FARONOTIZIE.IT  - Anno II - n° 20, Dicembre 2007

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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi

 

HAI MAI VISTO ZINGARI MIETERE ?

Editoriale del Direttore  Giorgio Rinaldi

E’ questo un modo di dire, radicato negli anni, per affermare l’ineluttabilità delle cose del mondo.

Per dimostrare che è pressoché impossibile che chi è tagliato per fare alcune cose ne possa fare poi altre.

Oppure, per  stigmatizzare chi è più propenso all’ozio, e non nel senso attribuito dagli antichi romani, che al lavoro.

Questo perché gli zingari-nomadi (in quanto esistono, e  sono quasi la maggioranza, anche quelli stanziali) nel passare dai paesini, i cui abitanti vivevano principalmente del duro lavoro nei campi, erano dediti ai mestieri cosiddetti girovaghi, o all’accattonaggio, o alle pratiche chiromantiche, o ai piccoli furtarelli.

Così, e in maniera sprezzante, chi si alzava prima dell’alba e si spezzava la schiena in campagna, appellava i “vagabondi”.

Il luogo comune ha finito, però, per avere connotazioni razziste, come quelli che riguardano, per esempio, gli scozzesi, che dovrebbero essere tutti avari, al pari dei genovesi e degli ebrei  (i quali ultimi pagano pegno doppio per razzismo religioso), o i turchi, tutti fumatori sfegatati, o gli italiani, tutti mafiosi.

Dopo i recenti fatti delittuosi di Roma e Milano, si è scatenata la caccia agli zingari, ai Rom (etnia diversa dai Sinti, per esempio), che –come i non somari sanno- non significa romeno, ma che –invece- i somari associano, tout court, alla Romania.

Ecco allora, come d’incanto, il “dagli all’untore” di manzoniana memoria è riecheggiato nelle piazze, nei giornali, nelle televisioni.

Pensare, riflettere, analizzare, costa fatica, si sa, specialmente nei piccoli cervelli  che si annidano copiosi nelle redazioni di tanti giornali, non solo di carta, e in tante “stanze dei bottoni”.

Cosa c’è di meglio che la scorciatoia, il lasciare spazio alla pancia piuttosto che alla testa?

Dagli allo zingaro, dagli al romeno!

E così, ci si è presto dimenticati (o, forse, nessuno ci ha  mai pensato) dei nostri connazionali in Romania, potenziali vittime di rappresaglie xenofobe e nazionaliste, come in Libia non tanto tempo fa per certe vignette sconsideratamente esibite in TV…

In ugual maniera, tutti ansimanti nella caccia al “feroce Saladino”, ci si è scordati  di che fine avesse fatto l’invasione dei “barbari” albanesi.

Già, che fine ha poi fatto ?

Ricordate i titoli dei giornali di appena qualche anno fa?

“Carrette del mare stracariche di disperati, senza arte né parte.

Camions con il doppio fondo per ospitare la “feccia dell’umanità”.

Carceri piene di feroci delinquenti della terra delle aquile.

Fenomeno migratorio impossibile da arginare.”

Oggi, gli ex sudditi dell’ex impero dell’ex italietta ex fascista dove sono finiti?

Perché nessuno più “scappa” dall’Albania, che –tra l’altro- non è neanche membro dell’Unione Europea?

Semplice: accordi bilaterali con il Governo locale. Aiuti economici. Addestramento delle forze di polizia albanese. Creazione di poli industriali e di sviluppo. Grande attività di intelligence. Ed altre misure mirate in loco.

Non si poteva fare altrettanto con la Romania ?

Prevedere e prevenire il fenomeno non era poi così difficile…

Ma, non lo si è fatto.

Oggi, è tempo di dare dei segnali concreti.

Oltre allo sforzo dell’intera Europa, ad accordi con il Governo Romeno, è necessario anche dotarsi di leggi che assicurino la certa identificazione di chiunque (dalle impronte digitali a quelle dell’iride) e la pena carceraria da scontare, anche nel Paese di origine,  in modo sicuro ed immediato quando vi è violazione dell’ordine di espulsione.

I cittadini italiani che a 18 anni si sono presentati alla visita medica per la leva militare hanno dovuto sottostare alla presa delle impronte digitali.

Ogni qual volta ciascuno di noi accede in una delle tante banche è costretto a farsi catturare da una macchinetta un’ impronta di un  dito della mano.

Per non parlare di quando si entra  nel territorio di tanti stati, primo fra tutti quello statunitense, che poco ci manca che ti prelevino anche il sangue.

Mentre, per l’identificazione degli stranieri clandestini non si riesce a stabilire un metodo certo, civile ed inequivoco, ed approvare leggi mirate adeguate e non demagogiche.

Questo, però, senza dimenticare che tanta delinquenza, anche ferocissima, è indigena.

Che fenomeni di grande allarme sociale, come quello delle bande armate degli ultras del calcio, che hanno assaltato poche settimane fa caserme di polizia e carabinieri, sono roba nostrana.

Che la criminalità italiana è famosa nel mondo e non manca giorno che mafia, camorra, ndrangheta e bande di delinquenti assortiti non facciano di tutto per sostenerne il marchio a livello interplanetario.

Che la stragrande maggioranza degli stranieri contribuisce allo sviluppo del nostro Paese: vi siete mai chiesto senza i muratori romeni quante case in meno si sarebbero costruite? Quanto sarebbe costato al nostro Sistema Sanitario Nazionale (cioè a noi tutti) l’assistenza di tanti anziani senza le badanti polacche, ucraine, romene?

A tacer d’altro.

Settant’anni  fa il popolo tedesco chiuse gli occhi, e il fanatismo razzista dei gerarchi nazisti mandò alle camere a gas milioni di ebrei, per il solo fatto di esserlo, centinaia di migliaia di oppositori politici, centinaia di migliaia di zingari, migliaia e migliaia di soldati italiani.

Noi tutti abbiamo il dovere di non dimenticarlo.

MAI.

E, quando sentiamo squilli di tromba che richiamano adunate contro quel popolo, quell’etnia, quella gente, abbiamo il dovere di non lasciarci impiccare il cervello.

E’ quando si lascia un Paese senza regole certe che a mietere, gli zingari, non vanno mai.

BUON NATALE 2007

di Luigi Paternostro

Già da novembre si sente: Buon Natale, Buon Natale!

Che significa, oggi, alla luce dei fatti?

In Italia. Assistiamo ad una insopportabile confusione politica  cui fa riscontro una galoppante miseria.

Nel mondo. Continua l’oppressione di popoli. Dilagano i dolori dovuti alle malattie, povertà ed ignoranza.

Globalmente. Un’umanità disorientata, filosofa del carpe die. Un’umanità piena di imbonitori, di imbroglioni, di egoisti, di presunti superuomini adoratori e lecchini del dio denaro.

Il lusso e il sesso sono le mete più ambite. Sono la nuova droga, più deleteria di quella iniettata o sniffata.

In questa situazione cosa può significare Buon Natale?

Se significa muoversi e crogiolarsi in questo brodo, se significa ascoltare le voci e le grida di disperazione con senso di fastidio, non ha valore.

E si, il valore: cos’è? Una parola, come tante, irreale! Distante, e come le cose distanti, inutilizzabile.

O forse valore è quello per cui uccidere e reprimere è un merito?

Cos’è la fratellanza umana? Ma non rompere!

Ma Cristo? Si, si, lo so. Anche il Papa vedessi che discorso! E non solo Lui, anche tutti gli altri Pastori!!

Non posso restare in questo mondo.

Allora per Natale mi metto le ali e salgo in quota.

Sono ad un’altezza tale da non sentire né umori né suoni.

Vedo solo una palla coperta da nuvole e smog che gira e mi mostra la sua faccia a volte nera e a volte luminosa, incamminata ad un destino che inesorabilmente la porterà alla sua palingenesi insieme a quella del suo ristretto universo immerso nei miliardi di altri universi galattici tutti compresi in quelli trans o megagalattici a loro volta inclusi in un infinito indefinito tra gli indefiniti.

E mi viene da ridere se penso allo svanire della Storia e con essa dei Cesari, dei Napoleoni e di tutte le loro albagie.

E così in questo Natale sono rinato, finalmente libero!

LA TRADIZIONE DEL NATALE NEL BOLOGNESE

di Antonio Penzo

Il S. Natale si avvicina e la famiglia si appresta a predisporre l’abitazione affinché l’avvenimento della nascita del Salvatore sia degnamente ricordato come l’avvenimento di un giorno particolare da perpetuarsi sempre.

Nella vasta stanza, che costituisce il luogo di riunione della famiglia, essendo nel contempo sala da pranzo, cucina e soggiorno, si predispone il presepe, su di un piano rialzato, possibilmente sul lato ma al centro dello stesso, onde sia possibile vederlo da tutti i lati; usualmente sul piano della credenza.

I ragazzi hanno raccolto a partire dall’8 dicembre, il muschio nelle zone in ombra e nella legnaia hanno cercato alcune cortecce di tronco d’albero abbattuto e segato, con le quali creare le volte delle grotte e qualche

tronchetto di legno.

Il piano della credenza viene coperto da alcuni fogli di carta, sul fondo si pongono le cortecce e i tronchetti di legna, in modo da creare una zona a rilievo, con la centro la grotta più ampia e ad ai lati una o più piccole grotte. Il tutto viene ricoperto con il muschio, così da creare un effetto di verde campagna. Alcuni rametti di alberi della zona servono a creare un frondoso boschetto collinare.

La via è tracciata utilizzando della segatura di legno. Dalla scatola si tolgono una ad una le statuine di cartapesta, conservate gelosamente incartate in granaio e si pongono nei vari punti della scena, venendo a creare l’effetto di una processione, che da più parti che si dirige alla grotta della nascita, in cui la Madonna e S. Giuseppe, con il bue e l’asino, attendono il bambinello, che verrà posto alla mezzanotte del Natale. All’esterno, i pastori e le pastorelle, con le pecore, le capre ed animali da cortile che guardano alla grotta. Nelle altre grotte si pongono, in una il dormiglione e nelle rimanenti gli strumenti di lavoro, in modo da fare vedere che la gente si è mossa dal proprio lavoro per andare ad adorare il Redentore. Sopra la grotta, si pongono gli angeli e più in alto la stella cometa.

Dal giorno 16 la famiglia si raccoglie la sera, prima della cena, dinanzi al presepe e recita la Novena del S. Natale.

Le donne nel mentre controllano che vi sia tutto il materiale e gli ingredienti necessari a preparare i vari pranzi delle giornate natalizie.

La sera antecedente la vigilia, si macina la  carne e si prepara l’impasto per i tortellini. La mattina della vigilia, con la farina e le uova, si predispone la spoglia sul tagliere. Con la spola vengono ritagliati dei quadri regolari sui quali viene deposto l’impasto e velocemente piegata la pasta a metà ed avvoltola sul dito mignolo, si crea il tortellino. Il tutto viene posto poi in dispensa, luogo freddo, in attesa della cottura.

La Vigilia di Natale, il pranzo è rigorosamente di magro. Vermicelli fatti in casa e conditi con tonno in scatola ed anguilla fresca in umido con contorno di cardo, costituiscono le uniche portate. In mancanza di tonno, si abbrustolisce leggermente del pane grattugiato che viene sparso sui vermicelli. Durante la giornata ognuno si reca in chiesa per la confessione dei peccati.

A mezzanotte ci si reca nella chiesa parrocchiale, si partecipa alla S. Messa e ci si comunica.     .

Il giorno di Natale, l’alzata è premiata con la colazione a base di latte e cioccolata calda e ciambella da imbevere.

Il pranzo é costituito per lo più dalle seguenti portate: tortellini in brodo, cappone e lesso, zampone o cotechino.

Alcuni preparano il cappone disossato farcito, accompagnato da una salsa a base di prezzemolo.

Il Panspziel (panspeziale o certosino) o le raviole ripiene con il sapore, a volte bagnate nell’alkermes, costituiscono i dolci tradizionali.

ll cappone viene bollito la vigilia per avere il brodo per cuocere i tortellini, che è il modo migliore per prepararli. Nella cottura si mette una gambina di sedano ed una carotina, niente cipolla e pomodoro, si schiuma continuamente e si sala solo quando inizia a bollire. Il tutto a fiamma dolce. Il brodo di cappone é profumato, delicato e trasparente. La carne del cappone si serve con il lesso.

La galantina di pollo é piatto della famiglie cittadine e in particolare delle più ricche.

Oltre al panspziel si usa fare anche il panone, con un impasto molto duro con farina di castagna e con vari ingredienti. Il panone é diverso dal certosino che é ricco di ingredienti, ma non durissimo.

Nella collina alta, si usa preparare un altro dolce denominato “il porcospino (o istrice)” a base di burro e quindi molto ricco.

La salsa verde, per accompagnare il lesso, é fatta con prezzemolo soffritto in un po’ d’olio, insaporito con un po’ d’aglio, poi peperone verde e pomodoro verde. Il tutto cotto a lungo, legato con farina, allungato con brodo e spento con l’aceto.

Il giorno di Santo Stefano si prepara il pasto per gli amici, imbandito con il cotechino e lo zampone e contorno di fagioli e lenticchie.

