del discorso con cui George Marshall, sessant'anni fa, annunciava il piano per la ricostruzione dell'Europa distrutta dalla guerra. Che cosa è necessario? Che cosa è meglio fare? Che cosa dobbiamo fare? (What is needed?What can best be done? What must be done?).  

Per mantenere la sicurezza interna negli USA, secondo Obama,  cinque sono i punti essenziali: terminare la guerra in Iraq in modo responsabile, potenziare la presenza in Afghanistan per combattere AlQaeda ed i talibani, mettere al sicuro armi e materiali nucleari da terroristi e stati canaglia, raggiungere la indipendenza interna nella produzione di energia, ricostruire le alleanze per far fronte alle sfide del ventunesimo secolo.

Quanto all'Iraq ricordiamo che il Senatore McCain fu uno dei più decisi sostenitori dell'attacco, per cui gli americani sarebbero stati salutati come liberatori e la democrazia si sarebbe diffusa ed affermata in tutto il Medio Oriente, mentre il Senatore Obama avvertiva che l'invasione di un paese che non manifestava minacce imminenti avrebbe alimentato le fiamme dell'estremismo e distratto dalla battaglia contro AlQaeda ed i talibani.

Oggi la presenza americana in Iraq è sempre più dispendiosa in termini di vite umane e risorse a carico del contribuente americano, mentre la situazione in Afghanistan tende a peggiorare.

McCain, a proposito del ritiro delle truppe, dice:  Non voglio tenere le nostre truppe in Iraq un minuto di più di quanto è necessario per garantire lì i nostri interessi...ma...promettere un ritiro delle forze in Iraq, senza tener conto delle conseguenze pericolose per il popolo iracheno, per i nostri più vitali interessi, e per il futuro del Medio Oriente,  è il massimo della irresponsabilità. Una sconfitta della leadership.

Obama  propone una soluzione politica per l'Iraq. Infatti, secondo lui, la vittoria in Iraq non può consistere nella resa delle armi da parte del nemico, ma  si realizzerà solo quando l'Iraq sarà lasciato  ad un governo locale che si prenda le responsabilità del suo futuro,  che riesca a prevenire conflitti fra etnie diverse, e che non faccia riemergere la minaccia di AlQaeda.

Il secondo punto della strategia Obama, è la battaglia contro AlQaeda in Afghanistan e Pakistan,   centri del terrorismo, e dunque bisogna spostare risorse ed uomini in questa direzione.

Inoltre, propone di aiutare la popolazione afgana a riconvertire l' economia con produzioni agricole alternative al papavero da oppio, in modo da non lasciare l'Afghanistan nelle mani del narcotraffico.

Il terzo obiettivo è rinforzare la democrazia e l'economia in Pakistan per evitare che armamenti e materiali nucleari cadano nelle mani di terroristi, e agire sull'Iran, per il suo  programma nucleare e le minacce contro lo stato di Israele.

Il quarto punto del programma per   la sicurezza interna degli USA è la necessità di porre fine alla dipendenza da petrolio medio orientale, e quindi di aumentare gli investimenti interni in energie alternative.

Collegato a questi punti c'è l'ultimo, che riguarda la politica estera nel mondo: ricostruite le alleanze nel mondo per affrontare le sfide del ventunesimo secolo, e cita prima di tutto gli stati dell'Asia, Cina, Giappone, Corea, e poi l'Australia. Infine i paesi dell'area NATO.

 Un video online del partito repubblicano presenta un collage di frasi pronunciate da Obama sull'argomento Iraq negli ultimi due anni. Esse sono molto diverse, cambiano col passare del tempo;  costituiscono un percorso che inizia  con  generiche posizioni di disimpegno nella guerra in Iraq, poi man mano cambiano fino a manifestare una crescente responsabile consapevolezza dei vari aspetti del problema. Il commento conclusivo di Rick Davis, dirigente della campagna elettorale di John McCain è: una cosa è chiara, Barack Obama ha dimostrato di essere solo un altro politico (just another politician).Nella sua semplicità, è il più perfido dei commenti possibili rivolto ad un candidato  che si presenta ai suoi sostenitori come l'uomo del cambiamento.

Il tempo ci dirà se e come gli obiettivi di questo ambizioso piano per il cambiamento  saranno raggiunti.

HARDEMAN, UN ESEMPIO DELLA SOLIDARIETA’ ITALIANA IN BOLIVIA

di Goffredo Palmerini

Il villaggio trasformato da P. Remo Prandini, salesiano bresciano, e dalle Missionarie abruzzesi

BOLIVIA, Hardeman – Che cielo, il cielo di notte ad Hardeman! Le stelle brillano a meraviglia nell’oscurità profonda. Mi ricordano lo spettacolo che si gode sul Gran Sasso d’Italia nelle notti di mezza estate. D’altronde qui non esiste disturbo di luci artificiali, né l’aria è malata di smog. Giorni fa sono partito da Santa Cruz de la Sierra per Hardeman, 180 km. verso nord, cinque ore di viaggio su un vecchio autobus da trenta posti, di quelli che si usano da queste parti in Bolivia, chiamati “micro”, che sembrano muoversi per miracolo. Strada per due terzi asfaltata, gli ultimi sessanta chilometri in terra battuta. Sobbalzi, buche e nuvole di polvere da annebbiare la vista. Lungo il percorso, dopo Montero, ultima città degna di questo nome, piantagioni a perdita d’occhio di canna da zucchero, mais, soia, sorgo, patata e grano, ma anche ortaggi e agrumi. E poi ganados, allevamenti, bovini e ovini allo stato brado, all’ombra di palme o d’imponenti alberi di mango. Lungo il percorso ogni tanto s’incontra qualche villaggio di baracche di tavole, piantate su terra nuda e coperte con frasche di palma. Tanti i bimbi, in questi posti di campesinos, tanti gli animali da cortile che nell’habitat con loro convivono. Solo chiesa e municipio, di mattoni rossi, nei villaggi esprimono una qualche architettura. Talvolta si nota qualche casetta in muratura sommaria che sostituisce la diffusa baracca di legno. Il pulmino si ferma ogni volta che quando qualcuno sta in attesa lungo la strada, fino a riempire ogni spazio disponibile, in piedi.

 Mineros, Sagrado Corazon, San Pedro i paesi più grandi lungo la via, ma è inutile cercarli sulle carte. Quindi Hardeman, con i suoi quattromila abitanti. Poi la strada sterrata prosegue verso nord per altri cento chilometri, fino a Los Limos. Hardeman è abbastanza diverso dagli altri villaggi. Lo si vede subito entrandovi da un gruppo di piccole case in muratura, sedici tutte uguali, ma diversamente colorate con tinte pastello. Davvero una novità rispetto alla norma di capanne o sciatte murature. Appena arrivo nell’accogliente dimora delle Missionarie della Dottrina Cristiana, ricca di piante e d’essenze fiorite, di quella singolarità chiedo ragione a suor Anna Andreucci, originaria di Bominaco in provincia dell’Aquila, giunta  nel ’89 in questi posti dei quali ormai sa ogni cosa. Per conto dello stato, cura la direzione didattica sulle scuole d’un ampio distretto, muovendosi agilmente, a dispetto dell’età, con il suo fuoristrada. Quel gruppo di case, mi dice, è solo una delle tante opere nate grazie a padre Remo Prandini, il salesiano bresciano tragicamente annegato nel fiume in piena il giorno di Natale del 1986, che qui ad Hardeman è ricordato con affetto e venerato da tutti come un santo, in raccoglimento sulla sua tomba posta accanto all’ingresso della chiesa.

Era arrivato nel 1975, padre Remo, in quello che allora era un villaggio di poche capanne nella foresta amazzonica. Portò per undici anni istruzione per i ragazzi, per gli ultimi difesa dei diritti e coscienza civile tra i campesinos che cominciavano a popolare quest’area sperduta della Bolivia, ricompresa tra il Rio Piray ed il Rio Grande, man mano conquistata all’agricoltura a scapito della rigogliosa foresta amazzonica, arretrata ora

di alcuni chilometri. Appunto quel “quartiere modello” di Hardeman è uno dei tanti esempi della generosità italiana in ricordo del salesiano. Dopo la sua morte una gran quantità di aiuti sono arrivati dall’Italia, gestiti in loco direttamente dall’Associazione Padre Remo Prandini, costituita a Lodrino in Valtrompia da familiari ed amici del religioso, o dall’Organizzazione Mato Grosso - che già dava una mano a padre Remo - o dalle Missionarie della Dottrina Cristiana con fondi di solidarietà loro pervenuti dall’Abruzzo e da altri benefattori italiani. Le Missionarie, giunte ad Hardeman nell’ottobre ’86, appena due mesi dopo il loro arrivo si trovarono a dover raccogliere e continuare il generoso impegno civile e spirituale di P. Remo, curandosi della scuola e delle altre opere. Ebbene, con aiuti di benefattori italiani, le suore hanno realizzato ben sessanta casette in muratura (circa 50 mq), consegnate alle famiglie più povere.

Ogni struttura civile ad Hardeman ricorda questo religioso: il “Colegio P. Remo Prandini”, complesso davvero moderno come un campus, con tutti i cicli di scuola primaria e secondaria; il Centro Medico funzionante 24h, una specie di pronto soccorso con sei posti letto, per partorienti ed altre patologie d’urgenza; la piazza con il monumento a lui dedicato; il Centro polivalente annesso alla chiesa parrocchiale; la Scuola materna gestita dalle Missionarie, realizzata con i fondi della Caritas di Sulmona, la città di Ovidio, in Abruzzo. Le Missionarie, inoltre, stanno costruendo un moderno forno con panetteria, che sarà dato in gratuita gestione ad una cooperativa a tal fine costituita. E’ poi in via di completamento l’ospedale, tre padiglioni per tutte le specialità, dono della solidarietà d’un imprenditore italiano, Sergio Marchetti, giunto in questa zona alcuni anni fa dal Brasile, dov’era emigrato anni prima. Qui ora conduce un’agricoltura intensiva d’avanguardia, dando molta occupazione. Tutte le modernità di Hardeman portano dunque l’impronta italiana, un vero orgoglio.  Ma punto di riferimento del paese sono le Missionarie, in particolare le suore abruzzesi: madre Maria Grazia Lepore - la superiora, nata a Corfinio in provincia dell’Aquila, nominata cittadina onoraria di Hardeman, che sovrintende alle ragazze ospiti della casa, ai laboratori di sartoria ed alla scuola materna - e suor Anna Andreucci, alla quale tutti si rivolgono anche per le sue capacità nelle relazioni con le autorità costituite.

Ed è proprio vero. Il 18 luglio scorso era gran festa ad Hardeman. Si celebrava il 40° anniversario dalla  fondazione e il villaggio imbandierato viveva un’atmosfera di fervore in ogni suo cittadino. Davanti la sub-alcaldia - il municipio sta a San Pedro - un grande schieramento di autorità giunte per l’occasione da Santa Cruz: il rappresentante del Governatore, il vice Prefetto, il Provveditore all’Istruzione, il Direttore della Sanità del Dipartimento, un consigliere del Dipartimento (Regione), il Sindaco e varie altre figure istituzionali. Il cerimoniale prevedeva, prima che l’intera comunità di Hardeman sfilasse con colori ed insegne sociali (scuole, professioni, mestieri, sindacati e associazioni) davanti alle autorità, una lunga serie di discorsi ufficiali. Quasi tre ore d’interventi politici sullo stato di salute del paese, sulle opere in programma per

migliorarne il volto, sugli impegni promessi per il futuro, con intermezzi musicali di Aldo Peña, noto cantautore boliviano. Richiesta d’un intervento, anche suor Anna Andreucci, ha portato il suo contributo.

Discorso conclusivo il suo, da vox populi. Rispettoso nei toni, ma vigoroso quanto lucido sui più importanti problemi ancora irrisolti. Ha richiamato ciascuna autorità alle proprie responsabilità ed all’assunzione dinanzi al popolo d’impegni veri e precisi, anche riguardo i tempi di soluzione. Ne ha elencato le priorità, quali la costruzione della strada in asfalto almeno fino ad Hardeman e d’una barriera che eviti al paese le periodiche inondazioni dal Piray, il rilascio urgente delle autorizzazioni necessarie per il completamento e l’apertura dell’ospedale, il trasferimento ad Hardeman, in quanto paese più popoloso, della sede del distretto scolastico. Ciascuna autorità s’è sentita in dovere di fornire assicurazioni puntuali. Suor Anna dava a loro una stretta di mano, ricordando che nella tradizione italiana quel gesto conta più d’un contratto. Queste le Missionarie della Dottrina Cristiana ad Hardeman. Non solo infaticabili costruttrici di progresso e buone opere, ma anche riconosciute figure di Difensore civico. Chi l’avrebbe mai detto!

FATTORIA PARADISO

di Piero Valdiserra

Tanto di tutto, alla Fattoria Paradiso di Capocolle di Bertinoro, nel cuore della Romagna più genuina e verace.

Tanta storia, innanzitutto. Di origini probabilmente romane, il complesso attuale fu Castello Ugarte Lovatelli in epoca rinascimentale, e rimase proprietà dell’omonima famiglia patrizia fino alla fine del XIX secolo, quando venne acquistato dalla famiglia Pezzi, attuale proprietaria. Nel corso del Novecento l’antica dimora di Capocolle ha continuato a ospitare grandi personaggi dell’arte, della letteratura, del teatro, del cinema e della politica, fino a diventare un autentico “salotto culturale” della Romagna.

Tanti i vini. Gli 80 ettari di vigneto della Fattoria Paradiso hanno prodotto nell’arco degli ultimi decenni alcuni degli elisir più emblematici e più apprezzati dell’intera enologia romagnola. A cominciare dal Barbarossa, vitigno autoctono esclusivo e oggi vero fiore all’occhiello dell’Azienda, che Mario Pezzi rintracciò e cominciò a valorizzare nell’ormai lontano 1955. Per proseguire con il Pagadebit e la Cagnina, vitigni storici di cui si erano quasi perse le tracce e che proprio la Fattoria Paradiso restituì al patrimonio ampelografico regionale nei primi anni sessanta, aprendo poi la strada all’assegnazione della D.O.C. Per finire coi tantissimi nettari di Bacco che l’Azienda ha lanciato nel corso del tempo: dall’energico “Mito”, blend di Cabernet, Merlot e Syrah, alle molte, eccellenti varianti di Sangiovese (“Maestri di Vigna”, “Bella Blu”, “Vigna delle Lepri”), dall’Albana – secco, dolce e passito – al modernissimo “Strabismo di Venere”, che coniuga l’Albana stesso al Sauvignon Blanc. Per non parlare, poi, dello spumante brut, dell’olio extravergine d’oliva, delle grappe di monovitigno e della salsa balsamica, che completano l’offerta aziendale.

Tanti sono stati anche i riconoscimenti conquistati nel tempo. La Fattoria Paradiso ha ormai pareti insufficienti a ospitare i numerosi attestati e premi conferiti nel corso degli anni. E molti sono stati, da sempre, gli estimatori celebri dei suoi vini: dal Papa Giovanni Paolo II ai Presidenti americani Ronald Reagan e Bill Clinton. Un albo d’oro che suscita sempre emozione e ammirazione in tutti i visitatori che passano in rassegna i molti diplomi e le innumerevoli foto che arricchiscono le sale dell’Azienda.

Tante, infine, sono le attività collaterali che animano la vita della Fattoria Paradiso. L’elenco è di per sé significativo. Le collezioni museali: Museo del Vino, Museo della Civiltà Contadina, Museo di Moto e di Auto d’Epoca. Le varie sale atte a ospitare convegni, conferenze, cenacoli, manifestazioni di vario indirizzo artistico e culturale, cerimonie, momenti conviviali. La Locanda “Gradisca”, ristorante di alto livello fedele ai dettami gastronomici del grande Pellegrino Artusi. L’attività agrituristica, nata dalla ristrutturazione di due rustici storici che oggi mettono a disposizione degli ospiti 40 posti letto, distribuiti in 12 camere e 6 appartamenti. Le due piscine, collocate in una straordinaria posizione panoramica collinare. E poi ancora un articolato percorso – vita fra le vigne, una pista per mountain bike, una serie di attrezzati impianti sportivi…

Se non avete paura di perdervi in tanta abbondanza, prendete contatto con Graziella Pezzi, figlia di Mario e attuale, attivissima patronne della Fattoria Paradiso: sarà lieta di accompagnarvi nella vista e nella progressiva, affascinante scoperta di quest’angolo ameno di Romagna. Un vero e proprio angolo di Paradiso!

