FARONOTIZIE.IT  - Anno III - n° 26, Giugno 2008

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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi

 

 

QUANDO IL DIAVOLO T’ACCAREZZA…

Editoriale del Direttore  Giorgio Rinaldi

 

Anni fa si inneggiò ad una grande vittoria politica e sindacale  per essere stata introdotta in Italia la CIG, la cassa integrazione guadagni, un istituto che mirava a salvaguardare i salari dei lavoratori nei momenti di crisi delle aziende, prevenendo un possibile licenziamento.

 

Con una piccola, apparentemente  microscopica, dimenticanza: i costi dei salari erogati ai lavoratori non sarebbero ricaduti sulle imprese, sul padronato, bensì sull’intera Collettività.

 

Come al solito, tutti noi avremmo pagato (e lo abbiamo fatto e lo facciamo !) i costi che spettavano, invece, alle aziende.

 

Quando c’era da incassare, incassava ed incassa il solo imprenditore, quando c’era e c’è da pagare pagano, invece, tutti gli italiani!

 

Guadagno garantito per le imprese a rischio ZERO !!!

 

I furbacchioni che governavano all’epoca, e che oggi –seppur con casacca diversa o per protesi ereditaria- ancora alloggiano nella “stanza dei bottoni”, anziché istituire un fondo alimentato con i denari delle imprese, ovvero prevedere un prestito da parte dello Stato che poi l’azienda avrebbe dovuto restituire una volta ristabilitesi le condizioni di floridità economica, pensarono bene di accollare tutto sulle spalle dei contribuenti.

 

Nel clima di euforia sindacale del tempo, venne abolito, di fatto,  il rischio aziendale, ovvero l’unica ragione che in qualche modo giustificasse il profitto.

 

Un fatto epocale.

 

Il carezzevole cacciatore aveva usato una trappola sopraffina.

 

Oggi, in un clima surreale  di pericolosa letargia mentale generale, con un Governo che è diviso da grandissima parte dell’opposizione da appena…un’ombra, si varano provvedimenti di straordinaria importanza in assenza di ogni serio dibattito, dovuto studio, necessaria analisi.

 

 

Vediamone qualcuno:

 

1) Detassazione degli straordinari.

 

A chi giova ?

 

Quante ore di straordinario potranno mai fare i lavoratori per assicurarsi un buon guadagno con la porzione detassata?

 

Di certo, però, con quel po’ di ore straordinarie che qualcuno sarà invogliato a fare, le imprese potranno ben rinunciare ad assumere altri lavoratori, che sarebbero costati ben più di qualche ora di straordinario.

 

E così, un apparente guadagno, diventerà un costo per tutti noi che dovremmo mantenere in qualche modo dei cittadini disoccupati, a tacere il mancato gettito fiscale da mancati stipendi di mancati assunti.

 

2) Dagli allo zingaro.

 

Gli zingari non sono amati (per usare un eufemismo), si sa.

 

Neppure Hitler li amava (per usare un eufemismo).

 

E, fanno di tutto per non esserlo (senza eufemismi).

 

Ma, per chi non lo sapesse, o fa finta di non saperlo, o pensa che noi abitanti del Belpaese siamo “tutti brave gente”,  gli italiani ovunque sono andati hanno lasciato il segno, ovviamente negativo, per decenni e decenni.

 

Negli  sud degli Stati Uniti, la parte geografica più razzista al mondo nei confronti dei negri, gli italiani erano considerati “quasi-negri”.

 

Nel nord degli USA  ogni italiano era considerato un mafioso, un delinquente, e non c’era emigrato italiano che non portasse in tasca un coltello.

 

In Egitto e in Turchia i bordelli erano riforniti solo da prostitute italiane.

In altre parti del mondo gli italiani erano famosi perché si vendevano i figli.

 

Eppure ci siamo battuti con forza per far cadere il pregiudizio, per dimostrare che qualche mela marcia non poteva gettare ombre su tutto il frutteto.

 

Ancora, è bene dirlo,  non ci siamo riusciti del tutto…

 

In una situazione di insicurezza generale, più psicologica che reale, ci scateniamo nella caccia allo zingaro, al romeno (magari confondendo i Rom –che sono solo una componente del popolo zingaro- con i Romeni…), agli albanesi, ai marocchini…, accusando queste comunità di immigrati, nella loro generalità, di ogni nefandezza.

 

Il problema centrale, verosimilmente, è - la mancanza di regole condivise tra chi c’è e chi arriva.

 

Ogni comunità, grande o piccola che sia, si dà delle regole, che ogni membro conosce ed osserva.

Chi si mette fuori da queste regole, o le viola, o ne crea delle altre alternative, non è ritenuto degno di far parte di quella comunità.

Ecco, allora,  che i “diversi” creano –inevitabilmente-  un senso di ansia, di insicurezza, di accerchiamento nei membri di quella comunità.

 

Le tensioni sociali si creano così sia all’interno della comunità, sia all’esterno.

Una città, ad esempio, oltre che essere fatta di cemento, è fatta di abitudini, di tradizioni, di consuetudini, di cibi, di bevande, di riti che gli abitanti consumano, in una parola: identità cittadina.

Se chi arriva in una città, magari medio-piccola, dalla forte connotazione identitaria, porta intere le sue liturgie senza armonizzarle con l’ambiente circostante, è inevitabile il conflitto.  

 

Moltiplichiamo i numeri e l’effetto sarà dirompente.

 

Quella piazza che tradizionalmente vedeva i mediatori far stringere affari ai mercanti, oggi è invasa da tamburi africani;

quel  bar ove si celebravano le vittorie della squadra locale è diventato il capolinea di giocatori d’azzardo;

quel parco deputato agli incontri sentimentali di giovani coppie è ricettacolo di disperati ubriachi  extraunionitari, e così via.

L’identità è persa, l’insofferenza e l’intolleranza avanzano…

 

Il passo per la xenofobia è breve.

 

Poi, se le sanzioni non vengono equamente applicate, ovvero le regole eluse con diversa considerazione a seconda delle persone o dei luoghi, la strada al razzismo si apre…

 

Tu lasci l’auto mezzo minuto in doppia fila e il carrattrezzi –implacabile- te la porta via.

Un gruppo di extraunionitari fa i suoi bisogni corporali tranquillamente sul famoso monumento, e la macchina dei vigili sfreccia senza neanche un accenno a fermarsi….

Tu hai appena ridipinto le finestre con una prima mano di giallo ocra, perché il giallo osso di seppia arriverà tra una settimana, in tempo però per la prevista seconda mano, e poco ci manca che il Sindaco ti faccia deportare nella Siberia Orientale.

 

Accendi la TV e vedi interi paesi del sud Italia le cui case sono da decenni degli scheletri, soli pilastri senza pareti, oppure rappezzate di mattoni senza intonaci, nella quasi totalità costruite abusivamente. E, nessuno mai dice nulla.

Entri nella “zona a traffico limitato” 10 secondi dopo che il divieto è iniziato e ti sequestrano la moto.

Poi, vai in vacanza in una qualche stazione balneare e vedi motorini con conducente senza casco e tre passeggeri incastrati in 50 cm di spazio che girano…sotto l’occhio volutamente distratto di chi il codice della strada dovrebbe farlo rispettare.

 

Si accendono i rancori, l’egoismo fa capolino, l’odio si affaccia per chi la fa franca, per i furbi che vivono “con i nostri soldi” ecc., ecc.

 

E, si spiegano certe vittorie elettorali, e –di più- certe sconfitte di chi è incapace di fare un minimo di analisi sociale, prima ancora che politica.

 

Nella melassa politica di questi giorni, vediamo l’opposizione artatamente “coinvolta” nelle “grandi” scelte politiche:

se i risultati saranno positivi, aveva ragione il Governo che le ha proposte, se saranno negativi, l’opposizione non potrà  certamente criticare ciò a cui ha partecipato !!!

 

Ma, carezzando-carezzando, chissà che non si raggiunga il più alto Colle di Roma.

 

lntanto, lasciano a dir poco sgomenti le immagini di aggressioni da parte di gruppi di cittadini con bombe incendiarie ad una intera comunità, la stigmatizzazione etnica, i pestaggi premeditati di  bande armate adoranti simboli di passate sanguinarie dittature, le ronde di cittadini aspiranti vice-sceriffi…

 

Non impareremo mai la lezione ?

 

 

 

A JOHN E ALLA SUA FAMIGLIA

di Joseph Simionato

 

 

 

Innumerevoli libri e fiumi di parole stampate sono stati scritti per descrivere, o meglio, tentare di descrivere i veri e propri padroni della terra australiana e la loro storia.

Gli aborigeni. Abitanti di questa terra da almeno 40,000 anni.

Ho avuto la fortuna di essere vicino a questa meravigliosa gente per più di dieci anni, frequentandoli sia sul lavoro, che socialmente, e, senza nessuna pretesa, voglio condividere piccoli e semplici fatti personali che mi hanno affascinato di questo meraviglioso popolo sperando cosi di ripagare in parte quell’amicizia, fiducia e ospitalità nonché di posti visti e racconti che non molti bianchi hanno avuto modo di vedere o farne esperienza, ma che mi vennero a me donate durante il tempo che ho speso a Port Hedland e dintorni generosità e semplicità di spirito.

 

Centocinquanta anni fa, gli aborigeni del west, nord-west, centro e nord-est australiano, e duecento anni per il sud-est australiano, hanno per la prima volta nella loro esistenza, conosciuto l’uomo bianco.

Prima d’allora, essi sono praticamente vissuti alla stessa, identica maniera per gli ultimi quarantamila anni, la loro maniera di coprirsi, cacciare e il loro sistema sociale e’ rimasto intatto per tutto questo tempo.

 

Gli aborigeni non hanno mai avuto l’alfabeto, la carta per scrivere, case, agricoltura con granai per i tempi difficili, non conoscevano la ruota, ne i cavalli, non facevano la guerra e non si sono mai curati di sviluppare ne il ferro ne il bronzo.

Basilarmente sono sempre stati un popolo nomade di cacciatori che vivevano in piccoli gruppi e senza nemici in una terra che a prima vista sembrò inospitale ai colonizzatori ma per gli aborigeni era ed e’ ancora una terra che permise la loro razza di vivere indisturbati e felici per decine di migliaia di anni.

Uno potrebbe argomentare a questo punto che solo dei selvaggi non riuscirebbero a fare dei passi avanti in quarantamila anni, ma e’ proprio questo il punto, non ne hanno mai avuto bisogno!

I loro bimbi venivano allevati da tutto il gruppo, le donne raccoglievano i frutti della terra e del bosco, gli uomini cacciavano e pescavano in gruppo e i vecchi si assicuravano di scegliere con cura i successori che avrebbero tramandato la loro storia e saggezza nonché la storia della loro gente.

 

Alla fine della giornata il gruppo si riuniva davanti al fuoco comune e dopo mangiato, gli anziani usualmente raccontavano le loro leggende. Leggende che si perdevano nell’oscurità dei tempi e tramandate da centinaia di generazioni.

Queste leggende sono chiamate il “Dream-time”.

Dreamtime letteralmente tradotto sarebbe  “tempo di sogni”, ma nel nostro caso, la vera interpretazione aborigena e’ la seguente: la parola tempo si riferisce a “ Storia del tempo prima del tempo”, oppure “Il tempo della creazione di tutte le cose” e Dream  si riferisce alle cose spirituali a cui gli aborigeni credono.

 

Gli aborigeni raccontano che gli spiriti dei loro stessi antenati scesero dal cielo per la prima volta all’inizio del tempo, e camminarono sulla terra prendendo forme umane, forme di animali, forme di montagne, di fiumi etc. e ogni volta che si fermavano nel loro “walkabout” (vagabondaggio), creavano altri fiumi, altri animali, altra gente, altre montagne etc, e tutto venne creato nella loro immagine e nella forma che vediamo oggi.

 

Gli spiriti stabilirono pure le relazioni tra i gruppi, sia gruppi di gente o gruppi diversi di animali, la relazione tra il fuoco e l’acqua e per tutto il resto della creazione, (dettero vita e coscienza al tutto).

Poi quando gli spiriti ebbero finito la creazione, essi si trasformarono nelle montagne, fiumi, stelle, sole, terra e tutto quello che erano diventati alla loro discesa sulla terra e rimasero cosi per sempre e cosi rimarranno per sempre.

 

Per gli aborigeni, il passato per quanto remoto sia ( inclusi i tempi della creazione), e’ vivente adesso ed ora in questo momento, ed e’necessario che sia cosi per la vita stessa di tutto il cosmo, e tutto rimarrà cosi sempre vivo in futuro fino alla fine dei tempi.

Quindi gli aborigeni raccontano che gli spiriti dei loro antenati sono ancora vivi e presenti tra di noi e sempre lo saranno.

 

Lo stesso per le cose della creazione, per esempio quando un gruppo di aborigeni aveva vissuto per un dato periodo in un certo territorio, lo avevano fatto senza sbilanciare il delicato equilibrio della creazione, cercando di non spostare nulla e cercando di fare il meno danno possibile, e cercando di prendere dal territorio solo lo stretto necessario per vivere.

Inevitabilmente, tale territorio prima o dopo, veniva a mancare degli stretti necessari, come cacciagione, pesci o tuberi. A questo gli aborigeni semplicemente rispondevano ritornando il tutto il più possibile come l’avevano trovato inclusa la posizione dei sassi, e cambiavano zona dimodoché la “madre terra” potesse “guarire” i danni da loro causati, e in tempo poter cosi ospitare un’altro gruppo. In questo sistema vissero per quaranta mila anni. 

Bah, chiamali selvaggi!

Dal casino che noi bianchi siamo riusciti a fare alla nostra “madre terra”, c’e’ da essere fortunati che la terra stessa non ci abbia ancora preso a pedate nel sedere.

 

A proposito di selvaggi, John ( cosi lo chiamerò per rispetto al suo desiderio) e’ uno dei più grandi amici io abbia mai avuto. John e’ aborigeno nato e cresciuto per quasi tutta la sua vita nella remota regione del Pilbara.

La mamma di John, una dolcissima donna, non conosce i propri genitori perchè lei stessa era parte del famoso e vergognoso progetto colonialistico di integrazione che cercava di trasformare la razza aborigena in una razza bianca mediante una serie progressiva di incroci matrimoniali con i coloni bianchi, e a questo scopo bambine e bambini di tenera età da tre a circa otto anni, venivano portati via, letteralmente tolti anche con la forza mediante le forze dell’ordine, dalle famiglie aborigene e portati lontano a migliaia di kilometri in scuole governative specializzate dove venivano “educati” per civilizzarli e per eventualmente farli incrociare con i bianchi.

 

Questo infamante progetto venne abolito solo nel 1971! Avete letto giusto! Millenovecentosettantuno.  

 

John mi parlò molto della madre che adora, mi disse che eventualmente era riuscita a fuggire dalla scuola vivendo per molto tempo nascosta nel bosco ed eventualmente molti mesi più tardi ritornando nel Pilbara. 

Fu attraverso la madre di John che conobbi Daisy, la stessa Daisy che nei primi anni del  decennio 1930-40 da bimba a sei anni, pure lei fuggì dalla scuola a “Moore River” nel lontano sud e assieme alla sorella maggiore Molly di dieci anni e la cuginetta Gracie, camminarono per 2300 kilometri per ritornare alle loro famiglie a “Jigalon” nel nord seguendo un recinto costruito dai bianchi che attraversava l’Australia da sud a nord eretto dal governo di allora per fermare l’invasione dei conigli selvatici dall’ est, quest’ opera e lunga 5000 kilometri. 

Molly fu più tardi ricatturata ma fuggì ben altre due volte e diventando una leggenda vivente tra la sua gente.

 

Ho imparato molto di questa gente nelle ore passate assieme a John pescando in barca nel dedalo dei canali delle immense foreste di Mangrovie di Port Hedland, foreste che cambiano la loro geografia perchè di maree che raggiungono 9 metri,  dove nel giro di sei ore, un’impossibile area di costa viene scoperta e sommersa e l’intera foresta cambia totalmente aspetto, alberi di mangrovie che prima erano, ora totalmente sommersi, canali appaiono e scompaiono, acqua profonda 3 metri dove solo ore prima c’era sabbia o fango, passaggi per la barca che esistono solo con l’alta marea, quindi una volta entrati nella zona, o si esce prima della bassa marea o si aspetta 12 ore per il prossimo ciclo, e qui mi dovete credere che non volete passare la notte in mezzo alle mangrovie.

John girava quella zona a occhi chiusi, sapeva esattamente dove ci sono scogli affioranti che potrebbero rovinare lo scafo, dove c’erano sabbie mobili, dove c’erano avallamenti profondi nel fondale o quando il mare si sarebbe fatto brutto solo annusando la brezza in un pomeriggio di sole.

 

Imparai con lui cose fiabesche, una volta mi insegnò come pescare con la rete da lancio a mano su mezzo metro di acqua facendosi aiutare dagli “Redtip Sharks “ (piccoli squali di qualche mezzo metro a settanta cm. di lunghezza che si muovono in piccoli branchi.), una cosa inverosimile ed incredibile, ma se si sa come fare, i piccoli squali agiscono esattamente come i cani in un gregge di pecore che aiutano il pastore ad aggrumarle, l’importante e tenerli sempre di fronte con una seconda persona che ti guarda le spalle.

 

Imparai a capire quando non scendere in acqua se pur bassa perchè i grossi predatori erano nelle vicinanze, White Pointers che entravano le mangrovie per sfamarsi e che avrebbero attaccato senza dubbio.

Imparai a “leggere” il mare a bassa marea e sapere dove mettere i piedi sui sassi del fondo senza calpestare qualche “Stonefish” le cui spine dorsali danno morte sicura, come evitare le conchiglie affusolate che lanciano un dardo velenosissimo se disturbate, sapere quali pochi giorni a che tempo dell’anno evitare il mare del tutto perchè il “Box Jellyfish” infesta le acque, creatura che non e’ più grande di 3 centimetri quadrati ma i suoi lunghissimi filamenti  danno la morte per paralisi nervosa.

Imparai come evitare mille altri pericoli dei tropici e apprezzare le sue meraviglie.

 

 

Ci sono state lunghe serate accampati su qualche spiaggia lontana da tutto durante le nostre partite di pesca del weekend, con John, un suo amico aborigeno e due altri nostri amici Maori, due barche, e il mondo come Iddio l’aveva creato, posti che molto probabilmente non avevano mai visto anima viva, posti totalmente selvatici e completamente vergini.

John usava raccontare storie e leggende perdute nei tempi tramandate dai suoi antenati, era affascinante sentir raccontare di un mondo dove non era mai esistito un uomo bianco, leggende di spiriti scesi dal cielo, di natura che acquistava vita nei suoi racconti, di uomini vissuti chissà quanto tempo fa che avevano compiuto cose da giganti guadagnandosi un posto sul “Dreamtime”.

Non di meno erano gli amici Maori, con le loro leggende delle innumerevoli isole dei mari tropicali e della Nuova Guinea, orgogliosi e feroci guerrieri fino a poche decine di anni fa.   

 

Arrivai nello sterminato Nord Tropicale, rovinato finanziariamente, col morale distrutto e sopratutto senza nessuna fiducia per il prossimo,  e ne uscii dopo più di dieci anni completamente cambiato.

Il Pilbara Australiano mi dette la possibilità, si, di rifarmi finanziariamente ma questa e’ cosa totalmente frivola se associo la ricchezza spirituale che acquistai.

John e la sua gente hanno contribuito immensamente a questo, il rispetto che nutro per gli aborigeni e’ sano e sincero. Chissà se un giorno riusciranno ad essere la nazione cui aspirano tanto. Lo auguro loro con tutto il cuore.

Come ho detto al principio, questo scritto non e’ un essay sulla razza aborigena, ma solo un ringraziamento a questa gente da cui tanto ho avuto e tanto mi hanno dato.

 

John e’ un Ingegnere Minerario laureato all’universita di Perth, sposato con una graziosa moglie Maori e due bellissime bambine.

Grazie John.

 

 

 

 

 

 

MERICANI

di Giorgio Rinaldi

 

Questo è il racconto del viaggio che fece il mio bisnonno paterno quando partì  per le Americhe, in cerca di fortuna.

 

Era il 2 aprile del 1911 e il mio avo, insieme a tanti altri poveri diavoli, si imbarcò a Napoli con destinazione New York su un bastimento tedesco: il Konig Albert.

 

In compagnia di altri 1798 passeggeri di terza classe, quel piccolo e minuscolo uomo attraversò le Colonne d’Ercole, di cui non aveva mai sentito neanche parlare, e per settimane non vide altro che l’immenso oceano.