Nel giorno di Capodanno, i bambini maschi si radunano e a gruppetti passano per le varie case di campagna o di collina, cantando una

canzoncina bene augurante per l’anno veniente. Essi vengono

ricompensati con qualche spicciolo e con dolci, solitamente pezzi di

brazzadela o di panone o di certosino.

In questo giorno, la superstizione é tale che l’incontro con un uomo viene ritenuto di buon augurio e se sono più di uno si accresce proporzionalmente il favorevole auspicio. Se, poi, l’uomo è gobbo o è un militare in divisa, sussiste la speranza di larga fortuna. L’incontro con un prete gobbo assicura la massima felicità.

Al contrario, l’incontro con una donna è considerato di funesto presagio.

Per capodanno si usa regalare fiori senza spine e si mangia l’uva mantenuta fresca, anche se appassita, appesa nel granaio, quale simbolo di prosperità e di ricchezza.

Nei comuni montani o di alta collina, l’ultimo dell’anno, si usa accendere falò di richiamo da una altura all’altra, ora sostituiti da mortaretti e dai fuochi artificiali alla mezzanotte.

BENVENUTO INVERNO! FESTA DI FINE CACCIA

di Marjatta Kulla

Un salutone fresco dal Nord, dalla Finlandia, da un paese scandinavo.

Mentre scrivo queste righe, la terra, qui dove vivo, si è già coperta di neve,  ma in Lapponia, nel regno di Babbo Natale di neve ce n’è molta di più.

È importante che ve ne sia,  perchè Lui deve cominciare con forza le prove con renne e slitta; il Natale è in arrivo: Lui si prepara alla festa e noi altri finlandesi stiamo preparandoci a ricevere un inverno duro.

Per essere nato e vissuto qui,   prima o poi si é  reso conto che vale la pena di rispettare i poteri della natura nordica.

Prima di tutto é una faccenda di sopravivenza a freddo, neve e buio.

Una volta si visitava durante questi giorni una soffitta per trovare una pelliccia e gli altri vestiti adatti al freddo e, per riscaldare casa,  era necessario avere il magazzino pieno di legna, per nutrire il corpo era bello avere una cantina con diverse conserve.

Questa era la realtà dei tempi dei nostri nonni, ma noi figli di questo secolo pensiamo ad altre cose, anche se in fondo é la stessa problematica: come superare le seccature invernali.

Si può dire che la nostra epoca sia stata legata alle automobili.

Muoversi  in autunno comporta trovare strade più scivolose e, nell’oscurità della notte,  trovare animali che attraversano le strade.

Alci e cervi,  sono un costante pericolo per gli automobilisti.

In ottobre il tempo può essere già fresco, non diciamo freddo perchè l’aggettivo  é riservato veramente per i giorni freddi: meno 15-20 gradi.

La temperatura sotto lo zero rende le strade ghiacciate e molto scivolose!

Allora è necessario dotare le macchine di gomme chiodate!

Le mettiamo se il tempo consiglia, ma  la legge ne obbliga l’uso per  tre mesi: dicembre, gennaio, febbraio.

E, per consentire un traffico snello lungo le strade principali, si abbassa il limite di velocità da 100km a 80km/h.

Le  stradine vengono segnalate da bastoni, per le macchine spazzaneve.

E, per evitare i   1500 incidenti stradali all’anno causati dagli alci ?

Magari gli alci si potrebbero dotare di  un catarinfragente... !!!

Se nel periodo autunnale tu capitassi in Finlandia,  sicuramente vedresti intorno alle stradine nel bosco delle figure in abiti rossi:  non spaventarti, non sono assistenti di Babbo Natale.

Sono gruppi di cacciatori che hanno un progetto collettivo: la caccia.

È un retaggio dei tempi dei nonni , la caccia agli alci, un raccolto di bosco, assicurare una provvista.

Ma, ormai i motivi sono diversi.

Il numero di alci é limitato  e viene  controllato dallo Stato.

La sicurezza stradale è anche uno dei compiti delle associazioni di cacciatori, delle quali fanno parte persone di tutte le classe sociali.

Il re del bosco incoronato, massimo peso c. 600 kg. Per rovesciarlo ci vuole un gruppo di cacciatori,  é ancora  un hobby maschile, nonché  un collaborazione senza saldatura e anche cani.  

E, quando la battuta di caccia é finita con successo, viene portata la selvaggina in un locale dell’associazione dove gli alci vengono macellati.

La carne si divide tra i membri, ma un’associazione regala a turno  un alce  in beneficenza.

Il periodo di caccia  si apre a fine di settembre e finisce a metà di dicembre.

Dopo il periodo,  l’associazione organizza una grande festa, la chiamiamo Hirvipeijaiset- Festa di fine caccia, dove tutti i paesani sono benvenuti intorno a un tavolone per assaggiare zuppa di alce e giocare in un’atmosfera collettiva .

La festa coincide  proprio con lo stesso giorno in cui cade la Festa del papà.

In un paesino, Pulkkinen, i responsabili della festa sono tutti uomini, cacciatori, capocuoco,camerieri ecc. Il pranzo é  cucinato dall’esperto da anni, capocuoco A.Manninen.

Hirvikeitto à la Antero; brodo e carne si cuoce a parte e poi si prepara zuppa  di alci…ingredienti: brodo, 80 litri di patate, 40 litri di carne cotta, 7kg carote, 3 kg rapa, un litro di ketchup, verdure e burro 5 kg e con questa quantità di zuppa si mangia in circa 300 persone.          

Allora  buon appetito – hyvää ruokahalua !

PENSARE O NON PENSARE

di Alessia Della Casa

Ultrà o poliziotti, rumeni o cileni, politici o cittadini, europei o americani, militari o civili, laureati o artigiani, giovani o vecchi che siano… è il buon senso che conta veramente!

Troppo spesso l’atteggiamento nei confronti di disagi, furti, delitti, .., è un razzismo poco convinto, che in realtà non vuole far altro che proteggere sé stessi e la propria “fascia sociale”, scaricando la colpa sul diverso, sull’altro, su qualcuno con cui non abbiamo proprio a che fare; così si evita di pensare, di chiedersi perché, di cercare il detonatore in noi stessi, nel nostro piccolo e privato Essere. Che deve Essere qualcosa, che necessita di una consapevolezza ben chiara e sempre messa in discussione.

Sembra un’epidemia di negligenza e omertà quella che sta avanzando. Ma bisogna prestare attenzione al significato che spesso è attribuito a tale termine, non si tratta solo di un grande mostro che dilaga e impesta la massa, la “grande peste” nasce dal singolo che contagia il singolo, non si può negare. Si diffonde il “malessere” tramite l’indifferenza e la superficialità dei singoli individui, che spesso si abbandonano alla debolezza, alla pigrizia, alla corruzione, e al mercato, che fa di ogni cosa un tintinnare di monete in tasca…e poco di più!

Il virus sembra essere proprio quello dell’abbandono a una vita comoda e automatica, e il tempo trascina impeccabile, scandisce giorni e anni senza aspettare che se ne prenda coscienza.

E se non guidiamo il passare del tempo esso si svolge da sé, procedendo per l’inerzia delle conseguenze e provocando spesso risultati inaspettati. A quel punto il presente è diventato passato e l’agire è rimasto passivo! La reazione più diffusa, che si fa ridondante nelle conversazioni quotidiane, manifesta la sensazione che il tempo vada troppo veloce…non siamo forse noi ad essere troppo lenti e inerti?? Cos’è tutta quella fretta che genera il famigerato stress dei nostri tempi?? Non è forse solo volta a riempire le tasche bucate e troppo poco dedita a capire il tempo che sta passando??

Tuttavia non è mai tardi abbastanza nella storia per cambiare, per imparare e reagire.

Se gli atti di violenza, e addirittura di terrorismo, dominano su tutte le notizie dei nostri telegiornali è un dovere chiedersi perché. È un dovere cambiare qualcosa, senza negare l’evidenza affermando che l’aumento dei delitti dipende esclusivamente dalla miglior informazione. Forse se guardiamo i numeri potrebbe anche quadrare il conto, ma proviamo a guardare il genere di delitti…madri uccidono figli, figli uccidono genitori, amici e fidanzati si uccidono tra di loro. Non vi è dubbio che la differenza sia sostanziale, un tempo le uccisioni erano anche di massa e tremendamente crudeli, ma oggi il conflitto è all’interno della famiglia, anche gli affetti che dovrebbero essere i più cari, i più franchi, vengono spezzati vittime di un istinto brutale, prima che intervenga alcun controllo.

Ma soprattutto, il problema, inteso come una specifica disfunzione all’interno dei rapporti umani, sembra troppo spesso in balia di una soluzione impulsiva ed esasperata, ed é lasciato in totale assenza di una ricerca, di un impegno nel trovare una via d’uscita costruttiva.

Se davanti alla notizia di un omicidio, o di una manifestazione violenta si riuscisse a pensare, e a crescere si avrebbe l’epidemia inversa.

Sarebbe opportuno capire meglio la differenza tra un libro e un videofonino, per esempio, o, più semplicemente, tra uno schermo e una persona. Insegnare questo anche alle generazioni più giovani, che si trovano un mondo già inondato di tecnologia senza averne ben chiaro il senso e la reale utilità. Basterebbe trovare dei valori veri, rispettare la propria famiglia, il proprio lavoro, il proprio ruolo nella società e, soprattutto, renderli rispettabili. Coltivare i sogni, gli slanci vitali e le ambizioni che accrescono l’autostima e la soddisfazi one.

Si dovrebbe tutti cercare e voler trovare l’orgoglio nei propri passi, pretendere da sé stessi un po’ di più.

L’INDUSTRIA DEL RICICLO IN ITALIA  (prima parte)

di Nedo Biancani

Il sistema del riciclaggio

Il problema della gestione dei rifiuti è diventato sempre più pressante e l’attenzione dei cittadini sulle problematiche relative è andata via via crescendo; la smodata e irrazionale crescita dei consumi e l'urbanizzazione degli ultimi decenni hanno da un lato accresciuto a dismisura la produzione dei rifiuti, e dall'altro ridotto le aree disabitate o scarsamente abitate in cui trattare e/o depositare i rifiuti senza arrecare disturbo e molestie alla cittadinanza, limitando i danni alla salute e all’ambiente. La società moderna si trova quindi costretta a gestire una grande quantità di rifiuti in spazi sempre più limitati, situazione questa che alimenta anche il traffico e lo smaltimento illegale dei rifiuti. L'uso delle discariche, pur avendo in sé costi bassi, comporta uno spreco di materiale che sarebbe almeno in gran parte riciclabile, nonché l'uso di vaste aree di territorio, e non si presta quindi come soluzione ottimale; inoltre, crea grandi concentrazioni di rifiuti con inevitabili conseguenze sull'ambiente. I termovalorizzatori (inceneritori), invece, basano il loro funzionamento sull'incenerimento dei rifiuti; sfruttando la combustione così ottenuta producono energia elettrica (in realtà molto poca) e calore ma hanno costi non convenienti. Inoltre le emissioni tossico-nocive (in particolare polveri sottili e diossine) e la gestione di ceneri e scorie anch'esse tossiche che finiscono comunque in discarica, producono conseguenze sull'ambiente e la salute pubblica, e forti tensioni sociali con le comunità residenti.

Il riciclo è una strada sicuramente più complessa rispetto alla “logica” di smaltimento in discarica o negli inceneritori. Il sistema del riciclaggio non esclude la presenza delle discariche o dei termovalorizzatori, ma ne limita tuttavia il ricorso. È corretto parlare di sistema di riciclaggio perché questo approccio deve necessariamente operare sull'intero processo produttivo e non soltanto sulla fase finale di smaltimento dei rifiuti. Ciò comporta, per la produzione dei beni, l'uso di materiali biodegradabili che facilitano lo smaltimento "naturale" della materia nel momento in cui il prodotto si trasforma in rifiuto, l'uso di materiali riciclabili (come il vetro, la carta, il legno, i metalli o polimeri selezionati), la raccolta differenziata dei rifiuti per facilitare il riciclaggio dei materiali (passaggio fondamentale del processo, dal momento che in questo modo la separazione dei materiali riduce i costi di ritrattamento), l'adozione di tecniche avanzate per il recupero di ulteriore materiale riciclabile dal rifiuto indifferenziato (ad esempio il trattamento meccanico-biologico).

Il riciclaggio apre un nuovo mercato in cui nuove piccole e medie imprese recuperano i materiali riciclabili per rivenderli come materia prima o semilavorati alle imprese produttrici dei beni. Un mercato che si traduce pertanto in nuova occupazione e nuove attività.

Il riciclaggio è stato spesso criticato per i costi ambientali del processo della trasformazione dei rifiuti, per il basso rendimento nella quantità delle materie prime ottenute e per la bassa qualità dei prodotti finali. Un'ulteriore critica è costituita dal fatto che, per come è stato pubblicizzato tra la popolazione, ha diffuso l'idea che esso giustifica la continuazione di condotte consumistiche e sprecone.

I sistemi più efficaci per la gestione dei rifiuti sono invece quelli basati sulla riduzione dei rifiuti e sul loro riuso (tecnicamente definito reimpiego), in cui una volta terminato l'utilizzo di un oggetto esso non va ad aumentare la mole dei rifiuti, ma dopo un semplice processo di pulizia viene utilizzato nuovamente senza che i materiali di cui è composto subiscano trasformazioni. L'esempio tipico è quello delle bottiglie in vetro come contenitori di latte ed acqua, che invece di essere frantumate possono essere riempite nuovamente senza passare per costosi (soprattutto da un punto di vista ambientale) processi di trasformazione. Ovviamente, è comunque preferibile il riciclaggio al conferimento in discarica o all'incenerimento.