(Info: Fattoria Paradiso, Via Palmeggiana 285, Località Capocolle, 47032 Bertinoro (FC), tel. 0543 445044, fax 0543 444224, e-mail fattoriaparadiso@fattoriaparadiso.com, sito internet www.fattoriaparadiso.com).

MORMANNO & POESIA: “DISTURBI DEL CUORE”

di Francesco Aronne                                                                   

Gocce di sole in una terra di spettri!....

Dopo due anni di attesa, è finalmente uscita la nuova raccolta di poesie di Francesco M.T. Tarantino “DISTURBI DEL CUORE”, per i tipi di “MEF – L’autore Libri Firenze”.

Un nuovo viaggio tra le rime che squarcia il velo su inediti ed ancora una volta imprevisti ed inesplorati orizzonti.

Atmosfere rarefatte che colgono e ripropongono con la oramai consueta raffinata sensibilità, l’essenza di un paesaggio come di un sentimento accomunandoli nella sublime percezione dell’essere e dell’esistere.

Tra ricordi e oblio si ripercorrono strade umanamente reali. Strade  che si snodano tra le fatiche di lacerazioni ed affanni quotidiani e che vedono i dolori leniti a volte dall’amicizia a volte dalla fede, altre volte trasformarsi in lamenti.

Amicizie andate, perse con sofferenza ma anche ritrovate, espresse in incontenibili e genuini moti (disturbi?) del cuore. Cicatrici non rimarginate di ferite ancora doloranti prodotte dall’impietoso rasoio di ricordi di eventi lontani, ma ancora vivi.

Continua ricerca dell’uomo che attraverso sentieri introspettivi porta, schiettamente e senza finzioni, altrove, in desolate terre antiche e lontane. Quotidiana ricerca di geografie perdute di emozioni e sentimenti.

La percezione che si ha nel leggere è di un’opera che offre una maggiore maturità poetica ed espressiva dell’autore, che questa volta si rivolge al mondo amplificando con la lente della poesia le sfaccettature variegate dei tanti poliversi possibili in cui erriamo.

Il tumulto emozionale del primo volume risulta qui superato dalla cognizione della propria arte che porta al totale e consapevole dominio delle parole.

Grappoli di immagini suggestive, come una carovana di nomadi che attraversa il deserto, plasmate in rime, interpretano le problematiche del poeta, che è anche uomo del suo tempo.

Si illuminano voragini interiori con lampi di speranza, ma anche si indirizza impietosamente e senza reticenza alcuna l’indice su drammi sociali che affliggono il nostro tempo, frutto delle politiche malate e delle follie dei regnanti d’oggi. Nessuna omissione delle proprie convinzioni.

Poesia attuale che non rifugge dalla denuncia sociale e non è destinata all’ipocrita astrazione di un, seppur legittimo trattando di poesia, avulso contesto idilliaco ed irreale.

Umane fragilità che ripropongono flebili bagliori di vite passate. Le sacre sinfonie del tempo ricorrono in imperscrutabili geometrie poetiche ed il lettore ha la stupefacente sensazione di apprendere cose non ancora dette.

Mi è parso, infine, di cogliere nel fondo un sostrato di serenità occultato da vibrazioni ed onde che muovono agitandola la superficie di questo stagno di parole ed emozioni.  Ma forse sono solo suggestioni o occulti desideri di chi scrive.

Al coraggioso amico poeta che ha tirato su l’ancora, mollato gli ormeggi, issato la vela, orientando il timone senza indugi verso il mare aperto, gli auguri di buona navigazione ed il ringraziamento per il rinnovato piacere di leggerlo che ci ha voluto regalare. 

S.AGUSTINU STRAVINCE L’XI EDIZIONE DEL PALIO CUI CIUCCI DI LAINO

di Rossella Regina

Primo trionfo per i giallo-verdi, a secco di vittorie sin dal 1985

Ha sbaragliato tutti, S. Agustinu. Tutto merito di Zafarana, l’asino che, guidato dall’abile Antonio Manfredi, ha trotterellato lungo il tracciato della corsa tagliando per ben 5 volte consecutive il fatidico traguardo, attribuendo, così, ai giallo-verdi ,l’XI edizione del Paliu cui ciucci di Laino Borgo. Una gara concitata, quella dello scorso 14 agosto, che ha visto dalle rocambolesche cadute di fantini ad evidenti tentativi di fuga degli asini all’esterno del tracciato, da interminabili pause lungo il circuito ad avvincenti testa-a-testa tra ciuchi.

Sette le contrade in concorso, tutte con qualche vittoria all’attivo (Cagghienti 1, Casalettu-Vavuosu 1, ‘Mbedi u Burgu 2, Sant’ Antoniu 1, S. Biasu 1, Santu Vastianu 4), tranne S. Agustinu che, per la prima volta dal 1985, data d’inizio dell’ormai celebre Palio lainese (una prima edizione sperimentale è segnalata nel 1976), si è aggiudicata meritatamente il titolo per l’edizione 2008.

Evidentemente commosse Capitano e Rettore della contrada, Concetta La Rocca e Giuseppina Calvosa, chiamate a ritirare, insieme al prode Fantino, il Palio 2008, opera del’artista lainese Sara Palermo, dalle mani degli organizzatori. Grande soddisfazione ha espresso Settimo Rossi, Ideatore dell’iniziativa, Coordinatore del Comitato Pro Palio nonché infaticabile ‘sant’agustinianu’. Sono contentissimo per la vittoria della mia contrada – ha ribadito l’attuale Assessore al Turismo e Spettacolo del Comune di Laino Borgo - nonché per l’ottima riuscita della manifestazione! E pensare che Zafarana è partito da ‘settimo’, quale ciuccio di ricorsa…un presagio!!!

Boom di presenze per la due-giorni clou dell’agosto lainese che quest’anno, novità assoluta, ha voluto omaggiare la figura storica di Carlo V, presente nel lungo corteo multicolore che dal cuore dell’abitato si è snodato, tra canti, balli e slogan, alla volta dell’asinodromo, teatro della gara.                         

In abiti d’epoca, a cavallo di un prestante puledro pezzato nonché a guida di un gruppo di 7 eleganti purosangue, cavalcati dal altrettanti giovani a rappresentanza delle contrade in concorso, Carlo V ha condotto l’immane corteo sul circuito della gara percorrendo quei luoghi che nel lontano 1535 aveva già avuto modo di conoscere (pare difatti che, di ritorno dall’impresa di Tunisi, Carlo V, si fosse fermato presso due

abitazioni del lainese, rispettivamente Casa Monaco in Via Roma e Casa Marchionale in Piazza Navarro).

E dopo la vittoria è nuovamente tempo di festeggiamenti. Come da tradizione, infatti, la contrada vincitrice organizzerà un mega party al quale saranno invitate tutte le restanti contrade del Paliu cui ciucci. Massimo riserbo, ancora, sulla data di svolgimento dell’evento, una sola cosa è certa: Zafarana, abbandonato il terreno di gioco, diventerà protagonista della tavola. Eh sì, perché sicuramente la specialità tipica

lainese, l’ottima ‘zafarana’ (alias peperone), non mancherà di nobilitare il lauto banchetto, tributo alla meritatissima vittoria di Sant’Agustinu.

CIME & TRA-MONTI: IL PA-PASSATO CHE RITORNA!..

di Francesco Aronne

Le oscure leggi della fisica che sovrintendono il truce gioco della roulette russa sono tra le tante governatrici dell’universo ed a noi ignote.

Nella porzione spazio temporale a noi assegnata ci sono eventi che si ripresentano a intervalli con imprevedibile ma presumibile ricorsività. La mente va indietro con i ricordi fino a ritrovare, qualche lustro fa, il PRIMO FESTIVAL DEL CINEMA CITTA’ DI MORMANNO (per fortuna rimasto anche ultimo) che doveva, secondo i propositi dei promotori, inaugurare una nuova stagione culturale nel pio borgo ed invece è miseramente scivolato nella pattumiera dell’oblio.

Uno straniero di passaggio, proveniente da neanche lontano, approfittando dei sentimenti di esterofilia di cui gode nel pio borgo chiunque non sia del posto, coinvolse gli incauti ed ingenui amministratori di allora, in una iniziativa (all’epoca proposta prima ad assessori di altri comuni della zona e da questi, senza indugio, rifiutata) che rimase ben lungi dai nobili propositi di questi ultimi, assumendo il carattere di onerosa burla.

Qualcuno, di nascosto, da allora aspetta ancora che la RAI trasmetta prima o poi lo strepitoso evento (tra l’altro da questa mai ripreso, ed in quella serata tanto ed invano da molti attesa).

Qualche beffardo ed irriguardoso giovinastro di allora, intriso di feroce e gia post-sessantottesca ideologia, a caldo e senza a lungo meditare, consegnò ai posteri l’evento con un neologismo ancora attuale: papassata!  Ed a qualcheduno, ancora oggi, ne sovverrà il perché.

Ma ritorniamo ai giorni nostri: echi di notizie della mia terra che mi giungono lontane,  tra un incendio e l’altro che la tormentano, in questo infuocato agosto, mi fanno temporaneamente abbandonare il fascino del luogo in cui mi trovo, sulla spiaggia, al piacevole fresco dell’ombra di secolari ulivi e lo sguardo perso tra limpide e calde acque di un mare colore smeraldo, traslandomi sui natii luoghi.

Natura offesa e abbandonata ad artigli criminali che per oscuri e turpi giochi la riducono, ogni estate, in cenere fumante: grassi e nauseabondi lombrichi che certamente traggono guadagni dall’ecatombe.

Parco Nazionale del Pollino. Parco: dal dizionario della lingua italiana “Grande spazio boschivo” o “moderato e contenuto”. Il primo è la porzione di ambiente geograficamente delimitata e il secondo è l’Ente preposto alla sua tutela: moderato e contenuto nelle iniziative di promozione, di salvaguardia e di tutela... Per il ministro Brunetta in buona parte ricovero e ospizio di fannulloni. All’apatia ed inedia dell’Ente che giace come un pachiderma immobile, c’è chi cerca di sopperire come può.

Ed è a questo spirito, probabilmente, che è da attribuire il documento della Giunta Municipale del pio borgo n. 138 che porta la data del 17 luglio 2008. Nelle determinazioni di questo atto possiamo leggere: “…questa Amministrazione, in seguito a richiesta da parte di esperto conoscitore del territorio del Parco Nazionale del Pollino e sentite le numerose richieste da parte della cittadinanza al riguardo di intitolare una cima montuosa ricadente nel proprio territorio a San Josemaria Escrivà de Balaguer, intende accoglierne tale richiesta;” ed ancora “…detta scelta è motivata dal fatto che il Santo fondatore dell’Opus Dei, ha lasciato una traccia importante, con il suo passaggio del giugno 1948, anche nel nostro territorio comunale; (…) la cima individuata potrebbe diventare una meta escursionistica molto frequentata da molti fedeli di San Josemaria; (…) …in modo da incentivare il turismo intelligente legato al mondo cattolico;

Il passato, anzi il pa-passato, che ancora una volta ritorna. Ancora un anonimo e misterioso straniero di passaggio, il cui nome neanche è riportato nell’atto citato. Un ignoto fautore di questa iniziativa che si è ben guardato dal proporla a casa sua, al suo comune, e chissà mai perchè. 

Misteri, ed anche tanti, come quelli del Codice Da Vinci che in qualche modo fanno capolino, visto che l’anonima e fino ad ora tranquilla cima non viene intitolata ad un garibaldino qualsiasi, ma addirittura al fondatore della da molti osteggiata (come nel caso del best seller citato), ma anche da altri amata, Opus Dei.

Non è intenzione di chi scrive, né questo il contesto più adatto ad affrontare una problematica complessa e dai poliedrici aspetti come quella relativa all’Opus Dei. Certo però, visto che la cosa riguarda da vicino il pio borgo, è che non possiamo neanche fingere che nulla sia accaduto e mettere, come tanti struzzi col cervello seminuovo (nel senso di usato poco), la testa in una buca scavata nella sabbia e magari ipocritamente plaudire a questa opinabile ed inopportuna iniziativa.

Né possiamo accontentarci della scarna biografia di parrocchia estratta da siti partigiani ed allegata alla richiesta fatta al sindaco, nella quale, tra l’altro, il forestiero promotore, pervaso da credente fervore e devozione scrive “che in data 22 giugno 1948 è stato accertato il passaggio, anche nella nostra cittadina di Mormanno, di San Josemaria Escrivà,…”.  Un inopportuno nostra che forse preclude alla concessione di una contrattata e concordata cittadinanza onoraria, ma che al momento non trova alcuna legittimità e dalla quale mi preme in questo contesto, e contro i miei costumi, rimarcare la distanza.

L’Opus Dei, la forza più controversa nella Chiesa cattolica, come è stata propriamente definita dal vaticanista John L. Allen Jr nel suo OPUS DEI (testo, a mio avviso, equilibrato che mi sento di consigliare a chi volesse approfondire l’argomento), è una associazione cattolica di prelati e laici diffusa in oltre ottanta Paesi. La sostanziale adesione dei suoi membri ad ideologie politiche conservatrici e di estrema destra, la rende avversa ad ampi e diversi settori cattolici, e non solo cattolici.

Aspetti rituali insoliti come le arcaiche e, per alcuni, sado-masochistiche pratiche di mortificazione della carne imposte ai membri effettivi (vedi l’uso del cilicio e dalle fustigazioni di Silas nel film Il Codice Da Vinci) appaiono un arcano retaggio della spiritualità del suo fondatore.

Questi, Josemaria Escrivà de Balaguer, è una figura ambigua e nel corso degli anni le interpretazioni sulla sua vita sono divenute il principale campo di battaglia su cui sono state combattute le discussioni sull’Opus Dei. Ex membri dell’associazione che lo conobbero in vita lo descrissero come privo delle virtù di un santo: vanitoso, dittatoriale, paranoico e con un temperamento collerico. Critiche queste contraddette da altri membri disposti a giurare l’incontrario. Documentati i legami con il Generalissimo Franco capo di un regime sanguinario, ma meritevole di indulgenza poiché genuinamente anticomunista, così come secondo alcuni suoi seguaci, con una sospetta ammirazione per Hitler, e via discorrendo…

Punto interessante ed a mio avviso degno di condivisione dell’impianto ideologico dell’Opus Dei, è la cosiddetta Santificazione del lavoro: “rendere il proprio lavoro una offerta a Dio… lavorare con umana perfezione ed adempiere bene agli obblighi professionali e sociali”.

Molti altri i punti oscuri. Luci (poche) ed ombre (tante) che non possono in questo ristretto ed inopportuno ambito addivenire ad alcuna sintesi. Migliaia di persone hanno visto in Escrivà e nei suoi insegnamenti la possibilità di una propria evoluzione spirituale e sociale e fonte di illuminazione, altri vi hanno visto la negazione della santità e una strada di cieca sudditanza da non seguire. La scelta religiosa e di fede è e deve rimanere una strada individuale che va rispettata. Non per questo va condivisa. Un pontefice a sua volta Santo, tra accese polarizzazioni di approvazioni e costernazioni ha optato per le prime e ha santificato Escrivà.  All’Altissimo il supremo giudizio su ogni attività umana e terrena.

Dopo questa necessaria divagazione torniamo alla nostra vicenda. Personalmente penso che volendo dimenticare un personaggio non c’è che miglior sistema che dedicargli una strada, una piazza e ora anche una cima, ma non è questo il punto.