 

A bordo fu costretto a rispondere a domande di cui lui, quasi analfabeta, non ne conosceva il significato: “sei anarchico ?”, “sei poligamo ?”.

 

Solo con l’aiuto della complice mimica di qualche viaggiatore più … “letterato” le risposte arrivarono secondo il desiderio del funzionario delle dogane americane, e il questionario venne completato con successo.

 

Mare grosso, onde mai viste, venti formidabili.

 

L’odore pungente della salsedine e del cordame bagnato, poi –finalmente- la Baia di Hudson, Manhattan.

 

Il viaggio, però, per i passeggeri di terza classe non era finito: c’era Ellis Island che li attendeva, la quarantena prima di essere ammessi nel Nuovo Mondo.

 

Il grande casermone sulla minuscola isola a poca distanza dalla Statua della Libertà era stato costruito apposta per “selezionare” quei poveri cristi che cercavano solo di guadagnarsi, letteralmente, un pezzo di pane.

 

In quell’isoletta il mio bisnonno passò un altro mese abbondante: fu spogliato, disinfettato, schedato, deriso, sfruttato, trattato come una bestia; ma anche accolto, sfamato e caricato di speranze.

 

Al progresso americano sacrificò una gamba, lasciandogliela.

 

Poi, nacqui io.uanta intelligenza occorrr

 

 

 

 

DOMINATI DAI PIN

di Nicola Perrelli                   

 

 

 

In principio c’era solo quello del bancomat, ora  senza Pin (Personal Identification Number) e’ praticamente impossibile vivere.

Sono infatti davvero poche le circostanze quotidiane  che ci danno ancora la libertà di agire, di viaggiare, di comunicare, di navigare in rete e perfino di lavorare,  senza dover prima digitare un codice segreto, una parola d’ordine, una password.

 

Siamo ormai schiavi dei Pin. Oppressi dalla necessità di dover ricordare, o meglio memorizzare, qualche dozzina di codici segreti per condurre una vita “normale”. Li utilizziamo dal mattino alla sera. Per avviare il telefonino e il computer appena svegli, per inserire l’allarme quando usciamo di casa e per bloccare la porta blindata quando rientriamo al far della notte.  Poi per rifornirci di contante al bancomat, per fare carburante alla stazione di servizio e per collegare il proprio terminale sul luogo di lavoro. Ma anche per prenotare un treno, un aereo, un albergo, una vacanza, per leggere la posta elettronica, per le operazioni di e-commerce, per controllare il conto in banca. E sempre più per la fruizione di servizi pubblici, come accade per esempio già a Milano dove parcheggi e accesso al centro sono informatizzati.

 

Pin e codici segreti ci rendono insomma  la vita veramente difficile.

Per agire con l’immediatezza che ci impone l’odierna società interattiva, siamo costretti non solo a memorizzare i nostri molteplici dati riservati, quanto a cercare di proteggere e mimetizzare, paradossalmente con altre codificazioni, la nostra identità digitale.

 

All’inizio, con il mitico bancomat, pensavamo, e lo credevano anche le banche, che il problema era uno solo: proteggere il Pin da occhi indiscreti per scongiurare il pericolo di prelevamenti impropri.  Con la proliferazione senza limiti di codici e password ci siamo invece accorti che è soprattutto necessario tenere un certo ordine in questo caos di numeri e di lettere per non rischiare di risultare sconosciuti proprio alla nostra banca o di non poter confermare la tanto sospirata vacanza prenotata sul web.

 

Del resto una recente ricerca fatta in Gran Bretagna ha stimato che ogni cittadino di Pin ne utilizza in media una quindicina e uno su dieci quasi cinquanta. Calcolando che ogni Pin è composto da 7 o 8 caratteri, possiamo sostenere che tra i 100 e i 350 caratteri alfanumerici  è confinata una buona parte della nostra vita. 

Ma  non è finita, per agire in sicurezza, gli stessi codici periodicamente devono essere modificati o cambiati, e lo stress aumenta.  

 

Come fronteggiare allora la situazione?

Considerato che la velocità del cambiamento è stata di gran lunga superiore rispetto alla nostra velocità di apprendimento mnemonico, conviene affidare la gestione delle nostre password e codici segreti ancora una volta ad un sistema informatico. In sostanza si tratta di software, alcuni liberi e gratuiti, creati appositamente per ordinare, organizzare e proteggere nel modo migliore i nostri dati personali.

Sono casseforti virtuali dentro le quali possiamo riporre tutte le informazioni  riservate che ci riguardano.

 

I promemoria virtuali più noti sono: il Roboform che permette di archiviare in modo sicuro le password e generarne di nuove e complesse; il Keepass che oltre alla archiviazione e generazione ha un sistema che rende illeggibile la password in caso di furto del pc; il Web Confidential che come i precedenti  aiuta ad archiviare, organizzare e criptare le password.

 

In ogni caso non è sbagliato annotare i dati personali e riservati su un comune blocco notes, avendo però l’accortezza di tenerlo al sicuro, in un posto sicuro non facilmente accessibile.

 

C’è una speranza: il debutto tra qualche anno del “codice” unico.

 

 

L’ISOLA CHE NON C’E’ PIU’

di Paola Cerana

 

 

C’era una volta un’isola bellissima.

Una distesa infinita di soffice sabbia, tiepida e docile, accarezzata dai capricci del vento, unico vero architetto di un paesaggio dalle mille sfumature. Un susseguirsi di morbide dune che si srotolavano pigre fino a tuffarsi nell’oceano, a sfidare le onde prepotenti,  violente come schiaffi che sfumano nell’aria. Onde che accompagnavano maestose tartarughe marine che, con la loro pesante lentezza, qui trovavano puntualmente nido. Un tripudio di colori, accesi da un sole di fuoco, sapore di sale e odore di mare da ubriacare i sensi. Sensi che giocavano liberi, indisturbati, in un’immensità incontaminata, che regalava l’illusione a chiunque la penetrasse di essere tra i pochi esseri umani eletti a godere di tanta bellezza. Bellezza selvaggia come la natura della sua gente, forte e fiera ma anche mite e disponibile, sempre aperta al sorriso. Gente dalla vivacità contagiosa come le note dei suoi canti che accompagnavano il ritmo sensuale del funanà durante le lunghe notti incastonate di stelle. Un fondersi magico tra l’anima esuberante dell’Africa e lo spirito malinconico del Nord Est del Brasile.

 

Quell’isola era Sal, una perla dell’arcipelago di Capo Verde, affacciata sulla costa dell’Africa Occidentale, a circa 500 km. dal Senegal.

Oggi quella Sal non c’è più. Al suo posto un enorme cantiere aperto. Case private e alberghi a cinque stelle in costruzione, enormi villaggi all-inclusive uno a fianco all’altro, strade asfaltate sempre più battute dalle jeep e dai quad dei turisti, supermercati, ristoranti e discoteche in ogni angolo del paese stanno rapidamente snaturando l’isola. Santa Maria, il piccolo paesino che dà il nome alla spiaggia più bella, soltanto 15 anni fa non era che un villaggio di pescatori attraversato da tre vie parallele a ridosso del mare e, allora, ospitava solo due modesti alberghi.

Oggi è un susseguirsi di edifici a più piani, che sorgono a ritmi vertiginosi nella più completa anarchia di stile, mentre bar e locali d’ogni tipo fanno a gara per conquistarsi la pole position e offrirsi alla passerella di turisti, sempre più numerosi, in cerca di divertimento. Il paradiso dei surfisti si è trasformato nel paradiso degli speculatori edilizi e il deserto viene via via divorato dal cemento.

 

L’arcipelago di Capo Verde si è sviluppato turisticamente negli ultimi 20 anni e Sal è stata la prima isola ad essere sfruttata proprio dagli Italiani. Pur non essendo la più attraente dell’arcipelago - Boa Vista, Sao Vincente, Santiago, Fogo sono molto più lussureggianti, colorate e offrono paesaggi più diversificati – Sal è stata a lungo l’unica ad offrire ai turisti un aeroporto internazionale, l’unica, quindi, comodamente raggiungibile con volo diretto dalle maggiori città europee. In poco più di cinque ore e con solo due di fuso orario ci si ritrova lontano dalla nebbia di Milano direttamente al caldo del sole africano. Ma molti sono i motivi che hanno incoraggiato gli investimenti qui: oltre alle condizioni climatiche favorevoli tutto l’anno, una situazione socio-politica priva di tensioni, l’assenza di fanatismi religiosi, una popolazione mite e accogliente ed infine la mancanza di minacciose malattie endemiche.

Insomma, a Sal si sta bene. Ma per quanto ancora?

 

Dopo vent’anni il paesaggio è completamente stravolto ma pare che questo a nessuno importi, a partire dal Governo di Capo Verde, che continua a consentire la dissennata colonizzazione del Paese. Il risultato in termini economici per gli investitori stranieri è sicuramente notevole. Meno lo è, però, per i Capoverdiani impiegati come manodopera, spesso sottopagata, nelle strutture turistiche. I più fortunati lavorano negli hotel e nei villaggi ma quelli sono davvero un élite perché la maggior parte di loro viene ammassata ogni mattina su grossi camion e scaricata nei cantieri o lungo le strade da asfaltare, per essere recuperata al tramonto e riportata nelle baracche di Espargos o Palmeiras.

Anche la composizione sociale degli abitanti è stata stravolta, perché dalle altre isole, ancora quasi incontaminate, arrivano ogni anno frotte di giovani abbagliati dal miraggio di un guadagno facile ma difficilmente sufficiente a fornir loro una vita dignitosa, dato che a Sal tutto costa il doppio e i prezzi sono ormai indicati in euro anziché in escudos. Perciò i casi sono due: o se ne tornano a casa disillusi, lasciando il posto ad altri giovani animati di nuove speranze, alimentando così un logorante turnover,  oppure restano nell’isola accontentandosi del proprio stipendio o, più spesso, arrotondandolo con espedienti non sempre puliti. Oltretutto a Sal vive una numerosa comunità di Senegalesi, dal temperamento ben più spavaldo e invadente rispetto ai Capoverdiani, per indole riservati e rispettosi, e non essendoci un gran feeling tra le due etnie non sempre la convivenza risulta facile. La conseguenza di tutto ciò è una popolazione disorientata da uno sviluppo esploso troppo in fretta, che l’ha costretta a fare un balzo di cento anni in un solo ventennio, gettandola in pasto a spregiudicati colonizzatori che non contribuiscono affatto a creare nel Paese professionalità e infrastrutture utili alla sua gente.

Questa è la realtà attuale di Sal ma è anche il destino delle altre isole dell’arcipelago di Capo Verde, prima tra tutte Boavista, dato che da gennaio di quest’anno è operativo il suo tanto atteso aeroporto internazionale e sicuramente, già quest’estate, i suoi due villaggi italiani saranno presi d’assalto.

Mi si stringe il cuore pensando che il deserto che mi aveva accolta oggi sta scomparendo e mi chiedo se ne resterà almeno uno scorcio in memoria della Sal che fu.  Mi domando dove andranno a depositare le uova le tartarughe, una volta giunte qui, quando troveranno un residence al posto della loro spiaggia. Immagino con tremendo dispiacere quel tranquillo specchio d’acqua che è Buracona, quella piscina naturale in cui ci si può immergere in silenziosa estasi dopo che l’oceano vi ha riversato tutta la sua furia, trasformarsi in un orribile aquapark, con tanto di scivoli e trampolini acrobatici. 

 

Così come mi chiedo che fine farà Pedra do Lume. La vecchia salina nel cuore di un cratere vulcanico, a lungo sfruttata dai Portoghesi, in cui l’acqua del mare penetra ed, evaporando, dà vita ad un paesaggio lunare, quasi dantesco, illuminato dai cromatismi del salgemma mescolato al suolo lavico. Qui ci si può ancora bagnare nelle vasche di desalinizzazione, godendo della piacevole sensazione di restare sospesi come astronauti nel nulla. Alcuni superstiziosi credono addirittura che in queste acque si nasconda un elisir di lunga vita. Ma se domani Pedra do Lume diventasse un spa resort con tanto di centro benessere e thalassotherapia, seppellendo assieme al cratere anche tutta la sua storia? E mi chiedo, infine, che fine avranno fatto i giovani che avevo conosciuto, pieni di entusiasmo e di ottimismo. Ripenso ai loro sorrisi, ai loro sogni, alle danze sensuali nella notte, alla capoeira fiera sulla spiaggia e alle acrobazie dei kite surf liberi nel vento.

 

Così, tra bei ricordi e vane speranze, riascolto con nostalgia le canzoni di Cesaria Evora, la “diva a piedi nudi” di Mindelo, struggente e malinconica, crocevia di emozioni in musica tra Africa, Europa e Brasile. “Rogamar”, cantava, letteralmente una “preghiera al mare”, una celebrazione alla bellezza del suo Paese, una poesia tropicale in note che trasmette tutta la saudade e la solarità di un popolo e della sua terra che, almeno nelle canzoni, potranno sopravvivere per sempre incontaminati.

 

 

La mia Africa, la nostra Africa

 

Il cielo si è schiarito
La coscienza si è destata
é arrivata l'ora di affrontare la realtà,
Un popolo che ha sofferto
può calmare il suo dolore
Per vivere in pace e nel progresso
Se avremo fede
Nelle nostre capacità
La nostra mamma Africa sarà felice un giorno...

Nossa Africa, Cesaria Evora

 

 

 

 

 

 

EL CAMINO: RITORNO A SANTIAGO DE COMPOSTELA

di Francesco Aronne

 

Cantares...

(…)

Caminante, son tus huellas
el Camino y nada más;
caminante, no hay Camino,
se hace Camino al andar.

Al andar se hace Camino
y al volver la vista atrás
se ve la senda que nunca
se ha de volver a pisar.

Caminante no hay Camino
sino estelas en la mar...

(…)

(…)

Viandante, sono le tue orme
il sentiero e niente più;
viandante, non esiste il sentiero,
il sentiero si fa camminando.

Camminando si fa il sentiero
e girando indietro lo sguardo
si vede il sentiero che mai più
si tornerà a calpestare.

Viandante non esiste il sentiero,
ma solamente scie nel mare...

(…)

 

Furono questi versi di Antonio Machado a condurmi la prima volta sul Camino. Era il 1987 e questi versi erano riportati in un coinvolgente articolo di Marina Cepeda Fuentes pubblicato su  Abstracta (autorevole rivista di colti autori purtroppo da tempo muta) dal titolo: “Sulle orme dei pellegrini del Medio Evo – La via lattea: il Camino di Santiago”. L’articolo prendeva spunto dall’iniziativa del Consiglio d’Europa che scelse l’insieme dei percorsi che portavano gli antichi pellegrini alla tomba dell’apostolo Giacomo come “primo itinerario culturale europeo”, preannunciando una serie di iniziative del Consiglio che a partire dal 1988 avrebbero incitato al recupero del patrimonio storico, artistico e culturale legato al Camino. Si ricostruiva una parte dei miti e delle leggende che furono motore del pellegrinaggio, indicando alcuni possibili modi di inoltrarsi lungo la “Via Lattea”.

 

Le origini ci riportano ad una notte dell’anno 813. In Galizia, nella diocesi di Iria Flavia, città romana dedicata ad Iside, in un folto bosco, presso le rovine dell’antico castro celtico di Amaea viveva il santo eremita Pelagio. Racconta la leggenda che alcune luci di inspiegabile origine ed una nuova luminosissima stella apparvero sopra un campo vicino al suo eremo. Informato il vescovo Teodomiro, questi proclamò tre giorni di digiuno e con una processione di fedeli si recò al campus stellae dove scavando si trovò un piccolo sepolcro marmoreo a forma di arca e nel suo interno un corpo con la testa staccata. Per le sue caratteristiche e vestigia che conteneva, fu subito identificato come quello di Jacobo Sebedeo, detto da Cristo “Boanerges“ Figlio del Tuono, ovvero San Giacomo il Maggiore che in Spagna è chiamato Sant Yago o Santiango. Il vescovo Teodomiro comunicò il ritrovamento al re delle Asturie Alfonso II il Casto e questi, a sua volta, informò il papa Leone III e l’imperatore Carlomagno. Re Alfonso raggiunse in pellegrinaggio il campus stellae e fondò tre chiese ed un monastero affidando ai benedettini la custodia del sepolcro e delle spoglie del Santo.

 

Le remote origini del pellegrinaggio si perdono nelle pagine bibliche ed il pellegrinaggio inteso come percorso di fede è comune a molte religioni. Da Roma, a Gerusalemme, alla Mecca, a Lhasa, al Gange, un reticolo di rotte dei pellegrini… Il pellegrino abbandonava la sua casa per un periodo più o meno lungo, a volte (viste le insidie ed i pericoli che lo attendevano sul cammino) anche per sempre. Tanti pellegrini non fecero più ritorno. Cosa li spingeva ad intraprendere un viaggio lungo e rischioso? Fare penitenza, ottemperare ad un voto, ottenere guarigioni o semplicemente seguire un impeto di devozione... Qualunque fosse la motivazione il pellegrino si proponeva comunque come colui che abbandonava il suo passato, con una forma di moderno reset , per scegliere una “via differente” verso un luogo di liberazione, di illuminazione e di salvezza, dove bere “alla fonte dell’immortalità”.

 

Nacque così un culto sconcertante, un sentiero di pellegrinaggio accessibile a tutti quelli che seguendo il Cammino delle Stelle, la Via Lattea, cercano la Luce della Conoscenza. In altri contesti culturali la Via Lattea è ugualmente collegata a credenze religiose ed era considerata la Via delle Anime, Sentiero degli Spiriti presso popolazioni assai diverse (in molte tribù di indiani del Nord America tra cui Cherokee e Ojibwa, tra gli Incas peruviani, tra i Guaranì del Paraguay, presso Greci, Egizi e Romani ma anche nell’impianto mitologico scandinavo). Forse vi è una relazione con il mito delle due Porte del Cielo come ricorda il Prof. Alfonso Maria Di Nola “due poli opposti che segnano la linea della Via Lattea lungo lo zodiaco e che sono anche i due punti estremi che limitano il corso del sole (tropico d’inverno sotto il segno del Capricorno e tropico d’estate sotto il segno del Cancro), attraverso la Porta del Cancro, detta Porta degli Uomini, le anime cadono per scendere sulla terra, come attraverso la Porta del Capricorno, detta Porta degli Dèi, esse ritornano all’etere divino. 

 

La Galizia forse più di qualsiasi altra regione della Spagna, ha mantenuto vivo il contatto con le tradizioni ancestrali e credenze arcaiche risalenti ai Celti o a più antichi abitatori di quelle terre. Come la Santa Compaňa, processione delle anime dei morti che viaggiano sopra la nebbia con un cero in mano e sono chiamate in galiziano Estadinha. Dicono i vecchi che per la Via Lattea viaggia la Estadinha di quanti non hanno potuto fare il pellegrinaggio a Compostela. Forme di sincretismo religioso nate dall’accavallarsi, di culti, credenze e leggende dove la religione dominante non è riuscita a ripulire completamente le tracce dei vetusti e remoti credi: centralità della morte come aspetto duale della vita e del suo Camino.

 

Frastornato da queste scoperte riposi l’articolo, misi l’itinerario nel cassetto, in fondo alla lista delle ipotesi di viaggio che allora reputavo prioritarie e me ne dimenticai, quasi!

 

A seguito di uno di quegli scherzi che mai vorresti la vita facesse, il 29 aprile 1989 con una amico, l’articolo citato, una Mapa de Comunicaciones del Ministerio de Trasportes, Turismo Y Comunicaciones, il percorso del Camino indicato dal Codex Calixtinus del XII sec., partimmo sotto una pioggerella primaverile da Mormanno alla volta di Santiago di Compostela. Avevamo poco tempo e stimato grossolanamente in circa 2.500 km la distanza dalla meta. Ci aspettavano pertanto dure ed impegnative tappe. Non eravamo camminatori né affrontavamo il Camino da tali, non andavamo a caccia di indulgenze, ma penso che lo spirito con cui siamo partiti era comunque quello di viandanti pellegrini spinti da un moto di ricerca, rinnovamento e rigenerazione interiore che ci ha messo in sintonia con molti dei tanti camminatori che nei secoli ci avevano preceduto sul nostro itinerario, uno tra i tanti possibili.