La mancanza di politiche di sostegno del riuso con incentivi e disincentivi, fanno sì che al giorno d'oggi la gran parte dei contenitori, delle confezioni e degli imballaggi sia invece ancora costituita da plastica e carta, e non possa quindi essere riutilizzata. La scelta delle imprese è ovviamente una scelta economica che cade inevitabilmente su questi prodotti dal costo finanziario ridotto, anche se dall'elevato impatto ambientale. Uno dei Paesi che applicano significativamente le tecniche della riduzione e del riuso è la Danimarca, in cui, grazie ad una legislazione favorevole, ben il 98% delle bottiglie in commercio è riutilizzabile, ed il 98% di esse torna indietro ai consumatori senza essere riciclato. La Germania invece raggiunge un tasso di riciclaggio di oltre il 50%.

Le materie prime che possono essere riciclate sono il legno, il vetro, la carta e il cartone, i tessuti, i pneumatici, l'alluminio, l'acciaio, alcune materie plastiche, la frazione organica.

Molti tipi di plastica possono essere facilmente riciclati (è il caso del PET), mentre per altri tipi (specie di bassa qualità e/o termoindurenti) la procedura è più complessa, in quanto il costo di rilavorazione è generalmente superiore al costo di produzione di plastica nuova. Pertanto le numerosissime materie plastiche presenti sul mercato non possono essere mescolate fra di loro: un circolo vizioso da cui è difficile uscire, ma non impossibile (basta averne la volontà politica e la cultura). Impianti a tecnologia avanzata permettono ad esempio di separare automaticamente le varie tipologie di plastiche in tempi rapidi e quindi sono economicamente interessanti, e sono già stati adottati in diversi paesi. Un settore in cui l'Italia è all'avanguardia è la cosiddetta bioplastica, che risulta essere biodegradabile; è prodotta a partire da materie prime vegetali anziché petrolifere.

La grande discussione a favore o contro i termovalorizzatori o le discariche trova, pertanto, una sua soluzione volgendo uno sguardo più sistemico al problema e dando priorità alla riduzione degli imballaggi inutili.

Un'indagine conoscitiva sull'industria del riciclo

Di recente, la Commissione Ambiente della Camera ha concluso un'indagine conoscitiva sull'industria del riciclo e sulla complessa realtà dei processi produttivi di lavorazione di rifiuti, cascami, e rottami, selezionati o non selezionati, che sono destinati ad essere trasformati in materie prime secondarie idonee al reimpiego in altri processi produttivi. L'indagine è partita dalla consapevolezza dell'importanza crescente dell'industria del riciclo in Italia e in Europa, ma, anche, della persistenza di un'Italia “a più velocità”, con un Nord dove la raccolta differenziata è quasi il doppio del Centro e ben quattro volte il Sud.

La Commissione parlamentare ha scelto di un metodo di lavoro fondato sull'apertura ai soggetti esterni [1] e sulla conoscenza il più possibile esatta dei dati, per una migliore comprensione dei fenomeni economico-sociali e per una conseguente definizione delle strategie di intervento legislativo.

La Commissione ha ritenuto opportuno approfondire, insieme alle tematiche economiche e territoriali dell'industria del riciclo, quelle altrettanto importanti relative al suo ruolo nelle politiche ambientali e nelle politiche energetiche, per il notevole contributo che da essa può venire in termini di minor prelievo di risorse naturali e di riduzione delle emissioni di gas serra. Su questa base, la Commissione ha poi fatto il punto sul quadro normativo di riferimento, nazionale e comunitario, anche in vista dell'impegno relativo alla discussione e all'esame in sede

parlamentare del provvedimento correttivo del cosiddetto «codice ambientale» [2] .

L’esigenza era quella di verificare lo stato di salute dell'industria del riciclo italiana e di fissare l'attenzione delle istituzioni parlamentari e della pubblica opinione sui punti di forza e sulle criticità del sistema di gestione del ciclo dei rifiuti nel Paese, così come si è sviluppato in seguito all'entrata in vigore del decreto legislativo n. 22 del 1997 (il cosiddetto «decreto Ronchi») e del successivo decreto legislativo n. 152 del 2006.

Gli obiettivi dell'indagine erano quelli di giungere ad una valutazione aggiornata dei dati di crescita, anche dal punto di vista territoriale, dell'attività di riciclo dei rifiuti da imballaggio e di alcune particolari categorie (oli usati, batterie esauste, e simili), con un approfondimento degli aspetti tecnologici legati all'attività di riciclo dei rifiuti ed una verifica dell'esistenza di tecnologie innovative che possano migliorarne i livelli di crescita.

Nel corso dell'indagine sono emersi numerosi spunti di riflessione ed elementi di conoscenza, che hanno fornito alla Commissione un significativo quadro d'insieme della situazione, sicuramente utile all'individuazione di adeguate soluzioni.

ATTENTI ALLA CORRENTE

di Nicola Perrelli                     

Le offerte per risparmiare sui costi dei servizi bancari e assicurativi, della telefonia fissa e mobile, della connessione internet e dei canoni, sono veramente tante e anche fantasiose. Quotidianamente Tv, radio, carta stampata e non da ultimo le telefonate a casa, fastidiose perché arrivano quasi sempre quando siamo a tavola davanti ad un fumante piatto di pasta o rilassati nel bagno, ci bombardano di proposte a prezzi stracciati per servizi la cui domanda è però in continuo aumento. E non capiamo il perché di questa sorta di gioco a parti invertite: il commerciante che offre di sua iniziativa sconti non richiesti!!

Saranno gli effetti della concorrenza e del libero mercato, ci viene da pensare. Allora cogliamo la palla al balzo, firmiamo il contratto o addirittura diamo la nostra adesione verbale qualora il colloquio viene registrato, e  la migliore offerta del momento è nostra.

Dallo scorso mese di luglio anche il mercato dell’energia elettrica è stato finalmente liberalizzato. E dal 1° ottobre , come previsto dalla legge, anche tra i fornitori di energia è cominciata la sfida per acquisire nuovi clienti.

Numerose sin dall’inizio le offerte messe a disposizione di noi utenti  domestici , inclusa quella di poter cambiare fornitore senza spese e senza la necessità di modificare l’impianto o il contatore. Ma a fioccare sono le proposte che prevedono l’applicazione di tariffe  più vantaggiose rispetto a quelle ordinarie. In particolar modo spicca, fra le tante, l’offerta della tariffa bioraria. Quella con la quale il prezzo dell’energia varia in relazione alle ore del giorno in cui viene utilizzata.

A proporla per prima è stata l’Enel, lanciando un’offerta in base alle disposizioni fissate in materia dalle Autorità competenti, subito seguita  dagli altri operatori.

La tariffa bioraria è stata pensata per premiare gli utenti che riescono a utilizzare l’energia in determinate fasce orarie. L’energia pertanto costa di meno dalle 19,00 alle 8,00 nei giorni feriali, nei fine settimana e nei giorni festivi, viceversa dalle 8,00 alle 19,00 dei soli giorni feriali costa di più rispetto alla tariffa ordinaria, quella monoraria.

Sembra quindi che per chi sta fuori casa dalla mattina al tardo pomeriggio la tariffa bioraria può rappresentare una buona soluzione per risparmiare sulla bolletta. Che basta utilizzare gli elettrodomestici a maggiore assorbimento energetico ( lavatrice, lavastoviglie, forno,ecc.) o in generale “consumare” di più durante le ore notturne per limitare le spese della corrente.

Tutto cosi semplice e logico o è meglio vedere come stanno veramente le cose?

Per come è stata concepita, la tariffa bioraria risulta conveniente sole se nelle fasce orarie a costo ridotto (ore serali, fine settimana, e festivi) noi utenti concentriamo almeno il 67% dei consumi.

Il problema  è come capire quando e quanta corrente  consumiamo  negli altri momenti della giornata visto non abbiamo dati a disposizione per la valutazione e nemmeno possiamo verificarlo dal contatore. Altrettanto inutili a tal fine risultano le informazioni fornite dagli opuscoli allegati agli apparecchi, che riportano il consumo annuale o standardizzato e non quello effettivo, che  varia in funzione di diversi parametri contingenti.

Ma non è finita: concentrare tra le 19,00 e le 8,00 di un giorno feriale il 67% dei consumi non è proprio la cosa più facile.

Bisogna innanzitutto conoscere il consumo annuo di KWh, calcolare quindi la media di consumo giornaliero e sulla base di quest’ultimo dato stabilire  quanti KWh residui possiamo utilizzare giornalmente nella fascia di picco senza correre il rischio di sforare con la spesa.

Tutto chiaro?

Ci illuminerà, è proprio il caso di dire, un esempio : se una famiglia ha un consumo  annuo di 3.000 KWh, significa che il fabbisogno medio giornaliero è di 8,22 KWh  (3000:365)  e che di questi ne può utilizzare solo 2,71 al giorno  (8,22x33:100)  al costo della tariffa bioraria.

E dobbiamo  tenere presente che la soglia appena calcolata, 2,71 KWh,  si supera facilmente anche senza essere degli spreconi, basta tenere acceso il frigorifero, lasciare qualche lampadina e led  in funzione e cucinare qualcosa con il forno (sic).

A questo punto se tutti i nostri calcoli,  fatti giorno dopo giorno per risparmiare, non risultano congrui, non solo perdiamo, badate bene,  i potenziali 30 euro di bonus annuo, pari a 0,08 € o alle 150 lire di una volta al giorno, ma dovremo pagare i KWh ad un prezzo più alto della tariffa ordinaria.

Senza contare che il rumore causato dall’uso degli elettrodomestici durante la notte potrebbe indurre il vicino “disturbato” a sporgere, ai sensi di legge, una denuncia per inquinamento acustico.

Conclusioni: passi pure che con la tariffa bioraria anziché risparmiare, a fine anno possiamo  scoprire di aver avuto un extra-costo, ma rischiare di finire anche in Tribunale  è troppo, davvero troppo.

Ancora una volta presi per il….

CARPINETA

di Gianfranco Oliva

Carpineta è il nome del colle posto ad ovest dell’abitato di Mormanno ; fra i due , scorre il fiume Battendiero .

Fino all’incirca quaranta anni fa , affacciandosi dalla villetta antistante la Chiesa di S.Rocco , si poteva osservare , sulla sommità del colle , la sagoma della cappella intitolata alla Madonna di Lourdes ; sul libretto di Vincenzo Minervini “Mormanno di una volta” , è interessante rileggere l’evento che ha portato alla sua edificazione .

Nello stesso tempo , si poteva ascoltare il rumore del fiume che, all’epoca, possedeva una tale portata da rifornire le centrali idroelettriche dislocate lungo il suo corso ,uniche risorse di energia elettrica per il paese , prima dell’avvento dell’ENEL .

In seguito , il variare delle condizioni climatiche prima e la costruzione dello sbarramento idrico al Pantano poi , hanno ridotto il Battendiero ad un corso d’acqua a volte simile ad un ruscello .

Affacciandosi oggi dallo stesso posto,la cappella risulta ormai completamente mascherata dalla vegetazione e non si nota più ; delle centrali , rimangono i ruderi ed il rumore del fiume è stato sostituito da quello estremamente fastidioso dei mezzi circolanti sulla Autostrada SA-RC (fermo restante il beneficio apportato da quest’ultima) .

Nel 1978, Carpineta diventa il titolo di un longplayng interamente pensato e realizzato da un gruppo (allora) di ragazzi ; oggi sono dei signori di mezza età , per dirla alla Marcello Marchesi , rispolverando una vecchia trasmissione televisiva degli anni ’60 .

Naturalmente , per non urtare la loro suscettibilità , puntualizzo che io , oggi , risulto essere un signore di ¾ di età.

I ragazzi di allora , nello stesso ordine di cui alla copertina del disco , erano:

Roberto Leonetti , piano elettrico ,tastiere,chitarra acustica , organetto ;

Mario Lauria , sax tenore –soprano , clarinetto , flauto , zampogna ;

Francesco Fortunato ,chitarra elettrica,acustica a 6 e 12 corde, mandolino e voce;

Francesco Tarantino ,basso, camastre, palo preparato , voce ; è l’autore dei testi ;

Franco Bozzi da Pisa , batteria , percussioni , campanacci .

Anche loro iniziarono come “complesso” (oggi sono denominati “gruppi”) , riproponendo i successi allora in voga , come d'altronde altri avevano

fatto, sempre (e non solo) a Mormanno ; compreso io con gli amici del tempo , all’incirca una decina di anni prima.

Ma a differenza di tutti gli altri precedenti gruppi e di quelli che seguirono , loro riuscirono a completare un percorso di ricerca musicale abbastanza originale, fino alla scrittura di testi e di musiche , innescate in tematiche interessanti ed attuali.

Per noi , il complesso , o gruppo , era il fine per giocare e divertirsi con la musica ; per loro, ha finito per essere il mezzo per proporre delle idee L’album ,affrontava il tema dell’emigrazione e di conseguenza , si collegava , anche se in piccolo , all’eterno problema della questione meridionale.