Tante le perplessità a cui certamente la unanimemente fervente e devota Amministrazione comunale che avrà studiato, a fondo il problema, prima di prendere l’impegnativa decisione,  saprà certo dare adeguate risposte. Qual è la “traccia importante“ lasciata da Escrivà nel nostro territorio comunale? Il cartiglio allegato dall’esperto conoscitore alla richiesta citata contiene una vaga e generica rassegna stampa ma, a quanto mi risulta, nessun atto o documento concreto che dimostri il transito per Mormanno. Si omette la parte più importante la prova ed i dettagli del passaggio (non che siano necessari ai fini di una dedica ma lo diventano poiché è la principale motivazione con cui si perora la richiesta).

O forse che qualche grande della terra, sorvolando lo spazio aereo del pio borgo, o magari transitando anonimo in una vettura sia meritevole di analoghe iniziative? Di questo transito mistico avvenuto, si sostiene, il 22 Giugno 1948, non ho trovato traccia alcuna. Questo però non vuol dire nulla, pertanto chi ha i dettagli e le prove metta tutto a disposizione di chi vuole verificare ed approfondire gli aspetti di questo passaggio.

Nell’atto amministrativo n. 138 citato si sostiene che “…sentite le numerose richieste da parte della cittadinanza…” e qui la cosa si fa interessante. Molti sanno che una petizione popolare di 844 cittadini che hanno firmato con nome e cognome ed estremi del documento di riconoscimento (incuranti dei rischi di rappresaglia a cui si sono esposti) una petizione popolare per la chiusura dell’onerosa e semideserta scuola materna comunale è rimasta praticamente inascoltata. E’ legittimo, a questo punto, chiedere al Sindaco di fornire l’entità numerica delle numerose richieste e le modalità con cui queste richieste, invece ascoltate, sono pervenute all’Ente. In sintesi quanti cittadini e come hanno richiesto l’intitolazione della cima? Se democrazia è che democrazia sia e, soprattutto, capiamo che tipo di democrazia è.

Leggiamo oltre ed ecco il nobile proposito promotore di sviluppo: “la cima individuata potrebbe diventare una meta escursionistica molto frequentata da molti fedeli di San Josemaria; (…) …in modo da incentivare il turismo intelligente legato al mondo cattolico”.

E’ proprio il caso di dire che spesso la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Una domanda sorge spontanea: oltre al turismo intelligente legato al mondo cattolico vi è un turismo deficiente legato al mondo islamico, al mondo ebraico o al tremendo impero del male comunista, o alle altre tante confessioni e fedi?

Trovo semplicemente aberrante questa visione del mondo (e del turismo) e mi sorprende di come tale turpitudine abbia trovato unanime condivisone nell’Amministrazione. A meglio guardare si intravede una salma avvolta in lercio drappo rosso lentamente trasportata dal fiume.

Questa ingenua furbata probabilmente affonda le radici nella frustrazione e delusione di quanti hanno riposto le loro speranze in un parco che, pur se il più grande d’Europa, è tale solo sulla carta; di un parco che non decolla; nell’aridità di idee per il suo sviluppo delegato alle faticose e coraggiose (ma a volte anche folli) iniziative dei singoli.

Il turismo cattolico esiste, è numeroso, ma ha bisogno di motori forti. Le apparizioni mariane ad esempio: citavamo qualche numero fa il 150° anno dell’apparizione di Lourdes. Meta che non vacilla e che fa muovere anche i diversamente abili. Potremo citarne altre: Medjugorie, Fatima, e tante, tante altre ancora. Magari chissà per il futuro si può puntare più efficacemente ad una incentivante apparizione mistico-naturalistica, senza bisogno di concessione comunale. E’ più che legittima la venerazione dei santi da parte dei seguaci (nei luoghi di culto a loro dedicati) ma non può essere imposta a chi ha altro parere e merita pari rispetto. Negli insegnamenti di queste figure elette che hanno tracciato profondi solchi nel cammino dell’umanità non credo si rivendichino nomi di cime, anzi penso che ben altre sono le cose concrete a noi richieste.

La cima intitolata, per quanto mi riguarda, non ho dubbi a lasciarla senza nome, ed anche perché la cartina topografica in scala 1:25.000 lo dimostra, è posta nei paraggi di un imbarazzante sito: la v. del diavolo e non vorrei con questa ardita vicinanza riattivare atavici e mai sopiti conflitti tra acerrimi nemici, turbando la pace del luogo.

In considerazione delle tante energie profuse per la intitolazione, si potrebbe valutare, magari con un consulto popolare, una rettifica del nome appena dato alla cima lasciando in pace i santi. Si potrebbe magari rinominare la cima “Luigi Vittorio Bertarelli”. Commerciante di arredi sacri con la passione dei viaggi e della scrittura che percorreva, nel 1897 tra lo stupore generale, le strade della Calabria in bicicletta. Quel milanese pioniere del turismo moderno fu cofondatore del Touring Club Ciclistico Italiano e tra i primi maestri dell'arte del viaggiare.

Egli non fu un turista ingenuo, ma un "viaggiatore colto". I suoi scritti più importanti (Insoliti Viaggi – L’appassionante diario di un precursore – Edizioni TCI) tracciarono un affascinante percorso umano e culturale e un appassionante ritratto dell'Italia di quegli anni.

La parte di quel diario di viaggio che riguarda il pio borgo è stata ampiamente riportata in una emissione precedente. Successivamente è uscito anche un pregevole e godibile volumetto per i tipi dell’editore calabrese Rubettino dal titolo Cicloturisti in Calabria – due diari di viaggio 1897 e 2006 curato da Vittorio Cappelli, professore di Storia Contemporanea all’Università della Calabria, che ripropone quel mitico viaggio di Bertarelli abbinandolo ad un altro più recente con percorso inverso (Eboli - Reggio Calabria) fatto dall’urbanista napoletano e appassionato cicloturista Giannì.

Intitolazione che risulterebbe un meritato riconoscimento ad un velocipedista il cui nome è indissolubilmente legato al concetto di turismo moderno ed allo stesso TCI . Il Touring Club Italiano dal 1894 si distingue per il forte impegno nello

"sviluppo del turismo, inteso anche quale mezzo di conoscenza di paesi e culture, e di reciproca comprensione e rispetto fra i popoli. In particolare il T.C.I. intende collaborare alla tutela ed alla educazione ad un corretto godimento del patrimonio italiano di storia, d’arte e di natura, che considera nel suo complesso bene insostituibile da trasmettere alle generazioni future”. (Dal primo articolo dello Statuto del Touring Club Italiano)

Condividendo questa idea di turismo rispettoso, moderno e tollerante e ritorno coi pensieri al luogo in cui mi trovo. Godo sulla spiaggia, tra un bagno e l’altro, della piacevole compagnia del mio piccolo amico Max.

Ha sei anni, mi racconta le fantastorie e mi sottopone alle fantadomande. Tra tutte la più bella è una storia vera: mi racconta che nella sua regione d’origine, il Trentino, quando lui è nato hanno piantato un albero in suo onore, come si fa quando nasce ogni bambino da quelle parti, e gli hanno mandato un certificato con la sua localizzazione.

Una azione semplice e concreta che, con un basso costo, più di parecchie altre può aiutare a sensibilizzare tante piccole (per ora) speranze e magnifici mattoncini di futuro.

Mi piacerebbe tanto sapere che nel mio comune, come in tutti quelli del parco ogni volta che nasce un bambino viene piantato un albero ad egli dedicato nel nostro territorio, e che questo albero venga protetto e tutelato come il futuro di ogni bambino a cui l’albero resterà per sempre legato.

Mi piacerebbe inoltre sapere che la cima è ancora senza nome o che se un nome lo deve avere a tutti i costi (magari per non far imbestialire il ministro Maroni) allora che sia cima Luigi Vittorio Bertarelli. Una prova di civiltà in armonia con lo spirito di crescita che il Parco deve ritrovare ed una mano tesa a quelle forme di turismo civile necessarie al suo sviluppo.

A dire il vero questo pioniere una dedica l’ha già avuta: l’Abisso Bertarelli (Grotta della Marna, Abisso di Raspo, Zenkanja Jama) in Istria, ma credo che gli ideali di cui è stato propugnatore, giunti dopo oltre un secolo ai giorni nostri con il loro valore originario, ben meritano l’elevazione da un abisso istriano ad una vetta dei nostri incantevoli monti.

NON E’ POSSIBILE…

di Marilena Rodica Chiretu

Da molto è crollato il muro delle ombre
nel grembo della luce gridando: ”Libertà!”
la polvere diffusa sui sentieri storti
conserva ancora i passi
della paura, della fame e della povertà.
Ma noi siamo vivi e ricchi
come i campi inverditi dai raggi
arrivati dal sole del Ponente,
in case fiorite da gioie non sognate
oppure ancor smarriti su strade vagabonde
confuse e incorrette.
La luce al Levante riscalda o abbaglia
ma la diversità unisce i punti cardinali,
non è una saetta che trafigga il cuore
del vecchio continente e della libertà.

Non è possibile che il vento
di nuovo scaturisca
la tempesta dell’odio e della rabbia,
che folli parole uccidano l’amore
per una lingua straniera
scritta con la passione degli sguardi
e il soffio delle labbra
anche sulla sabbia.

E’ anche la mia la lingua,
quella che parla alle cime delle torri,
al labirinto dei canali
che spuntano sulla laguna,
ma anche quella più lontana
sentita sulla strada,
perché ho abbracciato la terra
con le due mani.

Non è possibile
che una testa impazzita dal calore,
giocando con le poesie e il dolore,
mi scriva su un'onda virtuale
che sono stata
“schiava del famigerato governo Ceausescu”
e da "forgiata" che sarei stata
“in eterno schiava resterò
della mentalità di bassa lega”

Come può esistere ancora sulla terra
di Romeo e Giulietta,
di Dante e Beatrice
e di tanti amori
fioriti in vari colori
come i petali delle rose
le spine velenose dei rancori?

Un’ ombra mi soffoca in parole
la gioia di scrivere anche sul cielo
che amo il vostro mare
anche quando non è più bello
e nuota nelle onde mosse dello stupore
di aver sentito la voce incosciente:
“Vai ad insegnare il rom
e lascia perdere gli italiani
dei quali non sei degna…”

Cade il sipario sull’attore della scena
si alza un altro muro
e il raggio caldo del Ponente
diventa un coltello duro

Non è possibile che di nuovo il buio
anneghi l’acqua scintillante
nelle tenebre della mente
e crolli il ponte che lega
il Ponente dal Levante!


A CECINA LA BORSA EUROPEA DEL TURISMO ASSOCIATO

di Franca Vitone

parte la 22^ BETA

Turismo associato, turismo ambientale, turismo accessibile saranno i protagonisti della 22^ edizione della BETA, la Borsa Europea del Turismo Associato, in programma, come da tradizione, nella settecentesca Villa La Cinquantina di Cecina, sulla Costa degli Etruschi in Toscana, che si svolgerà il 25 e 26 settembre prossimi.

Nel panorama delle Borse turistiche che si svolgono, sempre più numerose in Italia, un posto di primo piano lo occupa certamente la BETA, che si distingue da tutte le altre per snellezza ed operatività. Non per niente, negli oltre venti anni di attività, la Borsa ha fatto registrare un forte trend di crescita, non solo per qualità e numero di presenze degli operatori, ma soprattutto per l'alto interesse creatosi attorno alla manifestazione.

Si tratta di un appuntamento di lavoro rigorosamente riservato agli specialisti del settore. Anima operativa della manifestazione è il workshop che vede protagonista l'offerta Italia, caratterizzata dalla massiccia partecipazione della piccola e media impresa turistica, che trova alla BETA la sua ideale vetrina.

“L'introduzione d'inedite specializzazioni che rispondano alle indicazioni del mercato – spiega il Patron della manifestazione Paolo Pacini – mantengono da sempre vivo il profilo di laboratorio sperimentale che si è voluto dare alla BETA”: Fra le ultime iniziative che rispondono a questa inclinazione ricordiamo la recente specializzazione del “turismo accessibile”. Il tema del “turismo per tutti”, oltre ad essere declinato sul piano divulgativo nell'ambito di “Betaconvegni”, ha ispirato l'istituzione del Premio “Turismo Italia Accessibile”, giunto quest'anno alla sua terza edizione, ed assegnato alle migliori esperienze nazionali ed estere che abbiano realizzato con successo sistemi turistici fruibili dagli utenti disabili.

E proprio nella giornata di apertura della BETA 2008, sarà consegnato il riconoscimento del “Premio Turismo Italia Accessibile”. La cerimonia di premiazione sarà preceduta dalla tavola rotonda “Il turismo sociale, il turismo per tutti”.

Vale la pena di sottolineare che la BETA è considerata una Borsa molto snella, poco dispersiva e, quindi, operativa. Niente di meglio per riuscire a tirare le somme a fine contrattazione. Infatti coloro che cercano nelle manifestazioni fieristiche reali occasioni di commercializzazione sottolineano i vantaggi dell'esclusione del pubblico per l'intero arco di svolgimento dell'evento. E sono soprattutto gli operatori medio-piccoli a tessere le lodi della BETA perchè è in questa sede che possono cogliere la possibilità di mettersi in luce, occasione che di fatto manca in sedi più grandi e dominate dai grandi nomi.

POLITICA E PSICOLOGIA: JOHN McCAIN E BARACK OBAMA

di Emanuela Medoro

Il settimanale Venerdì di Repubblica del 1 agosto riporta le affermazioni di George Lakoff, notissimo psicolinguista di Berkeley, California, che sostiene quanto segue: “In politica non vince chi punta sulle idee e sui programmi, ma chi sa suscitare un legame fatto di emozioni con gli elettori”, affermazione sulla quale vale la pena soffermarsi a riflettere, a commento dei materiali più recenti messi in circolazione sul web dai maghi della comunicazione che lavorano per i candidati alle presidenziali americane del prossimo novembre. Per chi volesse approfondire questi temi, che vanno ben oltre la discussione su un programma elettorale, rimando alla lettura del libro Political Mind, La Mente Politica, di George Lakoff, disponibile su www.amazon.com

Dunque Barack Obama, candidato del partito democratico, non ancora cinquantenne, ha  un aspetto da star di Hollywood, originale e multiculturale ed  una oratoria chiara ed incisiva, visionaria e dal fascino indiscusso. La sua cultura è  il singolare risultato del “melting pot”, il grande calderone americano che tutto fagocita e trasforma in un processo di continua evoluzione, in lui si uniscono infatti  la cultura dominante dell' elite wasp americana  acquisita nelle  università di Columbia ed Harvard, la sensibilità afro, e le culture della costa ovest. Il gestire  misurato, lo sguardo che si volge sempre in alto e lontano ad indicare mete da raggiungere insieme, suggeriscono energia e danno fiducia ed ottimismo. Egli punta molto, in breve, sul legame emotivo che riesce ad instaurare con gli elettori, proponendosi come un  rassicurante “genitore premuroso.”

Secondo George Lakoff, Barak Obama ha dunque qualche chance di vittoria perché emana serenità, gioia, rettitudine e progettualità, valori primi del sogno nei quali gli americani si identificano profondamente e che vanno ben oltre un semplice programma elettorale, destinato ad evolversi ed a cambiare con il mutare delle situazioni.

John McCain, il candidato del partito repubblicano, proviene da una famiglia di antiche tradizioni militari. Ultrasettantenne, tradizionale e moderato è un  profondo conoscitore della vita del congresso e delle sue regole. 

 Secondo George Lakoff, McCain,con un sorrisetto appena accennato, con i continui richiami alla responsabilità, ai rischi per la sicurezza americana, alla necessità di armare eserciti per prevenire guerre, con un passato di

eroe di una guerra perduta, quella del Vietnam, di sofferenze nella prigionia superate sempre in nome degli interessi primari dell'America, susciterebbe ansia e paura di un futuro fosco e catastrofico nel mondo, paura che  richiede, per essere placata, un “padre severo”.

Non so quanto possano valere queste affermazioni di  George Lakoff.