 

Facemmo la prima tappa ad Aix in Provence, il giorno dopo raggiungemmo Louordes e facemmo visita al luogo sacro dove, ancorché il soffio del divino, si respiravano, allora come ora, i venefici e asfissianti miasmi della mercificazione globale e totale che occupa i polmoni. Lasciammo Lourdes al tramonto, riflettendo sullo sguardo benevolo della Madonna e sul suo pensiero puro, ignorato e trascurato dai più delle moltitudini provenienti da ogni dove. Ci muovemmo in direzione Pau da dove, all’indomani avremmo intrapreso la tappa pirenaica. I principali itinerari, si biforcavano sui Pirenei attraverso due passi: Somport e Roncisvalle.

 

Optammo per Somport, quello a noi più vicino, ed il primo maggio attraversammo, sul passo innevato, la frontiera franco-spagnola. Raggiungemmo Jaca prima tappa del tratto finale, in terra spagnola, per chi proveniva da questo itinerario. Da li si sono snocciolati come grani di un rosario le tappe e sentinelle del Camino: Pamplona, Puente la Reina (dove si riunivano i due percorsi pirenaici), Estella, Logrono con l’attraversamento del fiume Ebro che ci ripropose epiche vicende della guerra civile spagnola. Proseguimmo quindi per Santo Domingo de la Calzada, Najera. Arrivammo finalmente a Burgos dove facemmo tappa. Il percorso che seguimmo, non si avvalse né di internet, né del GPS, non c’era neanche il telefonino. Usammo un metodo che potremmo impropriamente definire “cabotaggio” nel senso che raggiunto un luogo seguivamo le indicazioni stradali per raggiungere il successivo. Facemmo percorsi che spesso si avvalsero anche di strade sterrate, passando per villaggi semideserti e sperduti dove campeggiavano a volte spropositati e monumentali edifici di culto che, sia pure segnati dai secoli, mantenevano intatto il fascino della loro storia e l’energia lasciata nel transito da legioni di pellegrini. Ci confermavano la rotta i cruceiros, antiche colonne di pietra con sopra una croce, proprio come quella della nostra vicina Lauria, posta sotto la protezione di San Giacomo.

 

Splendidi corvi neri, testimoni di una natura inviolata, ci accompagnarono, come fedeli compagni di viaggio, per molti tratti del percorso, aiutandoci a volte nelle randomiche scelte ad anonimi crocevia. Da Burgos proseguimmo per Castrojeriz, Fromista, Carrion de los Condes, Sahagùn e quindi Leon. Proseguimmo per Astorga, Rabanal, Ponferrada.

 

E qui per i pellegrini cominciava un impegnativo tratto di montagna, soprattutto per chi vi arrivava di inverno. Tanti chilometri nelle gambe ma anche la consapevolezza che il più era fatto, anche se era comunque tanto quello che rimaneva da fare. Proseguimmo per Villafranca del Bierzo, e quindi per Predrafita del Cebrero, quota 1.100 mt che a queste latitudini sono tanti. La sera ci sorprese a Sarria dove passammo la notte. L’indomani di buon ora partimmo per la tappa decisiva. Andammo a Portomarin e quindi a Mellid. Qui, per motivi che non ricordo, andammo a Carboeiro, e finalmente a Santiago, usando anche una pista forestale dove sbigottiti e cortesi boscaioli ci diedero precise ed efficaci indicazioni che ci tolsero dall’impiccio in cui, non so come, ci eravamo cacciati. Avevamo raggiunto, per come avevamo potuto, la meta del nostro Camino. Il peso del viaggio si sciolse come neve al sole alla vista dell’Obradorio, nome con cui viene soprannominata l’imponente facciata del XVIII secolo della cattedrale. L’ingresso attraverso quella porta ci vide anonimi tra milioni che nei secoli varcarono quella soglia e tra quanti l’avrebbero varcata poi e la varcheranno nei tempi che verranno, il nostro spirito con il loro. Come coloro che vogliono ritornare mettemmo la mano sulla colonna all’ingresso…Un impegno che verrà mantenuto.

 

Ci accoglie l’imponente navata principale. Sospeso nell’aria il Botafoumeiro, il grande incensiere che viene azionato solo in particolari occasioni.  Oltre l’altare maggiore è collocata, in alto, una statua del XII secolo di San Giacomo. La statua rivestita di materiali preziosi è oggetto della venerazione dei fedeli che le sfilano alle spalle affidandole richieste, preghiere, propositi, intendimenti e voti…. Sotto la navata il sepolcro con le reliquie del Santo. Girovagammo alla scoperta della città e ci fermammo la notte a Santiago. Il giorno dopo, sulle orme dei pellegrini più audaci, partimmo alla volta dell’Atlantico, il Mare Tenebroso temuto dai Celti. Andammo a Noya cittadina il cui passato è legato, secondo la tradizione, a Noè. Giungemmo a Finisterre sulla Costa della Morte dove per gli antichi finiva il mondo conosciuto e da dove le anime dei morti ultimavano il loro cammino terreno per ritornare nella Via Lattea…

 

Arriviamo al faro di Finisterre (Fisterra), all’ultimo cruceiro con la scritta Cruz de la Muerte. Sotto di noi l’Atlantico, maestoso ed imponente. La prima volta di fronte all’immenso oceano: suggestiva percezione della sua energia che ci annichilisce come fragili fuscelli. Nel silenzio levigato dall’immancabile vento che avviluppa questo promontorio, restiamo ipnotizzati dallo straordinario paesaggio e dalla forze delle poderose onde che si infrangono sugli scogli sottostanti. Chissà quanti naufragi hanno visto quelle rocce nei secoli.

 

Qui i pellegrini bruciavano gli indumenti del Camino, per sancire l’inizio di una nuova vita e prendevano la conchiglia da affiggere sulle vesti e che tributava loro rispetto. Qui la strada percorsa fa sentire tutto il suo peso circa 3.000 Km fatti ed almeno altrettanti da fare. Mormanno pensato da qui è un puntino lontano e distante. Al ritorno puntiamo a nord verso La Coruna e quindi percorriamo la costa nord del Mar Cantabrico. La notte ci coglie a Ribadeo tra i fiordi che richiamano alla mente più settentrionali latitudini. Il giorno dopo, oltre Oviedo, ci aspettano i paesi baschi: Santander, Bilbao, San Sebastian, rientriamo in Francia a Biarritz, dove, e solo a noi, le guardie di frontiera ci smontano quasi la macchina: una folta e lunga barba faceva allora tanta paura… Dai finestrini delle auto in transito tanti sguardi compiaciuti.

 

 

Ci dirigiamo verso Le Puy da dove partì uno dei primi pellegrinaggi per Santiago e quindi verso casa, dove arrivammo dopo una settimana dalla partenza, e circa 6.500 Km percorsi, calcolai che circa 3.000 di questi furono fatti per strade secondarie ed anche piste sterrate. Non facemmo il Camino a piedi, ma non credo che ci distaccammo di molto dallo spirito originario degli antichi pellegrini. Portammo intense emozioni ed il ricordo di immagini straordinarie di luoghi e persone che chissà se avremmo mai rivisto.

 

Anni dopo ho letto il libro di Coelho dedicato al Camino e vi ho trovato attraenti ed inconsueti spunti. I pellegrinaggi di Santiago di Compostela, di Gerusalemme e di Roma costituivano la triade dei grandi pellegrinaggi medievali, i soli per i quali era concessa indulgenza plenaria. Degno di attenzione il simbolismo che nel libro viene associato a questi pellegrinaggi. La rotta Giacobea che portava a Santiago era il cosiddetto Cammino di Spade o del potere. Il Cammino di Gerusalemme era detto Cammino di Coppe o del Graal o della capacità di compiere miracoli. La Rotta Romea o cammino di Roma, detto anche Cammino di Bastoni consentiva di comunicare con altri mondi. Secondo l’autore vi era anche un quarto cammino detto di denari, ma questo era un  cammino segreto.

 

E così, un giorno di marzo, con lo stesso amico di 19 anni prima ritorniamo sul Camino, col proposito di ottemperare all’impegno preso. Di buon ora, con il vecchio articolo e la vecchia Mapa de Comunicaciones del Ministerio de Trasportes, Turismo Y Comunicaciones, su cui avevamo annotato il precedente itinerario, sotto una pioggerellina primaverile ripartiamo nuovamente alla volta di Santiago, con l’intento di ricalcare, per quanto possibile, le nostre antiche orme.

 

A Lourdes, si festeggia il Jubilè per il 150°anniversario della prima apparizione mariana del 1858.  E’ un’ora in cui non c’è molta gente, colpisce la quiete del luogo e l’imponente edificio di culto sorto sopra la grotta di Massabielle dove un 11 febbraio la Madonna apparve per la prima volta a Bernardette Soubirous. Mi stupiscono alcune lucille in vendita e la scritta “offerta consigliata 2,00 €”. Distanti dalla grotta dell’apparizione, in direzione delle piscine dove fanno l’abluzione gli infermi, una serie di box di lamiera, anneriti dal fumo, all’interno dei quali bruciano costosi ceri di diversa dimensione con la scritta in diverse lingue “Questa luce prolunga la mia preghiera”. Lo stesso Dio, eppure tanto diverso da quello di Chiara e Francesco…

 

Come nel primo viaggio lasciamo Lourdes alla volta di Pau. All’indomani passiamo i Pirenei ancora per il valico di Somport. La prima sorpresa: un tunnel che ci evita la scalata delle innevate cime e ci porta agevolmente in territorio spagnolo. La Spagna che troviamo è irriconoscibile: strade ammodernate e diverse autostrade, compresa l’Autovia Camino di Santiago. Il pensiero va al Don Chisciotte di Cervantes con una miriade di generatori eolici e le loro enormi pale, che con diversi pannelli solari ci accompagnano su tutto il cammino. Una curiosità che notiamo: in tutto il percorso non abbiamo visto una sola discarica né legale, né abusiva.

 

Sul Camino una nuova e diffusa segnaletica per i pellegrini con parecchi punti di informazione e la chiara indicazione dei sentieri da percorrere a piedi. Con stupore vediamo e salutiamo singoli o gruppi di gente di tutte le età che a piedi, ma anche in bicicletta, con zaini e scarpe da trekking camminano ai lati della strada. Volti segnati dalla fatica ma anche dall’entusiasmo. Nel viaggio precedente non ne incontrammo uno. Non vediamo i Cruceiros ma ormai è la nuova segnaletica a guidarci Proseguiamo per l’autostrada fino a Villafranca del Bierzo, e quindi ci inerpichiamo a Predrafita del Cerbero. Il tempo minaccia neve, lasciata l’autostrada ci muoviamo per una strada secondaria tortuosa e con buche; tentiamo e riusciamo ad arrivare a Sarria come nel primo viaggio.. Arriviamo di sera.

 

Non riconosciamo la modesta cittadina che avevamo lasciato. Cresciuta molto, come del resto l’intera Spagna.

 

Il giorno dopo siamo a Santiago, piove a dirotto. Troviamo riparo in una chiesa dove vediamo una bellissima statua dell’addolorata. Alcune signore addette alla pulizia ci spiegano che la chiesa è sotto la cura della Confraria Nosa Senora da Quinta Angustia (fondata nel 1464). In ogni città spagnola piccola o grande che sia, la Semana Santa prevede diverse manifestazioni molto suggestive e partecipate. Animata da diverse confraternite provenienti da un passato remoto mantenuto vivo e tramandato per generazioni. A Santiago molte le confraternite che hanno anche la Xunta de confrarias. Ognuna cura una manifestazione (in genere una processione) e

tra le confraternite storiche più importanti di Santiago ricordiamo, oltre a quella citata, usando la denominazione galiziana: Noso Pai Xesùs Nazareno e a Santissima Virxe das Dores, Orde Franciscana Segrar, Esperanza, Humildade, Cristo da Paciencia, Santissimo Cristo da Misericordia, Vera Cruz, Noso Pai Xesùs Flaxelado,  Numeraria do Rosario, Virxe da Soidade (il cui mantello è riccamente decorato con la preziosa pietra nera Azabache che solo pochi artigiani compostellani sanno e continuano a lavorare), Cristo da Unciòn, Cristo da Paciencia. La Semana Santa a Santiago (come in tutta la Spagna) è sicuramente una esperienza unica da vivere.

 

Dopo Santiago ci attende Finisterre, fine del Camino! Ritorniamo al faro costruito nel 1853 che a 143 metri fa da vedetta sull’oceano. Sotto il faro l’edificio da cui escono come due corna di un bovide meccanico due trombe della sirena nota come “Vaca di Finisterre” che con il suo potente e stridulo verso avvisa dell’arrivo del maltempo. Una antenna transoceanica dà voce e speranza a chi va per mare.

 

Stavolta troviamo moltissima gente e un improvvisato box che vende souvenir. Ricordavamo un posto deserto dove incontrammo solo donne di ogni età vestite di nero che salivano a guardare il ritorno dei loro uomini dal mare. Qua è la resti dei fuochi di chi ha bruciato gli indumenti del Camino con un gesto di purificazione e rinnovamento. E’ il tramonto, una coppia di giovani pellegrini, esausti ma felici, restano a lungo abbracciati guardano il mare da questo mitico ed antico lembo di terra. Il Camino fatto insieme li unirà per sempre, più di ogni sentimento.

 

Restiamo a guardare il paesaggio. Il tempo qui cambia rapidamente. Aspettiamo che il faro accenda il suo fanale. Guardiamo l’antico Mare Tenebroso temuto dai Celti. Uno ad uno, nelle ombre della sera, vanno via quasi tutti. Un repentino cambiamento del tempo ci sorprende vicino al faro.

 

Raffiche di vento e grandine spazzano il promontorio camminiamo a fatica verso la macchina, una mano a protezione degli occhi per vedere la strada. Arriviamo alla macchina poco distante con i vestiti inzuppati. Ci ritempriamo in albergo con una memorabile Paella di pesce ed il pulpo alla gallega. L’indomani mattina è Pasqua, ritorniamo al faro, il sole rende il paesaggio stupefacente. Al ritorno, in paese, ci fermiamo alla chiesa di Santa Maria de las Arenas dell XII secolo, i fedeli escono dalla prima messa. Visitiamo l’interno con interessanti statue, la principale è il Santo Cristo crocifisso curioso per la gonnella che indossa. Imponente una statua della Madonna che soccorre due naufraghi dai marosi. Una statua di San Rocco ci riporta col pensiero a Mormanno che lo ha eletto suo protettore. Il Santo, in compagnia del suo fedele amico, con la sua bisaccia, col bordone (bastone di marcia del pellegrino), la zucca vuota per l’acqua, il cappello e la conchiglia, è qui in veste di pellegrino del Camino.

 

Una breve visita, nel rispetto di una antica tradizione del Camino, all’annesso cimitero, ai nostri morti, ed intanto nei paraggi comincia l’allestimento delle varie bancarelle di dolciumi galiziani. La festa grande è nella processione a cui partecipano molti gitani che venerano il Cristo dalla Barba Dorada a cui offrono ex voto in cera. Compriamo da una signora rom due candele e vediamo questi ex-voto che rappresentano parti del corpo miracolate da guarigione. A mezzogiorno, si ripete da tempo immemorabile la rappresentazione della Resurreciòn del Senor  dichiarata di Interés Turistico Nacional. Suoni di campane, botti, e voli di colombe, sbandieramenti ed il suono della banda salutano la Risurrezione del Cristo. La cerimonia culmina con la Danza de Nosa Senora das Areas nota anche come Danza dos Paus en honor a Nuestra Senora che alcuni studiosi fanno risalire al XIII secolo. Lasciamo Finisterre con i suoi riti intrisi di sincretismo. La strada del ritorno si prospetta lunga e stavolta non proseguiamo per il mar Cantabrico ed il nord ma puntiamo verso Zaragoza e la Catalogna. Sul Passo del Cebrero nevica.

 

A Ponferrada lasciamo la A6 per la LE-142 e ci dirigiamo verso Molinaseca. Sulla strada un nido di cicogna su un traliccio dell’alta tensione. La strada si fa stretta e  si inerpica su un percorso di montagna.  Passiamo per Riego de Ambròs e quindi per l’antico e particolare villaggio di El Acebo, siamo nel Bierzo sul Camino di Leon. Le rovine di un cimitero diroccato e sepolto dalla neve ricorda antichi abitatori di questo posto ora deserto.

 

Questa deviazione ci conduce verso quello che Cohelo nel suo citato libro definisce “uno dei più importanti segnali del Camino di Santiago: la croce di ferro (…) quello strano monumento, composto da un immenso tronco alto quasi 10 metri e sormontato da una croce di ferro. Quella croce stava li fin dall’epoca dell’invasione di Cesare, in omaggio a Mercurio. Secondo una tradizione pagana, i pellegrini della rotta giacobea solevano depositare ai suoi piedi una pietra portata da lontano”.

 

Nevica e finalmente arriviamo alla Cruz de Hierro di Foncebadon. Siamo in alto a 1500 mt l’aria è fredda ed il cielo cupo e plumbeo, non c’è nessuno. Questo monumento ci emoziona e ricordiamo una tradizione (ormai scomparsa) della nostra infanzia che ci vedeva, nel periodo della novena di San Michele, salire con le nostre mamme a Santa Croce portando una pietra da lasciare ai suoi piedi.

 

La pietra che il pellegrino portava sul Camino e lasciava in questo luogo doveva essere proporzionata alla espiazione da compiere e quindi ai peccati commessi. Dopo aver riposto la nostra, guardiamo queste tante pietre e pensiamo alle tante mani che le hanno portate, alle tante emozioni che trattengono, ai tanti avvenimenti ad esse legati. Una fotografia su un mondo parallelo dalle forti implicazioni spirituali che riesce ad andare oltre la materia eterna dei frammenti di roccia. La sensazione è che lo spirito dei morti, qui più che altrove, ci sovrasta misterioso. La Estadinha dei racconti dei vecchi galleghi di sicuro le notti senza luna passa e forse fa sosta sotto questa croce illuminandola con la flebile luce dei ceri resa tremula dal vento eterno.

 

Lascio ai piedi di questo monumento, oltre alla pietra rituale, un grappolo di pensieri per i miei genitori e per tutti gli amici che non ci sono più, che sono andati via o forse solo davanti a noi, nel Camino, pronti a tenderci una lucerna nella notte, ed impedire che i nostri passi inciampino tra sporgenti ed insidiosi sassi di un tortuoso, ed a loro assai noto, divenire.

 

Salutiamo la Cruz de Hierro muta vedetta su altri mondi e sentinella del Camino e attraverso la rassicurante discesa (non nevica più), ci dirigiamo verso Rabanal del Camino, passiamo per El Ganso e quindi ad Astorga riprendiamo la strada per Burgos e Miranda dell’Ebro. Riattraversiamo il leggendario fiume sotto una fitta nevicata e proseguiamo verso Logroňo e Zaragoza (ed il suo antico manoscritto). Ci attendono la Catalogna, ed i Pirenei orientali sulla strada che ci riporterà a casa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

OLTRE IL CAMMINO

di Francesco M.T. Tarantino

 

 

 

 

 

Fin sulla pietra la ridondanza dei passi

Inceppa il cammino e smarrisce il sentiero

Sulle ossa di un santo trasmigrato nei sassi

Fra spiagge e conchiglie che narrano il vero

 

E con le anime scorrono le vie e il fato

In percorsi di cielo tra sintonie celesti

Dove incontri chi vuoi ma trasfigurato

E ti si ferma il cuore e toccarli vorresti

 

Non è ancora finito il cammino sui sassi

Più in là c’è ancora una terra da mangiare

Con il mare che ti aspetta oltre quei massi

 

E lì tocchi il cielo e non riesci a parlare!

Si spegne nell’anima il rumore dei passi

E oltre quell’infinito vorresti naufragare

 

 

 

BEAUSANT, SII GLORIOSO !

di Francesco Rinaldi

 

 

Beausant, sii glorioso !

Era l’urlo minaccioso di battaglia dei Cavalieri Templari, i Poveri soldati di Cristo.

Sopravvivi !

E’ l’urlo dell’homunculus modernus, il povero, miserabile abitante del pianeta Terra in questi anni tristi e bui !

Lavoratore ! Batti tre volte la mano sul tuo petto e grida: sono glorioso !

La mente va a tutti quegli operai e giovani liberi professionisti che, assolutamente soli, osteggiati da uno Stato barbarico ed indifferente, che c’è solo per far sentire le sue vessazioni economiche e sociali, ogni giorno con ferma volontà rappresentano l’ultimo reale baluardo di una società che decade, ma che tenta di resistere.

Sono questi che proteggono le loro mogli, governano le loro case, crescono i loro figli, contribuiscono alla crescita dei Valori etici e sociali, nell’assoluto senso di abbandono e di incertezza per il loro futuro e quello dei loro figli.

E lo Stato ?