Anche nella grafica della copertina , mostrarono intuito ed originalità trasformando il titolo dell’album in un acronimo , raggruppando una serie di parole direttamente collegabili al dramma , appunto , dell’emigrazione , come rappresentato nel seguente stralcio del retro.

Quasi trenta anni dopo , sembra di rileggere un copione letto e riletto , con l’aggiunta , di nuovi figuranti : l’emigrante ormai acculturato o addirittura in possesso di titolo di studio superiore ; l’emigrante pendolare ; e tutti, con l’aggravante della precarietà : i servizi giornalistici e televisivi in merito , ormai si sprecano .

Probabilmente è stato l’effetto dell’avvento della cosiddetta seconda Repubblica , costruita con i mattoni della prima ; anzi , ma parlo per me , sicuramente qualche nuovo mattone è risultato essere peggiore di quelli vecchi.

Avevo intenzione di proporre , ai nostri , di pensare alla rimasterizzazione dei brani , inserendoli in un CD per proporlo a tutti quelli che del disco non hanno memoria ; ma l’intenzione è superata dalla notizia , che in occasione del trentennale dalla presentazione dell’album , sarebbe loro intenzione predisporre una nuova serie di brani sempre sulla stessa tematica , penso ovviamente, alla luce dell’ attuale panorama sociale : è vero ? (Lo chiedo a loro) .

Si dice che Eduardo De Filippo , volesse trasformare il finale di Napoli milionaria , in “nun è ancora passata a nuttata” caricandolo di cupo pessimismo rispetto alla speranza espressa da “adda passà a nuttata” dell’edizione originale .

Sicuramente sarà interessante verificare se la rabbia insita nei brani di Carpineta , negli eventuali nuovi brani risulterà immutata o trasformata in amara rassegnazione , come quella del grande meridionalista Giustino Fortunato , nato a Rionero del Vulture , dalle nostre parti , che così si esprimeva : “Siamo quelli che la razza , il clima , il luogo , la storia hanno voluto che fossimo” .

Naturalmente , è solo una provocazione , conosco bene questi ex ragazzi .

Di seguito si ripropongono tutti i testi dell’album .

Consiglio , inoltre , di fare in modo di riascoltarlo : primo , perché è veramente interessante e ne vale la pena e poi , perché rappresenta una di quelle , forse poche , iniziative nate a Mormanno , di carattere culturale in generale , che è doveroso ricordare (Compresa Faronotizie , che ci permette di esternare qualche nostro piccolo pensiero).

MORETTI

di Carla Rinaldi

Quest’anno la direzione artistica del Torino filmfestival è stata affidata a Nanni Moretti. Con l’auspicio più sincero che finalmente ci sia pubblico.  Il colpo pare sia riuscito perché non si trova un biglietto per le proiezioni già da mesi. Meno male.  Se mi state leggendo siete tra quelli ai quali il cinema non è proprio indifferente e, forse tra di voi, qualcuno ha già avuto l’esperienza del festival.

Io ne ho seguiti tanti, sia per il mio lavoro sia per l’amore sviscerato che nutro per la settima arte. Allora andrò subito al sodo, quando si partecipa ad un festival, come spettatore intendo, ci si imbatte in visioni di autori con nomi impronunciabili, si incontra e si comprende cos’è la sperimentazione, si intuisce come è difficile fare un film, completarlo, dai dibattiti in sala, spesso si torna a casa soddisfatti di aver visto altre cose belle da aggiungere alla conoscenza ma, spesso, ci si annoia mortalmente.

Molti direttori artistici credono che basti proiettare un film di sette ore di un autore tibetano che mostra ininterrottamente un paesaggio scarno e silenzioso per gridare al capolavoro. Il giochetto ha funzionato per un po’, tra quelli che “l’intellighenzia” viene prima di tutti, che “il flusso di coscienza serve per capire la politica”, ma tutti quelli che fanno film vi diranno all’unanimità, in coro, “volgiamo guadagnare, vogliamo pubblico, vogliamo popolarità”.

Un festival buono serve proprio a questo, diffondere e far amare quello che si sta vedendo e una buona selezione, non intellettualoide, aiuta molto. Moretti, noto a molti per i suoi film ironici e paradossali, non è uno stupido e non è assolutamente un incompetente, ha intuito, produce pellicole che riscuotono successo, ne gira altre che diventano campioni d’incassi, riesce a far aderire lo spettatore, le monografie su Cassavetes e Wenders ne sono la prova, tante altre pellicole comiche fanno da cornice, gli autori orientali e polacchi sono la ciliegina. Spesso quando si parla di cinema dell’Est, molti storcono il naso, ma c’è cinema e cinema, e Moretti lo sa.

Sarà infatti difficile che farà proiettare quella pellicola tibetana di sette ore fatta di silenzi e paesaggi, perché lui sa che quello non è cinema ma solo autoreferenzialità, basta vedere i suoi di film che beffeggiano da sempre quel certo atteggiamento di cultura e comprensione di spettatori saccenti e totalmente ignoranti, Moretti avrà di certo riso quando Fantozzi alla fine della visione della corazzata Potemkin, stanco e affranto, affermò che era “una boiata pazzesca” e non perché Eisenstein non fosse un bravo un

bravo cineasta ma perché il pubblico, seppure diverso, si unisce in un unico desiderio: evadere.

La prova?

Al festival di Torino invece di proiettare il suo ultimo film” Il caimano”, sarà proiettato il suo back stage, io l’ho visto, è divertentissimo, sembra un film a sé per quanta autonomia ci si trova, ci sono le sue frasi imprescindibili come “stamattina piove, dobbiamo fare solo un ciak perché la scenografia è molto costosa e deve saltare in aria, non sopporto quelli di comunione e liberazione”.

Che cosa significa?

Che importa, l’importante è che faccia sorridere.

ALMA MATER VINORUM

di Piero Valdiserra

Qualche tempo fa un amico fidato ci ha raccontato una storia molto curiosa, di cui nessuno o quasi è a conoscenza. Dopo i doverosi controlli di rito, ci è sembrato opportuno portarla all’attenzione di un pubblico più vasto, convinti come siamo che questo sia un esempio dei tesori più autentici che fanno la gioia di chi si occupa di enogastronomia di qualità.

Facciamo un passo indietro nel tempo di poco più di un secolo. Nel 1906 il grande critico e storico d’arte americano Bernard Berenson acquistò la Villa “I Tatti”, situata a Fiesole, nelle immediate vicinanze di Firenze.

Tre anni più tardi l’insigne studioso diede incarico a Cecil Pinsent e a Geoffrey Scott di trasformare secondo i suoi intendimenti il fabbricato padronale e l’annesso, meraviglioso giardino. Alla sua morte, avvenuta nel 1959, Berenson lasciò la Villa “I Tatti”, con la ricca biblioteca in essa ospitata, alla prestigiosa Università statunitense di Harvard, che da allora ne ha fatto un centro internazionale di studi sul Rinascimento italiano.

La Villa, risalente in parte al XVI secolo, contiene oggi il ricchissimo lascito librario di Berenson, e un altrettanto ampio archivio fotografico; vi sono inoltre raccolte 120 opere d’arte rinascimentale e orientale. Ma non è ancora tutto: la proprietà fondiaria, che si estende su 35 ettari complessivi, vanta una piccola, e poco conosciuta, produzione di colture nobili.

Ci riferiamo ai 3.500 ulivi, che danno una produzione annua di 45 – 50 quintali di pregiato olio extravergine d’oliva, e ai due ettari di vigneto, da cui si ottengono vini di sorprendente qualità.

Avete capito bene: l’Università di Harvard, orgoglio accademico non solo degli Stati Uniti ma del mondo intero, attraverso la Villa fiesolana “I Tatti” produce nettari sopraffini per la tavola: anche se, con understatement tipico della Nuova Inghilterra, non ci tiene troppo a farlo sapere in giro...

Essendo noi enoappassionati, siamo andati a cercare e a scovare, e abbiamo parlato soprattutto di vino, con il Responsabile Tecnico della tenuta, l’attivissimo Andrea Laini, che si considera un po’ l’erede del fattore dei tempi andati. Arrivato a “I Tatti“ nel 2001, Laini ha rivoltato come un guanto la produzione dell’azienda, orientandola a un’eccellenza qualitativa senza compromessi. E i risultati non hanno tardato ad arrivare:

oggi Villa “I Tatti” ha puntato a eliminare completamente lo sfuso, ed è

arrivata a produrre 8.000 bottiglie complessive, per tre quarti di Chianti Colli Fiorentini DOCG e per la quota restante di Rosso Toscano IGT.

Il Chianti, in particolare, è di carattere rimarchevole: dopo sei mesi di barrique francese (mix di vari passaggi, in modo da non esporlo soltanto a legno nuovo), acquisisce un nerbo vivace, brillante, che invita a bere e a

ribere, con gradevole facilità, senza essere minimamente stucchevole. Un’autentica, piacevolissima sorpresa.

La proprietà della Villa “I Tatti” non ha comunque intenzione di fermarsi, e già progetta per il 2008 un ulteriore ampliamento della vigna. Risultati alla mano, fa bene, non c’è che dire.

Sulle bottiglie della Villa “I Tatti” non campeggiano riferimenti harvardiani. Il blasonato centro studi non ha certo necessità di vendere – in assoluto e

visti i piccoli volumi di produzione – e non intende quindi esibire il leggendario stemma con la scritta VERITAS.

 L’unica icona che si scorge, nelle etichette peraltro molto eleganti sia del vino sia dell’olio, è l’antico monogramma di Berenson, il mecenate innamorato dell’arte rinascimentale italiana: un’ape sormontata da due “B” giustapposte, a formare le iniziali – Bernard Berenson – del grande studioso statunitense scomparso.

Siamo convinti che quest’ape sia destinata a far parlare molto di sé. E non solo negli ambienti accademici.

Per informazioni: Villa “I Tatti”, The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies, Via di Vincigliata 22, 50135 Firenze, tel. 055 603251, fax 055 603383, e-mail alaini@itatti.it

DA PIETRO MENNEA
UNA LEZIONE CONTRO IL DOPING

di Ferdinando Paternostro

Con  grande calore è stato accolto Pietro Mennea , il più grande velocista di tutti i tempi, nell’ l’Anfitreatro Anatomico della Facoltà di Medicina e chirurgia  di Firenze, ove  lo scorso 26 novembre ha incontrato gli studenti dei Corsi di Laurea in Scienze motorie e  Medicina e chirurgia

Medaglia d'oro nelle Olimpiadi di Mosca nel 1980, detentore del record del mondo dei 200 metri piani dal 1979 al 1996 (con il tempo di 19"72), Pietro Mennea, avvocato, commercialista, ci è rimasto nel cuore come lo sprinter che per anni ha saputo contrastare la i  “giganti”  di Usa e Urss nelle distanze brevi.

Il seminario, organizzato dall’Ateneo fiorentino e dal Lions Club Firenze Giotto, è stato l’occasione per presentare il volume  ‘Il doping nello sport’ (2007, Delta 3 Edizioni), con cui Mennea continua il suo impegno di sportivo, di politico e di giurista nella lotta al doping.

Presenti all’incontro, tra gli altri, il Preside Facoltà di Medicina e Chirurgia di Firenze, Prof. Giovanni Orlandini,  il Presidente del Corso di Laurea in Scienze Motorie, Prof. Massimo Gulisano, il Presidente della Prima circoscrizione Lions, Roberto Faggi,  il presidente del Lions Club Firenze Giotto, Gilberto Tuccinardi, molti Docenti della Facoltà e di Scuole Medie superiori dell’area vasta fiorentina.


«Il doping è una scorciatoia per arrivare al successo – ha detto Mennea -. Tanti  atleti che correvano con me oggi non ci sono più. Molte sono morti sospette, che devono far riflettere». «Sento la lotta al doping come un dovere morale e civico. Ho avuto una carriera lunghissima come velocista, ho partecipato a 5 olimpiadi… non mi sono mai neanche strappato…  se avessi fatto uso di steroidi anabolizzanti,

mi sarei strappato chissà quante volte». Ha aggiunto «Lo sport deve rimanere l’ultimo baluardo del tessuto sociale per quanto riguarda il rispetto delle regole. Insomma, tra gli atleti deve vincere il più bravo, non il più furbo e la vera medaglia  cui ambire deve essere quella della credibilità».  «Purtroppo, il doping è diventato un grande business in mano alla criminalità organizzata, spesso più lucrativo di quello degli stupefacenti. Sì, perché il grosso del mercato del doping lo troviamo tra gli amatori che affollano le palestre».

F. Qual è il suo impegno, in tal senso

 «Mi batto da anni per una legge penale comunitaria che funzioni da deterrente riguardo all’uso di simili sostanze. Oggi in Europa solo cinque Stati hanno una legge simile. E io avevo lottato affinché fosse estesa a tutta l’Unione Europea. Purtroppo, però, oggi un olimpionico, ad esempio, “deve”avere un risultato agonistico, per il quale gli sponsor hanno investito».

F. Non è un problema solo italiano…

«Il problema è che gli organismi nazionali ed internazionali hanno un po' le mani legate, perché al momento mancano strumenti e capacità giuridica per contrastare il doping».

F.  Da dove ripartire allora?
«È necessario tornare alle radici dello sport. Tornare a considerarlo un’attività in cui si deve dimostrare il proprio valore rispettando le regole. Se cade questo principio, lo sport è morto».