 Una cosa però è certa, gli americani votano col portafoglio, e  non sognano nel segreto delle cabine elettorali. Questa volta si trovano davanti due candidati, uno che rappresenta una grande novità, ed un altro la tradizione.

Ci sarà dunque una dura battaglia, dopo le conventions di fine agosto, sulla politica fiscale, su quella energetica , sullo stato sociale

e sulla politica estera. Vincerà quello che riesce a persuadere la maggioranza dei votanti di essere il miglior offerente possibile; i sondaggi d'opinione per ora  vedono i due sostanzialmente alla pari.

Dulcis in fundo: un bell'invito a cena da  Bill  Clinton, che ci invita e cenare con sua moglie Hillary, pagando prezzi non proprio per tutte le tasche, per raccogliere i fondi necessari a saldare i debiti contratti per le spese della sua recente campagna elettorale.

NELL’INFERNO DI PALMASOLA, IL CARCERE DI SANTA CRUZ

di Goffredo Palmerini

La proditoria visita di suor Alessandra al Presidente boliviano Sanchez aprì nuove vie alla speranza

SANTA CRUZ (Bolivia) –  Solo nel 1993 suor Alessandra Carosone, missionaria della Dottrina Cristiana, riuscì a rispondere all’insistente voce interiore che la chiamava in Bolivia, dove già da sette anni alcune sue consorelle operavano. Il desiderio le era scoppiato dentro nel 1985, quando all’Aquila - la città capoluogo d’Abruzzo dove lei è nata - aveva ascoltato dalla voce di padre Remo Prandini l’invito alla Congregazione ad aprire una missione in quel Paese. Vari motivi non le avevano consentito di partire con il primo gruppo in quella terra meravigliosa, dove il salesiano bresciano, in pochi anni d’apostolato aveva seminato in sperduto villaggio nella foresta amazzonica - Hardeman - dignità umana, istruzione, progresso civile e tanta fede, prima della sua tragica scomparsa a soli 44 anni d’età. Testimonianza esemplare ed intensa, quella di padre Remo, che stava man mano cambiando il volto di Hardeman, specie dopo la sua morte, attraverso l’opera delle Missionarie che ne avevano raccolto l’eredità, comprese tante vocazioni del luogo. Altre due missioni, intanto, le religiose avevano aperto nella città di Santa Cruz, dal momento del loro arrivo in Bolivia. Una casa d’accoglienza nel barrio Victoria, ed un’altra opera avviata nel ‘90 in una splendida villa in centro città, già dimora di Georges Suarez, detto “Testa di paglia” per via dei capelli chiari, noto narcotrafficante cruceño a quale era stata sequestrata dopo l’arresto e dalla Prefettura affidata per opere sociali proprio alle Missionarie. In questa struttura madre Alessandra cominciò la sua missione verso poveri ed emarginati.

La incontro di domenica, il solo giorno per lei un po’ tranquillo, in questa magnifica villa con parco, piscina e  muro di cinta. All’ingresso l’insegna “Hogar Maria Inmaculada”. Mentre giriamo nella casa - gli arredi firmati da noti stilisti - rimasta tal quale per precisa consegna d’inventario e dove nulla l’autorità consente di cambiare, madre Alessandra mi racconta come il boss avesse celato le attività criminose con una vita “normale”, tenendo persino alcuni cavalli in quell’isola dorata, e come alla polizia non fosse finora riuscito, nonostante le minuziose ricerche, di trovare il “tesoro” del criminale. Ma io non son venuto per ascoltare storie del genere. Voglio invece conoscere la storia di questa religiosa abruzzese, mite all’apparenza, di cui  al contrario so già d’una determinazione e d’un vigore eccezionali. “Incominciai il mio lavoro apostolico - mi dice suor Alessandra – in questa città dove i raggi solari ti bruciano la pelle e i 40 gradi del mezzogiorno ti prostrano, togliendoti fame e sonno. Però, in compenso, gli occhi vivi di tanti bambini, la sofferenza di tanti anziani e l’anelito di tante mamme disperate per gli innumerevoli problemi economici e familiari mi facevano dimenticare le avversità della vita”. Finché un giorno una insegnante non l’invitò a visitare Palmasola, il carcere di Santa Cruz, per portare conforto alle tante persone castigate

prima dalla società e poi da quella vita dannata. “Un’esperienza per me unica - continua suor Alessandra – una realtà inconcepibile, una povertà materiale e spirituale che mette paura. Centinaia di mani tese che

chiedevano aiuto, il volto sofferente di tanti bambini che mi afferravano il vestito per avere un gesto d’affetto e tante altre scene mi tolsero il sonno per giorni, facendo dare alla mia vita una svolta inimmaginabile. Prima di quel fatto mai avrei pensato d’esser in grado di vivere una simile esperienza, tutti i giorni. Da quel momento cominciai a rubare un po’ di tempo alle mie giornate per dedicarlo a loro. Un via vai di persone che vedono morire la speranza fu lo sconvolgente impatto nell’entrare nel carcere di Palmasola”. La struttura “penitenziaria”, se così si può definire, costruita per 500 detenuti, ne ospita quasi quattromila in condizioni disumane. Una volta registrati, entrano in un mondo dove si perdono tutti i diritti.

“ Mi piace raccontare questa mia esperienza di vita – aggiunge la religiosa - perché la sento come una missione straordinaria. Avvicinarsi a queste persone che desiderano prendere una nuova strada e vederle buttate come stracci vecchi aspettando che la “ingiustizia umana” possa un giorno toccare la loro porta, è una realtà dura da accettare. Un giorno chiesi il perché di tanta tristezza ad un giovane di 25 anni. Mi rispose che erano tre anni che stava in carcere, che ancora non riusciva a svegliarsi da quel sonno eterno. Stava ammanettato e seminudo, in una cella di tenebre. Mi rispose: ”Vivo con tre figli e non so che dar loro da mangiare, mia moglie me li ha lasciati come si lascia un sacco di patate e non l’ho più vista”. Come ci si può sentire tranquilli - continua la missionaria - entrando in un carcere dove convivono persone innocenti, ladruncoli e criminali, assassini, sequestratori, spacciatori? Dove si vedono camminare liberamente persone con coltelli, punte di ferro e pistole nascoste nella cintura? Dove drogati, alcolizzati, malati di Aids, tossicodipendenti si avvicinano per chiederti quel pizzico d’amore e di comprensione che da anni non ricevono?”. Già, perché Palmasola è un carcere particolare, dove trafficanti di droga e criminali danarosi si permettono ogni libertà, dal cibo alla sistemazione in alloggi decenti, con visite giornaliere di familiari ed amici. Mentre i poveri disgraziati vi marciscono senza speranza. Delle drammatiche condizioni all’interno di Palmasola ha lasciato in un libro (El carcel) una lucida testimonianza un italiano, Marco Marino Diodato, che vi è stato detenuto cinque anni e ne ha descritto lo squallore, il degrado e la corruzione che vi regna. Diodato, in Italia ex poliziotto dei corpi speciali e paracadutista, emigrato dall’Abruzzo in Bolivia, divenne ufficiale istruttore dell’esercito boliviano. Ben introdotto nel mondo politico, aveva sposato la nipote dell’ex Presidente boliviano Hugo Banzer Suarez. Arrestato nel ’99 e condannato a dieci anni per narcotraffico, nel 2004 si diede alla fuga da una clinica dov’era ricoverato per problemi cardiaci, eludendo la stretta sorveglianza. Ma la sua vicenda giudiziaria - che coinvolse persone di spicco della comunità italiana di Santa Cruz - dai contorni politici controversi, un complesso intrigo internazionale, è ancora tutta da chiarire. Dichiaratosi sempre innocente, tale è ritenuto dall’opinione pubblica boliviana che ha seguito il caso passo passo sui mezzi d’informazione. Dunque, tornando al carcere, ancor peggio si stava quando suor Alessandra vi entrò per la prima volta. Ma da quel lontano 1993 qualcosa cominciò ad illuminare la speranza. Dapprima per i bambini che le donne tenevano in cella e che condividevano una drammatica condizione di detenzione. La prima preoccupazione di suor Alessandra fu rivolta subito a loro, chiedendo alle autorità, poi ottenendo e quindi organizzando una scuola materna per i

più piccoli, poi la primaria per i più grandi. Accompagnato da madre Alessandra anch’io sono entrato nel carcere di Palmasola. Non ho spazio ora per le mie impressioni, sarà per un’altra occasione, anche per raccontare l’incontro con l’unico detenuto italiano.

Negli anni questa tenace missionaria è riuscita, con il credito che si è guadagnato all’interno delle istituzioni boliviane, e grazie agli aiuti giunti dall’Abruzzo e dall’Italia, a mettere in piedi nel carcere di Santa Cruz tutti i cicli di formazione scolastica, fino all’università. Vi studiano i figli dei reclusi, ma anche i detenuti, donne e uomini, coltivando una dignità nuova ed una speranza nel futuro, quando la reclusione avrà termine. Vi insegnano docenti esterni, ma anche – dice suor Alessandra – “detenuti ingegneri, professori e avvocati”. Poi, con legittimo orgoglio, aggiunge: “Quest’anno escono i primi 18 laureati in giurisprudenza dalla nostra sezione universitaria, con laurea regolarmente riconosciuta dallo stato”. Ma non è ancora tutto. La sua preoccupazione, dopo l’infanzia, fu rivolta alle donne detenute, investendo sul loro desiderio di cambiare, di sperare in un futuro per sé e per i propri figli. Soprattutto pensando per loro a laboratori di mestiere. Nel 1994 le venne in soccorso l’approvazione d’un progetto presentato dalla Congregazione alla Conferenza Episcopale Italiana, finanziato con i fondi dell’8 per mille. Il progetto prevedeva l’acquisto di macchinari ed attrezzature per un laboratorio di sartoria e ricamo. Tuttavia, diversi mesi erano passati dall’approvazione del progetto senza però che i numerosi tentativi di suor Alessandra sulle autorità boliviane portassero a far finanziare e realizzare i locali per il laboratorio, con il rischio di veder perso il contributo della Cei. Fu così che in autunno, andando a La Paz per tenere degli esercizi spirituali, suor Alessandra riuscì in un’incredibile quanto proditoria operazione, nel palazzo presidenziale.

Ci vorrebbero molte pagine per descriverla in dettaglio, come me l’ha raccontata. Qui mi limito a riassumerla brevemente, perché non solo illustra l’indomito carattere di questa religiosa, come pure talvolta la fortuna assista gli audaci. Fatto gli è che la suora, con atteggiamento da turista un po’ svagata e digiuna della lingua, fa capire a gesti di voler dare un’occhiata al palazzo presidenziale. Vuoi per l’abito che per l’atteggiamento dimesso, supera il primo livello di sicurezza. Prosegue l’impresa, salendo al piano della residenza presidenziale, dove continua ad alimentare l’equivoco anche alla seconda barriera. Anzi, il servizio di sicurezza la munisce perfino d’un contrassegno di “visitatore” che le consenta di girare nel palazzo. E’ qui che la religiosa inizia a muoversi con perizia, sgusciando tra i posti di blocco della sicurezza fino ad arrivare alla residenza del Presidente della Repubblica. Vi s’infila, accolta da un’esclamazione. E’ la voce di Gonzales Sanchez de Losada - Capo di Stato dal 1993 al ’97 e poi dal 2002 al 2003, Goni per i boliviani - che le chiede: “Madrecita, de donde viene”. E la religiosa: “Signor Presidente, sono italiana, vengo da Santa Cruz dove lavoro nel carcere di Palmasola”. Ella espone dunque al Presidente la ragione che l’ha condotta fin lì, tutte le difficoltà incontrate con le autorità di Santa Cruz per realizzare i locali per il laboratorio, il rischio di perdere gli aiuti dall’Italia per l’acquisto delle attrezzature.

Il Presidente si fa chiamare la Prefettura di Santa Cruz, al telefono si dice sorpreso di quanto sta accadendo per il laboratorio nel carcere. Congeda quindi suor Alessandra, invitandola a recarsi appena possibile agli uffici della Prefettura. Fatto sta che quando lei vi si reca, le porte si spalancano,

i sorrisi si sprecano, le soluzioni subito si trovano. In un mese a Palmasola vengono realizzati i locali per il laboratorio, vi vengono montati gli arredi,  le macchine da cucire e le altre attrezzature intanto acquistate con i fondi della Cei. A gennaio del ’95 la struttura s’inaugura. Da allora, molte donne vi si sono formate. Uscite dal carcere, quel mestiere è stato utile per una vita nuova. Anche molti detenuti hanno poi frequentato altre strutture per imparare un mestiere messe su dalla madrecita italiana che nel carcere gode d’una autorità morale indiscussa  e di forte credibilità. La sua parola è un’assicurazione. Ormai l’autorità carceraria non fa obiezioni, avendone verificato la concretezza. Certo, Palmasola è sempre un carcere con molti e gravi problemi. Ma in questi anni è tanto cambiato da quell’inferno che suor Alessandra vide nel ‘93 quando vi entrò per la prima volta. Se non altro è tornata ad esistervi la speranza, grazie ad una coraggiosa e sorridente missionaria abruzzese.   

PREPARATO / IMPREPARATO

di Emanuela Medoro

Traduco a parola alcune delle più recenti comunicazioni in circolazione sul web, firmate John McCain: Amici, la nostra nazione è di fronte a serie sfide che richiederanno al prossimo presidente capacità di leadership, esperienza e saggezza...io sono  preparato a guidare il paese come prossimo presidente (ready  to lead the country). Sono preparato a rompere la dipendenza dal petrolio straniero,  a combattere per abbassare le tasse, e migliorare le condizioni di lavoro, come Comandante in Capo sono preparato a guidare uomini e donne a servire nell'esercito. Il mio avversario, senatore Obama, semplicemente non è preparato.(not ready)

 Sembra il giudizio impietoso di un professore di liceo per uno studente che ha dato scarsi risultati ai test di verifica. Forse è bene ricordare a questo professore che  per impreparato  intende inesperto,  che John Kennedy e Bill Clinton divennero presidenti alla stessa età di Obama

Sull'impreparazione di Obama ha insistito molto John McCain, con alcuni video diffusi online in questi ultimi tempi. E' diventato famoso quello in cui prima si vede Obama, poi passano rapidamente Paris Hilton e Britney Spears, e la battuta   dice: “E' la più grande celebrità del mondo, ma è pronto a governare? Più tasse, più petrolio straniero, maggiori spese federali, questo è Obama.”

Oppure: Egli può fare un nuovo mondo...ed il mondo vedrà le sue benedizioni...Obama può essere l'uomo del destino, ma è pronto, capace di governare?(Obama may be the one, but is he ready to lead?). Segue firma:Io sono John McCain, ed ho approvato questo messaggio” (I am John McCain, and I have approved this message ), con sorrisetto a fior di labbra.

Ancora: Taxman, ovvero l'uomo delle tasse, Obama vuole aumentare le tasse, aumentare il prezzo della benzina, le spese per la sanità, quindi porterà tutti ad un disastro economico.

Anche se dovunque può esistere un granello di verità, appare evidente che siamo di fronte ad una campagna denigratoria fatta con slogan di forte efficacia,  semplici e comprensibili da tutti.

Le risposte di Obama sono in genere fatte in modo da concentrare l'attenzione piuttosto che sulla sua preparazione sul suo movimento di base, per espanderlo al massimo per quanto ancora possibile. Le accuse di McCain sono considerate ridicole. Nei suoi testi è riportato un

interessante elenco in inglese di aggettivi usati dai giornali per definire questo attacco: wrong, misleading, ugly, offensive, reckless, sbagliato, fuorviante, brutto, offensivo, sconsiderato. Da notare che quest'ultimo aggettivo, reckless, fu usato la prima volta per definire  Obama e le sue proposte sul ritiro delle truppe americane dall'Iraq.