Si dimostra indifferente verso il benessere dei suoi numerosi consociati, supinamente asservito agli interessi di poche, feroci, crudeli e spietate oligarchie !

Non è propaganda o moto di ribellione, è solo la debole, inutile denunzia di un amministrato che, nella tristezza quotidiana, tenta di sopravvivere, conservando quel minimo di consapevolezza e di dignitas, in un Paese che non dimostra di avere nessuna direzione, né compassione per le classi meno agiate e deboli.

Non è che non manchino azioni di grande valore, ma sempre isolate ed individuali, rimesse alla buona volontà di nicchie.

Eppure è un Bel Paese, forse il più bello, inconfondibilmente accarezzato dal Mare nostrum da tre lati, fertile di messi, ricco di storia e di uomini coraggiosi che hanno dato la vita per esso.

Un paradiso abitato da diavoli”, come ci ricorda un illustre scrittore!

 

 

 

LA POLITICA ESTERA DI JOHN McCAIN, SECONDO RICK DAVIS, DIRIGENTE DELLA SUA CAMPAGNA ELETTORALE

di Emanuela Medoro

 

 

Dalla scrivania di Rick Davis, dirigente della campana elettorale di John McCain, candidato del partito repubblicano alle prossime presidenziali americane, arriva un lettera circolare con data 20 maggio 2008 avente per oggetto la parola reckless, ovvero sconsiderato, irresponsabile. Leggendo la prima riga della lettera apprendiamo che l’irresponsabile in questione è Barack Obama, considerato tale per le sue dichiarazioni in politica estera.

Infatti il senatore Obama ha manifestato il proposito di  incontrare direttamente il presidente dell’Iran, Ahmadinejad, per discutere il programma nucleare. Rick Davis scrive che la gonfia retorica non convincerà l’Iran a rinunciare al suo programma nucleare, e che è semplicemente sconsiderato per il presidente degli USA accettare un incontro diretto con il leader dell’Iran, il più grande stato  al mondo sostenitore del terrorismo, perché questo renderebbe legittimo un regime che vuole l’estinzione dello stato d’Israele e che è responsabile della morte di tanti americani.

E, sempre secondo Rick Davis,  il senatore Obama vorrebbe anche incontrare, senza condizioni, i capi di regimi oppressivi come quello  di Cuba, dove il regime dei Castro, prima  Fidel ed oggi  il fratello  Raul, pone forti limiti alle libertà di espressione, associazione, assemblea, movimento e parola. Inoltre questo regime manifesta continuamente odio contro gli USA, e tuttavia il senatore Obama  vorrebbe tenere incontri senza condizioni. Sarebbe bello un mondo senza nemici, ma non è quello in cui viviamo, e fino a che Obama non accetta questo punto, è lecito mettere in dubbio le sue capacità di giudizio e la sua determinazione a mantenere la sicurezza in USA.

 

Lo stesso dubbio emerge per le sue posizioni sulla guerra in Iraq. Se fosse eletto, infatti, il senatore Obama ritirerebbe subito le truppe dall’Iraq, senza tener presente la situazione di quello stato ed il parere dei capi dell’esercito. Francamente, aggiunge R. Davis, è una posizione irresponsabile che di nuovo mette in discussione le  capacità di Obama ad essere il comandante in capo degli USA. La ritirata prematura dall’Iraq farebbe sopravvivere AlQaeda, provocherebbe tensioni e genocidi e destabilizzazione nell’intera regione. Inoltre l’Iran considererebbe il ritiro come una sconfitta americana e  pertanto crescerebbe troppo la sua influenza in Medio Oriente. Tutto ciò  trascinerebbe gli USA in una guerra più ampia e difficile, con gravi e pericolose conseguenze  per il futuro.

John McCain crede che l’America abbia sì bisogno di cambiamenti, ma tali che non favoriscano Hamas, che non siano una resa in Iraq, e che non siano incontri senza condizioni con il presidente dell’Iran.

Tutto questo  da parte di John McCain e Rick Davis,  in attesa di risposta da parte del candidato certo del partito democratico per  le prossime elezioni presidenziali USA.

 

 

 

 

LE PRESIDENZIALI AMERICANE VISTE DALL’ITALIA

di Emanuela Medoro

 

Il lungo viaggio verso la Casa Bianca:
a Corte Suprema, come la vorrebbe John McCain

Accade che Hillary Clinton, nonostante i deludenti risultati delle ultime votazioni, in Indiana e North Carolina, e nonostante le voci di un suo possibile ritiro, abbia deciso di continuare la sua corsa  verso la Casa Bianca, vincendo largamente in West Virginia con il voto della classe media bianca che ha fatto riemergere la questione razziale nei suoi aspetti più critici. Nello stesso tempo mi arriva la lettera di Barack Obama, del 12 maggio, contenente sia il conteggio dei delegati ancora mancanti per la nomina, sia i conti delle spese per la campagna elettorale. Lasciando da parte queste ultime, che riguardano solo l’elettorato democratico americano, riporto il conteggio dei delegati. Obama dichiara di aver bisogno ancora di 169 delegati, il 36% dei rimanenti, per arrivare alla maggioranza richiesta per la nomina. Inoltre, sempre alla data del 12 maggio, 281 superdelegati, ovvero i rappresentanti più autorevoli del suo partito, si erano impegnati a votarlo. Oggi, dopo la vittoria della Clinton, rimane nel limbo del “quasi nominato”, come titola il New York Times on-line di poche ore fa.

Intanto John McCain, candidato già certo del partito repubblicano, produce il suo programma elettorale, capitolo per capitolo, con lettere circolari titolate “Dalla scrivania di John McCain”: prima quella sulla sua vita e sulla prigionia in Nord Vietnam, poi sull’idea di leadership,  quindi sulla guerra in Iraq e sulla sanità. La newsletter più recente parla del futuro della Corte Suprema Usa. Segnala che durante il prossimo turno presidenziale si faranno almeno due posti liberi nella Corte Suprema e che la nomina dei giudici è compito del Presidente. Sottolinea poi l’importanza anche di un solo voto in quella sede e che argomenti di fondamentale importanza - come i diritti degli Stati, l’aborto, il Secondo Emendamento e  la libertà di religione - sono stati decisi con un solo voto di maggioranza, 5 a 4. Quindi McCain dichiara che, come Presidente, opererà perché siano nominati solo quei giudici che interpretano strettamente la Costituzione, consapevoli del fatto che il loro ruolo è solo quello di applicare fedelmente la legge scritta e non di imporre la loro volontà per mezzo del loro intervento. Invece, se sarà eletto uno dei suoi rivali democratici, si può essere certi che le nomine saranno per giudici che fanno la legge, incuranti della volontà popolare.

Dice ancora, McCain, di aver operato già in passato per favorire la nomina e la conferma di due giudici della Corte Suprema, Chief Justice John Roberts e Samuel Alito, i quali hanno entrambe dimostrato di essere degni della fiducia popolare, perché ritengono loro unica responsabilità l’applicazione della legge fatta dai rappresentanti eletti dal popolo. Essi, dunque, sono giudici di cui ci si può fidare per il rispetto dei voleri del popolo, i cui diritti previsti nelle leggi e le cui proprietà essi hanno giurato di difendere. Se invece sarà eletto Presidente uno dei democratici, quello nominerà giudici attivisti che dal loro seggio faranno le leggi, invece di applicarle. Conclude affermando che l’America ha bisogno di un leader il quale riconosca che è compito del popolo e degli Stati decidere che cosa è meglio per il Paese, non certo delle Corti e dei giudici.

Per chiudere con argomenti più leggeri, cito la lettera inviata dalla moglie di John McCain, Cindy, in occasione della Festa della mamma dove parla dei figli numerosi e del loro futuro, che lei vede sicuro solo se il marito diverrà Presidente. Acclude quindi un video con un dialogo tra John e la madre, Roberta, felicemente in vita all’età di 96 anni. Infine, sempre a scopo di raccogliere fondi, viene data notizia dell’apertura di un nuovo reparto aggiunto al negozio on-line, per la vendita di magliette e berretti ecologici (ecofriendly). 

 

 

SPARGEL, BITTE!

Raffaele Miraglia

                                                                                                                     

 

Per molti anni non ho mai considerato la Germania come possibile meta turistica. Sì, Berlino faceva eccezione, ma il resto non mi ispirava.

Successe che c’era un ponte bello lungo che comprendeva il 25 aprile e il 1° maggio e Rosella suggerì di andare a vedere cosa succedeva in Baviera e lungo il Reno.

Fu così che scoprii la Germania e quanto sia piacevole andarci in quel periodo, quando impazza la teutonica mania per gli spargel.

Anche quest’ultimo ponte l’ho passato in Germania, e non solo perché attirato dagli spargel.

In effetti la Germania è un bel posto e, se siete, come me, amanti della scultura lignea, allora è il paese che fa per voi. Mai visti tanti altari in legno in altre nazioni.

 

Devo ammettere che la prima volta che ci andai ero un po’ prevenuto sul cibo. Da bambino passavo la mie vacanze estive in spiagge che si riempivano di tedeschi (e ne ricordo molti senza gambe e in carrozzella, reduci di guerra). La leggenda metropolitana voleva che i tedeschi mangiassero da schifo e riuscissero persino a condire gli spaghetti con la marmellata. Ancora oggi in quelle spiagge vedo esposto fuori dai negozi del vino rosso frizzante che fa tremare le vene ai polsi solo a guardarlo. E vedo tedeschi comperarne 12 bottiglie per volta. Eppure in Germania mangiai bene e si mangia bene (e si spende poco). Forse certe aberrazioni si celebrano solo all’interno del focolare domestico. Anche se, devo dirlo per onestà, quest’anno a Schwerin ho visto servire un’insalata di tacchino e tortellini in un pub-birreria. I tortellini, di dimensione bella piccola, come solo alcune signore bolognesi li sanno fare, erano conditi con una salsa color marroncino-giallognola, una delle gradazioni dell’ambra. Probabilmente si trattava di panna trattata con la paprika.

 

In realtà si trovano buoni piatti, diversi da regione a regione, anche se spesso – quando manca il menù in inglese - il problema è capire che piatti servono nel ristorante che avete prescelto.

I tedeschi, si sa, hanno la bizzarra usanza di unire due, tre anche quattro parole e formarne una sola. La vostra abilità nello scomporre in modo giusto quel mostro a 26 lettere vi consentirà di capire se si tratta di carne o di pesce, di manzo o di maiale, ecc. ecc., e il tipo di cottura e magari il condimento principale. Fatevi, poi, aiutare, come faccio io, da un dizionario di soli termini cibarii. Io ne ho trovato uno, piccolo e tascabile, buono per l’inglese, lo spagnolo, il francese, lo spagnolo e l’italiano. Ci hanno pensato gli inglesi a sfornarlo – è proprio il caso di dirlo – e si chiama Eating out in five languages. E non fate i supponenti, usatelo! Altrimenti può capitare anche a voi quello che è successo a me quest’anno a Plon dove avevo scovato un ristorantino consigliato dalla Michelin. Ho scelto un bicchiere di buon vino rosso francese per accompagnare la piccata che avevo ordinato. Nella mia mente la piccata poteva essere solo di carne e, così, quando me la sono vista servire di pesce, ci sono rimasto male e ho dovuto ordinare un vino diverso.

 

Se solo mi fossi spinto a leggere la lunga parola che seguiva il termine piccata, mi sarei accorto che c’era in mezzo un barsch pronto ad avvisarmi che avrei mangiato del branzino.

 

Vi dicevo che aprile e maggio per i tedeschi sono i mesi degli spargel. E io e Rosella ci siamo uniti con gioia a questa vera mania.

Le vetrine dei negozi di casalinghi festeggiano con l’ostentazione di pentole della misura giusta per cucinarli ritti, di vassoi particolari ove servirli (fatti in modo che l’acqua, residuo della cottura, si depositi in un sottofondo), di pinze dal disegno idoneo alla bisogna, di attrezzi per pelarne i gambi, di piatti dalla lunghezza adeguata.

 

Persino la Ratskeller del più sperduto paesino aggiunge la pagina Spargelmenù nell’abituale libricino consegnatovi dalla cameriera, che ancora ve lo sta porgendo quando vi chiede cosa volete bere (ma non sarebbe il caso di lasciarmi un attimo di tempo per capire se ordinerò una birra, e quale, o del vino, e quale?).

 

E quest’anno nella campagne dello Schleswig-Holstein, quella regione che sta proprio sotto la Danimarca, ho visto degli enormi spargel di plastica, tipo l’omino Michelin dei miei ricordi infantili, ma di 5/6 metri di altezza, pubblicizzare delle vendite dirette dal contadino.

 

Ovviamente nei mercatini delle erbe di ogni città spuntano banchetti appositi e se ne vedono di varia qualità, tutti rigorosamente bianchi, ovviamente.

 

Sì, perché gli asparagi in Germania sono rigorosamente bianchi, belli grossi e molto saporiti.


 

 

 

LA SOLIDARIETA’ ABRUZZESE IN COSTA D’AVORIO

di Pietro Iovenitti

 

Una giornata di lavoro nel Centro ospedaliero “San Luigi Orione” di Anyama: un pezzo d’Abruzzo in Africa

 

Appena arrivati in ospedale una brutta notizia ci attende. Da ieri notte l’autoclave, ossia il macchinario che utilizziamo per sterilizzare i ferri chirurgici e i tessuti per la sala operatoria, non risponde più ai comandi. In poche parole non si accende e non parte il ciclo di sterilizzazione. Chiamiamo subito il tecnico il quale ipotizza che il guasto possa dipendere da un filtro ostruito e soltanto alla fine della giornata riesce a creare un raccordo esterno all’apparecchio così da permettere la sterilizzazione dei ferri e della teleria di prima necessità. Riusciamo, in questa maniera, a garantire il funzionamento della sala operatoria per il fine settimana. Lunedì tutto dovrebbe risolversi.

Sono trascorsi una decina di giorni da quando abbiamo rinunciato ad eseguire un intervento chirurgico molto particolare. Si trattava di un’anziana signora accompagnata da suo figlio, un importante personaggio di un villaggio poco distante da Anyama. La donna era giunta alla nostra osservazione per un’enorme formazione addominale di circa quaranta centimetri di diametro causa di una severa dispnea. Le indagini ci avevano permesso di diagnosticare una gigantesca cisti ovarica che occupava l’intera cavità addominale. La donna, durante i controlli pre-operatori, aveva mostrato una severa ipertensione che ci aveva imposto di richiedere una consulenza cardiologica. Il giorno della consulenza la signora si era presentata ancora con suo figlio che mi aveva pregato di poterci appartare per parlare di sua madre. Durante l’incontro chiedo all’uomo informazioni sullo stato di salute della donna e sulla sua ipertensione e lui, con gli occhi iniettati di sangue e la voce tremante, mi dice che la madre non può più essere operata poiché la sorcellerie (ossia la magia nera) era la causa della sua pressione elevata. Voleva farmi capire che era meglio evitare l’operazione e nonostante il quadro clinico che imponeva l’intervento chirurgico. Accettai la proposta dell’uomo senza insistere. A quel punto il figlio prese sua madre per mano e se ne tornò a casa. Sino ad oggi ancora non ho notizie di loro.

 

In Africa la donna e la sua fertilità assumono un carattere quasi sacro. Una donna che non può concepire è come se perdesse l’anima, mentre una donna che ha concepito per la prima volta si augura di poter mantenere il suo stato fertile per molto tempo. Tra le molte credenze legate alla fertilità, certamente la placenta ha un ruolo predominante. Già dai primi giorni della mia permanenza in Africa una certa consuetudine mi ha fatto capire l’importanza che le donne e la famiglia, generalmente, attribuiscono alla placenta. Presso i nostri ospedali, in occidente, dopo il parto la placenta viene di solito gettata nei rifiuti speciali oppure raccolta e utilizzata per ottenere cellule staminali simili a quelle contenute nel midollo osseo, con la speranza di poter curare alcune gravi malattie. In Costa d’Avorio, specialmente nei villaggi, ma molto spesso anche ad Anyama, la famiglia della donna che partorisce richiede all’ospedale la placenta, da sotterrare di fronte all’abitazione. La placenta, in stretto contatto con la terra, rappresenta per loro un buon auspicio per le generazioni future e un augurio di fertilità. Si racconta che alcune donne che non riescono a concepire si legano la placenta sulla schiena sistemandola sotto il vestito e la portano con se anche quando escono per andare al mercato. Ho sentito dire che in alcuni villaggi delle donne mangiano parti della placenta per auspicarsi di restare incinte. Quando una donna partorisce nel nostro ospedale e la sua famiglia ci chiede la placenta noi non possiamo rifiutarci di farlo e gliela consegniamo avvolgendola in un panno che la madre della puerpera aveva in precedenza preparato.

 

Finalmente il Presidente della Repubblica, Laurent Gbagbo, con grande sorpresa, annuncia ai giornalisti la data delle tanto auspicate elezioni che dovrebbero svolgersi il 30 novembre prossimo. Molti osservatori sono scettici sulla reale attendibilità di queste dichiarazioni, ma le forze in campo già stanno preparando la campagna elettorale. Il legame dei candidati, ma anche dei votanti con la loro etnia di origine è ancora molto forte anche se ultimamente ci sono segnali di maggiore obiettività. Attualmente sono tre gli schieramenti politici che si contendono l’elettorato: da una parte il Fronte Popolare Ivoriano (FPI) del Presidente Gbagbo e dal lato opposto il Partito Democratico della Costa d’Avorio (PDCI) dell’ex Presidente Henri Konan Bédié, quindi la Coalizione dei Repubblicani (RDR) con a capo l’economista Alassane Ouattara. Attendiamo gli eventi.

 

Le strade cariche di terra rossa, secche e aride da circa cinque mesi, sono oramai rigate da rigagnoli di acqua piovana che rischiarano allo stesso tempo la frutta che abbellisce i tanti mercati di Abidjan. Tra le tante luci che ogni mattina ci danno il benvenuto, la piccola Elena – l’ultima nata -appare la più luminosa.

 

 

 

 

 

POGGIO MORINO, PERLA DI SCANSANO

di Piero Valdiserra

 

 

 

Nel corso degli ultimi dieci anni, la superficie adibita alla coltivazione dei vigneti è più che triplicata, passando da 450 a 1.500 ettari. La produzione è aumentata di conseguenza, passando dai 21mila ai 110 mila quintali delle ultime vendemmie. Nello stesso periodo anche il mercato ha subito un’accelerazione, con il numero di bottiglie che è più che quadruplicato. Queste sono le cifre chiave del recente successo del Morellino di Scansano, il vino toscano che ultimamente ha visto premiare il suo successo dalla D.O.C.G, di cui può fregiarsi a partire dalla vendemmia 2007.

Una crescita così repentina ha indotto negli ultimi tempi molte grandi aziende vitivinicole italiane a interessarsi sempre più al territorio scansanese; fra esse, la Cantina trentina La Vis e Valle di Cembra ha compiuto uno degli investimenti più cospicui, acquisendo nel 2002 la proprietà e il controllo della Tenuta “Poggio Morino”.

L’Azienda Agricola “Poggio Morino” si trova a pochi chilometri da Scansano, e si estende nella zona di Preselle, località che prende nome da appresellamento, cioè l’opera di suddivisione del terreno coltivabile in tanti piccoli appezzamenti: una pratica che si svolgeva nell’area di Montorgiali già alla metà del secolo XIX.

 

La Tenuta “Poggio Morino”, registrata già nel Catasto Leopoldino del 1861 con il nome di Podere Nuovo, si estende oggi su 90 ettari, di cui oltre 60 coltivati a vigneto. I restanti sono in parte destinati a uliveto, in parte ad alberi da frutta (mele, pesche, fichi), e in parte dedicati all’attività di recupero del paesaggio boschivo di querce e aceri tipici della Maremma.

 

La proprietà è dominata da una settecentesca villa di campagna, tipico esempio di architettura rurale maremmana che voleva all’epoca casali in pietra dalle forme squadrate, sovrastati dalle caratteristiche torrette centrali.

I 60 ettari di vigneto della Tenuta sono coltivati prevalentemente a Sangiovese, e in misura minore a Merlot, Cabernet Sauvignon, Syrah e Alicante. I terreni prevalenti su cui sono stati messi a dimora i vigneti, dopo lo studio di zonazione, sono di due tipologie: nella parte più alta della proprietà, quelli argillosi, relativamente fertili e leggermente calcarei, mentre nella parte a valle quelli più sabbiosi e ben drenati. I primi garantiscono l’ottenimento di vini strutturati, che necessitano di una buona maturazione e di un certo invecchiamento, quindi longevi, armonici e ricchi di tannini dolci. Dai secondi si ottengono invece uve per vini più briosi, legati al frutto, caratterizzati da grande fragranza e freschezza.