Due  i  momenti particolarmente “partecipati” dell’incontro: la proiezione del video che ha ripercorso i successi di Pietro Mennea, la “freccia del Sud”, e  l’appello rivolto soprattutto agli studenti di Scienze Motorie, per uno “sport di valore e di valori”.

LA BOLLA CREATIVA

di Ileana M. Pop

Un paio di settimane fa la città di Madrid è stata testimone di uno strano esperimento creativo che non poteva certo passare inosservato: una venticinquenne violinista galiziana, Patricia Argüelles, ha accettato di trascorrere una settimana intera rinchiusa in una stanza di vetro nel bel mezzo della piazza dell’Indipendenza, ai piedi della Puerta de Alcalá. Questa strana iniziativa che ha preso il nome di burbuja creativa, sostenuta e sponsorizzata dalla comunità virtuale di www.bago.es, è stata pensata per evidenziare il potere comunicativo della rete e per permettere alla gente comune di assistere in diretta al processo creativo della nuova opera musicale della giovane artista, ispirata dall’atmosfera e dai passanti madrileni.

La coraggiosa ragazza ha deciso di mettersi in discussione e di esporsi al giudizio della gente, dimostrando infatti non solo il suo genio creativo, ma anche quanto la tecnologia sia importante nelle nostre vite, riuscendo a mantenere la concentrazione e il buon umore grazie all’appoggio virtuale dei suoi cari e al sostegno dei curiosi.

Per sette giorni consecutivi, la giovane ha condiviso la sua privacy con tutti noi: l'abbiamo vista non solo suonare, ma anche cucinare, mangiare e dormire. Il suo mini appartamento trasparente e dotato di tutti i comfort (una cucina con lavandino, lavastoviglie e microonde, un letto, una poltrona, un bagno con doccia e un computer grazie al quale ha potuto condividere con amici e curiosi le impressioni di quei giorni) è stato molto più di una dimora; è stato un palcoscenico particolarissimo, illuminato di giorno dal sole e di notte non solo da riflettori e flash di macchine fotografiche, ma anche da lampioni stradali e fari di automobili.

Sembra che la violinista, essendo già affermata a livello europeo, non abbia deciso di fare tutto ciò per fama o per soldi, ma solo per dimostrare

al mondo intero quanto possa essere coinvolgente e allo stesso tempo naturale l’azione del creare.

Questo esperimento, occasione di riposo e di full immersion creativa per la impegnatissima Patricia, si è rivelato una grande attrazione per amanti della musica e non. A proposito di ciò si è parlato di un Grande Fratello artistico e per quanto alla protagonista non piaccia il paragone, l’affinità di

temi e situazioni (se non anche di propositi) con il reality show non può

essere ignorata. Che la grande affluenza e l’accesissimo interesse dimostrato per l’iniziativa abbiano infatti a che fare anche con un pizzico di voyeurismo?

Sarebbero, anzi, saremmo affluiti così in tanti se la "cavia" dell'esperimento non fosse stata una bella ragazza candidamente vestita di bianco che si muoveva in grande libertà sotto gli occhi di tutti?

 Come si fa a resistere alla tentazione di andare a vederla?

Con queste mie domande non voglio certo sminuire l’importanza di questa esperienza  che sicuramente arricchirà la città di Madrid dal punto di vista culturale, ma mi chiedo se Paganini o Mozart avrebbero gradito il peso di centinaia di occhi addosso durante il tormentato processo creativo.

INTIMITA’ A RITMO DI CLAVE

di Paola Cerana

“Vengo de Nigeria, Yoruba y Carabalì

Nigeria y Congo son mi tierra

Mozambique y Angola soy de allì

Esa musica que heredamos

Hijos y nietos de los africanos …”

“Vengo dalla Nigeria, Yoruba e Carabalì, Nigeria e Congo sono la mia terra, Mozambico e Angola, io sono di là, questa è la musica che abbiamo ereditato, figli e nipoti degli africani …”

Era il 1997 quando Los Van Van, storica band cubana, incendiava le piste da ballo con “Esto te pone la cabeza mala”. A quell’epoca conoscevo ancora poco delle tradizioni musicali di Cuba ma non perdevo occasione per abbandonarmi alla danza e per inseguire i concerti dei gruppi che spesso concedevano la loro esplosiva energia al timido entusiasmo del pubblico milanese.

Ballare a ritmo di salsa significa abbandonarsi al flusso prorompente delle percussioni. Bongos e tambores diventano un tutt’uno col battito del cuore. E’ un po’ come entrare in trance, posseduti dentro un vortice sempre più concitato di giravolte e ondeggiamenti. Ho sempre pensato che questo tipo di danza rappresentasse un modo socialmente accettabile per comunicare la propria carica erotica, possibilmente con un partner complice.

I due corpi si intrecciano, uniti da un linguaggio fatto di movimenti allusivi e sguardi esclusivi, incomprensibili agli altri. Perché una coppia quando balla diventa un corpo unico. E’ un’ espressione della sensualità che a Cuba, in special modo, viene esaltata e accettata come qualcosa di naturale e fisiologico. Un’ eredità fondamentale della cultura africana, che tanto ha determinato l’identità nazionale del popolo cubano.

Laggiù è facile lasciarsi andare. Non per niente si parla di Isla caliente. La musica è nell’aria, la si respira, scorre nelle vene, la gente non cammina ma balla, di giorno e di notte, nelle case, per le strade, sulle guaguas, gli scalcinati autobus locali. Dappertutto traspira la sensualità che musica e danza, insieme, diffondono.

Pare che lo stesso Cristoforo Colombo, giunto a Cuba nell’ottobre del 1492, restò colpito dall’esuberanza degli indigeni, con quella loro naturale propensione per i balli, i cosiddetti areitos. Era sorprendente come, sotto gli effetti dell’alcool e del tabacco, riuscissero a ballare per ore ed ore a suon di guiros, maracas e mayahoacàn.

Anche se la musica degli areitos si è persa col tempo, insieme ai suoi interpreti, decimati dalle epidemie e dalla schiavitù, gli strumenti musicali, la chiave ritmica, i canti, i passi di danza si sono tramandati fino ad oggi, mescolandosi via via con influenze americane ed  europee, fino ad arrivare alla salsa di oggi. Musica e ballo sono la migliore accoppiata della storia culturale cubana. E’ impossibile scinderli. Ed è impossibile godere appieno del piacevole stordimento che una rumba, un bolero e un mambo trasmettono se non si scava dentro al significato di questi ritmi. Perché questi balli non sono solo semplici esibizioni da palcoscenico ma linguaggi, storia e cultura da conoscere e capire.

L’origine di queste danze va cercata lontano, al tempo delle colonizzazioni, quando migliaia di schiavi africani venivano portati a Cuba, costretti a lavorare nelle piantagioni di tabacco e canna da zucchero. Insieme agli schiavi approdarono sull’isola le loro tradizioni e le loro credenze religiose che si esprimevano in canti e rituali frenetici. Accompagnato dal suono incalzante dei tamburi, il crescendo ritmico portava ad uno stato di trance. L’incrocio dei riti africani con la religione spagnola ha dato vita a una serie di culti sincretici che ancora oggi vengono praticati sull’isola. La Santeria è la più diffusa e la più complessa e si manifesta, oggi come allora, in rituali fatti di  danze in cui si rappresentavano la vita e le gesta degli Orishas, dèi tutelari delle tribù. E la musica, sempre presente nei deliri delle preghiere dei neri yoruba, era composta da basi ritmiche e melodie vocali scandite da tamburi e percussioni, detti Batà, che venivano custoditi nelle case-tempio Ilè Ochà dei Santeros e dei Babalawos, i capi spirituali.

Cuba è oggi uno dei pochi paesi al mondo in cui la religione si vive quotidianamente con allegria e le cerimonie sono vere e proprie feste, in cui abbondano cibo, rum, tabacco e musica appunto, in un’esaltazione del corpo e delle gioie terrene.

Ma è l’incontro con la cultura ispanica, prima, e francese e nordamericana, più tardi, ad aver fornito alla musica cubana quell’identità propria, inconfondibile e contagiosa che ha dato vita ai ritmi, generi, figure e balli che oggi vanno tanto di moda. Due sono le influenze artistiche che hanno portato all’evoluzione dell’attuale salsa. Innanzitutto il danzòn, ballo da sala frutto della contraddanza francese nato nel 1871, quando un musicista di Matanzas, Miguel Faìlde, interpretò quello che viene considerato appunto il primo danzòn, Las alturas de Simpson.  

Da allora esso ha subito diverse trasformazioni fino a diventare il ballo da sala più popolare in Messico per tutto il XX secolo. L’orchestra che suonava danzònes, costituita da piano, flauto e violino, era conosciuta come tipica o charanga ed è tuttora la base dei gruppi musicali cubani più in voga. Ciò che contraddistingueva il danzòn rispetto ai precedenti balli da sala era una sfrontata sensualità e allusività dei movimenti. Tanto da risultare scandaloso, soprattutto tra i bianchi dell’epoca. La carica erotica venne man mano esasperata fino a trasformare il danzòn in rumba, in cui il contatto fisico era portato all’eccesso da scosse di spalle, vita e pelvi, in un’imitazione senza ritegno dell’atto sessuale.

Il secondo contributo musicale fondamentale è il son, ritmo mulatto, meno bianco del danzòn ma anche meno nero della rumba, amalgama di elementi ispanici e africani, che riassume in sé l’intero patrimonio culturale cubano. Nato nella campagna d’oriente di Cuba, a Santiago, nella seconda metà del secolo scorso, ha attraversato tutta l’isola, arrivando fino a La Habana e da lì ha invaso tutto il mondo. La ritmica del son è data dalla clave, due bastoncini di legno percossi tra loro secondo una misura matematica, che forma la struttura portante dell’orchestra. Ma la clave è molto di più perché fornisce ai ballerini la frase musicale su cui giocare i passi. E’ uno schema mentale che permette l’intesa dei movimenti all’interno della coppia.

Ancora oggi si ballano bellissimi pezzi rivisitati del Sexteto Habanero, del Trio Matamoros o di Arsenio Rodriguez, il “cieco meraviglioso”. Pur con l’introduzione di strumenti e orchestrazioni moderne non si perde nel tempo l’anima del vecchio son.

A partire da questi storici soneros, esso ha vissuto uno sviluppo vertiginoso, mescolandosi sempre più con i ritmi puertoricani e newyorkesi che come un boomerang rimandavano sull’isola novità musicali, strumentali e ritmiche non più riconducibili ad alcun genere preesistente. Fu Benny Moré con la sua Banda Gigante, negli anni cinquanta, a trasformare definitivamente il son in un punto di riferimento insostituibile per tutti i musicisti salseri. Dopo di lui, infatti,  si cominciò a parlare di salsa, per cercare di definire un miscuglio musicale nuovo, saporito, tutto da gustare. Oltretutto il fatto che dentro Cuba non ci fosse l’esigenza di competere commercialmente per vendere musica, ha lasciato spazio e tempo per sperimentare sempre nuovi stili e forme musicali, senza compromessi e oltre ogni schema rigido, spaziando dall’afro al jazz, dal pop al rock. Ma mai perdendo il ritmo del cuore del son.

Oggi si parla di salsa cubana, puertoricana, venezuelana, free style, new york style e timba ma nulla toglierà al son la paternità di un ritmo e di un modo di ballarlo che è diventato banalmente di moda. Quanti italiani sono stati trascinati ad iscriversi a scuole di ballo e a frequentare lezioni, nel tentativo disperato di educare i piedi e sciogliere le cintole, ostentando una sensualità impropria e spesso ridicola! Il problema vero, per la maggior parte di loro, è l’incapacità di abbandonarsi, di liberare la mente, oltre che il corpo. Prevale il desiderio di esibirsi agli occhi del pubblico. Niente di più sbagliato. Il ballo è un fatto privato, intimo. Si potrebbe ballare ad occhi chiusi. Seguire e accompagnare il proprio partner in un dialogo segreto, comunione di spirito e corpo, legati in armoniosa sinergia.

Questo dovrebbe essere il ballo. Gioia, energia, vita! Così come gli schiavi yoruba si riscattavano dalle oppressioni attraverso l’espressione del corpo nella musica anche noi dovremmo imparare a sentirci liberi ballando. E magari cantando con Los Van Van

“Bombo canilla y campana

Un buen guiro y hasta manana

Ay con este ritmo tan afinca’o!

Bailen bien que aquì el que baila gana

Esto te pone la cabeza mala”

“Cassa, bacchetta e campana, un buon guiro e fino al mattino, con questo ritmo così coinvolgente, balli bene chi ha voglia di ballare, questo ti fa impazzire …”

LETTERA AL DIRETTORE, ovvero si apud bibliothecam hortulum habes, nihil deheris

di Francesco Rinaldi

Spesso, specialmente al rientro da una lunga, interminabile giornata di lavoro e di studio nella Capitale, mi tornano alla mente le parole di Cicerone: Si apud bibliothecam hortulum habes, nihil deheris !             “Che cos’altro ti manca, se hai una biblioteca che si apre su un piccolo giardino ?” (secondo la traduzione di Vittorio Messori, Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Mondatori, Milano, 1994, p. VII della premessa). E, ancor di più, se si tratta di un “bellissimo”, piccolo giardino, e ad aspettarti è una bellissima piccola mogliettina!