Poi Obama va all'origine degli attacchi, dice senza mezzi termini che si tratta di idee ridicole messe in giro usando i grossi assegni delle lobby di Washington e degli interessi forti del mondo della finanza e dell'economia, petrolio, assicurazioni, banche. Infine mette in relazione le forti spese fatte per macchiare e screditare il suo movimento  con gli sforzi dei suoi sostenitori per costruire i nuovi gruppi e portare alle urne gente che non ci

è mai andata, insomma per allargare la partecipazione alla vita politica, con un movimento dal basso verso l'alto.

A questo proposito ricordo che due mesi fa Obama annunciò la sua rinuncia al finanziamento pubblico della campagna elettorale che gli era dovuto per legge, per prendere le distanze dalla tradizionale politica di Washington. Insomma egli ci sta dicendo una cosa, che la democrazia americana finora è stata solo una oligarchia wasp, un ristretto mondo governato dai bianchi protestanti anglosassoni, in  assenza  di ogni forma di partecipazione da parte di milioni di americani di diversa origine che pur avendo teoricamente  diritto di voto, non lo hanno mai esercitato, poiché si sentono esclusi dall'attività politica.

UN GENDARME DI CAMPAGNA

di Raffaella Santulli

E sì! Persino nella vita dei campi, per antonomasia il luogo della consuetudine, la dannata tecnologia soppianta le tradizioni: veleni, protezioni ad ultrasuoni e quantaltro, hanno decretato la scomparsa del gendarme campestre. Uno scheletro a forma di croce, la muscolatura di paglia o di stracci, il vestito di abiti smessi: lo spaventapasseri.

Tipico prodotto della cultura spontanea, di quella ingegnosità popolare che crea i propri oggetti come risposta ad esigenze vitali e pregni di contenuti simbolici, ora ripresi da Priapo, il dio degli orti, ora dalla religiosità popolana che sempre percepisce un legame tra gli accadimenti terreni ed i voleri del cielo. Lo si vedeva ovunque e dappertutto con lo stesso ruolo: scoraggiare gli uccelli dal saccheggiare i raccolti, ma anche proteggere i campi dalle tempeste e dalle grandinate per garantirne la fertilità.

La sua effigie inquietante e buffa e la collocazione campestre ne ha fatto un personaggio fiabesco, sempre pronto ad animarsi per incutere terrore, per suscitare divertimento o per dare ammaestramenti morali, tanto da frequentare le pagine delle favole più famose.

Ora il totem delle colline non cè più; non lo vedremo più, né più percepiremo il contrasto tra il suo aspetto tutto sommato bonario e la sua obbligatoria cattiveria.

Si sarà mica trasferito in città alla chetichella?!

LO SPOGLIARELLO DELL’ANIMA

di Paola Cerana

Spesso sento un impulso irrefrenabile a scrivere, un’impellenza a svuotarmi dei pensieri che si rincorrono alla rinfusa nella testa. A volte, però, quando accendo il computer eccitata da un’idea, all’improvviso rallento e, di fronte al monitor bianco che mi fissa, mi blocco.

Succede quando mi sforzo di ornare le idee, quando tento di vestirle con parole nuove, di impacchettarle in frasi originali, non consumate. In realtà vorrei semplicemente che i pensieri sgorgassero lì, sul foglio virtuale, che si traducessero senza bisogno di grammatica, struttura e stile, senza inciampare sui tasti e cadere nella convenzione. Vorrei sapermi abbandonare, improvvisare come un musicista jazz impazzito dal ritmo, che cavalca le note senza sapere dove andrà a naufragare. O come un pittore, ipnotizzato dalle tinte surreali che schizzano fuori dal pennello, e che fanno palpitare la tela ad ogni tocco. Ogni volta che comincio a scrivere vorrei liberare un linguaggio carico ma al tempo stesso leggero da far volare. Un orgasmo di parole. Quando scatta la scintilla, all’improvviso decollo, esco dalla palude del foglio bianco e parto. Tutto sta nel cominciare l’avventura senza una meta precisa, cercando di tenere il ritmo dei pensieri, senza pudore e senza timore.

In questo momento, per esempio, mi vengono in mente due cose a proposito dello scrivere e del perché si scrive. La prima è una convinzione e un consiglio di un mio caro Amico, e cioè “se proprio vuoi scrivere cerca di infilare qualche cosa di davvero sorprendente almeno ogni due o tre pagine, qualcosa che spiazzi chi legge, che sconcerti o fulmini, che inviti a riflettere o che diverta pazzescamente! Un aforisma, una frase che basti a se stessa e viva per sempre!” Certo, è uno scherzo per lui che è un maestro di fantasia e immaginazione ma in realtà non è così immediato, almeno per me, e nemmeno così frequente se penso alla quantità enorme di romanzi che spulcio nelle librerie, con la vana speranza di trovarci un arcobaleno al posto del solito bianco e nero.

La seconda cosa che mi balena alla mente me la suggerisce Anais Nin, scrittrice uterina, come le piaceva definirsi. Una volta disse: “Sono i sensi la fonte più ricca della scrittura, e gli strumenti dello scrittore non sono l’inchiostro e la carta ma il suo corpo, la sensibilità dei suoi occhi, delle sue orecchie e del suo cuore. Se sono atrofizzati, non deve più scrivere.” Sono innamorata di questo pensiero. Vorrei saper stringere un nodo tra le

sensazioni e le parole e invitare chi legge a ballare con me, a sentire il profumo della pioggia sulla pelle, regalare le carezze delle onde sui piedi, il solletico del sale sulle labbra e vorrei mostrare di quanti rossi diversi può essere fatto un tramonto. Ecco, vorrei essere capace di far viaggiare a cavallo dei miei sensi. Non semplicemente fornire una cronaca di viaggio ma trasmettere energia, esperienza. E per esperienza non intendo i fatti ma le sensazioni innanzitutto. Se poi un giorno riuscissi anche a infilare nei miei racconti peregrini quella “frase geniale” che spiazza e stupisce, bèh allora farei le capriole dalla gioia e diventerei la prima fan di me

stessa, se non altro perché una volta tanto sarei io a sorprendere il mio caro Amico filosofo, e non lui me!

Senza pretendere tanto nel frattempo scrivo, perché mi fa bene, sperando non faccia troppo male al lettore di passaggio. Questo mi fa venire in mente come sia più facile scrivere pensando di non essere letti da altri. E’ più facile togliersi la maschera. E’ rassicurante, un invito a spogliarsi di tutto senza imbarazzo e a gustare in silenzio la piacevolezza di restare completamente nudi. Diventa un’esperienza liberatoria, addirittura terapeutica. E’ come “creare un mondo tutto mio, un’atmosfera in cui poter respirare, regnare e ricrearmi”, come diceva Anais, parlando dei suoi diari. Ecco, il Diario è il luogo ideale, l’atmosfera in cui all’anima è concesso di spogliarsi e di guardarsi senza veli allo specchio.

L’esuberanza emotiva dei tredici anni mi aveva spinta a riempire pagine e pagine di diari, convinta fossero uno sfogo naturale dei pensieri e un prezioso ricordo per quando sarei invecchiata. Lo facevo anche a scuola durante le ore di lezione, quelle per me insopportabili, come chimica. Ricordo ancora il professore, un omino minuto, con buffi baffi neri all’insù, in pendant con i sopraccigli e i folti capelli ribelli, proprio come quelle formule a me indigeste che lui insegnava. Se avesse portato anche gli occhiali sarebbe sembrato una maschera di carnevale. Mi era simpatico e io dovevo essere simpatica a lui, evidentemente, visto che fingeva sempre di non accorgersi del mio trafficare sotto il banco tra fogli e libri assolutamente estranei alla sua materia. Una mattina, nel bel mezzo della lezione, mi si piantò davanti con fare serio, tanto da sembrarmi più alto del solito, e tuonò su di me: “Cosa legge di bello oggi signorina?” Tirai un sospiro di sollievo quando intercettai la sua espressione benevola, sotto i baffi che sembravano sorridere alle mie divagazioni. Oggi penso che forse, segretamente, avrebbe voluto insegnare letteratura, chissà!

Non so più cosa stessi leggendo in quell’occasione ma sotto il banco tenevo sempre il mio diario e il libro dell’autore di turno, quello che di volta in volta aveva più da dirmi. Negli anni mi hanno fatto compagnia Freud e Fromm, Sartre e Camus, Hesse e Kafka. E anche loro sono in qualche modo entrati nei miei diari, contagiando i miei pensieri, perché così come il nostro corpo è fatto di quel che mangiamo, allo stesso modo la nostra mente assimila tutto ciò che leggiamo, anche se prima o poi ci sembra di dimenticare. E purtroppo in parte è così, dimentichiamo, ma

resta un’impronta indelebile che scolpisce i nostri pensieri, così come le proteine accrescono i muscoli.

Ricordo che più leggevo, più scrivevo e viceversa, senza il rischio di impantanarmi. Quello che rimpiango di allora è la spontaneità, l’onestà della scrittura, come risposta a un istinto primordiale piuttosto che ad una necessità estetica. Non oso pensare a quel che avrei scritto in quegli anni se sotto al banco, al posto di Fromm o Camus, avessi nascosto il Marchese De Sade o Henry Miller!

Ho continuato a raccontare le mie esperienze e i miei panorami emotivi per anni e ora voglio ricominciare a raccogliere i ricordi e condirli dei sapori che col tempo ho imparato ad apprezzare, nutriti da una consapevolezza e una sicurezza in me stessa che non ho mai posseduto prima. Non voglio farmi sfuggire niente, voglio assorbire la realtà con tutto quello che può darmi e trascenderla, andare oltre il ricordo, oltre il presente, impastare le immagini della mia mente con le vibrazioni del mio cuore prima che i miei sensi si atrofizzino e io inaridisca senza avere niente più da dire. E mi riprometto di farlo con la stessa purezza di

linguaggio che usavo da giovane, convinta che la semplice spontaneità sia un buon antidoto contro la monotonia e la noia. E semmai mi sentissi smarrita davanti al foglio bianco che mi interroga, cercherò di sorridere e mi prenderò un po’ in giro, ricorrendo all’ironia, filosofia necessaria, come Qualcuno mi ha insegnato, a consolarmi di ciò che non sono e soprattutto di Quello che non ho né mai avrò.

Forse è vero che l’indole non si cambia ma credo possa essere educata. Perciò spero di regalare alla me stessa vecchia un lungo, lunghissimo Diario che comincio da ora. Pagine ricche di passione, di stimoli e di energia che la possano incantare ed emozionare fino all’ultimo sorso, stemperate qua e là da uno spruzzo di buon senso e saggezza che la facciano riflettere su quanto è bella la vita e convincerla che sarebbe stato un delitto rinunciare a raccontarla.

Naturalmente spero possa divertirsi a leggerlo il più tardi possibile!

FUOCHI SENZA FRONTIERE

di Paola Cerana

Da bambina dicevo a me stessa che una volta cresciuta avrei sicuramente sposato uno Svizzero! E non certo per interessi materiali. Piuttosto perché sono sempre stata esterofila e ho sempre avuto fretta di imparare altre lingue per comunicare con chi non conosceva la mia. Così, cercando già allora di conciliare sogni e realtà, immaginavo che la Svizzera, per il suo collage di culture e per la sua vicinanza geografica, fosse un buon compromesso per le mie ambizioni sentimentali. Non è andata così alla fine, forse perché non ho incontrato lo Svizzero giusto, ma ancora oggi appena oltrepasso il confine e approdo in Ticino sto bene e mi sento a casa in questo crocevia di idiomi, dialetti e tradizioni tanto diverse tra loro.

Il 1° agosto del 1291 è considerata la data di nascita della Svizzera. Quel giorno, infatti, i rappresentanti dei tre Cantoni alpini, Svitto, Unterlvaldo e Uri, si incontrarono sul bel prato del Grütli, affacciato sul Lago di Lucerna, per giurare fedeltà alla Confederazione, con l’impegno di reciproco soccorso nel caso di minacce di aggressori stranieri, primi fra tutti gli Asburgo.

Dal 1891 il primo di agosto è stato riconosciuto ufficialmente Festa nazionale della Svizzera, che nel frattempo si è suddivisa in 26 Cantoni, diversi tra loro per lingua, densità di popolazione e conformazione geografica. Questa frammentazione potrebbe anche non essere definitiva, perché ancora oggi alcuni cittadini chiedono la fusione di certi Cantoni e vi sono comuni che vorrebbero addirittura cambiare Cantone. Quindi parlare di Festa nazionale può far sorridere ma trovo sia un buon pretesto per mettere da parte, almeno per un giorno, differenze e antagonismi e unirsi tutti sotto lo stesso cielo, che per l’occasione si trasforma in un tumulto di luci e colori.

Sì, perché oltre alle adunate pubbliche convenzionali e ai discorsi formali dei rappresentanti politici, è tradizione che il primo di agosto in tutta la Svizzera si sparino botti e fuochi d’artificio in grande stile. E questa usanza, al di là della sua spettacolarità, ha un suo significato storico. Infatti, secondo una leggenda del Cantone di Ginevra, per secoli è sopravvissuta l’abitudine di accendere grandi falò sulle colline e sulle montagne in tutto il territorio elvetico, di modo che i riflessi delle luci sui laghi spaventassero e mettessero in fuga le orde di barbari intenzionati a conquistare le tribù svizzere.

Effettivamente il gioco di specchi che l’acqua offre al cielo illuminato, la prima notte d’agosto, mi incanta ogni volta. Tutti con il naso all’insù, alle 22.30 in punto: dalle piazze austere delle grandi città, ai paesini di

montagna appollaiati tra i pascoli, fino alla quiete accogliente delle sponde dei laghi. E sempre la tradizione vuole che quest’esplosione di allegria sia attesa per tutta la giornata con gaudenti grigliate nei grotti, le tipiche trattorie ticinesi, tra fiumi di birra e concerti che mescolano piacevolmente nell’aria sapori, suoni e voglia di divertirsi.

Lugano si veste di rosso quel giorno. Dai bianchi balconi di Piazza Riforma, immancabilmente ricamati di gerani, la bandiera nazionale saluta la città, donandole un aspetto svolazzante e ridente che sembra voler far dispetto al suo solito impeccabile ordine. Il lungolago, che sbocca tra i giardini di Parco Ciani, si anima di volti e voci, in un cocktail di idiomi che sconfina dal tedesco all’inglese, dal portoghese al russo, dallo spagnolo al cinese. Almeno per le lingue non ci sono frontiere e mescolandosi tra la folla pare che tutti siano d’accordo sulla voglia di sorridere e dimenticare distanze e appartenenze. Così Lugano ringiovanisce e mi sembra più simpatica quando mette da parte la sua immagine abituale fatta di banche, casinò, gioiellerie e night club, e offre invece la sua anima più semplice.

Ma non è solo la città che si trasforma. Ogni lido organizza la sua festa e già nel pomeriggio la quiete e il silenzio, che di solito qui regnano,  vengono stravolti da musica e canti di ogni genere, che si accavallano e giocano a rincorrersi con la loro stessa eco. Il lago solitamente immobile, su cui scivolo silenziosa al tramonto con il kayak, e che si sveglia al ronzio pigro delle barche dei pescatori, si popola all’improvviso di battelli carichi di turisti e di grossi motoscafi in attesa di gettare l’ancora per gustarsi i fuochi in prima fila. Questo è in effetti il modo migliore per godersi lo spettacolo, sia per evitare le lunghe code in auto e la gara per accaparrarsi un parcheggio, sia perché è una vera emozione trovarsi a fior d’acqua, direttamente sotto una pioggia di luci infuocate che paiono voler spegnersi su di te. E per chi non avesse la fortuna di farsi cullare da un motoscafo ci sono sempre i pedalò che, come minuscole coccinelle, svolazzano qua e là tra le luci ammiccanti gialle e verdi delle barche più grandi.

Quest’anno un violento temporale ha rubato la scena allo spettacolo pirotecnico, cogliendo di sorpresa la folla intirizzita con una raffica di grandine. Ma la notte successiva tutto è andato secondo il copione, anzi devo dire che i fuochi sembravano ancora più belli dopo quell’attesa: un tripudio di rosso e bianco, a rievocare i colori nazionali. Non mi abituerò mai all’emozione che ogni volta provo davanti a quella cascata luminosa e all’esplosione che rimbomba ad ogni lancio dentro il mio petto, come a incitare il mio cuore a battere più forte.