 

 

 

I vigneti sono stati progettati nel pieno rispetto della morfologia della zona, salvaguardando le caratteristiche colline e valorizzandole senza modificare i loro versanti. L’impianto è stato realizzato a cordone speronato per esaltare le caratteristiche qualitative delle uve e per ottimizzare le operazioni colturali, rendendo possibile l’utilizzo di tecnologie innovative nei diversi processi, dalla potatura, alla cimatura, alla raccolta.

L’insieme di tutti questi elementi, che coniugano perfettamente tradizione e innovazione, consente di ottenere la produzione attuale di Morellino di Scansano, cui si aggiungeranno in futuro una Riserva e grandi vini I.G.T. Maremma.

Obiettivo della Tenuta “Poggio Morino” è diventare una delle realtà di riferimento tra i produttori dell’area del Morellino di Scansano, valorizzando il territorio nel pieno rispetto dell’ambiente. Per raggiungere questo traguardo è stato definito un piano di sviluppo sull’intera Azienda, che riguarda gli aspetti agronomici, tecnici e di accoglienza.

Un importante progetto sarà la realizzazione della nuova cantina, che ospiterà tecnologie all’avanguardia, ecocompatibili ed ecosostenibili. Questa nuova struttura sarà in gran parte interrata, e sarà costruita su diversi livelli per adeguarsi alle pendenze del terreno, inserendosi così perfettamente nel quadro ambientale di “Poggio Morino” e dell’entroterra maremmano. Concepita per essere autosufficiente da un punto di vista energetico attraverso l’utilizzo di pannelli fotovoltaici, avrà i diversi ambienti studiati per ottimizzarne posizione, luce, temperatura e umidità, al fine di coprire l’intero ciclo di lavorazione: dalla vinificazione in acciaio e legno, alla maturazione ed elevazione in bottaie, per arrivare infine alla messa in bottiglia.

Al tempo stesso la medesima attenzione sarà dedicata allo sviluppo delle strutture di ospitalità: la valorizzazione della villa settecentesca e dello spazio degustazione sono soltanto due esempi di quanto sia considerata fondamentale l’apertura dell’Azienda ai visitatori e agli enoappassionati.

 

 

 

 

(Info: “Poggio Morino” – Tenuta in Scansano, Località Preselle, Frazione Montorgiali, 58054 Scansano (GR), tel. e fax 0564 585908, www.poggiomorino.com, info@poggiomorino.com).


 

 

 

ASIAGO: LA GRANDE ROGAZIONE

di Elena Pozzan

 

 

 

Sull’Altopiano di Asiago e dei sette Comuni (prov. di Vicenza) i “forestieri” lasciano la montagna nelle mezze stagioni: in primavera quando le piste sono rimaste senza neve, e in autunno quando il fresco dei boschi, ormai spogliati dei gustosi funghi, si fa pungente.

Allora la gente del posto torna tranquilla alle cose di sempre.

Così ogni anno in maggio, alla vigilia dell’Ascensione, l’arciprete della cattedrale convoca tutti, ma proprio tutti, giovani e vecchi, nella piazza del duomo per la “Grande Rogazione”, secolare rito di ringraziamento per la scampata pestilenza del 1638, e propiziatorio per il raccolto, per benedire i campi e le contrade devastate nella prima guerra mondiale (1915-1918) quando le cannonate austriache avevano rase al suolo tutte le case di Asiago.

Ora il sacello ossario del Laiten raccoglie i resti (e porta incisi i nomi) di 35 mila alpini provenienti da ogni regione d’Italia e altri 20 mila dell’esercito austro-ungarico (anche cechi, polacchi …), mentre i caduti britannici sono sepolti nei 5 grandi cimiteri inglesi sparsi sull’Altopiano.

 

Nei giorni che precedono la “Rogazione”le ragazze raccolgono erbe e fiori nei prati e ne colorano le uova che serviranno per un poetico rito antichissimo. Dove passerà la processione, i ragazzi addobbano croci e tabernacoli; i montanari, gelosi dei loro campi dove il grano è appena spuntato, aprono i recinti di filo spinato perché passi il corteo, privilegio e pegno di abbondante raccolto.

Il sole è appena spuntato dietro i monti quando la processione comincia un giro faticoso che dura dall’alba a sera inoltrata: 30 chilometri con poche soste, e non sempre con il cielo sereno.

Ogni gruppo ha le sue bandiere e i cori: salmodie e litanie dei Santi, intonate secondo un rito antico, in lingua latina o in cimbro (di origine sassone), con istintivo ritmo primitivo e ossessionante insistenza, per tutto il giorno, te rogamus, audi nos! In testa, per indicare il percorso, uno stendardo rosso con croce bianca, poi il prete, con una stola violacea in segno di penitenza, procede a cavallo e si ferma alle croci o ai capitelli per benedire i campi.

 

Si giunge al lazzaretto: una valle sassosa dove, durante la pestilenza del 1638 gli appestati erano condotti a morire. Ora qui i fedeli si raccolgono per la Messa: sono alcune migliaia, anche alcuni emigrati tornano per la Grande Rogazione che è, quindi, anche lieto motivo di incontro, particolarmente per i giovani che qui vivono i momenti più belli della giornata.

Celebrata la Messa davanti alla cappella votiva, la gente si sparpaglia nella vallata per una merenda campestre che subito si trasforma in una simbolica schermaglia d’amore, una tradizione la cui origine si perde nei secoli: quella dell’uovo della Rogazione. Anche le coppie mature vi partecipano scambiandosi l’uovo, segno di un affetto … sodo. I ragazzi la rinnovano con vivacità e convinzione. Le ragazze si scherniscono alle insistenze dei giovani; poi finiscono per dar luogo in segno di amicizia, allo scambio delle uova colorate con le erbe. Ma l’uovo più bello, quello dipinto a mano, è per il prescelto e così la ragazza con il dono sconvolge secolari consuetudini con una dichiarazione d’amore in piena regola.

 

La processione si rimette in cammino e fino alla prossima sosta di Camporovere non potrà fermarsi per nessun motivo. Il percorso comprende nell’ultima parte la salita al monte “Bi” per il versante più ripido. La fatica e la stanchezza si avvertono sulle gambe. La lunga fila si scompone, si allarga, ma si procede sempre cantando. Intanto, mentre gli ultimi stanno ancora salendo e quelli già giunti si riposano (qualche ragazza ha ancora voglia di scherzare), il prete rimonta a cavallo e va, per la benedizione alla croce che sovrasta il paese. Durante l’ultima breve sosta, tutti si sono ornati di rami di pino e le donne si sono fatte belle: nessuno in paese dovrà mostrare stanchezza.

 

E’ sera e il sole va a riposare dietro i monti; il prete a cavallo allunga il passo in testa alla lunga fila. Alle prime case di Asiago, mentre i canti si fanno più forti e le campane in piazza duomo salutano il ritorno della processione, le donne rimaste in paese, per tradizione, offrono un pane da donare ai poveri.

In piazza,l’ultima solenne benedizione e poi subito tutti a casa. Domani è festa: tutti riposeranno.

Così alla vigilia dell’Ascensione, ogni anno,da secoli.


 

 

 

IL MATRIMONIO VIETNAMITA

di Trn Thu Trang

 

 

L’articolo è stato lasciato così come scritto, per precisa scelta editoriale, per dare modo al lettore di

apprezzare tutta la genuinità del pensiero dell'estensore che si sforza di scrivere nella nostra lingua.

 

La cultura vietnamita e’ composta da tanti aspetti: dalla gastronomia all’artigianato, dalla letteratura alla musica,ecc. Inoltre, la cultura e’ dimostrata nei costumi, nello stile della vita, nelle feste,ecc. Se hai un’occasione di partecipare al matrimonio vietnamita, forse ti sembra la piu’ interessante cosa della cultura vietnamita.

In tutti i paesi, le nozze sono un evento molto importante. Si può dire che e’ uno dei periodi più belli della vita di ognuno. Per i vietnamiti il matrimonio non e’ solo la persona vicenda ma anche un modo per mantenere in continuo le cose tradizionali del matrimonio e della cultura vietnamita tramandandole fra i genitori e le generazioni successive.

Ci sono 5 passi in un matrimonio:

Il primo e’ che due famiglie (la famiglia del futuro sposo e quella della futura sposa) si incontrano e si permettono i figli di ufficialmente incontrare e di partecipare agli eventi famigliari. Prima di questo passo, secondo il costume, la ragazza e il ragazzo non sono ancora in un ufficiale rapporto nel senso famigliare. Il permesso dei genitori vuol dire che i ragazzi sono riusciti ad avere la loro fiducia. Adesso i giovani sono liberi di fare l’amicizia, di fidanzarsi, di conoscere l’uno l’altra. Però solo dopo questo passo c’e’ un legame costruito tra le due famiglie. Questo ha un significato importante relativo al matrimonio delle due persone.

Nel secondo passo, le due famiglie si incontrano di nuovo per parlare della preparazione del terzo passo perchè svolge un ruolo molto importante. La famiglia del ragazzo chiede a quella della ragazza le cose che non possono mancare nel terzo passo. Le due famiglie si consentono sulle cose necessarie e sono a carico della famiglia del futuro sposo.

 

Il giorno in cui svolge il terzo passo, il quale si chiama “L ăn hi”, e’ stato scelto prima. E’ considerato il giorno bello. I santi fanno il bene a due ragazzi. I parenti del futuro sposo vengono alla casa della futura sposa portando con loro i doni. Sono le specialità tradizionali e sono i simboli della produzione, della prosperità. I doni sono accuratamente messi nei cassettini, i quali sono portati dai ragazzi - amici o cugini dello sposo. Al cancello della casa della sposa, ci sono gia le ragazze in vestiti tradizionali (áo dài). Quando arriva la famiglia dello sposo, queste ragazze aiutano i ragazzi a portare i cassettini in casa ed a metterli davanti al altare. Poi la madre della sposa insieme alla madre dello sposo aprono i cassettini. La madre della sposa accende gli incensi. Alla fine, la sposa e lo sposo stanno davanti ad altare e pregano gli antenati di sostenerli.

 

Dopo una settimana o 10 giorni del “L ăn hi”, e’ tenuto il matrimonio. L’orario in cui viene la famiglia dello sposo per prendere la sposa e’ stato deciso. Pero’, prima della covenienza dello sposo, una zia o una parente anziana dello sposo viene alla famiglia della sposa portando con se’ un cassettino di noce di betel. Questa fase si chiama “xin dâu”, vuol dire “chiedere di prendere la sposa”. E’ un procedura tradizionale che neanche può mancare. 15 – 30 minuti più tardi arriva la famiglia dello sposo. I parenti dei due sposi fanno le congratulazioni. Quelli della sposa le regalano i gioielli. Prima di partire, tutti e due devono ringraziare gli antenati e pregarli di supportarli nella futura vita. Tutti i parenti della sposa tranne la madre possono accompagnarla a casa del marito. Secondo il costume, la madre non deve accompagnare sua figlia a casa dello sposo, perchè quando torna, sua figlia piange molto e cosi non va bene. A casa dello sposo, la sposa e’ accoglientemente benvenuta. Dopo, tutti partecipano a una festa del matrimonio. Oggi, si organizza la festa in ristorante ma prima tutto a casa.

 

Dopo il giorno del matrimonio, non fanno subito la luna di miele perchè il giorno successivo devono tornare a casa della sposa e portarci un porco arrosto. E’ il dono dello sposo per i genitori della sposa che ora diventano i suoi suoceri. Li ringrazia lo sposo per aver partorito una figlia cosi buona, brava e bella, con la quale si e’ sposato.

 

 

 

 

EROI DI OGGI E DI IERI

di Marjatta Kulla

 

L’articolo è stato lasciato così come scritto, per precisa scelta editoriale, per dare modo al lettore di

apprezzare tutta la genuinità del pensiero dell'estensore che si sforza di scrivere nella nostra lingua.

 

In Nord si aspetta in ansia la primavera ed oggi ce ne  é  arrivato un antipasto bello; il vento del sud che sventola la bandiera Finlandia come se dicesse arrivederci inverno,con neve e ghiaccio.

Un portone di scuola vecchia é lasciato aperto e dentro si sente un ronzio di voci  ed il profumo tentante di caffé e dolci. A un tavolo, fra molti, si siedono due amiche Hilkka e Päivi scambiandosi notizie.

Mammamia, che casino a casa.... figli ascoltano Nightwish con tutto la volume ed uomo davanti alla tv  gli occhi si attaccano a Formula 1 .. me ne sono andata via....

Dai, non esagerare.. é importante di seguire gli eroi di oggi.. e poi dicono che Kimi vincerá questa gara in Spagna, parte da pole..

Si, lo so...ma mica sono eroi !!  ..i veri eroi  stanno in cimitero...per cui abbiamo la giornata ufficiale dell´imbandieramento...oggi il 27 aprile.

Giá ... la guerra a Lapponia  ... la data di scadenza...madre diceva che nonno ne era parlato spesso.... ma come mai sei cosi amara ..come un limone..che ti prende?

 

Nulla... media crea dei begli eroi ...

Dai .. ti faccio un indovinello..ascoltalo; Quale é la differenza fra una donna che soffre di PMS ed un terrorista ?

 

Mhmmmm ..che ne so io !

 

Con  un terrorista si può comunque discutere.

Dopo aver finito il caffé e korvapuusti salgono al prossimo piano per guardare  una mostra  annuale di Università Popolare. Ci sono persone intorno al tavolone che ammirano gli strumenti;sono

lavori a mano fatto dagli uomini,  violini, una chitarra e un strumento popolare finlandese a corta  ed altra stanza le sedie e un divano ricostruito.

Nel secondo piano passano tanto tempo davanti all’arte delle donna; i gioielli dargento, gli oggetti del vetro fuso, porcellana decorata e tantissimi diversi tessuti fatto a mano e il telaio.E salendo nel ultimo piano vedono anche  lavori a mano dei figli, ci sono pitture  di tecnica diversi. Nelle classe ci sono tanti visitatori e si nota che la mostra sia un

evento aspettato. Le amiche si fermano di scambiare due parole con la direttrice sui corsi successivi e il prossimo periodo dellinsegnamento in autunno.

Al ultimo piano mentre stanno guardando le pitture , squilla un cellulare dellaltra e lo prende con le guance rosse e lei imprecando daper la sua sbadataggine. La gente guarda la donna disapprovando in suo atteggiamento.

Cosa?  Davvero?  Hurraaaaaaaa, Kimi ha vinto !!! Ha vinto la gara ...

Ma io pensavo che tu non intenda di Formula 1 !!

Ma lui é il nostro eroe !!..Iceman

Improvviso si cambia latmosfera e tutti sorridono;  leroe comune si riunisce.

 

 

 

L’EMERGENZA RIFIUTI A NAPOLI E IL GIAPPONE

di Michiyo Suzuki

 

 

 

Ciao a tutti dal Giappone! Mi chiamo Michiyo Suzuki, una giapponese che ama l’Italia. Ho avuto l’occasione di conoscere Giorgio Rinaldi e mi ha chiesto in maniera molto casuale di scrivere qualcosa per il giornale di cui è direttore.  Quindi, pur non conoscendo bene l’italiano, ma incoraggiata dallo stesso direttore che mi ha detto di non preoccuparmi di eventuali errori, ho deciso di scrivere qualche riga per Faronotizie.

Prima vorrei parlare della mia relazione con l’Italia.  Tutto ha avuto inizio tre anni fa, quando per la prima volta sono arrivata  in Italia per puro caso.  Ero infatti diretta in Spagna con un volo che faceva scalo a Roma. Quindi ho pensato di  utilizzare questa occasione per visitare l’Italia. Ma dopo avere visitato Roma e Venezia, ero gia innamorata dell’Italia e sicura di volerci ritornare a breve. In tre anni sono tornata per ben sei volte.

Non sapevo nessuna parola d’italiano ma confidavo sul fatto di aver studiato per 4 anni lo spagnolo. Una lingua che credevo mi avesse aiutato molto nella comprensione dell’italiano. Ma cosi non è stato. Ho dovuto infatti iniziare a studiare l’italiano molto seriamente per capirci qualcosa.

Fra poco parteciperò al volontariato a Bagni di Masino organizzato da Legambiente.  E’ un volontariato che comincia il 15 giugno e finisce il 31 agosto.  Non so sa cosa succederà, ma sono sicura che sarà un’ esperienza meravigliosa. Prima di partecipare al volontariato, farò qualche giro in Italia, a Napoli, Roma, Genova e Milano.  Visiterò a Napoli per la prima volta.  Sembra un po’ strano che io non abbia visitato ancora Napoli, una città cosi famosa nel mondo. E lo farò con un amico italiano. Sarà lui che mi accompagnerà a Napoli, per fortuna.

Come sapete, Napoli attrae l’attenzione di tutto il mondo a causa          dell’ emergenza rifiuti.  Questo è un grande peccato per gli abitanti di Napoli.  Tanti turisti stranieri anche giapponesi visitano Napoli ogni anno.  Anche i miei l’hanno visitata qualche anno fa, mi hanno detto che era una bella città.  Pero adesso in  tutta la regione di Campania ho sentito che ci sono montagne di rifiuti per strada.  Quando ho sentito questo notizia, non potevo capire perchè è diventato cosi serio questo problema in una città  cosi famosa e visitata da milioni di turisti.  Quando della situazione ne ha parlato la Tv anche in Giappone l’anno scorso, ho chiesto maggiori notizie al mio amico italiano. Il quale mi ha detto che questo problema è molto complesso e collegato a tanti motivi e a diversi interessi . Ero comunque fiduciosa di trovare tutto risolto per il mio futuro arrivo a Napoli. 

Invece ho appreso di recente che il problema è diventato ancora più serio. 

 

Ho cominciato allora a preoccuparmi perchè ho sentito che anche nel centro storico, dove si trova il mio albergo, i cumuli di rifiuti non sono stati tolti. Ho letto molti articoli su Yahoo Italia e ho anche visto il  TG1 e TG2 per capire meglio la situazione dell’ emergenza rifiuti.  Ho saputo poi dal mio amico della pubblicazione del libro Gomorra e  del film che ci hanno fatto. Quando verrò in Italia, penso dunque di comprare il libro e di vedere il film.  I motivi legati a questa assurda situazione saranno sicuramente tanti.  Però per me è del tutto incredibile che una città cosi famosa non ha

ancora un inceneritore e tutti i rifiuti finiscono nelle discariche, spesso abusive. 

 

In Giappone abbiamo cominciato a fare la raccolta differenziata già da molti anni. E i risultati sono buoni.

Per i rifiuti che sono riciclabili, come vetro, carta (giornali, riviste, ecc.), bottiglie di plastica, scatole di ferro e alluminio, contenitore di latte fatto di carta, foam polistirene la raccolta si tiene ogni due settimane. 

In Giappone si fa molta pubblicità ai prodotti  ecologici,in quanto riducono molto CO2 e fanno risparmiare energia.  La parola “eco” in fatti va di moda.  Tanta gente vanno ai supermercati con i loro “eco-sachetti per ridurre il consumo della plastica. Ci sono tante macchine, ma molta gente preferisce usare la bicicletta per girare nei loro paesi.

Ricordo comunque che a Torino in un supermercato mi è stato chiesto se avevo un sacchetto con me, altrimenti avrei dovuto pagare per averne uno. Parte forse da qui la differenza tra il Nord e il Sud d’Italia?   E poi perchè  gli italiani non usano di più la bici?? 

 

Non solo si immetterebbe meno CO2 nell’ambiente, ma si risparmierebbero anche molti soldi visto il prezzo altissimo della benzina.

Cosa ne dite voi italiani?

 

 

 

 

 

I° TROFEO CANOA KAYAK

Mormanno 1 e 2 giugno 2008

di Nicola Perrelli                   

 

 

 

Il lago artificiale “ Battendiero” di Mormanno  non è grande, ma rende il paesaggio del Pantano  sconfinato e incantevole. Dove su tutto spicca l’incredibile colore verde smeraldo dello specchio d’acqua. E’ un luogo tutto da scoprire, nel quale la natura ha accolto le opere dell’uomo donandogli inattesa bellezza.

 

In questo splendido scenario si è svolta la gara interregionale di Canoa per assegnare il I° TROFEO CANOA KAYAK - Città di MORMANNO - con il patrocinio della Provincia di Cosenza, del Parco Nazionale del Pollino e con la partecipazione dell’Enel, in qualità di  sponsor ufficiale.