Il giardino è, forse, la massima espressione di sintesi di ciò che nell’ambito della filosofia greca veniva indicato come ή άρμονία, un perfetto bilanciamento tra Otium e Negotium.

Un’antica e complessa arte quella della “cura del proprio orticello” che, oggi, non sempre è considerata manifestazione di buone intenzioni.

E’ vero ! Una vita intensa spesso rende necessaria la “cura della casa”.

La “tana” evoca felicità, serenità, protezione, calore ! Soprattutto nelle più moderne e frenetiche metropoli, la “tana” consente all’  Uomo in rivolta, spesso con se stesso, di Albert Camus, di riacquistare quella dimensione e misura umana che sembra sempre meno appartenergli. Diventa, così, simbolo di rivendicazione di libertà assoluta, bisogno primario insopprimibile dell’umanità.

E che dire, poi, dell’affermazione sociale, troppe volte erratamente ostentata !

Il Tapia, un illustre concittadino della Napoli rinascimentale, allorché, nel 1574, fu nominato Presidente della Regia Camera, ritenne opportuno adeguare al nuovo Status la sua dimora – il bel Palazzo Montemileto in via Roma – rendendola di dimensioni maggiori e più lussuosa, con l’aggiunta di una trentina di stanze.

L’Italia, certo, è traboccante di splendide dimore, oggi inimmaginabili: le Ville del Palladio e quelle che lambiscono i due rami del Lago di Como (due per tutte, il Balbianello e Villa d’Este); le Ville romane (dalle domus transitoria e domus aurea di Nerone a, uno per tutti, Palazzo Doria Panphili) e quelle etrusche; Stupiningi e le altre ville reali; senza contare, poi, i Castelli, quelli federiciani, quelli del Buon Consiglio. L’elenco potrebbe risultare illimitato.

Dimore, spesso teatro di appassionate storie d’amore e di sangue, di affascinanti intrighi di potere, d’altri tempi, non sempre e necessariamente con un lieto fine. Anzi, spesso storie nefande !

La casa evoca sicuramente un sentimento d’amore: si tratti dell’alcova o dello Studium, nel suo proprio, perduto significato; si tratti della Capanna delle popolazioni Nomadi delle steppe, oppure, di un Superattico milionario a Manhattan, con veranda, giardino pensile e splendida vista su Central Park; si tratti anche delle dimore galleggianti dei Pirati delle Bermuda.

Si badi, però, diceva Saint Just: “tutte le pietre sono squadrate per l’edificio della libertà”, ma “con le stesse pietre potete costruirle un tempio oppure una tomba” !

IL PALIO DEI COMUNI: MORMANNO PRENDE VITA

di Nicola Perrelli                     

Un giorno eccezionale, un giorno in cui tutto quello che doveva andare bene è andato meglio.

Stiamo parlando  del 10 novembre 2007.

La  giornata che ha visto  Mormanno,  dopo una gara difficile e combattuta  contro  San Donato di Ninea, aggiudicarsi, per 1743 a 1294, il passaggio al turno successivo ne “Il palio dei Comuni”.

Un risultato straordinario  che la dice lunga sulla partecipazione che c’è stata al televoto  e sulla capacità dei mormannesi di mobilitarsi e aggregarsi  per le cose che  contano.

E non è l’unico piazzamento. Anche  nella classifica parziale della “Giuria” del primo turno, Mormanno con 200 voti è in testa, davanti a comuni di ben altra portata, come ad esempio Rossano.

La manifestazione, sostenuta e patrocinata dall’amministrazione Provinciale di Cosenza al fine di promuovere i territori dei comuni partecipanti, è stata trasmessa in diretta su Ten (Ten TeleEuropa Network) e condotta  da  Francesco Straticò, con la collaborazione di Ilaria Triolo, la bellezza locale che ha preso parte alle ultime selezioni nazionali di miss Italia. 

La puntata è stata un successo: ascolti record e grande partecipazione da parte del pubblico.  Merito anche del bravo presentatore Straticò, non a caso  considerato  nel panorama televisivo regionale il personaggio  più adatto, per  linguaggio e ironia,  a condurre  programmi destinati a far conoscere le tradizioni popolari e i patrimoni artistici e ambientali del territorio calabrese.

Assai nutrita la delegazione partita da Mormanno con due autobus strapieni, capeggiata dal sindaco Armentano  e dall’assessore al turismo Zaccaria e accompagnata dal sempre effervescente  gruppo folcloristico Miromagnum, fiore all’occhiello della nostra comunità.                   Presente ovviamente, ma super partes, il Presidente del Parco Nazionale del Pollino Mimmo Pappaterra, il quale, nel suo intervento, dopo aver sottolineato    l’importanza di questo tipo iniziative ai fini della valorizzazione delle risorse locali,   ha fermamente stigmatizzato come  disvalore  il messaggio

fuorviante che  trapela chiaramente  dalle recenti  fiction televisive ambientate in Calabria: un ostacolo in più al già difficile e lento cammino del miglioramento socio-economico dei calabresi.

Il Palio dei Comuni è un’occasione per riscoprire vicende storiche e tradizioni. Svela  il tesoro “nascosto” che spesso giace vicino a noi e

che per una serie di ragioni non riusciamo a sfruttare.

Per i nostri paesini e in particolare per Mormanno che indubbiamente ha una storia economica di tutto rispetto,  questo tipo di manifestazioni e iniziative possono innescare nuovi  processi economici e forse anche culturali e turistici.

Lo abbiamo visto  nel corso della trasmissione: Mormanno produce ancora, nonostante tutto. 

Esiste una  varietà di prodotti gastronomici, anche di particolare  qualità e pregio, e c’è una produzione artistica e culturale, spesso insignita di riconoscimenti,  che rischiano  di produrre risultati solo parziali se continua a persistere l’apatia della classe dirigente locale e se  non vengono supportati da politiche regionali in grado di attivare processi di sviluppo nel territorio.

E resiste ancora in tanti mormannesi, malgrado i danni causati dall’assistenzialismo e dalla socialità svigorita che questi genera, la vocazione  a concretizzare idee, a fare.

Attitudini  ereditate dall’attivismo imprenditoriale locale del dopoguerra,  che ha avuto come protagonista il Pastificio D’Alessandro che in poche decine di anni modificò l’assetto economico del paese, portando un apprezzabile aumento del livello di benessere. Un intenso periodo di fermento economico  che, piaccia o meno, rappresenta tuttora un interessante  esempio per il sistema imprenditoriale locale.

A far vincere Mormanno ne “Il Palio dei Comuni” è stato  determinante il televoto, ma ad accendere l’entusiasmo nel cuore dei  mormannesi e a risvegliare il loro senso di appartenenza  sono stati certamente  il fervore e il dinamismo di iniziative per lo più del settore privato e la capacità che gli attori locali  hanno di innescare  processi aggiuntivi di sviluppo e di crescita del capitale sociale della comunità.

Piccoli miracoli  che  producono ricchezza e visibilità, ma  soprattutto risvegliano  Mormanno.

TAVOLA E TALAMO

di Raffaella Santulli

L'imbandigione ha certamente anche un ruolo allegorico e seduttivo: apparecchiature semplici alludono a conquiste rustiche e dirette, piatti di porcellana e calici di cristallo parlano di un linguaggio della commedia sentimentale sofisticata, della ronda amorosa dove ogni amante è anche amante di altri amanti.

Per le bionde cibi dolci e cremosi, per le brune carni rosse e pepate: il celeberrimo Casanova considerava i piaceri gastronomici gli importanti preliminari di ogni avventura galante.

Libertino per vocazione, più che per temperamento, giocatore per piacere e qualche volta per necessità, profondo nella conoscenza delle donne, leggero e repentino nelle passioni: Gian Giacomo, italiano, veneziano, classe 1725, studi di avvocato, una parentesi ecclesiastica, una breve carriera militare, suonatore di violino, giocatore, baro, diplomatico, finanziere e spia.

E per questa vita, interamente vissuta ad amare per tutta l'Europa,  si guadagnò una tal fama di amante per possa, qualità e resistenza da fare del proprio nome sinonimo di seduttore, tutto deve accordarsi allo scopo ultimo di un'estetica amatoria.

Gli abiti sono fonte di questa filosofia, quelli dell'uomo e soprattutto quelli della donna: la veste da sbottonare con pazienza o con foga secondo i ritmi della passione, le scarpine da toccare con malizia ed allusione.

Ma più delle vesti, nel suo disegno conta il cibo.

Il pranzo o la cena sono preliminari da giocare con cura.

Il cibo serve a sedurre senza precipitazione, a sorprendere senza stordire, a inebriare e mai ad ubriacare, a risvegliare i sensi affinché siano tutti pronti a cogliere i doni di Venere.

SEMPRE PIU’ SPAZIO AL VOLONTARIATO

di Nicola Perrelli                     

A caldo, dopo la “ Giornata del Volontariato” del 17/11/2007, mi sovvengono una serie di considerazioni su questo importante fenomeno sociale; dagli anni ’60 non più relegato all’esperienza dei singoli o di piccoli gruppi di persone.

Il  “volontariato”, come il termine lascia intuire, è un’attività liberamente e gratuitamente esplicata a beneficio della comunità. E si esprime attraverso l’opera di tutte quelle persone che spontaneamente e spesso in modo  continuativo, al di fuori dei propri  impegni lavorativi e non,  prestano aiuto a chi ha bisogno, partecipano attivamente alle operazioni di soccorso per la  salvaguardia della popolazione durante catastrofi e calamità naturali e  del patrimonio ambientale e paesaggistico nel corso di incendi e si impegnano in una serie infinita di attività di interesse comune.

Il volontariato da anni  non è più ormai una  prerogativa  riservata a poche persone o a gruppi più o meno ristretti di cittadini,  ma interessa numerosissime persone di età, sesso, professione e stato sociale diversi.

E la sua crescita conduce  indubbiamente  al miglioramento delle aspettative sociali.

La società cambia e il volontariato pure.

In una fase di grandi cambiamenti socio-culturali, penso ad esempio ai problemi della inclusione e integrazione sociale delle diverse etnie o alla impellenza ambientale, la collettività ha bisogno del contributo di tutti, perché solo attraverso la partecipazione è possibile migliorare il sistema.  

E il volontariato per contribuire a questo sviluppo  deve necessariamente

essere sostenuto, promosso ed efficacemente organizzato  da tutti i vari soggetti interessati,  pubblici e privati. Diceva Gandhi: le buone organizzazioni non impediscono che ci siano persone cattive, ma le cattive organizzazioni non aiutano a far esprimere al meglio le persone buone.

Per la ricerca del meglio  il Coordinamento Territoriale del Volontariato del Pollino nel Convegno  che si è tenuto nel Protoconvento Francescano di Castrovillari, ha proposto uno “spazio aperto di discussione per decidere insieme”: il Welfare Open Space. Un incontro pubblico, senza relatori, che prevede la partecipazione attiva di tutti i presenti e la definizione del programma all’inizio dell’incontro.

Ampio il dibattito che si è aperto in seguito alla domande  formulate dai partecipanti sui temi caldi della zona: vivibilità, lavoro, sviluppo, sostegno all’opera dei volontari attraverso politiche locali mirate, pianificazione e valorizzazione del volontariato di protezione civile della zona. L’unità operativa che si è contraddistinta per sacrificio e spirito abnegazione nello spegnimento dei violenti fiochi della passata stagione estiva.

A fine lavori  è stato redatto il “manifesto progettuale” contenente le linee guida del lavoro che il  Coordinamento Territoriale del Volontariato del Pollino dovrà affrontare nel futuro.

IBRĀHIM LAARAJ

di Francesco M. T. Tarantino  

Eri un migrante in tempi non sospetti

Non trovasti amore e né comprensione

E nonostante eravamo pieni di difetti

Ti abbiamo visto come un fannullone

Venivi dal mare col tuo carico di sogni

In cerca di case da profumare e rivestire

E di nuove illusioni allargasti i bisogni

Di una terra lacerata ancora da ricucire

Non so come e perché tu sei venuto qui

Cosa ti spinse fra questi angoli di monti

Che cosa ti indusse a dire sempre di sì

In questi posti che ti fan pagare i conti

E un giorno hai riconsegnato la pelle

Nessuno ti ha reclamato nel tuo paese

E sotto la stessa luce delle tue stelle

Abbiamo voluto scusarci per le offese

Un’anima “pia” ha scritto il tuo nome

Stando attento a non metterci la croce

Era lo stesso che ti metteva le some

Che coi neri e i diversi alzava la voce

Come è facile scrivere su pietre dure

È più difficile piantare fiori tra i fiori

Le pietre non hanno bisogno di cure

I fiori si risentono di gioie e di dolori

Seppellendoti abbiamo messo a tacere

La falsa coscienza di colonizzazione

E quella doppia data ancora ci fa cadere

In un ennesimo errore di presunzione

Portavi il nome di un grande patriarca

Che come te intraprese la sua guerra

Tu per un’illusione seguendo una barca

Lui per un Dio che gli promise la terra

Ed ora non sogni in questo camposanto

Senza fiori e senza famiglia e parenti

Come per ogni migrante non c’è pianto

Per te non ci sono preghiere indulgenti

BULGARIA - QUESTA NON E’ UNA GUIDA TURISTICA -

di Margherita Vassileva

E’ sempre molto difficile descrivere il proprio paese per il semplice motivo che è come parlare di sé stessi. E’ inoltre annoiante riportare dati geografici che ci sono già ed è facile trovarli una volta essere interessati.