E’ Campione d’Italia ad anticipare la festa con due settimane di anticipo, come una sorta di gentile omaggio al territorio che la accoglie. Il clima che si respira qui è completamente diverso rispetto a quello di Lugano: niente birra ma champagne, niente grigliate di salsicce ma ostriche a lume di candela, non rock e pop ma musica classica. Proprio la musica ha un ruolo fondamentale a Campione in quest’occasione, perché accompagna tutta l’esplosione dei fuochi.    

E’ come assistere a una danza di luci e colori, proiettata in un teatro stellato sull’onda di un’orchestra invisibile. La colonna sonora è una carezza che rende l’atmosfera ancora più suggestiva e per un attimo restituisce alla piccola enclave tutto il suo fascino, calando un sipario di poesia sul nuovo Casinò, quell’inguardabile scatola di cemento che incombe grigia sul lago e che somiglia più ad una prigione, quasi a voler rinchiudere paradossalmente il vizio in clausura.

L’indomani, a ricordare la festa, restano solo le zattere da dove si son sparati i fuochi, insieme alle solite immancabili polemiche sull’inquinamento e sulle spese, ritenute da molti eccessive per uno spettacolo che in pochi minuti finisce in fumo. Gabbiani e anatre, cigni e aironi cenerini tornano ad essere padroni indisturbati del loro regno, che cambia colore con l’umore del tempo. Il silenzio e la quiete restituiscono al lago il suo ritmo immobile, mentre le città si arrendono alla frenesia di ogni giorno, trasfigurate dai fiumi d’auto diligentemente in coda come tante formiche.

Insomma, se il mio sogno di bambina di trovare uno Svizzero che mi facesse provare i fuochi d’artificio non s’è avverato, poco male, perché quelli che accende per me ogni giorno un mio connazionale sono impareggiabili! Mi resta comunque il piacere di venire qui, a godere della pace e delle emozioni che questo piccolo paradiso a due passi da casa sempre mi regala.

La Svizzera è anche questo! 

UNA QUESTIONE DI STILE

di Emanuela Medoro

Tante notizie si affollano in questa settimana di convention democratica, a Denver. Mi concentro su alcuni punti salienti ed incomincio con un episodio narrato su un comunicato online di “Obama for America”.

 Ad un giornalista che gli chiedeva quante case ha, McCain, confuso, ha chiesto di rivolgersi al suo staff. Non solo ha problemi nel tenere il conto delle sue case, ma considerando i prezzi del petrolio alle stelle, la crisi dei mutui, e milioni di persone senza assistenza medica, dice che l'economia è forte. Inoltre McCain ha detto che uno che guadagna meno di 5 milioni di dollari l'anno non può considerarsi ricco. Come può  rendersi conto dei problemi della classe media?

Obama si concentra  in  uno sforzo per  recuperare i voti di quel 15% di classe media bianca tradizionalmente appartenente al partito democratico che a suo tempo ha votato per Hillary, e che  nei sondaggi risulta voler votare per McCain. Dunque, all'interno del suo Progetto per il Cambiamento (Blueprint for Change), che chiunque può consultare online, presenta un piano per tagliare le tasse delle famiglie delle classi medie  di 1000 dollari l'anno ed offre agli studenti universitari che fanno volontariato nelle comunità uno sconto di 4.000 dollari delle tasse annuali. Inoltre Obama vuole che i salari minimi salgano secondo il tasso d'inflazione reale, mentre McCain ha votato 19 volte contro gli aumenti dei salari minimi.

Un altro comunicato online diffuso da John McCain, all'indomani del Saddleback Civil Forum, dell'incontro/scontro televisivo dei due candidati, racconta che John McCain ha dato risposte franche, chiare, sicure su tutti gli argomenti proposti, nelle migliori tradizioni del partito repubblicano. È stato pragmatico, conservatore e dei valori di libertà dei padri fondatori degli USA, e dei valori della sua famiglia, di tradizioni militari risalenti al tempo di George Washington.  Lo stesso comunicato afferma che, nel corso dell'incontro, Obama ha dato, invece, delle risposte vaghe ed imprecise, dunque poco affidabili. Merita un commento quest'affermazione.

Quest'uomo di colore, il nonno pastore nella savana del Kenia, il padre nero trasferitosi e laureatosi negli USA, la madre americana bianca, descritto da Mario Cuomo come dotato di una intelligenza non comune,  per primo nella storia degli USA sfida la oligarchia dominante wasp, bianca, anglosassone e protestante, ed usa, semplicemente, un modo di esprimersi diverso, onirico e suggestivo, perché diverse sono la sua cultura, la sua formazione e la sua sensibilità.

Profondamente americano, famiglia impeccabile, moglie professionista e due figlie, è un  figlio del melting pot, dell'America dell'emigrazione recente, di gente che ci arriva piena di speranza per una vita migliore per  sé e per i suoi figli. Come Arturo Bandini, il personaggio di John Fante che ringrazia il padre per averlo fatto nascere in America anziché in Abruzzo  a Torricella Peligna, anch'egli, a modo suo, sta ringraziando il padre per averlo fatto nascere in America, anziché in un villaggio del Kenia.

Ripropone così il sogno di un'America migliore che fu di John Kennedy e Martin Luther King. Il sogno di un'America dove finalmente cadano le

mura di cristallo, durissime, invisibili e finora infrangibili, che dividono gli appartenenti alle diverse etnie. 

Ted Kennedy, il vecchio leone del partito democratico, presente alla convention di Denver nonostante sia gravemente malato, con poche e semplici parole che hanno commosso le migliaia di persone presenti, ha voluto indicare Barack Obama come l'unico vero erede di John Kennedy, in una sorta di testamento che indica il futuro politico  del partito democratico americano.

 Il prescelto per la vicepresidenza, il senatore Joe Biden, bianco, cattolico, occhi chiari,(elemento di grande rilevanza, in una elezione in cui etnia e  colore della pelle valgono più di tante promesse), esperto di politica estera, compensa un punto debole di Obama, ritenuto poco preparato in politica estera. Come cattolico, inoltre, Joe Biden è rassicurante per la massa di milioni di americani di origine ispanica, anch'essi  determinanti  in queste elezioni. Straordinarie, proprio per la mossa del partito democratico, che ha lanciato due candidati nuovi, una donna  bianca e bionda ed un uomo nero. La sfida tra loro due ha provocato fratture all'interno del partito democratico, da superare, subito, ci sono solo due mesi di tempo per farlo.

CHIESTO IL REFERENDUM SULLA SCUOLA MATERNA

di Flavio Perrone

La precedente amministrazione comunale ( sindaco Grisolia ), dopo la chiusura da parte dell’ufficio competente di una classe della scuola materna statale per penuria di materia prima ( bambini frequentanti), deliberò la soppressione della scuola materna dell’Ente ( a partire dalla fine dell’anno scolastico 07/ 08 ), con conseguente mobilità del personale. Che sicuramente non gradì, visto che il posto di lavoro lo si vuole in genere nel comune di residenza e possibilmente sotto casa.

Il provvedimento di soppressione, oltre che esente da vizi di legittimità, era del tutto conforme ai criteri di merito amministrativo ( utilità, opportunità, convenienza ) e non fu sospeso dal TAR, per asserita insufficienza del fumus boni iuris nel ricorso proposto da soggetti legittimati.

L’attuale amministrazione comunale ha deliberato la riapertura della scuola, memore forse della secca risposta data da un sindaco dell’ultimo decennio del secolo scorso al compianto esponente di AN prof. Marco Alberti che propugnava la chiusura: “Scuole a Mormanno non se ne chiudono”.

 Adesso più di 800 cittadini hanno formalmente chiesto il referendum sulla riapertura, il quale per statuto va indetto. Ma il sindaco, nell’ultima riunione del consiglio, ha comunicato che per il referendum occorrono l’emanazione del regolamento che ne disciplini l’indizione e lo svolgimento e una spesa di duecentomila euro.

Quasi come a dire: scordatevelo.

A nostro parere l’amministrazione comunale potrebbe evitare regolamento e spesa in un modo semplicissimo: revocando la delibera di riapertura, che costituisce un esempio di tracotante irragionevolezza e di sperpero del pubblico denaro ( il contributo dei genitori è praticamente simbolico ) e forse anche il pagamento di una cambiale elettorale puntualmente presentata all’incasso.

Ma la revoca è un noumeno.

SPAGHETTI BASTIANO

di Elisabetta Coniglio

Luglio 2008 il mio amico Sebastiano mi ha stupita con una ricetta semplice e estremamente gustosa.

Premessa: gli ingredienti sono stati colti dal mio orto quindi tutti genuini e assolutamente biologici vi invito pertanto a scegliere ingredienti di prima qualità per permettervi di ottenere lo stesso gusto incantevole.

Ringrazio Sebastiano per avermi autorizzata a porgervi questo delizioso primo piatto.

Ingredienti:

Zucchina lunga 1

Fagiolini verdi 8

Basilico  5 foglie medie

Fiori di zucca ­6 ­

Cipolla rosata 1 media                                                                                                            Pomodoro 1

Olio di oliva

Sale

Peperoncino

Procedimento:

In una padella col doppio fondo friggere separatamente tutte le verdure tagliate a pezzetti a fuoco lento in modo da non abbrustolirle ma di renderle cotte e tenere.

Mischiarle tutte in una ultima cottura in cui aggiungiamo sale e peperoncino a sufficienza; a questo punto frullare il tutto creando un composto cremoso.

Fatto ciò cucinate al dente i vostri spaghetti e uniteli dopo averli ben scolati a questa salsa ortolana untuosa.

Buon Appetito!

UMANITA’ DOLENTE !

di Francesco Rinaldi

Rientro da un viaggio di lavoro, come spesso mi accade, tra Professori, Università e prestigiose controversie; e me ne sto, qui, con i miei abiti sartoriali, rannicchiato in un sudicio e puzzolente posticino, nell’altrettanto lurido treno metropolitano regionale che dal binario tronco n. 2 della stazione di Salerno mi porterà – spero sano e salvo e con indosso i miei indumenti – nelle diverse stazioni metropolitane di Napoli, per poi proseguire sino a Formia.

Cerco ogni magia in grado di rendermi astratto dal contesto in cui mi trovo, ma è impossibile !

Dinanzi a me vi è un continuo, incessante via vai di gente triste, infelice, sudicia ed arrabbiata.

Cerco, allora, di volgere lo sguardo altrove, in direzione del finestrino in plexiglass: peggio che andar di notte !

Mi si profila innanzi un paesaggio drammaticamente devastato, da  era post-atomica e mi chiedo – puerilmente – con quale termine i miei antenati definirebbero tale scenario apocalittico. Sicuramente eliminerebbero l’aggettivo felix.

Certo, questa non è la bella, nobile Campania dipinta nei quadri di Pitloo, Gigante, Palizzi, Casciaro ed altri celebri pittori della Scuola di Posillipo e del ‘900 napoletano; quella dei ricchi e dei privilegiati che – forse come me – rimarrebbero sconcertati da simile contesto, e dubito che molti ne siano a conoscenza o siano in grado di immaginarlo.

Di fianco a me cinque zingari, tutti a piedi scalzi: due giovani donne sudice, che in altro contesto e con diversi indumenti non esiterei a definire belle e graziose, con i loro tre figli neonati. Tirano fuori da una logora borsa marrone pannolini, calzini, ciabatte, cibo in scatoletta, pane e spiccioli, probabilmente elemosinati.

E’ uno spettacolo straziante e provo vergogna per me stesso, per il mio sguardo che è un misto di compassione, disgusto e disprezzo: due mondi incomunicabili si incontrano, senza alcuna comprensione l’uno dell’altro !

Uno dei neonati, biondo dagli occhi celesti, mi sfiora con la sua manina, mentre io, guardandolo, mi chiedo quale sarà mai il suo futuro e se mai l’avrà !

E’ un incredibile viaggio attraverso una umanità che soffre intensamente, che, senza anestetici e con indifferenza, sembra di ciò passivamente consapevole: una umanità dolente !

BERLINO: BARACK OBAMA E JOHN MCCAIN

di Emanuela Medoro

Il 24 luglio 2008 Barack Obama ha tenuto un comizio a Berlino, applaudito come una grande star, nonostante parlasse in inglese ad un pubblico tedesco. Il testo del comizio, parlato e scritto, è stato diffuso online e ne riporto brevemente il contenuto.

 Nel corso del testo ci sono due frasi che si ripetono:People of the world, look at Berlin! (Gente del mondo, guarda Berlino!), This is the moment when (questo è il momento in cui..),  frasi che sostengono ed organizzano l'analisi della storia e le proposte elettorali attuali, pronunciate con incisiva semplicità, e straordinaria efficacia comunicativa.

Obama parte da una testimonianza personale, dalle sue origini. E' figlio di una donna americana e di un uomo keniota, figlio di un pastore di capre, a sua volta figlio di uno che è stato domestico dei colonialisti inglesi. Il padre, poi, si è recato negli Stati Uniti, ed ha studiato in una università, in cerca di libertà e di prosperità. Ed è  quella ricerca, quel sogno, che, secondo Obama, ha sempre ispirato il  popolo occidentale negli ultimi sessant'anni, a partire dal giorno in cui, americani e tedeschi, dopo essersi combattuti sui campi di battaglia, hanno incominciato a collaborare.

Ripercorre poi la drammatica storia di Berlino, dal 1945 al 1989, anno della caduta del famigerato muro che la divideva in zone di occupazione. E come allora cadde quel muro, oggi, sottolinea Obama, non possono esistere mura a dividere i paesi che hanno di più da quelli che hanno di meno, fra etnie diverse, fra cristiani, musulmani ed ebrei.

A questa idea forte collega tutti i punti del suo programma: smantellare le reti del terrorismo, dovunque, soprattutto in Afghanistan, dove questo è  collegato al narcotraffico, ridurre gli armamenti nucleari, con speciale attenzione all' Iran, crescere la ricchezza creata da mercati aperti, e distribuirla equamente, salvare il pianeta, tendere una mano a quelli che vivono negli angoli dimenticati del mondo, difendere i diritti civili.  

Nel sito di John McCain si trovano commenti a questo comizio, secondo lui, Barack Obama ha solo elogiato con elegante eloquenza il sistema americano, le idee ed i sogni che ne ispirarono la nascita ed ancora oggi lo sostengono, ma, mentre John McCain ha dedicato  tutta la vita a servire migliorare e proteggere quel sistema, Obama ha solamente passato un pomeriggio a parlarne.

Inoltre, in un altro video, i repubblicani notano che i media sono affascinati dalla personalità di Barack Obama, quasi ne fossero innamorati, e concludono che se non fosse una cosa seria, sarebbe proprio buffo.

Lo stesso sito riporta l'editoriale del Wall Street Journal, che  mette in relazione il discorso che R. Reagan tenne a Berlino nel giugno del 1987 con questo di Obama. Allora, ricorda l'articolo, il messaggio dell'oratore era: “Mr. Gorbachev, butta giù questo muro”, esortazione che fu commentata come provocatoria, e guerrafondaia, e 100.000 persone marciarono a Bonn per protestare contro Reagan. Però due anni dopo il muro di Berlino cadde. L'articolo conclude dicendo che il discorso di Reagan fu una lezione sulla differenza fra la popolarità e l'arte di governo e dimostra che il prossimo candidato del partito democratico deve ancora

lavorare molto per rassicurare gli elettori sulla  sua capacità di saggezza di governo, elettori che decideranno il ballottaggio di Novembre.

Quanto alla campagna elettorale, è da segnalare lo sforzo organizzativo del partito democratico per la Convention del 28 agosto, in cui Obama accetterà ufficialmente la nomina non solo dai grandi elettori del partito, ma all'aperto di fronte ad un pubblico di 75.000 persone, in uno stadio di Denver.