La manifestazione si è sviluppata nel corso di due intense giornate: domenica 1 e lunedì 2 giugno.

 

Nella prima giornata si è tenuta la gara di Velocità che ha visto competere Kayak di più categorie, spinti da atleti provenienti da varie regioni italiane. Nella seconda invece, le stesse canoe e gli stessi atleti, hanno disputato l’entusiasmante gara di Fondo facendo più volte il periplo del lago.

 

La manifestazione sportiva è stata poi coronata dalla partecipazione e dall’apprezzamento del pubblico, che per una prima presa di contatto con uno sport faticoso e appassionante,  si è riversato, numeroso, sulle sponde del lago.

Il tempo, praticamente estivo, ha favorito  la riuscita della manifestazione e premiato l’impegno degli organizzatori.

Mentre il gran numero di visitatori ha  dimostrato che ogni sport, anche quello della canoa, cosi poco diffuso dalle nostre parti, è capace di suscitare l’interesse della gente, mormannesi compresi.  

 

                                                         

 

 

I VINCISGRASSI

di Paola Guasco

 

 

 

Estate, tempo di sagre, nella mia regione, le Marche, ce ne sono diverse e ognuna con una propria peculiarità: della polenta, della salsiccia, della bruschetta e via di seguito …

Io voglio trattare della sagra  che si ripete quasi in molte città e paesi, ovvero della festa del piatto marchigiano per eccellenza: i vincisgrassi, un gustosissimo piatto che però, ahimè, ha il difetto di non essere proprio light…

 

Vincenzo Buonassisi, giornalista critico e di gastronomia, ha definito l’elaborato piatto: “Monumento di sapienza culinaria contadina della terra marchigiana”.

 

Di questo piatto si è molto scritto e parlato, nell'intento di scoprirne l'origine autentica. Fino a poco tempo fa, l'ipotesi più accreditata faceva derivare la parola "Vincisgrassi" dal nome di un generale austriaco, tale Windisch Graetz che nel 1799 durante le guerre napoleoniche era di stanza ad Ancona con le sue truppe, cui il cuoco personale aveva dedicato la ricetta.
Questa ipotesi ha perso però autorevolezza con il ritrovamento de "Il Cuoco Maceratese", libro scritto nel diciottesimo secolo da Antonio Nebbia, grande cuoco di corte dell'epoca. In questo libretto Antonio Nebbia riporta una ricetta definendola "Salsa per il Princisgras" (grasso da principi), anteriore di almeno un ventennio rispetto all'arrivo in Italia del generale austriaco.

 

La specialità, tanto appetitosa, si allargò negli usi del popolo, e con l'uso la preparazione venne modificata a seconda delle costumanze e mode delle varie epoche. Nella ricetta originale, ad esempio, non si parla affatto di pomodoro e besciamella, cosa che oggi sorprenderebbe le stesse famiglie marchigiane di più lontana tradizione.

La ricetta prevede la preparazione di un ragù particolare: si  trita del prosciutto grasso e lo si mette a rosolare con lardo, olio e burro, si unisce un trito di aglio (poco) cipolla, sedano e carote, che vanno appassite prima di aggiungere alcune rigaglie di pollo, senza il fegato, della carne di vitello macinata grossa, della carne di pollo, anch'essa macinata grossa .

Il tutto va fatto ben rosolare e poi bagnato con una generosa dose di vino bianco, aggiustato di sale e pepe, lasciato evaporare velocemente.

 

Si aggiunge poi del pomodoro passato, pochissimo, con un poco d'acqua e si lascia cuocere lentamente, almeno un paio d'ore, aggiungendo ogni tanto un goccio di latte

A fine cottura si mettono nella pentola alcuni fegatini di pollo, ben lavati e tritati, che necessitano di una breve cottura.
Con questo ragù si  farciscono degli strati di pasta all'uovo, stesa fine e tagliata a losanghe larghe almeno 10 cm, lessata velocemente ed asciugata tra due canovacci: si stende  uno strato di pasta in una teglia imburrata, si mette sopra di esso uno strato di salsa e formaggio

parmigiano grattugiato e si alternano vari strati con qualche fiocchetto di burro qua e là.

Si preferisce far  riposare diverse ore in frigorifero, meglio tutta una notte e si mette la teglia  per 45 minuti in forno a 180°.

 

Questa è una pietanza altamente conviviale che si serve con un buon vino rosso, è, per così dire, il piatto della domenica, quando ci si ritrova in famiglia.

 

 

 

LA FELICITA’ ARRIVA DAI FIGLI E…NON SOLO!!!

di Tiziana Sarno

 

 

 

 

Secondo un recente articolo uscito sul giornale CITY ( quotidiano a distribuzione gratuita ) la felicità  del genere umano deriva dai figli : come non essere d’accordo !

Sono stata lo scorso 15 maggio a Teatro a vedere la prima di mia figlia Francesca: ha interpretato la parte dell’ “Anima innocente  nella commedia di Eduardo de Filippo “Questi fantasmi” .

Commedia che io, a dire il vero, non conoscevo e da cui  è stato tratto un film che ha avuto come interpreti addirittura  Vittorio Gasmann e Sofia Loren. (http://it.wikipedia.org/wiki/Questi_fantasmi)

 

Mia figlia, dieci anni, in tutt’altre faccende affaccendata, ha vissuto questa esperienza insieme ad un suo compagno di classe divertendosi e giocando, come è giusto che sia a quell’età !

Ma la mamma cioè io ?!!!

 

Confesso che vederla sul palco non per la solita recita scolastica ma con una Compagnia Teatrale vera ( di cui parlerò più avanti ) mi ha fatto un certo effetto : un po’ di ansia, un po’ di emozione, un po’ di tremarella , una sensazione strana : Oh Dio la mia bambina ! , e perché no, anche  un po’ di sano orgoglio materno.

Spesso riversiamo su queste povere creature i sogni giovanili che non siamo riusciti a realizzare però vedere che anche a loro  fa piacere e si divertono senza nessuna preoccupazione o ansia è semplicemente fantastico.

Veniamo adesso alla compagnia : mia figlia è nata a Roma da mamma lainara-mormannola e papà romano di origine calabra anche lui,  ha una sorella milanese e la compagnia del suo debutto è  “NAPOLI OGGI” ovvio tutti napoletani tranne lei !

 

Dunque , come dicono a “Napule”  i figli so piezz’ e core !! E già quel cuore che ci fa pensare che, nonostante tutte le brutture che anche esistono al mondo, per dirla alla Benigni, “La vita è bella”.

 

 

 

AL CARO ZIO TITINO

di Nicola Virgilio

 

 

 

 

Un emigrato eccellente

dall'aspetto sempre fiero

e dal volto sorridente.

 

All'arrivo, al tuo paese,

c'era sempre chi ti aspettava,

probabilmente

perchè portavi ciò che a noi mancava.

 

Ognuno sapeva di poterti sottrarre qualcosa:

i nipoti approfittavano

del tuo indimenticabile sorriso,

dell’affetto e della generosità.

Al seguito gli amici,

pronti a godere della tua genuina compagnia

e della musica con cui distribuivi l'allegria.

 

Beh, ora che non ci sei più,

ora che sei in Gloria,

lasciaci consolare nel ricordo,

che di questo bel paese,

sei stato un po’ la storia.

 

Ed ai tanti che ti hanno voluto bene

do un consiglio:

"Immaginate il suo viso...

e saprà ancora regalarvi un sorriso".

 

 

 

 

PICCOLI PENSIERI

di Bernardina Tonti

 

A Francesco M.T. Tarantino il 24 maggio 2008

 

 

 

 

 

Le cose degli altri

Son cose che si fanno

Che si celano, che si tacciono

Son buchi nella memoria

Che a capirli non serve storia

Sono integrazioni fatte ad arte

Scuciture del pensiero

E poi, che sarà qualche toppa

In fondo al corpo di una donna?

Son ricerche in un labirinto

In cui manca Arianna

E anche il filo…

Son piccoli trapezi

Da cui ci si lancia

E non si sa dove atterri

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

VALDO

di Francesco M.T. Tarantino

 

 

 

 

 

Più che di destra eri un uomo leale

Credevi alla patria a Dio e ai santi

Speravi molto nella giustizia sociale

Fonte di benessere per tutti quanti

 

Lavoravi la terra al bordo di un argine

Invocando la pioggia e la benedizione

Di Dio santo e di Maria semprevergine

Che indica la via della rassegnazione

 

Armato di braccia aste e bandiere

Seguivi l’evolversi della nostalgia

In piazza ai comizi come un dovere

Gridando slogan di vecchia ideologia

 

Legato ad un mondo diverso e passato

Trascorrevi i giorni inseguendo speranze

Con il tuo ciuco e un organetto stonato

Inneggiavi alla gloria ma senza distanze

 

Amavi la politica con la stessa ingenuità

Di chi non conosce il potere del potere

Uno schiaccianoci che ti rompe a metà

Che ignora il tuo credo e le tue chimere

 

Ti vedo ancora avvolto nel tuo folclore

Arrotolare tabacco per fumarti le idee

Giuste o sbagliate ma senza rancore

Per chi si imbarca e sfida le alte maree

 

E quando vennero le prime avvisaglie

Deponesti i trofei per un riposo sicuro

Ti lasciarono solo con le tue medaglie

A chiudere gli occhi in un chiaroscuro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UN ATTIMO VORREI…

di Marilena Rodica Chiretu

 

Un attimo vorrei fermare il mio tempo,

tra le stagioni camminare

nell’alito d’ un bacio

acceso sulle labbra, sul prato dei verdi sguardi,

dalla malinconia portata sulle spalle degli anni.

Un attimo vorrei saperti tra le mie braccia,

tra sillabe, tra note, colori e pensieri,

godere la canzone di dolci nostalgie,

raccogliere nel pugno solo le armonie.

E’ bello qui, a casa mia,

sotto il tetto del vecchio cielo,

dalla finestra guardo le cime delle alte montagne,

un attimo vorrei fermarti nelle valli,

ascoltare il mormorìo delle profonde fontane,

dai tuoi mari che possa salire

fino alle mie mani

per scrivere insieme con raggi

un’ altra sinfonia,

tra i petali dei fieri tulipani.

Un attimo vorrei essere

un fiore con due rami

spuntati dalla stessa radice,

intreccio sentieri lontani

per capire ciò che in sordina il silenzio mi dice

al di là del fremito

nascosto dagli anni...

 

O CLIPA AS VREA…

 

O clipa as vrea sa- mi opresc timpul,

printre anotimpuri sa colind

in suflul cald al unui sarut

aprins pe buze, pe pajistea privirilor verzi

de melancolia purtata pe umerii anilor.

O clipa as vrea sa te stiu in bratele mele,

printre silabe, note, culori si ganduri,

sa ne bucuram de cantecul dulcilor doruri,

sa adunam in pumn numai armonii.

E frumos aici, acasa la mine,

sub acoperisul cerului batran,

de la ferestra privesc culmile

inaltilor munti,

o clipa as vrea sa te opresc intre vai,

sa ascultam murmurul fantanilor adanci,

de la marile tale sa poti sa urci

pana la mainile mele

pentru a scrie impreuna cu raze

o noua simfonie

intre petalele mandrelor lalele.

O clipa as vrea sa fiu

o floare cu doua ramuri

rasarite din aceeasi radacina,

impletesc carari indepartate

ca sa - nteleg ce- mi spune tacerea in surdina

dincolo de freamatul

ascuns de ani...

 

 

 

 

 

 

 

 

FRANCESCA ALDERISI IN ARGENTINA : LA MIA PROFESSIONE È LA MIA PASSIONE

di Silvia Garnero

 

Italianos en América /Buenos Aires

Francesca Alderisi , famosa ex conduttrice di 'Sportello Italia' ( tv-show dedicato alla tematica degli italiani all'estero trasmesso per Rai International) è già arrivata a Buenos Aires. Per tre settimane sarà ospite in diverse associazioni a Buenos Aires e Mar del Plata dove incontrerà anche molti telespettatori, con chi avrà un contatto più diretto per conoscere le loro storie, certa di poterle raccontarle a breve in un nuovo programma televisivo.

--Questi giorni si parla molto sul tuo arrivo in Argentina. ¿Cosa ti ha spinto a venire in Sudamerica?

--F.A : Sicuramente l'amore per gli italiani nel mondo. Devi sapere che nei sette anni trascorsi a Rai International, il tempo per viaggiare era veramente poco e considerando che il mio programma andava in onda tutti i giorni per molti mesi consecutivi, il tempo libero lo trascorrevo sempre per recuperare  energie. Da quando Badaloni non mi ha più voluto a Rai Internatiional, ho avuto molto tempo libero ed allora al posto di disperarmi e piangere per avere perso il mio programma, ho deciso di concentrarmi sulla  famosa metà del bicchiere pieno e fare ciò che non mi era stato possibile fare prima, ovvero viaggiare per incontrare le comunità italiane nel mondo. Dopo essere stata in Canada, negli Stati Uniti ed in Australia, ho deciso che era arrivato il momento di andare nel paese dal quale ho sempre ricevuto il maggior numero di corrispondenza: l'Argentina. Si tratta di un viaggio emozionante e ricco di appuntamenti a Buenos Aires e Mar del Plata, dove finalmente sto conoscendo in persona molti miei telespettatori. 

--Per quelli che ancora non ti conoscono, raccontaci quando è cominciata la tua carriera televisiva e come sei arrivata ad occuparti degli italiani all'estero?

F.A: Ripensare ai miei esordi televisivi mi porta indietro alla mia adolescenza, quando sedicenne iniziavo ad andare ai miei primi provini. Sono passati ormai più di venti anni ed ogni giorno il mio lavoro mi affascina e piace sempre di più, poiché mi da modo di emozionarmi e trasmettere le mie emozioni agli altri, attraverso programmi che abbiano comunque sempre come filo conduttore l'utilità ed il servizio. Di gavetta ne ho fatta tanta: dalle piccole televisioni regionali sono approdata in Rai e poi a Rai International, il canale televisivo dedicato agli italiani nel mondo.  Proprio per gli italiani all'estero è nata da parte mia una grande passione . Mi sono occupata a lungo di tutte le tematiche che li rigurdano,  in 1200 puntate di SPORTELLO ITALIA, trattando non solo dei l oro problemi, ma anche di tutto il filone sentimentale legato all'emigrazione. Con molto orgoglio posso dire oggi di essere  considerata una sorta di "piccola" ambasciatrice degli italiani nel mondo, a cui sono legata da un affetto grandissimo , a tal punto da avere da pochi mesi ideato un sito internet che sta riscuotendo molto successo e che invito tutti a visitare:   www.prontofrancesca.it

--Abbiamo saputo sulla decisione di Piero Badaloni di sostituirti alla guida di Sportello Italiana e ,anche se  ora hai le tue puntate su internet, come immagini il tuo ritorno alla televisione, pubblica o privata?

--F.A : Diciamo che il comportamento del  Direttore di Rai International Piero Badaloni nei miei confronti, non è stato a mio avviso un esempio di grande professionalità. Si parla spesso di meritocrazia ed io per prima avendo coordinato personalmente per molti anni il mio gruppo di lavoro di SPORTELLO ITALIA, ho sempre prestato molta attenzione affinché venissero valutati i reali meriti professionali delle persone e non le "amicizie", soprattutto politiche. Essere stata sostituita senza motivo tra l'altro da un personaggio politicamente di parte, mi ha fatto capire che Rai International, che fino ad all'ora era sta un'isola felice, con l'arrivo della nuova gestione, si era adeguata ad un sistema che sinceramente non avevo mai preso in considerazione: l'azzeramento delle professionalità. Sicuramente per me è sta una grande lezione di vita ed ho capito che avere degli ideali costa molto, ma io continuo ad essere una "pura" e sognatrice e proprio per questo tutti stanno facendo il tifo per un mio rapido ritorno in televisione. Certo avrei preferito non dovere pensare di tornare solo perchè a breve ci saranno in seguito alle elezioni politiche, i soliti cambiamenti ai vertici dell''azienda Rai, ma se il mondo gira così, non è colpa mia, l'importante è potere continuare a fare con serietà e libertà creativa il mio lavoro di conduttore ed autore televisivo, continuandomi ad occupare di italiani all'estero, come faccio ormai da quasi dieci anni...... senza dovere essere valutata solo per cambi di venti politici

-- Cosa possiamo sapere della tua vita di donna. ¿Come ti dividi tra la tua professione e gli altri interessi..?


F.A : In questo mi ritengo molto fortunata, poichè la mia professione è la mia passione, quindi gran parte dei miei interessi trovano pieno appagamento proprio nel mio lavoro. La mia passione resta però da sempre il mare. Da metà giugno mi trasferisco nella mia piccola casetta a Ponza, un'isola del Mediteraneo dove vado ormai da anni. Lì ritrovo il mio luogo delle radici ed un ritmo di vita più lento, che mi consente di essere a contatto con la natura e dedicare più tempo a me stessa, per me questo è il vero lusso.

 

 

 

 

QUALE DIREZIONE STIAMO PRENDENDO?

di Paola Guasco

 

 

 

Le scorse elezioni politiche in Italia hanno portato un nuovo assetto decretando l’uscita dal Parlamento della sinistra più estrema; questo fatto secondo me, pur non facendo parte di detta ideologia, ha contribuito alla recrudescenza di un fenomeno importante: la rinascita del fenomeno chiamato neonazismo.

In Italia si registrano inquietanti segnali di una rinascita del neonazismo. Lo ha detto il Capo dello Stato Giorgio Napolitano in occasione della cerimonia della Giornata della memoria per le vittime del terrorismo.

Il Capo dello Stato ha paventato il rischio di un ritorno del neonazismo in Italia: "Stiamo vedendo segni di reviviscenza addirittura di un ideologismo e simbolismo neonazista, dobbiamo saper cogliere il dato che accomuna fenomeni pur diversi ed opposti: il dato della intolleranza e della violenza politica, dell'esercizio arbitrario della forza, del ricorso all'azione criminale per colpire il nemico e non meno brutalmente il diverso: per sfidare lo stato democratico".

Gli abominevoli fatti accaduti nel veronese e anche, recentemente, a Roma (i più eclatanti, ma ce ne sono tanti quotidianamente) nel quartiere Pigneto di Roma credo debbano fare riflettere: non è che questi gruppi si sentano legittimati a fare ciò che fanno in seguito alla vittoria alle elezioni del centro destra?

 

Certo, la classe politica, come è giusto, ha preso le distanze e condanna vivacemente questi fatti che non le appartengono, però c’è da dire che forse, quando la base di questi movimenti si sente sdoganata e legittimata dal sistema politico, allora, con ogni probabilità, diventa più aggressiva, tende a recuperare lo spazio che per anni si era vista negare.

Questa legittimizzazione secondo me deriva dalla propaganda politica più nazionalista che certe bande, non comprendendola del tutto                       ( o adattandola ai propri comodi) hanno fatto propria arrogandosi il diritto di difendere il territorio e aggredendo il diverso (di qualunque colore, idea, cultura e ambiente sociale).

Quindi, a questo punto, che fare?

Non c’è, a mio avviso, una risposta  immediata, solo le istituzioni e il buon senso possono provare a ridimensionare il fenomeno, ciò che possiamo fare è riflettere, riflettere su quale direzione stiamo prendendo e stiamo dando al nostro Paese.

 

 

 


 

 

 

 

UN COPRICAPO SEMPRE ATTUALE

di Raffaella Santulli

 

 

 

 

Sovrani, cattolici ed avversari di Lutero, Enrico VIII e Massimiliano I  amarono entrambi l’arte venatoria ed i suoi riti: l’inseguimento di caprioli e di lepri, di cinghiali e di daini nei boschi, la crapula e la bisboccia nei banchetti che ne seguivano.

 

Dopo qualche tempo il re d’ Inghilterra e d’Irlanda decise di dedicarsi ad altra caccia, forse più pericolosa- fu anche ragione della sua rottura con la Chiesa di Roma- quella dell’altro sesso…..e si scatenò.

 

Gli storici non sanno dire granché sul significato dell’elmo con corna di muflone, che il suo antico compagno di scorribande, l’imperatore d’Asburgo mai incoronato dal Papa, gli donò.

Ci assicurano che il singolare regalo non era destinato ad una funzione difensiva, ci spiegano che doveva avere uno scopo decorativo: il re avrebbe dovuto indossarlo durante le parate e le altre occasioni ufficiali.

 

È possibile credere che Enrico VIII potesse portare in pubblico un simile copricapo? Un autentico mascherone sormontato da un trofeo venatorio senza generare un irresistibile effetto comico?