Per i lettori che non hanno mai sentito nominare questa terra dirò che è una terra affascinante, incantevole, con mare, spiagge, montagne, valli, con una storia ricca di eventi, insomma una terra molto bella che da alcuni mesi è diventata anche membro dell’UE.

Al centro storico di Roma ci sono quattro imponenti mappe geografiche – chiamiamole così – che descrivono la nascita e l’evoluzione dell’espansione dell’Impero romano, che in un certo momento, come sappiamo, era esteso completamente sul territorio anche della mia patria. E a questo punto non è da meravigliarsi perché vi sono molte tracce oggi che ne danno la prova, e più si scava, più si scoprono delle cose. La capitale Sofia è una città antichissima, risale da 8000 anni, la più “nuova” storia, quella dell’Impero romano risale dal I secolo a. C. quando fu conquistata dai romani, prima era popolata dai traci ed altre popolazioni antiche, dai quali abbiamo ricco patrimonio artistico. I romani, resisi ben conto dell’importanza strategica della città, lasciarono un segno profondo qui a partire dall’imperatore Marco Ulpio Traiano (dal 98 al 112) che “battezzò” la nuova città, aggiungendo il proprio nome al nome di essa - Ulpia Serdica. Sofia è l’unica città dove oggi si possono vedere i resti delle mura romane e dei fori romani insieme alla porta Est a 4 m di profondità sotto le vie moderne.

Un altro imperatore di rilevante importanza fu Costantino I detto Magno (dal 306 al 337), durante il suo regno la città raggiunse una fioritura culturale e architettonica significativa, sue sono le parole: “ Serdica è la mia Roma”.

Certo che non è possibile descrivere tutto in un articolo, ci sono molte altre cose da dire, soffermarsi sulle altre città come Plovdiv, che sembra un museo a cielo aperto, bellissima, la capitale storica della Tracia.

Da un certo punto di vista per il visitatore, la Bulgaria potrebbe sembrare come se fosse stata messa da parte per un certo periodo di tempo, piuttosto lungo direi… non ci sono palazzi medievali, non ci sono delle fortezze, non ci sono quei segni della fioritura delle arti del Rinascimento… e non è da meravigliarsi. Il paese ha avuto una storia per niente facile e poco felice – quasi 500 anni di giogo turco crudele e feroce dove qualsiasi cultura e libertà dell’espressione e del culto furono impensabili, l’unico obiettivo fu sopravvivere e conservare la propria identità nazionale – la fede, le radici, le tradizioni bulgare… altroché fioritura artistica!

Qui bisogna sottolineare l’importantissimo ruolo della fede cristiana che ha contribuito in una maniera straordinaria al processo della conservazione dell’identità nazionale! È necessario specificare, però, che questo lungo processo fu doloroso e sanguinoso, segnalato di molti eventi storici macabri compiuti da parte dell’Impero ottomano di allora, che come tutti sappiamo non rappresentava il colmo della tolleranza etnica e religiosa!

Fortunatamente tutto questo è definitivamente nel passato! Dopo la liberazione nel 1878 il paese si è orientato verso lo sviluppo dell’economia del mercato e ha cercato di riprendersi e continuare avanti per la propria strada e in tal senso non è da sottovalutare la posizione

strategica sulla penisola Balcanica che ha contribuito molto agli avvenimenti storici, con tutti “pro” e “contro”, naturalmente. La ripresa di quel periodo fu forte, segnata da molti fatti innovativi dell’epoca. A Sofia, per esempio, furono chiamati architetti stranieri: austriaci, cechi, italiani, polacchi, russi, tedeschi per poter contribuire alla ripresa e all’aspetto nuovo della città perché potesse riacquistare lo splendore e l’importanza del passato. Questo processo naturalmente riguardava tutto il paese.

Bisogna sottolineare il fatto che tutti gli aspetti della ripresa postliberatoria cominciarono a sentirsi, grazie all’entusiasmo di molti bulgari che, dopo aver terminato gli studi presso varie università prestigiose in Europa, ritornarono in Bulgaria per poter contribuire alla crescita della propria patria!

Ahimè per poco! 

Dicono che non si può scappare dal proprio destino… ovviamente non è valido solo per le persone ma anche per i paesi! Dopo questa ripresa, la storia fu segnata da altri alti e bassi: arrivarono le guerre – la Prima guerra mondiale, le Guerre balcaniche, che come tutti noi sappiamo bene non portano, ma piuttosto distruzione e sofferenza per coloro che le vivono. Dopo un’altra difficile ripresa del paese nelle condizioni dell’economia libera del mercato, l’evento orrendo che segnò l’intera umanità, e cioè, il fascismo, non poteva non influenzare anche la Bulgaria, che durante la Seconda guerra mondiale fu un alleato del Terzo Reich.

Alla fine di questa guerra, dopo la sconfitta del fascismo, un altro fatto di natura negativa e retrograda ha colpito la popolazione e il paese, e cioè l’arrivo per altri 45 anni del regime comunista sovietico, che come tutti sappiamo, ha portato all’umanità danni e fiumi di sangue come tutti gli altri regimi dittatoriali.  Dopo il crollo di questo sistema nel 1989, la ripresa e l’orientamento della Bulgaria verso l’economia libera del mercato e la democrazia sono state costanti e tutti questi sforzi sono stati coronati con l’adesione ufficiale all’UE, avvenuta il 1° gennaio 2007.

Adesso, quando è stata voltata la pagina,  quando il traguardo e la strada per raggiungerlo ci sono e si sta camminando verso la direzione giusta di un futuro migliore, dove si può sperare di poter condurre una vita dignitosa, non condizionata sempre dalla sopravvivenza sia fisica che quella culturale, non ci resta altro che dirci “olio al gomito!” per poter soddisfare questo anelito di libertà e per poter dimostrare con orgoglio le proprie capacità di far parte a tutti gli effetti alla grande, bella e forte famiglia europea, che ha segnalato un rilevante periodo nella storia dell’umanità dopo lo storico processo di unione, dal Trattato di Maastrich (con i passi precedenti naturalmente) a tutt’oggi! 

E adesso che ci penso…. niente di nuovo abbiamo scoperto… l’unione fa la forza!

CON I BAMBINI BIELORUSSI IN ITALIA (parte III)

di Elena Bebeshina

Durante quel nostro soggiorno in Italia noi adulti accompagnatori siamo stati impegnati 24 ore su 24, senza quasi avere alcun minuto libero. Abbiamo avuto solo una giornata libera per uscire, e ne abbiamo approfittato così tanto che la ricorderò per sempre!

Il paesino dove siamo stati ospitati distava solo circa 40-50 chilometri da Venezia, se ricordo bene. Ho sentito parlare tantissimo di questa meravigliosa città, unica al mondo. Il programma di accoglienza non prevedeva un viaggio a Venezia né per i nostri bambini né per gli adulti. Ma, trovandomi così vicino dal mio sogno e sapendo che potevo avere mai più una simile possibilità nella mia vita, sarebbe stato veramente un disastro per me se non fossimo andati a goderci Venezia! Per questo, la prima Domenica (era passata una settimana da quando eravamo arrivati), che avevamo una giornata relativamente libera (i bambini sono stati accolti dalle famiglie locali), abbiamo deciso di non lasciarci sfuggire un'occasione così favorevole e visitare Venezia. Siamo stati portati alla piccola stazione ferroviaria di mattino e dovevamo tornarci alle 17 per essere in tempo per il rientro dei bimbi alle 18. Il presidente di comitato mi ha dato l’orario ferroviario e ha spiegato quando partiva il nostro treno per Venezia e a che ora saremmo dovuti tornare. Tutto il resto dovevamo farlo da soli.

Il sabato sera ero molto agitata perché sentivo una grande responsabilità per noi tre accompagnatori. Per la prima volta dovevo fare tutto da sola senza l’aiuto degli italiani. Avevo trascorso solo una settimana in Italia e non mi sentivo pronta con la lingua. Ma, allo stesso tempo non avevo molta paura perché sapevo che mi aspettava una grande avventura e non vedevo l’ora di mettere alla prova me stessa. Prima di andare al letto ho ripassato tutte le parole legate alla ferrovia che avevo studiato all’Università, per sentirmi più sicura. Il mattino successivo il nostro viaggio nella famosissima città del sogno e dell’amore  era finalmente cominciato!

È difficile descrivere la strana sensazione di una persona che si trova in un paese sconosciuto, con i suoi usi locali famigliari a chi vi è nato o vissuto da piccolo, ma completamente ignoti ad uno straniero adulto. È la mescolanza di curiosità, imbarazzo, mancanza di sicurezza e paura di fare qualcosa scorrettamente, quando ti senti interamente straniero, quando non sai come comportarti, non conosci le cose più elementari,  per esempio da come si aprono le porte in treno e finendo con che cosa si deve fare con i biglietti.

Dopo circa 40 minuti abbiamo  imboccato il lungo ponte che congiunge Venezia alla terraferma.

Osservavamo stupiti il mare azzurro e splendente al sole dai due lati del treno. Proprio in quel momento ho

pensato che la città, nella quale stavamo per entrare, doveva essere veramente unica, bella e diversa da tutto quello che avevo visto prima.

Alla stazione abbiamo deciso di  informarci subito  su quale fosse il binario dal quale sarebbe partito il nostro treno di ritorno, per essere tranquilli e non confonderci dopo. E’ stato  allora  che ho realizzato che non ricordavo il nome della stazione dalla quale eravamo partiti, e non sapevo neanche la direzione del treno di ritorno! Panico completo. Ci siamo messi in coda ad una lunga fila per chiedere informazioni. Ho cominciato a preparare un discorso per spiegare la nostra situazione, guardando quasi ogni parola nel vocabolario. Poi ho notato un grande orario attaccato alla parete della stazione e ho deciso di provare a trovare il treno necessario da sola, perché la fila era lunghissima e quasi non si muoveva. Dopo alcuni minuti sono riuscita a trovare il nostro treno. Ora potevamo cominciare ad esplorare la città. Avevamo solo cinque ore per goderla. Per questo motivo abbiamo camminato velocemente.

Che straordinaria città! I canali con acqua azzurra al posto delle strade, le gondole e le barche al posto dei mezzi pubblici, i ponti belli e diversi da fotografare, le strade strette e senza alberi,  turisti da tutto il mondo. Mi è piaciuto il vetro veneziano, costosissimo, che mi ha fatto trattenere il fiato, le maschere di carnevale di tutte le dimensioni, negozietti con souvenir e le vetrine dei negozi di famosissimi stilisti. Abbiamo raggiunto Piazza San Marco e la favolosa Basilica. Purtroppo, non avevamo il tempo e la possibilità di entrare, ci siamo accontentati di ammirare la sua bellezza dall’esterno.

Che strano, quando passeggiavamo per la città, io pensavo continuamente che solo gente ricca avrebbe potuto vivere lì. Però ero sicura che se avessi avuto tutti i soldi del mondo, non avrei voluto vivere a Venezia. È la città che non dà l’impressione di vita quotidiana. Era difficile immaginare come vivesse la gente sopra tutta quella acqua, in edifici vecchi, come facesse le spese e si spostasse usando una gondola.

Quel giorno il tempo era bellissimo, ma come ci si sente quando c’è pioggia o neve? È la città-museo all’aperto. E non mi sarebbe piaciuto vivere in un museo con tutti quei turisti che affollano le strade.

Cinque ore erano volate via senza accorgercene. Tornammo alla stazione di corsa e  quasi perdevamo il treno. Quando siamo arrivati alla stazione del nostro paesino, abbiamo visto l’autista che ci aspettava e siamo saliti sul pulmino: in quel momento mi sono sentita finalmente al sicuro e mi sono rilassata. Solo allora mi sono resa conto di quanto fossi stanca! 

IL CIRCOLO CITTADINO

di Luigi Paternostro

Per Mormanno, il Circolo Cittadino era un’istituzione.

La prima società fu istituita il 24 giugno 1886.

Questo Circolo Cittadino fu chiamato, seguendo la moda del tempo, “La Stella D’Italia”, associazione di fede monarchica avente lo scopo di favorire l’agricoltura, le piccole industrie e il piccolo commercio, di procurare ai soci e particolarmente agli operai, agli artigiani, ai piccoli industriali ed ai commercianti la necessaria istruzione ed educazione, di  promuovere la beneficenza ed il soccorso scambievole tra i soci.

Lo Statuto si componeva di 54 articoli. Il 15 agosto 1886, firmano un certificato di ammissione del socio Salvatore Alberti un vicepresidente tale Francesco La Terza, un tesoriere, Gennaro Rossi ed un segretario attestando che è stata pagata la tassa di entrata di lire cinque [3] .

Non mi tratterrò qui a parlare del sodalizio. Ci avrebbero meglio illustrato la sua attività i soci oppure gli storici Vincenzo Minervini e Attilio Cavaliere.  Mi astengo perciò da altre notizie.

Ho ricordato tale istituzione per sottolineare la presenza di uno spirito associativo antico, progenitore di tanti altri sodalizi [4] .

E vado ora ai miei tempi. 

Dove hai passato la serata?

Al Circolo Cittadino! Non dovevi dire altro.