I SAPORI DEL MARE PROTAGONISTI A FANO

di Angelo Lo Rizzo

Dal 19 al 21 settembre torna il Festival del Brodetto di Pesce

Alla sesta edizione del Festival Internazionale del Brodetto di Pesce che, come di consueto, si svolgerà a Fano quest’anno per la prima volta nella splendida cornice della Rocca Malatestiana, magnifico esempio di architettura difensiva, parteciperanno, in rappresentanza di tutte le regioni costiere italiane, ben sedici Chef, selezionati da un’apposita, severa, commissione.

Soltanto le Marche saranno presenti con due cuochi, in quanto la città di Fano partecipa di diritto. Giungeranno, pertanto, dall’Abruzzo il ristorante “Beccaceci” di Giulianova, dalla Basilicata “Villa Cheta” di Maratea, dalla Calabria “La Brace” di Catanzaro Lido, dalla Campania “Rossellini” di Ravello, dall’Emilia-Romagna “Lido-Lido” di Cesenatico, dal Friuli-Venezia Giulia “Androna” di Grado, dal Lazio “Il Convivio Troiani” di Roma, dalla Liguria “Locanda delle Tamerici” di Fiumaretta-Ameglia, dal Molise “ZìBass” di Termoli, dalla Puglia “Antica cucina” di Barletta, dalla Sicilia “Hotel Tartaruga” di Capo d’Orlando, dalla Sardegna “Hotel Club Casablanca” di Arzachena, dalla Toscana “Grand Hotel Principe di Piemonte” di Viareggio, dal Veneto “L’antica Osteria da Cera” Lughetto di Campania Lupia, dalle Marche “Uliassi” di Senigallia e “Casa Nolfi” di Fano.

Quest’anno sono differenti le modalità con cui i ristoranti si contenderanno il titolo di vincitore: nessuna gara ad eliminazione diretta, ma un campionato “all’italiana” durante il quale le 16 zuppe saranno presentate a gruppi di quattro fra venerdì 19 e sabato 20 settembre: vincerà quella che avrà conquistato il punteggio più alto della giuria composta da qualificati giornalisti.

Contemporaneamente si svolgerà il Campionato dei Vini da zuppa di pesce, durante il quale si confronteranno vini provenienti da varie parti d’Italia, di fronte a profumati piatti di pesce, per scoprire quale sia il migliore abbinamento.

ASIAGO: MARIO RIGONI STERN

di Elena Pozzan

Un tumulo di terra nuda. Una croce in legno di larice. Una scritta: “Mario Rigoni Stern + 16.06.08.

In fondo al lungo viale, fra doppie file di cipressi centenari, si apre il cancello del cimitero di Asiago, circondato dai portici con le arcate delle tombe di famiglia.

Nel mezzo del camposanto sono invece allineati i feretri e le lapidi di quanti hanno scelto l’inumazione. Qui l’attenzione del visitatore è attratta da una selva di fiori multicolori, gli stessi che crescono spontanei sui prati, le colline, i sottoboschi, le rocce di tutto l’Altopiano dei sette Comuni: dai bucaneve alle genziane, dai ciclamini alle stelle alpine, dalle bacche di ginepro agli arbusti di mirtillo, dalle more ai talassici, gialli come il miele di primavera.

E’ questa l’ultima dimora dello scrittore asiaghese Mario Rigoni Stern, spirato a 86 anni, dopo breve malattia, nella casa che abitava con moglie e figli, nella frazione omonima, vicino all’aeroporto, proprio dove era nato il 1 novembre 1921, trascorrendo l’infanzia tra i pastori e la poca gente di montagna, superstite della prima guerra mondiale 1915-18. Montanari che governavano gli orti e qualche mucca; per prendere qualche lira magari facevano i “recuperanti”: rischiavano la vita, per le esplosioni, mentre cercavano, nelle trincee italiane ed austriache scavate nella roccia, depositi di bombe inesplose, o grandi schegge di granate, pezzi di cannoni o di armi, elmetti, borracce. . . per “recuperare” metalli da vendere alle fonderie. Sui “recuperanti” Rigoni Stern scrisse uno dei suoi libri, dal quale trasse un famoso film il suo amico bergamasco Ermanni Olmi (regista anche de “L’albero degli zoccoli”): con Olmi, Rigoni Stern ricevette, all’Università Bocconi di Milano nel 2003, un riconoscimento dalle mani del Presidente Carlo Azeglio Ciampi.

Ma il fatto che segnò la sua vita accadde nel 1942, durante la seconda guerra mondiale. Era entrato nella Scuola Militare di alpinismo di Aosta ed andò nel Battaglione Vestone sul fronte francese e poi su quello greco – albanese. Pochi mesi, poi subito sul fronte russo: la disfatta dell’Amir (armata italiana in Russia) accerchiata nell’ansa del Don, chiusa dal fiume Donez, nella tormenta di neve, contro il fuoco delle artiglierie russe, a piedi, senza rifornimenti; scene strazianti, indescrivibili. Il sergente Rigoni Stern portò in salvo i 70 alpini del suo plotone, scalzi, congelati, denutriti, disarmati, appiedati! Allorché l’Italia aveva firmato l’armistizio, dai tedeschi fu internato nella Prussia orientale. E’ ritornato a casa, a piedi con mezzi di fortuna, il 5 maggio 1945, salendo ad Asiago col trenino a cremagliera. “Sottufficiale di alti sentimenti”, la sua condotta in Russia gli valse una medaglia d’argento al valor militare. Dalle sue memorie scrisse il primo libro “Il sergente nella neve” (Elio Vittoriani lo pubblica presso I Gettoni di Enaudi Edit.) che presto diventa un classico della letteratura moderna italiana.

Da una ventina di pubblicazioni emerge “Il bosco degli urogalli” (Neri Pozza Ed., 1962), la storia di un gallo cedrone (frequentissimi sull’altopiano) ferito, che arranca sino a sprofondare in un burrone

irraggiungibile, negando il trofeo al cacciatore: Geno Pampaloni nella presentazione lo accosta ai racconti di Hemingway.

Da ricordare anche la “Storia di Tonle”, 1978 (premio Campiello e premio Bautta), forse il suo libro più bello, che racconta la vita difficile e povera del pastore e contrabbandiere che s’incrocia con la tragedia della prima guerra mondiale che sconvolge l’altopiano.

Va detto anche che nel 1996 il nome di Mario Rigoni Stern è stato dato all’asteroide 128II scoperto ad Asiago nell’osservatorio astrofisica dell’Università di Padova. Ricordiamo le sue ultime apparizioni in pubblico; nel 2007 all’Università di Genova ha ricevuto la laurea honoris causa in scienze politiche. E poi a RAI 3, ospite di Fabio Fazio a “Che tempo fa”, dove ha raccontato di aver ricevuto da San Pietroburgo (allora Leningrado) la lettera di un uomo che, avendo letto “Il sergente nella neve”, tradotto in russo, scriveva: “So chi mi ha sparato nella notte del 26 maggio a NiKolajewka. Ma per fortuna siamo vivi tutti e due”.

Ma, citando un suo libro, si può dire che “L’ultima partita a carte” l’ha vinta davanti alle telecamere de “La 7” (2,8 milioni di telespettatori) nella cava di Zovencedo, magnifico teatro naturale sui Colli Berici di Vicenza, dove l’attore Marco Paolini, ha letto le più belle pagine di “Il sergente nella neve”, intervistandolo alla fine tra il pubblico accanto al commilitone Nelson Cenci.

EVENTI MORMANNESI FERRAGOSTANI

Di Giorgio Rinaldi

Quest’anno non c’era molta gente, non tanti mormannesi emigrati sono rientrati al natio borgo.

La sera di “Ferragosto”, al tradizionale concerto bandistico in piazza, c’erano la metà, o forse meno, delle persone normalmente presenti.

Il tempo, però, è stato più che clemente ed il soggiorno piacevole.

Molti i giovani in giro, anche con una gran voglia di eventi, soprattutto culturali.

La Compagnia del Cucco, teatranti in erba ma di grande spessore artistico, ha timidamente dato corso ad una serata avente a scenario un suggestivo “vicinanzu murmannolu” – ‘u chiazzili -  con letture di poesie – anche del nostro Francesco M.T. Tarantino - , brani letterari, musiche a tema, odori che si sprigionavano da piante sparse tutte intorno e assaggi di frutti, ortaggi e bevande.

Un ottimo mix tra l’antico teatro greco di Eschilo e quello moderno d’avanguardia, con qualche guizzo di originalità.

Oltre alle obsolete ed inutili manifestazioni canore con vecchi arnesi dello spettacolo che tentano di riciclarsi in serate di sagre paesane degne di un’italietta oramai scomparsa, le giornate sono state allietate soprattutto dalle manifestazioni organizzate dal gruppo folcloristico “Miromagnum”.

Questa associazione è riuscita a fare di Mormanno un punto di riferimento del folclore internazionale, offrendo –inoltre- la possibilità di conoscere gruppi di tutto il mondo di fama internazionale, e di ciò bisogna dargliene atto e il dovuto merito.

Alla leggerezza di tali iniziative si sono aggiunte altre di ribalta ed omaggio agli emigranti e di presentazioni di fatiche letterarie di mormannesi e non.

In particolare, il prof. Domenico Crea ha presentato una sua opera sulla storia di Mormanno e il prof. Gennarino Cavaliere un suo libro di ricordi sulla gioventù mormannese di una volta.

Quest’ultima presentazione ha visto il nostro prof. Gino Paternostro coordinare amabilmente e con rara competenza tutta la manifestazione, che prevedeva anche l’ascolto di brani d’epoca registrati e l’esecuzione dal vivo di altri.

In modo del tutto inaspettato, anche il famoso giornalista Marco Travaglio, accompagnato dal giudice Ingroia, ha presentato a Mormanno  il suo ultimo libro “Bavaglio”.

Di tale ghiotta occasione culturale bisogna dare merito a Piero Sola il quale –da Palermo, ove abita e lavora- è riuscito a portare sulle nostre montagne prima (la cui escursione ha visto l’ausilio dell’ottima guida Luigi Perrone), e in paese poi, questi due “big” che quotidianamente occupano le pagine dei giornali.

Il Presidente del Parco Nazionale del Pollino, on. Pappaterra, si è prodigato nel mettere a proprio agio gli ospiti, ed il Sindaco Armentano alla fine ha consegnato un ricordo di Mormanno al giornalista Travaglio.

Inutile dire che Travaglio, come un novello Orbilius, il terribile maestro di Platone, ha bacchettato tutti, e le Autorità presenti – obtorto collo-   hanno dovuto fare il classico buon viso e cattivo gioco.

Ma, alla fine, non può non sottolinearsi, è stato dato un buon esempio di grande democrazia, premiando ed applaudendo anche chi era contro di te.

L’opposizione politica, invece, ha accusato Presidente e Sindaco di ingenuità ed opportunismo, indicando, contraddittoriamente, Travaglio come un giornalista di sinistra (è nota, invece, la collocazione  del giornalista in area  di destra….se ancora certi schemi possano utilizzarsi).

Di certo è che sono da privilegiasi i fatti e non le intenzioni, sicchè certe polemiche risultano infine avere il sapore dei classici confetti al rosolio.

Una lettura, o rilettura, del “Candido” di Voltaire non farebbe certo male e, magari, per le prossime feste d’agosto 2009 si potrebbe organizzare un bel simposio, o seminario, o conferenza, o che so altro, proprio sul punto…

Aspettiamo, senza fiducia.

PENSIERI D’AGOSTO DALLA COSTA D’AVORIO

di Pietro Iovenitti

Il 1 luglio scorso il prezzo di un chilo di riso é schizzato da 250 franchi a 400, mentre quello della benzina da 550 franchi a 750, quando in Costa d’Avorio il salario medio giornaliero di un operaio si aggira attorno a 3,5 euro pari a 2.300 franchi, corrispondenti quindi a circa 105 euro mensili. A conti fatti è come se in Italia la benzina aumentasse di colpo di 3 euro al litro. Un’enormità!

Negli stessi giorni sono aumentati anche il prezzo dell’olio, della farina e di tutti gli altri prodotti di prima necessità. Come reazione a questa impennata sono scesi in piazza non i consumatori, ma i trasportatori e tra quest’ultimi la quasi totalità dei conducenti di taxi e bus. Infatti, per tutta una lunghissima settimana dal 14 al 21 luglio, Abidjan si è svuotata dei quasi 10.000 taxi cittadini di color arancione, dei 5.000 taxi di quartiere chiamati wôro-wôro e dei centinaia di mini-bus a 15 posti denominati gbaka che avevano già proposto un aumento delle loro tariffe di 150 franchi come risposta al rialzo dei prezzi. Tale sciopero ha paralizzato completamente la città creando enormi disagi alla maggior parte della popolazione che non possiede mezzi di trasporto privati. Nei quartieri periferici di Abobo e Yopougon la tensione ha sfiorato lo scontro e quei pochi taxi che avevano deciso di lavorare sono stati presi di mira dagli scioperanti. Dopo 7 giorni di tira e molla tra i rappresentanti del governo e i sindacati dei trasportatori il Presidente della Repubblica ha annunciato una serie di provvedimenti. L’aumento del prezzo del carburante è stato ridotto da 200 a 100 franchi, il rimborso che normalmente lo stato versa ai dipendenti pubblici per le spese di trasporto è stato triplicato e il salario dei ministri è stato dimezzato. Lunedì 21 luglio le strade di Abidjan si sono di nuovo riempite dei tantissimi taxi e bus strombazzanti e inquinanti.

Chi ci ha rimesso di più per lo sciopero dei mezzi di trasporto sono stati ancora una volta i più poveri e tra questi soprattutto chi aveva bisogno di spostarsi per necessità o per urgenza.

Un esempio di tale disagio lo abbiamo vissuto in ospedale. Una giovane donna di 22 anni, gravida all’ottavo mese, si era ricoverata presso il nostro dipartimento la notte del terzo giorno di sciopero. La diagnosi era stata agevole visto il colore cadaverico del suo viso e il pallore estremo della sua lingua e delle congiuntive. Un emocromo aveva confermato la diagnosi di anemia severa con un valore incredibile di emoglobina pari a 2,5g/dL, quando si parla di anemia gestazionale già sotto i 10g/dL. La patologia richiedeva una trasfusione d’urgenza con diverse sacche di sangue. Il problema era però come e dove prendere questo sangue. La nostra banca del sangue, interna all’ospedale, ne era sprovvista  e la banca del sangue di Abidjan, l’unica della zona, non poteva rifornire quasi nessuno per lo scarseggiare dei donatori, la quasi totalità studenti che in quel periodo erano in ferie. E poi il blocco totale dei trasporti che impediva sia a noi che ai parenti della malata di spostarsi per andare a cercare del sangue. Eravamo impotenti di fronte alla donna che pian piano si spegneva. Abbiamo proposto ai parenti di trasferirla in un grande ospedale di Abidjan, ma loro avevano preferito tenerla da noi certi che lì non avrebbero potuto fare di meglio per la loro figlia. La donna è sopravvissuta 4 giorni interi con valori di emoglobina vicini alla morte e alla fine dello sciopero abbiamo potuto finalmente rimediare qualche sacca di sangue e trasfonderla.

Il caro-vita di cui si parla tanto da noi qui in Africa sta divenendo un caro-morte. I salari sono sempre gli stessi, il costo dei beni di sussistenza aumenta giorno dopo giorno e i poveri diventano sempre più poveri. Diceva qualcuno che non c’è limite al peggio e forse aveva ragione!

Mentre da noi chi vuole risparmiare può rinunciare alla pizza del sabato sera, al cinema o alle scarpe firmate, qui in Africa chi vuole risparmiare deve decidere se mangiare solo a pranzo oppure a cena, se morire per una banale malaria o comperare un pacchetto di compresse per salvarsi la pelle.