No. Ne siamo sicuri,ma quelle magnifiche corna attorcigliate di capra di montagna, così vistose da destare riverenza, sono una consuetudine di cui si trovano tracce sia nell’antichità classica ed in certe tradizioni barbariche, che nell’odierna quotidianità.

 

Varia solo il senso e la fattura.

Non sono certo segno di fecondità e di potenza virile, ma cadeaux unisex talvolta indossati con impropria ed ostentata alterigia.

 

 

 

 

 

 

 

TEMPI MODERNI

di Erika Scotti

 

 

 

   ....come cambiano i tempi...vi ricordate dell'asilo? Io andavo dalle suore, severissime tra l'altro..e vi ricordate come passavamo le giornate? Si giocava, si pitturava, si mangiava tutti insieme in silenzio ed educatamente, si dormiva...a volte si vedeva un cartone e si imparava qualche canto o poesia.Ah dimenticavo...il grembiulino! Rosa, giallo o azzurro, con o senza fiocco e l'armadietto contrassegnato dal simbolo che poi ti perseguita fino alle elementari...io ero la foglio verde...no dico, che gusto c'e' a essere la foglia verde? E non e' che ti lascino scegliere, no! Te lo appioppano non si sa bene in base a cosa e foglia verde rimani per 3 anni!                                                                                                            Meno male che i tempi sono cambiati!                                                     Come ho gia' fatto presente qualche articolo fa, ho un bimbo di 2 anni e 5 mesi e proprio recentemente ha cominciato quello che in America Latina si chiama pre Kinder...non mi e' ancora ben chiaro se significhi pre elementari da noi o cosa...

Dimenticate le suore! (con tutto rispetto ..) e dimenticate le ''signorine'' o le ''maestre''....eh si' perchè qui si chiamano ZIE!  Perchè uno studio sulla psicologia dei bambini dice che non vogliono sentirsi intimiditi da termini-stereotipo che ricordano l'autorità....e allora via con le zie!                            E il grembiulino?? Bocciato e sostituito da divise complete che comprendono:                                                                                                    1 maglietta manica corta bianca con ricamo che rappresenta il simbolo della scuola, nel nostro caso trattasi di uccellino che sta appena uscendo dall'uovo.                                                                                                            1 tuta da ginnastica con i colori della scuola, per noi rosso e azzurro         1 pantaloncino corto per l'ora di ginnastica in coordinato                             1 paio di calzini di spugna                                                                                1 mantellina sempre con gli stessi colori e lo stesso ricamo che serve per mangiare o dipingere.

Il tutto non lo andate a comprare alla merceria del paese come succedeva qualche annetto fa ma vi viene consegnato direttamente dalla direttrice...pardon ZIA .... al momento dell'iscrizione. Ovviamente dimenticate ago e filo per cucire l'odiato simbolo ,adesso si fa ricamare a macchina il nome del pargolo su ogni pezzo di vestiario.                             E i pennarelli? Residuati bellici signori! Adesso si usano i colori a dita per stimolare la creatività e la manualità del pupo!                                            Non crediate che le attività  giornaliere siano lasciate al caso...mi e' stato consegnato un memorandum che comprende i programmi mensili fino ad agosto. Si avete capito bene perché qui un asilo che si rispetti non chiude d'estate, cambia semplicemente nome, diventa Campo Estivo e alleggerisce il programma con frequenti visite a tutti i parchi della città.    Vi dicevo del memorandum....un programma completo e dettagliato sulle attività giornaliere. Per esempio , il lunedì si trattano i temi sociali....abbiamo la lezione sul rispetto degli animali, sul mondo del lavoro, su come curare e amare le piante e chi ne ha piu' ne metta. Il martedì e' il giorno della (tenetevi forte) valutazione psicologica! Tutte le settimane viene una psicologa che osserva i bambini allo scopo di individuare eventuali difetti nel camminare, problemi di linguaggio o comportamenti che denotano un qualche problema psicologico.                 Il mercoledì , una volta al mese, c'e' la consegna delle valutazioni sul bambino, una sorta di pagella dei nostri tempi. Giovedì nuoto e il venerdì si va in gita.                                                                                                     Poi ci sono l'ora di inglese giornaliera, l'ora di musica due volte a settimana, e a partire dai 3 anni la lezione quotidiana di computer.       Non so voi ma io sono esausta!

La cosa sorprendente e' che i bimbi moderni sembrano perfettamente a loro agio nel destreggiarsi tra tante differenti attività...nel giro di due settimane Alex ha completamente abbandonato il ciao preferendo il più internazionale bye bye.

Se poi decidete di iscrivere vostro figlio a tempo pieno, ossia fino alle cinque del pomeriggio allora sappiate che imparerà anche a ballare e recitare.                                                                                                          Nel caso in cui vogliate seguire al massimo il rendimento del piccolo allora ci sarebbero i colloqui privati con i diversi insegnanti ...ovviamente il professore di lingua straniera, rigorosamente madrelingua, parla esclusivamente inglese con bambini, genitori e colleghi compresi.

Tutto quello che riguarda l'ecologia e il mondo animale e' considerato di grande importanza nell'educazione dei bambini tanto che l'asilo ha un area verde riservata all'orto in cui ogni bimbo e' responsabile di una piantina che aiuterà a curare e a turno le classi hanno la responsabilità di prendersi cura di un coniglietto a cui non deve mai mancare cibo acqua e pulizia.

I prezzi non sono proprio alla portata di tutti per questo tipo di scuola, parliamo di 170 dollari al mese dalle 8.30 alle 12.30 escluso il pranzo,    più 15 dollari di assicurazione, 25 dollari per il corso di nuoto e la matricola che sono circa 200 dollari annuali e che comprende la possibilità di collegarsi via internet, usando un codice particolare, con le telecamere dell'asilo per poter vedere in ogni momento i vostri piccoli impegnati nelle loro attività quotidiane, da aggiungere 50 dollari mensili nel caso vogliate usufruire del servizio di trasporto.                                   Stiamo parlando di un normale asilo, niente di eccezionale...se poi volete il top del top allora fatevi 2 anni in lista di attesa e iscrivete la prole al famosissimo e di elite Accademia Cotopaxi e preparatevi a sborsare circa 300 dollari al mese per un part time.                                                   

Ebbene questo e' stato il mio primissimo impatto con il sistema educativo ecuadoriano....potete biasimarmi per essermi sentita, almeno per un attimo, una specie di dinosauro sopravvissuto all'ultima glaciazione?

 

 

TUTTA LA VITA DAVANTI

di Carla Rinaldi

 

 

 

Chi se non Paolo Virzì poteva girare una storia sul precariato condendola di humour feroce e sagace solo come il suo cinema sa fare?

“Tutta la vita davanti”, l’ultima sua fatica, racconta la generazione detta proprio “call center” perché ormai con o senza laurea, con o senza sette master e varie specializzazioni, alla fine un ragazzo su uno, finisce a lavorare a buttare l’anima per qualche centinai di euro al mese, in quei non luoghi lunari dove le luci al neon sono il cielo, le cornette telefoniche sono gli unici contatti umani, dove la truffa nella maggior parte dei casi, diventa l’unica specializzazione che devono imparare in fretta per poter restare seduti a chiamare la gente per qualche monetina.

 

E’chiaro che Virzì ha romanzato all’ennesima potenza tutto, la ragazza punk sicula laureata in filosofia con il massimo dei voti che affronta qualsiasi tribolazione; il ragazzo iper motivato del call center che vive, galvanizzato dai suoi capi aguzzini, la sua missione di estorcere denaro alle vecchiette rendendosi conto solo alla fine del film che tutto è troppo marcio perché alla nonna in dialisi ha spillato 15.000 euro e dal call center riceve 800 euro ogni due mesi; il sindacalista che cerca di far svegliare i precari a ribellarsi contro lo sfruttamento; la bonazza svampita coatta vuota e demotivata, madre di una bimba che lascia al suo destino per cercare con stratagemmi squallidi di rifarsi una vita; il capo maschio del call center (Massimo Ghini) palestrato e disperato perché la moglie lo ha sbattuto fuori di casa e succhia alimenti miliardari ogni mese; la capo o kapo’ femmina (Sabrina Ferilli) del call center che ogni mattina manda sms mielosi in serie a tutte le ragazze dell’azienda con le quali ad ogni inizio mattina balla e canta una canzone che dà forza, amore e fede in quello che fanno, ossia frodare gli altri e se stesse soprattutto.

 

Tutto viene raccontata dalla voce di Laura Morante che, consapevolmente cinica e ingenuamente pungente, si prende il giusto lusso di narrare da fuori un mondo orribile al quale deve fare per forza parte la protagonista punk sicula che non è coatta, non ha mai visto il “Grande fratello”, non è spendacciona, è colta, dolce, preparata, ma vive in Italia nel 2008 ed è quindi costretta a telefonare ogni giorno centinaia di persone cercando di convincerle ad acquistare un inutile e mal funzionante aerosol al prezzo di un diamante di Bulgari.

 

La commedia è amara e deve essere così, almeno quella italiana che solo il regista livornese è capace di fare, si ride per due ore ma quando si accendono le luci quel senso di acre rimane e, specialmente in questo caso, non si sa se le lacrime di gioia o più concretamente di dolore.


 

 

 

LA TARGA DELLA MALDICENZA “SOCRATES PARRESIASTES” A GIUSEPPE DE RITA

di Goffredo Palmerini*

 

 

Al Presidente del Censis il premio per il 2008 dell’antica tradizione Agnesina

 

 

 

L’AQUILA –  E’ stata conferita a Giuseppe De Rita la Targa “Socrates Parresiastes” per l’anno 2008, così come deliberato dalla Confraternita dei Devoti di Sant’Agnese. Ne ha dato motivazione il presidente della Confraternita, Tommaso Ceddia. “Da molti anni – ha detto il prof. Ceddia – Giuseppe De Rita si distingue per le analisi puntuali e franche riportate nelle relazioni annuali del Censis, in ordine alla politica, all’economia e all’assetto sociale dell’Italia. (…) L’ultima relazione è stata ripresa e commentata con grande interesse. Italia a coriandoli, mucillagine, disintegrazione sociale sono diventate espressioni comuni, come le differenze di rappresentanza tra identità e appartenenza. Alcuni lo hanno giudicato pessimista. (…) In realtà il dr. De Rita ha esposto una diagnosi vera, franca, coraggiosa e autorevole”. Sta tutta qui dunque la ragione dell’assegnazione al presidente del Censis della Targa “Socrates Parresiastes” – il termine parresia si traduce con l’espressione “dire la verità” - , in quanto Personalità che nel suo impegno di massimo studioso dei fenomeni sociali, per la franchezza e la genuinità delle sue riflessioni, promuove la verità. Quella verità che ha contribuito a rendere grandi Socrate, Diogene, Giovanni Battista, Foscolo, Montanelli e tanto altri. Il riconoscimento a Giuseppe De Rita segue quello conferito nel 2007 a Remo Bodei, docente alla University of California di Los Angeles, tra i più autorevoli filosofi al mondo ed insigne studioso di Michel Foucault, filosofo francese scomparso nel 1983.

 

Negli ultimi anni di vita Foucault aveva istituito, all’Università di Berkeley, un corso sulla problematizzazione della parresia, sulla rilevanza che nelle società moderne possono assumere i parresiasti, cioè coloro che hanno il coraggio di dire la verità e di viverla, con schiettezza ed autorevolezza. La Maldicenza della tradizione Agnesina aquilana, se da un lato non ha la pretesa d’incarnare nella compiutezza degli aspetti filosofici la parresia, ha tuttavia sempre cercato d’assumere una funzione civile e comunitaria. Non dire mai male di qualcuno, ma “il male”: questo lo spirito della Maldicenza Agnesina, che non scade mai nella malizia, nella malignità o nella cattiveria. L’Agnesino dice quel che pensa e agisce come parla. Parlar chiaro davanti a tutti per attestare un bene comune, o difenderlo con tenacia, è qualcosa che sta quindi molto vicino alla parresia. Dunque, dire la verità con libertà, non mentire, non adeguare le proprie convinzioni alle convenienze di turno, ma esprimerle con coraggio e dignità.

 

La consegna della Targa è avvenuta venerdì sera nel corso d’una intensa cerimonia nella sala delle Assemblee della Cassa di Risparmio dell’Aquila, presenti le massime autorità regionali e cittadine ed un pubblico numeroso, molto interessato ad ascoltare le “maldicenti” argomentazioni dell’illustre ospite, secondo la tradizione aquilana della festa di Sant’Agnese. Occorre tuttavia richiamare alla memoria che la Santa martire c’entra poco o niente con questa festività tutta civile votata alla Maldicenza, che affonda le sue radici nel Trecento, se non per il fatto che in un monastero a Lei dedicato venivano ospitate le “malmaritate” – donne già di facili costumi, da redimere – che di giorno venivano impiegate in faccende domestiche nelle dimore dei benestanti e potenti della città, mentre a sera rientravano nel monastero dove avevano accoglienza. Ma il 21 gennaio, giorno della festività religiosa di Sant’Agnese, all’Aquila era tassativamente vietato lavorare e le malmaritate si ritrovavano nelle bettole della città insieme alla gente del popolo per dire il male fatto dai signori e potenti presso i quali erano a servizio. Questa singolare e strana festa, solamente aquilana, ha elevato per secoli la Maldicenza a virtù civica. La tradizione Agnesina della Maldicenza, infatti, rifugge dal pettegolezzo. E’ invece critica fortemente mordace, schietta e con spirito costruttivo, talvolta con il ricorso a salace ironia, nel dire la verità in assoluta libertà. Insomma, un ulteriore elemento della forte impronta libertaria della comunità aquilana, che sin dalla fondazione della città, a metà del Duecento, aveva sempre coltivato uno deciso spirito autonomistico e ribelle. La festa, tramandatasi nel corso dei secoli attraverso le “confraternite” popolari, si arricchì nell’Ottocento anche con sodalizi borghesi e nobili. Messa al bando dal regime fascista, che ne temeva lo spirito critico e libertario, solo alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso risorse con rinnovato fulgore con la costituzione di centinaia di confraternite che il 21 gennaio d’ogni anno “celebrano” la festività riunendosi intorno a tavole imbandite e “maldicendo” - cioè “dicendo male del male” - secondo l’atavica libertà civile aquilana.

 

E’ stato il presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco - consegnando la Targa al premiato - a richiamare il valore e l’opera di Giuseppe De Rita, con un ricordo all’ultracinquantennale amicizia con l’insigne studioso, nato a Roma nel 1932 da famiglia d’origine molisana, regione allora unita all’Abruzzo. Ne ha tracciato il rigore intellettuale e le qualità, virtù subito messe in evidenza già dal 1955, quando De Rita iniziò la sua lunga carriera accanto al gotha del pensiero economico e sociale cattolico, quali Ezio Vanoni, Pasquale Saraceno e Giulio Pastore.

 

Quindi Del Turco ha sottolineato l’importanza del Censis, di cui De Rita nel 1964 è tra i fondatori. Molti in Italia i Centri Studi, negli anni sessanta e settanta, caratterizzati però dal “pregiudizio ideologico”. Al contrario del Censis, le cui relazioni – benché criticate ed osteggiate al momento – si sono poi sempre dimostrate “vere” nell’analisi e nelle terapie proposte, tanto da essere un riferimento imprescindibile d’ogni seria valutazione della realtà sociale italiana.

 

Tutto il pubblico, a questo punto, attendeva una riflessione da parte del prof. De Rita, che non è mancata. Intanto - ha dichiarato il prof. De Rita - la curiosità, l’originalità di tale tradizione, i principi che da secoli l’animano ed una sorta di piacere “narcisistico” nell’essere riconosciuto come personaggio capace di dire le cose come stanno, l’hanno indotto ad accettare il premio “Socrates Parresiastes”.  Poi ha preso un po’ le distanze – per una sorta di modestia - dal personaggio che predica la “verità”, sia declinata in terra come a maggior ragione quella trascendente, con la lettera maiuscola. Più aderentemente De Rita preferisce definirla “realtà”. Egli è un “monaco delle cose”, secondo una definizione in cui pienamente si ritrova. Egli per mestiere “annusa”, osserva e descrive la realtà in giro per l’Italia.. Quella stessa che spesso la politica e il potere stentano a riconoscere, se non dopo anni, come capitò quando in una relazione del Censis all’inizio degli anni settanta parlò del “localismo”, analizzando il fenomeno tessile di Prato e della economia sommersa che lo riguardava, suscitando reazioni e critiche. Quella “realtà” attese decenni per essere riconosciuta e metabolizzata. Il tempo che vive L’Italia, sebbene con una difficile congiuntura, fa descrivere a molti un declino che non c’è, coloro che ne parlano forse ne avvertono la percezione che non va confusa con la realtà.

 

De Rita ha quindi fotografato in quattro punti l’odierna “realtà” italiana: localismo, identità anziché relazione, il “qui e subito”, il ritorno del sacro sul santo. Ne ha tratteggiate con rigore analitico le caratteristiche, che riconducono a quell’Italia a coriandoli, dei particolarismi che non si legano ad unità e a sistema. Non ha tratto giudizi, lasciati a chi ascolta. Ne viene fuori un Paese – questa la valutazione tratta da chi scrive - chiuso nei particolarismi e sempre più spesso negli egoismi, dove la pratica ossessiva dell’identità fa perdere le coordinate della vita di relazione degli uomini e delle comunità, alimentando la paura dell’altro, specie quando è culturalmente diverso. Attenuato il senso del processo storico e sociale, si preferisce vivere e godere il presente, senza riferimenti nel passato e senza riguardo per l’avvenire. Persino il senso religioso – il prof. De Rita ha chiesto venia all’arcivescovo Giuseppe Molinari, che l’ascoltava, per questa osservazione – tende a ritirarsi nel “sacro”, in una contemplazione verticale con Dio, piuttosto che frequentare “il santo”, seguendo le indicazioni del Concilio Vaticano II, ossia il difficile cammino nella storia dell’umanità, nel mondo di oggi, sporcandosi le mani per cambiarne il corso e riconoscendo Cristo nei poveri, negli emarginati, nei sofferenti e anche nei migranti. Ecco, questa “realtà” andrebbe superata per recuperare una società più aperta, giusta e solidale, più unita e segnata dalla speranza, piuttosto che dalla paura. Queste, dunque, le impressioni ricavate dalla conversazione del prof. De Rita, già presidente del Cnel dal 1989 al 2000, collaboratore del Corriere della Sera, dal 1995 presidente della casa editrice Le Monnier e membro della Fondazione Italia-Usa. A conclusione della cerimonia il Sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente, ha donato a De Rita una targa d’argento con su scritto “A Giuseppe De Rita, aquilano”. Già, perché un Agnesino “maldicente” può essere solo aquilano!

 

 

* gopalmer@hotmail.com - componente del Consiglio Regionale Abruzzesi nel Mondo

 

 

 

MARC ANTHONY: MUSICA, PASSIONE E POESIA

di Paola Cerana

 

 

 

Tra le innumerevoli newsletters che puntualmente mi tengono aggiornata sulle novità discografiche e gli appuntamenti concertistici della musica latinoamericana, mi è finalmente giunta una notizia su cui oramai non contavo più.

Dal 18 giugno al 18 agosto il Forum di Assago di Milano ospiterà, come ogni anno, il Latinoamericando-Expo, la più importante manifestazione d’Europa dedicata alla musica, alle danze, alla gastronomia e a tutte le forme espressive del mondo latinoamericano. Molti grandi artisti hanno animato, in passato, il Festival, giunto alla sua diciottesima edizione: Tito Puente e Celia Cruz, Eddie Palmieri e Juan Luis Guerra, Gilberto Gil e Jorge Ben Jour.  L’atmosfera che si respira ogni volta è quella di un grande villaggio multicolore, un tuffo nei Tropici, in cui persone diverse per razza e cultura si fondono a suon di salsa, merengue e samba.

 

La grande notizia è che il 1 luglio, finalmente, si esibirà Marc Anthony, il “Principe della Salsa”. Da anni è stato corteggiato dai suoi fans italiani, costretti, finora, ad affrontare lunghi viaggi per poterlo ascoltare dal vivo. E chi, come me, ama questi ritmi sa cosa significhi assistere ad un concerto in cui la musica parla direttamente al corpo, prima ancora che alla testa, e si fa danza, penetrando ogni muscolo, catturato senza freni dall’esuberanza e dalla sensualità dei movimenti. 

Molti oggi conoscono Marc Anthony semplicemente per essere il fortunato consorte di Jennifer Lopez, la cui immagine mediatica ha messo in ombra le sue qualità artistiche di autore, cantante e attore. In realtà la salsa degli ultimi vent’anni deve molto a lui.