Siamo al fondo del mondo, al buio dell’umanità e cerchiamo di prendere qualcuno per i capelli e tirarlo su. C’è chi dice che noi qui in Africa non possiamo cambiare il mondo, che tutto quello che facciamo è tempo perso, ma sono convinto che non è così. Soltanto dare la speranza, assistere migliaia di donne che partoriscono vuol dire essere utili a qualcuno. Meglio a qualcuno che a nessuno!

Buone vacanze.

piero.iove@yahoo.it

(00225) 09209351 (cell. Costa d’Avorio)

ASSOCIAZIONE PROGETTO AFRIQUE

www.progettoafrique.org

Presidente: Prof. Gaspare Carta
segreteria.afrique@yahoo.it
c/c bancario n. 133854    Carispaq di Avezzano (AQ)
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Intestato a:
Associazione Progetto Afrique

VACANZE IN VILLA SULLA RIVIERA DEL BRENTA

A DUE PASSI DA VENEZIA

di Angelo Lo Rizzo

Sono in aumento le persone che per lasciarsi alle spalle la città scelgono un’immersione totale nel verde. Ritorno alla natura, come ritorno al passato, una vita senza rumore e senza stress. Un modo per conoscere il territorio partendo dalla gente che lì vive e lavora, per apprezzarne i prodotti genuini. Esiste un mutamento della domanda turistica che, sempre più, va orientandosi verso la ricerca del contatto con la natura. Non dimentichiamo, però, che provengono dalla città, un mondo dove esistono TV, telefoni, ascensori ed altre cose di cui dicono di voler fare a meno, ma da cui – in effetti – sono  condizionati. Bisogna, quindi, avere l’accortezza di conciliare i due mondi: il mondo agricolo e queste esigenze! _______________________________________________________________________________________________________________________________    Un’opportunità , in questo senso, è offerta ora da Villa Pastori, situata nel Comune di Mira, sulla Riviera del Brenta, a 20 km da Venezia e 22 km da Padova, entrambe facilmente raggiungibili con mezzi pubblici e privati.

Si tratta di una zona dove a partire dal 1400 sono state costruite dai nobili veneziani splendide residenze di campagna, comunemente note come “Ville Venete”, lungo la Riviera del Brenta, che veniva utilizzata come via d’acqua per gli spostamenti fra Venezia e la campagna.

Villa Pastori è, appunto, un bell’esempio di Villa Veneta del 700, costituito da un corpo centrale e da altri due edifici con portico, le cosiddette “barchesse”, dove sono stati ricavati quattro lussuosi ed accoglienti appartamenti che hanno forma e dimensioni diverse, ciascuno dotato di ingresso proprio. Sono inoltre dotati di riscaldamento autonomo e di aria condizionata.

Soggiornando in questi appartamenti è possibile, naturalmente, effettuare interessanti escursioni in bicicletta, oppure spostarsi con auto propria  nella vicina Venezia o Padova, oppure ancora – e forse meglio – raggiungere queste località con i mezzi pubblici, ossia autobus, treno o vaporetto.

Info: info@villapastori.it – fax 06/45498426.

TORTORA

di Luigi Paternostro

La cittadina è posta a 300 metri s/m.

E' un paese d'antichissima origine e civiltà.

Alcuni scrittori lo fanno risalire ai Peucezii o agli Enotri, altri ai Lucani107, che occuparono il territorio     tra la fine del V e gl’inizi del VI secolo.

Nell’area del colle Palecastro che oggi, grazie alla vincente collaborazione tra l’Amministrazione comunale, la Soprintendenza ai Beni Archeologici della Calabria  e le Università di Pisa e Messina, va sempre più assumendo una grande importanza archeologica, vi furono insediamenti di varie etnie, a cominciare dagli enotri, e dai lucani per finire ai romani che dopo la I guerra punica, sul precedente abbandonato insediamento lucano, fondarono la città di Blanda Julia, citata da Tito Livio e da Plinio. Proprio qui una recente campagna di scavi ha messo in luce un’area forense, tre edifici templari, un probabile Capitolium oltre a materiale ceramico vario e laterizio col marchio di tale Marco Arrio.

Nonostante la mancanza di notizie certe, Blanda fu una città vitale e nei secoli bui del medioevo anche sede vescovile.

Dopo una scrittura del 743  in cui è ricordata la presenza del vescovo Gaudioso al sinodo romano indetto da Papa Zaccaria, la vicenda di Blanda rimane avvolta nel mistero.

La tradizione popolare vuole che Tortora insieme a Battaglia e Tortorella fossero d’origine blandana.

Di Tortora si parla per la prima volta in epoca normanna quando la cittadina compare tra i centri aggregati alla ricostituita sede vescovile di Policastro Bussentino.

Numerosi i documenti che si riferiscono però al periodo angioino109.

Nel 1284 troviamo la cittadina infeudata dai Lauria che la tennero fino al 1496 quando Ferdinando II d’Aragona, detto il Cattolico, ne fece dono a tale Giovanni De Montibus.

Qualche decennio più tardi il possedimento passò ai Martirano, poi agli Osorio-Exarque, 1565, ed infine ai Ravaschieri, 1602 che ne mantennero il possesso fino al 1692, anno in cui un tale Gennaro Sacco tabulario110 fece l’inventario dei beni su commissione della regia Ca­mera Summaria di Napoli. Nel 1695 troviamo ccme nuovo proprietario tale Don Diego Vitale.

Dopo alterne vicende fra Baroni vari e Camera Regia attese alla nomina di chi dovesse reggere il paese, nel 1707 riappare come feudatario tale Don Diego Vitale. La sua dinastia governò Tortora per tutto il secolo fino a Don

Alessandro che nel 1821 lasciò erede universale la giovane e piacente consorte Donna Carmela Bonito.

Dopo tre anni la vedova sposò Don Ferdinando de Varga Machuca, conte di Porto e principe di Casapesenna.

Numerose furono in seguito le liti e i contenziosi tra il Comune e i feudatari.

Dal 1800 ai nostri giorni la cittadina seguì prima tutte le traversie che travagliarono il regno di Napoli e poi la storia nazionale.

Sono da ricordare la peste del 1650111 ed una violenta e mortale epidemia di colera scoppiata nel 1837.

Nel settembre del 1860, Giuseppe Garibaldi fu a Tortora e insignì don Biagio Maceri della carica di capitano della Guardia Nazionale.

Per tornare alla ricerca archeologica112 diciamo che a Rosaneto è stato trovato un giacimento che contiene strumenti del paleolitico inferiore databili tra i 200 e i 150 mila anni fa e che nella grotta di

Torre della Nave sono venute in luce industrie litiche e numerose ossa riconducibili al paleolitico medio.

Nella zona di S. Brancato, oltre a reperti risalenti al II secolo a.C., tra il 1991 e il 1995 sono state trovate 38 tombe databili tra la metà del VI e quella del V secolo a.C.

Nel 1991 è stata rinvenuta una significativa iscrizione paleo italica su pietra con scrittura bustrofedica che contiene probabilmente o una legge sacra o un documento politico.

Nella stessa zona, nel settembre del 1999, è venuta in luce una struttura risalente alla prima epoca bizantina, VI-VII secolo d.C., consistente in una piccola basilica con tre absidi circon­data da sepolture.

In questo ultimi anni mi sono recato più volte a Tortora sia per confrontare il linguaggio mormannese con la parlata locale e sia per visitare e conoscere meglio la città.

In questo itinerario piacevole ed esaltante mi hanno accompagnato due cari amici: Biagio Moliterni113 e Michele Cozza114.

In loro compagnia ho ritrovato un pittore mormannese, Genesio Galtieri, ammirando de visu i suoi cinque115 affreschi che de­corano l’abside ed il presbiterio della chiesa parrocchiale di San Pietro. Nella stessa erano dipinti sul soffitto a stuoia della na­vata abbattuto negli anni cinquanta altre tre sue composi­zioni116 di cui si hanno le foto in bianco e nero fatte scattare dal parroco pro tempore don Francesco Donadio da Castrovillari prima dell’inizio dei lavori di restauro.

Da antiche scritture apprendo che per le cinque composizioni eseguite nella chiesa di San Pietro il Galtieri “à posto di tempo dalli 10 febbraio per fino a 7 agosto 1769 e che per tale incombenza “gli sono stati corrisposti in uno (cioè in totale) ducati 18 per il lavoro e ducati cinque per spese cibarie pari ducati 23.Dello stesso pittore ho poi scoperto un Mosè salvato dalle acque del Nilo in un affresco del soffitto del palazzo Lomonaco Melazzi e un olio su tela raffigurante San Michele che scaccia con la spada il demonio ora appartenente ad un privato che mi ha chiesto silenzioso riserbo.

Quest’opera è simile ad un affresco che trovasi a Mormanno sul soffitto a botte della chiesa del Suffragio datato 1777 e firmato dall’autore.

Dopo S. Pietro giungiamo alla cappella del Purgatorio posta proprio nel cuore del paese.

La mia attenzione è attratta dal suo portale che, come annotava l’insigne studioso e storico dell’arte professor Biagio Cappelli, è un importante documento per la conoscenza della storia dell’arte medievale in Calabria.

L’opera che accoglie elementi lombardi propri delle correnti romaniche dell’Italia settentrionale, reminiscenze longobarde, influenze bizantine e mussulmane, rientra nel filone di una scultura rozza e grossolana dell’epoca normanna in auge nei grandi monasteri del versante ionico e può, come arte locale, de­finirsi basiliano calabrese a dimostrazione che la regione conti­nuò anche in pieno medio evo a svolgere quella funzione media­trice d’idee e di contatti tra l’Occidente e l’Oriente avuta per tutti i secoli dell’antichità117.

La porta è poggiata su due massi di calcare grigio rettangolari su ciascuno dei quali è scolpito a rilievo un leone che guarda l’altro urlando.

Usurato e danneggiato è il leone di sinistra, meglio conservato quello di destra.

Da ognuna di queste basi si ele­vano non raffinati pilastri di cui un ornato con una voluta a spirale simile ad una foglia corinzia.

Più in alto su ciascuno dei capitelli è scolpita a rilievo una foglia a quattro lobi.

Sull’arco a tutto sesto racchiusi in sei formelle, sono rappresentati, appiat­titi, e da sinistra a destra, un drago alato, un secondo drago, uno scorpione, serpi alate, leoni sovrastati da fiori e da ultimo due animali fantastici intorno ad un albero, che potrebbe raffi­gurare quello del Paradiso Terrestre.

Nel suo genere è l’unico portale esistente sul versante tirrenico della Calabria a fronte di altri numerosi che si trovano su quello ionico118 giunto a Tortora, probabilmente, dalla distruzione o spoliazione di qualche monastero della regione del Mercurion.

All’interno una tela posta sul soffitto mostra la Madonna del Carmine acclamata da anime purganti.

Saliamo poi in località Capo le Scale. Sul posto sorgeva originariamente una chiesa nota col nome di “Santa Maria” inglo­bata poi nel convento dei Frati Minori Osservanti francescani che vennero a stabilirsi a Tortora e da essi riconsacrata e dedicata alla Vergine Annunziata. Sul poggio spira una brezza leggera che attutisce la calura estiva.

Da un terrazzo delimitato da un’inferriata si vede tutta la cittadina. Entriamo nella chiesa dell’Annunziata. Pri­vata dall’antico splendore del barocco, si vedono stucchi cadenti, archi e colonne corrose dall’umidità, altari spogli. Il solitario silenzio è rotto dal volo di un moscone che alla fine va a cadere in una ben tessuta ragnatela. Nel coro svetta un trono ligneo di stile barocco costruito come un polittico databile al 1600 al cui centro è poggiata la statua di una Madonna con Bambino del 1500.

Tale simulacro che potrebbe pervenire da Santa Maria è di proporzioni maggiori e mal si adatta alla nicchia in cui è inserito. Sia l’una che l’altra scultura non sono quindi coeve né provengono da una stessa bottega.

Inseriti in altrettanti riquadri intagliati vi sono cinque oli su tela. In alto, al centro, è dipinta e ben conservata un’Annunciazione. In un frontone triangolare esterno vediamo lo stesso soggetto affrescato sulla porta d’ingresso. A sinistra di chi guarda verso l’altare e dall’alto in basso troviamo San Giovanni Battista giovane e un imprecisato Santo francescano. A destra, nella stessa disposizione, San Giuseppe con il Bambino Gesù e più sotto un altro Santo francescano.

La passeggiata prosegue con la visita alla Cappella di Mater Domini che si trova sutta li grutti ai piedi cioè dello sperone roccioso su cui sorge la parte più antica del paese. La costruzione di questa chiesa, una delle prime se non forse la più antica, è da attribuire ai monaci basiliani che tra il X e l’XI secolo introdussero a Tortora il culto della Vergine “Odigitria”, ossia della “Madonna che accompagna nel cammino”

Dopo uno sguardo al Palazzo ducale ed una sosta al ben curato Museo Archeologico sito nei locali del Palazzo di Casape­senna, con l’incancellabile visione degli archi, dei portali, delle stradine linde e pulite, dei balconi fioriti e dei sorrisi gentili delle persone incontrate, lascio la cittadina ove spero di ritornare per riassaporare e godere quell’introvabile sapore delle cose.

In dialetto Tùrtura turturìsi i suoi abitanti.

 

FARONOTIZIE.IT  - Anno III - n° 28, Settembre 2008

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107 Sono venuti in luce ultimamente  terrazzamenti di probabile epoca lucana databili tra il IV e III secolo a.C.

109 Vedi un rescritto reale datato 1267 che conferma un certo Rinaldo Cifone  come possessore di Tortora, noto anche come Rinaldo di Tortora.

110 Voce dotta dal latino tabula cioè documento. Qui significa archivista statale

111 Tale fu la mortalità, (A. Fulco, opera citata in bibliografia) che si riempì di cadaveri d’appestati l’artistica cisterna del centro del chiostro del Convento

112 Vedi Nella Terra degli Enotri Edizioni Pandemos 1999. ATTI DEL CONVEGNO DI STUDI DI TORTORA 18-19 APRILE 1998 a cura di G. F. La Torre e A. Colicelli.

113 Ragioniere, appassionato di storia e archeologia locale.

114 Insegnante valoroso e impegnato, attento e rispettoso cultore delle tradizioni che ha rese vive con scritti soprattutto didattici, attualmente ricopre  degnamente la carica di Assessore alla cultura al Comune di Tortora.

115 Sposalizio della Vergine, San Biagio, patrono della cittadina, Davide con l’arpa, Santa Cecilia, la Consegna delle chiavi che Cristo fa a S. Pietro.

116 Il Trionfo di Giuditta, la Presentazione della testa di San Giovanni Battista, la Decapitazione di San Gennaro. Su Genesio Galtieri e la sua opera vedi il mio Uomini, tradizioni, vita e costumi di Mormanno pag. 16 e segg.  Edizione Phasar Firenze anno 2000.

117 Tra il IX e il X secolo d.C. giunsero in Calabria, provenienti dalla Siria e dall’Egitto da dove fuggivano a seguito dell’invasione musulmana, monaci orientali appartenenti a classi elevate, legati a tradizioni culturali ellenistiche. Sulla costa ionica, su aree che ancora conservavano vivo l’idioma di lingua greca fondarono monasteri che si distinsero per l’autorità religiosa e per il pregio dato all’arte (vedi il codex purpureus di Rossano).

Tra i monasteri più importanti ricordo il Patirion a pochi km. ad ovest di Rossano, il San Giovanni di Stilo, il San Bartolomeo di Sinopoli, il San Filareto di Seminara. Nella vallata del Lao e nel Bruzio più interno la loro diaspora li indusse a creare aggruppamenti noti con il nome di Mercurion   (vedi gli studi fatti da B. Cappelli).

118 Battistero di Santa Severina, Chiesa di S. Adriano a San Demetrio Corone, chiesa del Monastero di San Salvatore a Messina.

               Patirion  interno                       Le tre caratteristiche absidi

Anche a Rossano,  nella Chiesa del Patirion fondata tra il 1101 ed il 1105, vi sono numerosi bacini marmorei con sculture appiattite di evidente influenza bizantina e mussulmana.