 

Figlio di genitori puertoricani, Marc Anthony – nome rubato al cantante messicano Marco Antonio Muniz - nasce a New York nel 1969, nel quartiere di Spanish Harlem, in un ambiente intriso di quel ritmo e quelle sonorità, che saranno il suo imprinting musicale e l’anima del suo successo. Sin da ragazzo lavora come corista nei clubs di New York, cantando esclusivamente in inglese, ma è l’incontro con Tito Puente, nel 1992, a dare un’impennata alla sua carriera.

 

Da quel momento, infatti, Marc Anthony comincia a cantare in spagnolo, esordendo con una versione in salsa di “Hasta que te conocì”, struggente bolero di Willie Colon, che lo rende popolare non solo negli Stati Uniti ma in tutta l’America Latina. La consacrazione definitiva della sua carriera arriva nel 1997, con l’album “Contra la corriente” e oggi Marc Anthony ha conquistato il mercato e il pubblico internazionale, altalenandosi tra la salsa vecchio stampo e il pop più commerciale.

 

Questo contagio, in verità, mi porta spesso a rifugiarmi nel revival, riaccendendo in me la nostalgia di quelle sonorità tradizionali che mi avevano fatta innamorare quando ancora la musica latinoamericana  era solo un’irresistibile passione e non ancora una moda. Tuttavia, questa

compenetrazione di stili pare essere commercialmente vincente, visto che cantanti come Willie Colon e Ruben Blades - e molti altri ancora - rimasti fedeli alle loro origini musicali, restano pressoché sconosciuti fuori dall’America Latina, nonostante siano poeti e cantanti eccellenti. E’ indiscutibile, comunque, il virtuosismo vocale e l’energia coinvolgente di Marc Anthony che, oggi come quindici anni fa, mi emoziona, mettendomi le ali ai piedi, facendo battere il mio cuore all’unisono con bongos e congas.

 

Anche come attore Marc Anthony non smentisce la sua carica passionale. Nel film, uscito lo scorso anno, “El Cantante”, ridà vita e voce a Hector Lavoe, leggendario cantante puertoricano che nei primi anni ’70 raggiunse un successo strepitoso, nonostante la vita travagliata che lo condusse alla morte prematura, logorato dalla droga e stroncato dall’aids.   Todo tiene su final, nada dura para siempre, tenemos que recordar que no existe eternidad. Ovvero “Tutto ha una fine, niente dura per sempre, dobbiamo ricordare che non esiste eternità”. Così Marc Anthony interpreta magnificamente, nel film, la canzone che ha reso celebre, e paradossalmente immortale, Hector Lavoe.

Ma è un duetto con la cantante La India ad avermi fatto amare Marc Anthony, quando, insieme, ipnotizzavano ballerini e ballerine, incollando i loro corpi come magneti, sotto le luci delle piste da ballo. Occhi negli occhi, petto contro petto, il ritmo incalzante di “Vivir lo nuestro”, ha fatto innamorare i salseri di tutto il mondo. “… vivir lo nuestro, y amarnos hasta quedar sin aliento, sonar, sonar despiertos en un mundo sin razas, sin dolores, sin lamentos, sin nadie que se oponga en que tù y yo nos amemos …”. Ovvero “… vivere il nostro (amore), e amarci fino a restare senza fiato, sognare, sognare da svegli, in un mondo senza razze, senza dolori, senza lamenti, senza nessuno che si opponga al fatto che tu ed io ci amiamo …”.

 

Vorrei che queste parole si traducessero magicamente in note e chi leggesse si sentisse preso per mano e invitato a ballare ad occhi chiusi. Di sicuro, anche i giovani che conoscono la pop star di oggi non potrebbero non emozionarsi ascoltando quella melodia gentile che parla al cuore e che appartiene a quella che si definisce salsa vieja, salsa vecchia che, in realtà, età non ha. Romanticismo e sensualità erano gli ingredienti che si miscelavano armoniosamente nella salsa di allora, fino a traboccare in morbidi volteggi e appassionati casquet, così lontani dal martellante reggaeton che sta spopolando ovunque ormai da qualche anno.

 Credo che il Latinoamericando-Expo sia un’occasione per recuperare un passato musicale pieno di passione e per fare apprezzare ancor di più, anche al pubblico italiano, un artista che merita di essere conosciuto meglio. Vale la pena, quindi, prenotare in anticipo il biglietto, il cui costo si aggira attorno ai 50 Euro. Certamente non è a buon mercato rispetto alla media dei concerti del Festival Latinoamericano. Ma per un artista

abituato ad esibirsi sotto i riflettori del Madison Square Garden di New York direi che si può fare, anche perché chissà quando e se tornerà in Italia.

Per chiunque perdesse l’evento milanese e per gli amici romani, Marc Anthony bisserà il 2 luglio a Roma Capannelle, ospite della 14° edizione

del “Festival Internazionale di Musica e Cultura Latinoamericana di Roma”.

 

Buon concerto a tutti, quindi, y que viva la salsa siempre, magari con un pizzico di romanticismo in più.

 

 

 

 

 

HO VISTO ANCHE ZINGARI FELICI….

di Francesco Aronne

 

In Blade Runner,  vecchio ma sempre attuale film, lo spettatore attento può captare “Ho visto cose che voi umani non potreste neanche immaginare: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi beta balenare nel buio vicino alle porte di Tannoyser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. E` tempo di morire.” Parole che suonano come una sorta di consolazione per noi terrestri: la violenza che in qualche modo ammorba anche lontane zone dell’universo e non topico flagello (e punizione) riservato esclusivamente a noi abitatori di questo pianeta.

Immagino un curioso crononauta (alla maniera di un vero John Titor) errante per la galassia alle prese con la storia, tra il passato e il presente della biglia pazza che solo noi nell’universo chiamiamo Terra. Viandante galattico, su un triciclo interstellare, in grado di farlo girovagare fluidamente nello spazio-tempo da epoche passate ai nostri giorni.

Pensarlo, nel momento cruciale, nei paraggi del Sennaar (in Mesopotamia) vicino alla torre  in mattoni, costruita con l'intenzione di arrivare al cielo e dunque a Dio. Secondo il racconto biblico, all'epoca gli uomini parlavano tutti la medesima lingua. E da inviato speciale dal nostro tempo, scoprire e riferirci perché Dio creò scompiglio nelle genti e, facendo sì che le persone parlassero lingue diverse e non si capissero più, impedì che la costruzione della torre venisse portata a termine.

Vedere la sua faccia nel muoversi ad elastico con la trottola del tempo. Scoprire che il tempo cambia molte cose nella vita, il senso di amicizia e le opinioni… Interessarsi ai commenti di costernazione e sofferenza che si leggevano da ogni colonna di giornale e udivano ad ogni TG per i disperati dei Boat-People: migranti che fuggivano dai loro paesi (tra il ’75 e il ‘79  ed ancora tra l’88 e il ’90 dal Vietnam) per motivi politici o economici su delle imbarcazioni di fortuna.

 

Spesso in sovraccarico e prive di ogni forma di sicurezza, queste imbarcazioni hanno, a volte, fatto, allora come adesso, parecchie vittime (per annegamento, fame, freddo, o anche perché speronate e lasciate affondare). Cogliere lo stupore del suo volto, leggendo i ben diversi ed immemori commenti degli stessi cronisti, quando nel ’97 orde di albanesi, dopo secoli, ritornarono ad invadere le nostre coste.

E ora, vederlo dolersi guardando i volti dei disperati che dal nord-Africa o altri lidi partono verso quello che pensano un mondo migliore. Una vita racchiusa in quattro stracci appena contenuti in un  sacchetto di plastica pluriusato. Occhi pieni di sofferenza e paura. Uomini e anziani, donne e bambini, tutti con i volti segnati dal terrore su fragili imbarcazioni, in balia di canaglie, ad affrontare l’inferno per rivendicare un disperato ed indiscutibile, seppur negato, diritto di esistere raccattando le briciole del paradiso che non li vuole. Del paradiso che li preferisce in malsani e sudici tuguri, a vivere di stenti o magari a morire in una miniera da dove arriva il Tantalio con cui si arricchisce il grasso occidente.  E poi guardare il bronzo mortale nel volto dei tanti paladini pronti ad offrire il petto alla mitraglia, in ipocrite battaglie in difesa della vita, che si eclissano davanti a questa sofferenza e queste morti e ad altre su sedie elettriche, con ghigliottine o iniezioni letali.  Vedere il disagio del nostro crononauta nel non capire qual è il bambino giusto: quello della pubblicità dei Pampers o il bambino sudicio, vestito di cenci e tormentato dalle mosche, calpestato violato offeso dai morsi della fame e dall’indifferenza del mondo???

Leggo lo stupore sul viso del nostro quando assiste ai soccorsi di questi disperati.  Militari, finanzieri, marinai che raccolgono per mare queste schegge di umanità, personale sanitario che fornisce i primi soccorsi, popolazione civile che ha dato e dà spesso prova di altruismo e civiltà. Lo stesso stupore quando ode in parlamento torme di miserabili che vomitano, in rozzi dialetti che spacciano per lingue, odio e indifferenza. E’ scritto nel Talmud “Chi salva una vita salva il mondo intero.”.

I veleni elettorali, confezionati in pasticche e pozioni, hanno acceso i falò per annebbiare tutto con fumo acre e amaro: il fantasma della sicurezza fa le sue prime vittime. Il viaggio verticale attraverso evi e secoli riporta il nostro time-traveller in altre epoche con altri problemi, ma con gli stessi demoni. Il fumo che si alza dal quartiere di Ponticelli è quello di un rogo dei campi Rom uguale a tanti altri fumi che hanno annebbiato la storia. Sguardi divertiti di stanziali senza pudore e vergogna assistono alla violenza gratuita su gente inerme e terrorizzata. Qualcuno filma col telefonino le brave gesta dei criminali.

La scintilla: una puntata di “Chi l’ha visto?” in cui si denuncia il tentativo di rapimento di una neonata da parte di una zingara. Consolidato copione che funziona sempre: la creatura innocente e l’orca, tanto più ferocemente orca se di razza orca! Un crimine è sempre un crimine, e come tale va perseguito, senza indugio, da chi è preposto a questo. La razza non può essere un’aggravante né un’attenuante. E il curioso viaggiatore, ci scopre un popolo veramente bizzarro che fa i processi in televisione e dopo c’è il film che riconcilia il sonno. I tribunali elargiscono grazie per mancata trascrizione di sentenze. E l’arguto viaggiatore, ormai esperto delle cose del pianeta, si chiede cosa sarebbe successo se a Cogne ci fosse stato un campo Rom, ma poiché un campo Rom non c’è, per un crimine efferato ed ingiustificabile (forse dimenticato) già chiede la grazia e l’oblio.

Il nostro vuole saperne di più e si chiede: chi sono i Rom disprezzati con il nome di Zingari ? Trova una scheda di Avvenimenti e scopre un “universo”…

 

GIOSTRAI, NOMADI E "CAVALLARI"

 

I SINTI. Prevalentemente giostrai e nomadi: sono presenti in molti quartieri periferici, dove, specie in primavera, mostrano le loro attrazioni. Le famiglie si contraddistinguono secondo la regione di provenienza. Abbiamo quindi: Sinti marchigiani, lombardi, piemontesi.

I ROM ABRUZZESI. Giunti in Italia sul finire del 1300, diffusisi nelle regioni centromeridionali e, in particolare stanziatisi in Abruzzo, raggiungono la capitale nel periodo tra le due guerre. Sono loro che abitano in prevalenza nella famosa baraccopoli del Mandrione. Oggi, in parte abitano nelle case popolari di Nuova Ostia e Spinaceto, in parte hanno case di loro proprietà, specie lungo la Tuscolana e all'Anagnina.

I ROM LOVARA E KALDERASA.Giunti in Italia agli inizi del secolo derivano il loro nome dal mestiere di allevatori di cavalli (in ungherese lob = cavallo) e di indoratori e lavoratori del rame (calderai). Abitano in case e in roulottes.

I ROM KHORAKHANA E KANJARJA. Provengono dalle regioni centromeridionali della ex Jugoslavia. I primi sono musulmani, i secondi cristiani di rito ortodosso. La loro immigrazione, iniziata negli anni '60, continua tutt'ora e si è intensificata con la guerra civile in Bosnia. Sono, per così dire, la spina nel fianco delle amministrazioni locali, in quanto non si riesce a dare loro quei servizi necessari previsti dalla legge.

ROM RUDARI. Originari della Romania, anche loro giunti attraverso la ex Jugoslavia in Italia negli anni'60. Vivono in accampamenti meglio organizzati lungo la Tiburtina e la Collatina. Si occupano della lavorazione del rame, sono musicanti e vendono fiori per la strada.

I KAULJA. Di recentissima immigrazione, provengono per lo più dalla Francia, ma sono orignari dell'Algeria. Poverissimi, si aggregano talvolta ai Khorakhané con i quali condividono la stessa fede religiosa.

I CAMMINANTI SICILIANI. Originari della Sicilia orientale, sono venditori ambulanti. Vivono per lo più in baracche.

Il nostro eternauta scopre, indagando qua e là, che nel Wurttenberg, in Prussia ma anche a Milano molti zingari furono consegnati direttamente al carnefice: la pena capitale poteva infatti essere inflitta anche senza processo e la Serenissima Repubblica di Venezia aveva nel 1558 stabilito che chi consegnava alle autorità uno zingaro riceveva dieci ducati e che "possendo etiam li detti Cingani, così homini come femmine, che saranno ritrovati nei Territiri Nostri esser impune ammazati, si che gli interfettori ( gli uccisori ) per tali homicidi non abbino ad incorrer in alcuna pena." Fu proprio in questo periodo che nacquero alcuni dei peggiori pregiudizi nei confronti dei sinti e dei rom. Si disse che erano delle spie al servizio dei turchi, che, per la loro dimestichezza coi metalli, fossero i discendenti di Caino e che avessero forgiato i chiodi usati per crocifiggere il Cristo, che rapissero i bambini, che subdolamente diffondessero la peste ....

Interessato e sconcertato da questi avvenimenti, il viaggiatore temporale va oltre, risalendo verso i giorni nostri, e si imbatte nell’Olocausto, grida di disperazione e dolore giungono dai bassifondi della storia. Cerca spiegazioni, vuole saperne di più, è a Norimberga i giorni del giudizio degli uomini. Gli inquirenti incaricati di predisporre gli atti di accusa del processo di Norimberga, contro i criminali nazisti, non sono riusciti a valutare con precisione l'entità del massacro: sicuramente più di 500.000 zingari scomparvero nei vari campi di concentramento nazisti. Nello stesso processo vennero spese soltanto poche parole per l' olocausto che segnò profondamente l'intero popolo zingaro.

Sfoglia alcune pagine di un libro e legge che gli Zingari, un popolo antico e pieno di vitalità, hanno cercato di resistere alla morte, ma la crudeltà e la superiorità dei nazisti ha avuto il sopravvento. Talvolta, nel loro martirio, hanno trovato nella musica una qualche consolazione: affamati e laceri si radunavano fuori dalle loro baracche ad Auschwitz per suonare e incoraggiavano i bambini a danzare (...). Molti testimoni hanno parlato del grande coraggio degli Zingari che hanno combattuto insieme ai partigiani in Polonia.

E nei campi di concentramento, sulle tracce dei nomadi provenienti dall’est si imbatte nella follia genocida di quel regno delle tenebre. Tra ciò che rimane nel campo di sterminio di Bergen Belsen raccoglie la pagina di un diario portata dal vento e porta la data 15 luglio 1944:

« "la gioventù, in fondo è più solitaria della vecchiaia." Questa massima che, ho letto in qualche libro mi è rimasta in mente e l’ho trovata vera; è vero che qui gli adulti trovano maggiori difficoltà che i giovani? No, non è affatto vero. Gli anziani hanno un’opinione su tutto, e nella vita non esitano più prima di agire. A noi giovani costa doppia fatica mantenere le nostre opinioni in un tempo in cui ogni idealismo è annientato e distrutto, in cui gli uomini si mostrano dal loro lato peggiore, in cui si dubita della verità, della giustizia e di Dio. Chi ancora afferma che qui nell’alloggio segreto gli adulti hanno una vita più difficile, non si rende certamente conto della gravità e del numero di problemi che ci assillano, problemi per i quali forse noi siamo troppo giovani, ma ci incalzano di continuo sino a che, dopo lungo tempo, noi crediamo di aver trovato una soluzione; ma è una soluzione che non sembra capace di resistere ai fatti, che la annullano. Ecco la difficoltà di questi tempi: gli ideali, i sogni, le splendide speranze non sono ancora sorti in noi che già sono colpiti e completamente distrutti dalla crudele realtà. È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte il rombo l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità. Intanto debbo conservare intatti i miei ideali; verrà un tempo in cui forse saranno ancora attuabili.» Righe scritte da un rosa recisa in quel tremendo sito: Anna Frank.

Il nostro crononauta è sconcertato… queste righe lo hanno fatto riflettere sull’assurdità del nostro destino. Pronti a commuoverci per questa pagina che viene da lontano ed incapaci a trovare il senso di questo inchiostro nel nostro tempo, tra i nostri contemporanei.

Lascio il crononauta al suo destino, ma resto a meditare sul suo peregrinare. Certo che il nostro amico non ha parlato di zingari ai semafori che chiedono l’elemosina, di zingare che girano nelle case a truffare e rapinare gli anziani, di zingari capaci da far passare dal buco della serratura elettrodomestici e mobili di un appartamento, non ha visto la sporcizia e l’abbandono di un campo rom, non ha visto  zingare rapire bambini o rubare auto… Non credo che tutto questo faccia piacere a nessuno, e penso forse neanche agli stessi protagonisti. Uno stato civile può e deve avere altri mezzi di difesa. Nuovi pogrom su questa etnia non credo portano lontano... Il viaggiatore cosmico ha più volte riflettuto sulla nostra corta memoria… Come erano considerati i nostri emigranti negli Stati Uniti? Chiedetelo a chi ha conosciuto innocente la sedia elettrica poiché italiano, o alle braccia che viaggiavano in terza classe e facevano la quarantena  ad Ellis Island, anche quelli che andavano a lavorare nelle saline e solo perché più capaci degli indigeni, massacrati in Camargue. Abbiamo già scordato le scritte dei locali tedeschi dove era vietato l’ingresso ai cani ed agli italiani? Abbiamo scordato i cartelli che per la strade della civilissima Milano dei “Non si affitta ai meridionali!”. Non mi si venga a dire “Italiani? brava gente!”. Nei paesi che ci hanno ospitato abbiamo riempito le carceri con gli emigrati di altre nazioni, esportando mafia, camorra e mano nera… quante vite border line hanno scelto di delinquere per non morire di stenti?

Sono stato emigrato, e anche fortunato. Sono grato al paese che mi ha ospitato, ma non posso dimenticare quanto visto e sentito. Le orde neonaziste inveire contro quelli che “rubavano il pane ai tedeschi” le scritte sui muri “Auslander raus!” e poi vedere che in fabbrica, esclusi i capi, a fare il metalmeccanico un tedesco non resisteva più di due giorni argomentando che era un lavoro per gastarbeiter. Cose già viste lustri fa anche nel civile e profondo nord dove per questi lavori allora c’erano gli egiziani. Ora come allora, per l’educazione avuta ed anche per la storia personale, cerco di avere sempre a mente la lettera agli Ebrei che così ci esorta: "Non dimenticate l'ospitalità; perché alcuni, praticandola, senza saperlo, hanno ospitato angeli" (Eb. 13:2).

Sul lento traghetto greco sono vicino ad una famiglia Rom. Viaggiano in un vecchio camion, padre, madre e cinque figli. Le donne da un lato, gli uomini dall’altro. Gente semplice che non si preoccupa di chi gli sta intorno. I bambini hanno occhi penetranti e trasmettono tanta dignità. Sembra una visione surreale in contrasto con l’iconografia tradizionale. Quando il battello comincia  a traballare oltre ogni tollerabile misura e dal bar arriva un fracasso della merce contenuta in un espositore andata per aria, si aggrappano impauriti ai loro genitori.  Con il ritorno alla normalità siamo tutti più tranquilli. E quei volti ritornati sereni mi riportano alla mente parole di un altro evo: “Ma ho visto anche degli zingari felici, corrersi dietro, far l'amore e rotolarsi per terra, ho visto anche degli zingari felici in Piazza Maggiore ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra”.

"Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare".

Bertold Brecht - Berlino, 1932

FARONOTIZIE.IT  - Anno III - n° 26, Giugno 2008

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