Il club, la cui fondazione risaliva su per giù agli inizi dello scorso secolo, forse in alternativa alla Stella D’Italia o come suo proseguimento o nuova istituzione, si era dato uno Statuto che veniva ogni tanto aggiornato e approvato dall’Assemblea Generale dei Soci.

Vi fu un Presidente, un suo vice, un cassiere, quattro o cinque consiglieri che formavano lo staff dirigenziale.

Non ebbe una sede propria ma in locali presi in fitto.

Le quote mensili servivano a coprire le spese correnti e a dare un compenso al bidello che gestiva e curava i servizi.

Il circolo fu frequentato anche da persone dei paesi vicini.

Dopo la guerra [5] il sodalizio fu rinvigorito da forze nuove, soprattutto studenti universitari.

Questi giovani in sintonia con i tempi e nello spirito del rinato clima democratico che cominciava a permeare tutte le classi sociali, organizzarono feste e veglioni con proclamazione e premiazione di reginette, rappresentazioni teatrali, sezioni di musica e sale di lettura.

A seguito di tale rinnovamento si chiamò Circolo Buonumore.

In quegli anni presentai domanda d’ammissione in cui annotai d’avere a mo’ di referenza, qualche cognizione musicale.  

Come mandolinista feci parte di un’orchestrina animata e guidata in quel momento da Fedele Cavaliere che suonava la fisarmonica.

Tra i suoi componenti ricordo Giovanni Fortunato, chitarrista, Gennaro Morelli, fisarmonicista ed altri.

Chi impressionò l’uditorio fu Vincenzino Perrone, reduce dal servizio militare svolto a Pavia, che pizzicava la chitarra in modo moderno con vivissima passione e trasporto. 

Da quella prima band nacque poi, per merito di Gennaro Cavaliere, un vero complesso jazz denominato Mormann bojs che ebbe notevole durata e  successi anche nei paesi limitrofi [6] .  Furono tutte sue, per tutti gli anni cinquanta le feste al Circolo, ridivenuto intanto Cittadino.

L’avvento della televisione non lasciò insensibile il Consiglio allora in carica.

Con quote straordinarie ed a fondo perduto, si acquistò un televisore    che ebbe un posto d’onore  nella sala più grande [7] .

Era collocato su un carrello, dotato di un trasformatore di corrente e di un lungo filo di collegamento ad un’antenna esterna orientata verso il trasmettitore di monte Faito, (Campania) le cui onde scavalcando le montuose barriere del Sirino, Rossino e Spina giungevano quasi miracolosamente a Mormanno. 

Ricordo che il giovedì il Circolo si riempiva di ospiti provenienti da Castrovillari, Morano Calabro, Rotonda, Laino Borgo per vedere Lascia o Raddoppia la mitica trasmissione condotta da Mike Buongiorno.

Tra gli anni sessanta e settanta fu modificato lo Statuto e l’ammissione, dapprima decretata dal Presidente e dal Consiglio, ebbe come obbligatorio e determinante  il parere dell’Assemblea  generale.

Erano gli anni del risveglio della coscienza democratica.

Una nuova classe emergente assunse poi, con ampio consenso popolare, il governo della cittadina [8]

Il circolo ebbe una settantina di soci.

Oltre al Televisore, nel salone trovò posto un tavolo da ping-pong ed un salottino.

Una stanza contenne un biliardo [9] , una fu riservata ai soci anziani che vi giocavano il tressette e che ogni tanto vociavano per le distrazioni del compagno di turno, e altre  due adibite a sala gioco attrezzate con tavoli dal panno verde. 

Vi era pure un piccolo bar gestito dal bidello.

Il Circolo era frequentatissimo d’inverno.

In ogni camera era collocata una stufa a legna.

La domenica pomeriggio tutte le sale erano impegnate, specialmente  quelle da gioco.

In quei tempi fu in auge il poker.

Alle quindici il Circolo apriva.

Alle sedici non c’era più posto.

I clienti erano tutti all’opera, pronti ad una battaglia che terminava a tarda sera.  

A lungo andare avevo preso il vizio di giocare.

Giocavo allora con numerosi  amici [10] .

D’inverno poi la forzata immobilità, il continuo stato di tensione e la situazione ambientale erano un supplizio.

La sala era sempre piena di fumo di tabacco cui si univa, secondo lo spirare dei venti, anche quello della stufa a legna che doveva essere “assistita” come diceva Francesco Montano, ultimo degli inservienti che ricordo per la sua signorile discrezione e per l’attaccamento all’istituzione.

Tale assistenza comportava il ricarico della legna, la rimozione  della cenere e il rabbocco dell’acqua nell’apposito tegamino che serviva da umidificatore.

La messa a punto di questa vaporiera si ripeteva ogni due o tre ore.

La sala intanto si riempiva anche di incombenti sovrastanti che si collocavano dietro i giocatori.

A volte erano talmente coinvolti da non riuscire a dominare emozioni e comportamenti che finivano per determinare l’andamento stesso della mano.

Chi perdeva chiedeva impassibilità e silenzio. Non era esaudito quasi mai.

Mentre il gioco proseguiva intervallando il poker alla telesina [11] , un freddo gelido attanagliava le gambe e i piedi che continuando a sudare e divenendo sempre più ghiacciati, parlavano con gli Angeli [12] .

Per vincere questo malessere ci facevamo portare da Francesco un cognacchino o un lucano che non risolvevano il problema: avevamo il viso rubizzo mentre le gambe e le spalle sembravano appartenessero ad altri.

Chiudi la porta! era il grido che ogni tanto si sentiva, diretto a chi entrava in quel campo di battaglia.

Vere e proprie nuvole mefitiche e irrespirabili mi fanno ora pensare a quelle che circondano il pianeta Venere.

Le molecole di tali fumi invadevano anche gli indumenti intimi e si attaccavano alla pelle.

Queste maratone domenicali ti fiaccavano a tal punto che la notte non riuscivi a riposare per il lento e difficile ricambio dell’ossigeno e per  scaricare tutta l’accumulata adrenalina.

Nell’agitato dormiveglia pensavi a come avresti potuto risolvere le situazioni del gioco se non fossi stato preso da eccessiva ansia o fretta, a quel bluff subito, al danaro perso che, nonostante tutto, era molto di fronte a quanto guadagnavi.

Quando i fantasmi ti abbandonavano allora era giorno, ed era lunedì.

Ti aspettava una settimana di lavoro prima di ritornare, perché nonostante tutto ritornavi, al tavolo verde.

LE 7 STANZE DELL’ANIMA  - UN VIAGGIO PER LE CANZONI DEI CANTAUTORI PORTOGHESI -

di Ana Ribeiro

‘Dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fiori’- così ha scritto De Andrè in Via del Campo, la bella e cruda canzone della ragazza dagli occhi grigi come la strada, che vende a tutti la stessa rosa. I cantautori, ispirati (e rivoltati) per la realtà che gli è intorno, fanno della canzone un’arma, che allo stesso tempo nutre e traduce i sentimenti dei popoli, dalla rabbia all’ amore. Anche nel Portogallo, sopratutto dalla seconda metà del secolo XX in poi, sono nate le più belle melodie e poesie, tra il buio della dittatura fascista di Antonio Salazar, lo ‘Estado Novo’, (dal 1932 al 1974).

Durante le decadi della dittatura, lo spirito di denunzia di vari artisti, si è spinto a far passare messaggi di speranza e a denunciare le situazioni di ingiustizia sociale – un grido in mezzo al silenzio imposto dal regime. Questi poeti, cantanti, lottatori, mettevano nella musica (tante volte registrata all’estero, perchè non era autorizzata nel loro paese), quello che non potevano dire apertamente.

In questa collezione di testi, vi presenterò 7 dei più importanti cantautori portoghesi, dalla seconda metà del secolo XX ai nostri giorni:

·        Zeca Afonso

·        Adriano Correia de Oliveira

·        Fausto Bordalo Dias

·        Manuel Freire

·        Jose Mario Branco

·        Sergio Godinho

·        Jorge Palma

Questi uomini (e tantissimi altri), con le loro canzoni, ci parlano di quello che abbiamo di più umano, dei sentimenti più elementari, che tormentano e che fanno sognare  la gente, e che pochi hanno la capacità di trasformare in opere che rimangono eterne per la loro forza e bellezza. Queste sono, allora, le sette stanze dell’anima:

·        La fraternità

·        La resistenza

·        La disperazione

·        Il sogno

·        L’inquietudine

·        La libertà

·        L’amore

In ogni articolo vi presenterò una stanza, una canzone, un cantautore. Perchè la musica è il cammino più dolce per il cuore degli uomini.

LA PRIMA STANZA DELL’ANIMA: LA FRATERNITA’

di Ana Ribeiro

Zeca Afonso (Jose Manuel Cerqueira Afonso dos Santos) è stato forse il piu grande cantautore portoghese, simbolo della resistenza antifascista. Nato nella città di Aveiro nel 1929 e morto nel 1987 (20 anni fa), le sue canzoni rimangono eterne per la saggezza delle sue parole e per la ricchezza delle sue melodie. Porta di Angola, dove passa parte della sua infanzia, un profondo legame con il continente africano, che viene riflesso nelle sue canzoni. Zeca ritorna in un Portogallo in piena espansione della dittatura fascista e studia a Coimbra, dove comincia a cantare il Fado (stile musicale tradizionale portoghese). Durante il suo soggiorno a Coimbra prende contatto con una realtà sociale drammaticamente piena di povertà e repressione, e –in questo contesto- fa transitare la musica di radice popolare in canzone di impegno e di resistenza antifascista.

In parallelo al suo lavoro di professore, tra Portogallo e Africa, Zeca Afonso svolge un’attività politica e musicale enorme, e questo gli comporta gravi problemi con la PIDE (la polizia politica). La sua attività di oppositore totale al regime si intensifica e viene espulso dall’insegnamento; il suo nome come cantante viene anche totalmente bandito dalla carta stampata e dalla televisione.La canzone presentata in questa prima stanza dell’anima è Grandola Vila Morena, la canzone che diede il segnale d'inizio, alla mezzanotte del 25 aprile 1974, alla ‘Revolução dos cravos’ (Rivoluzione dei Garofani).Questa canzone era stata composta nel 1971 in omaggio alla "Sociedade Musical Fraternidade Operária Grandolense", (Grândola è una cittadina del sud del Portogallo), una delle prime cooperative e associazioni operaie severamente represse dal regime.

Per ascoltare la canzone  vai a

http://es.geocities.com/alkionehoxe/grandola.mp3

Grandola Vila Morena

Grândola, vila morena
Terra da fraternidade
O povo é quem mais ordena
Dentro de ti, ó cidade
Dentro de ti, ó cidade

Grandola citta' dei mori

Grândola, città dei Mori
terra di fratellanza
è il popolo che più comanda
dentro di te, o città.
Dentro di te, o città

O povo é quem mais ordena
Terra da fraternidade
Grândola, vila morena.

Em cada esquina um amigo
Em cada rosto igualdade
Grândola, vila morena
Terra da fraternidade
Terra da fraternidade
Grândola, vila morena
Em cada rosto igualdade
O povo é quem mais ordena.

À sombra duma azinheira
Que já não sabia a idade
Jurei ter por companheira
Grândola a tua vontade
Grândola a tua vontade
Jurei ter por companheira
À sombra duma azinheira
Que já não sabia a idade.

è il popolo che più comanda
terra di fratellanza,
Grândola città dei Mori.

A ogni angolo un amico,
su ogni volto l'uguaglianza
Grândola bruna città
terra di fratellanza
terra di fratellanza,
Grândola bruna città
su ogni volto l'uguaglianza,
è il popolo che più comanda.

Ed all'ombra d'una sughera
che non sa più quanti anni ha
giurai d'aver per compagna,
Grândola, la tua volontà.
Grândola, la tua volontà
giurai d'aver per compagna
all'ombra d'una sughera
che non sa più quanti anni ha.

Grandola Vila Morena e’ stata scelta dai militari (assieme ad una canzonetta d'amore di Paulo de Carvalho, "E depois do adeus") per  segnale di preallarme della rivoluzione dei Garofani proprio perché parla di fraternità, di pace e di uguaglianza.

Anche ai nostri giorni, nelle commemorazioni del 25 Aprile, Grandola Vila Morena viene sempre cantata come grande simbolo della libertà e della democrazia portoghese. Per tutto il paese  si fanno piccole serate di canto libero, dove si cantano le canzoni di Zeca e di altri cantautori.

Zeca era ed è ammirato da tutti, non solo per il potere delle sue canzoni, ma anche per il suo spirito fraterno, pieno di abnegazione e solidale. Era un uomo semplice, con una gran curiosità del mondo, che ha rivoluzionato la canzone portoghese, portando nuovi ritmi dell’ Africa e della Galizia, e sopratutto, un nuovo messaggio di lotta e di speranza.

Nell’anno del sua morte, 1987, è stata fondata l’Associazione Jose Afonso, che è ancora attiva (www.aja.pt), per divulgare le sue opere e, soprattutto, l’esempio civico di Zeca. Le canzoni di Zeca Afonso sono interpretate da diversi gruppi nei piu diversi stili (anche Antonella Ruggiero ha registrato una sua canzone).

DUE DONNE

di Miriana Vadalà

Anche quella domenica si trovava all’aeroporto, e come ogni seconda domenica del mese prendeva

il volo delle 16 per andare a Düsseldorf, dove avrebbe incontrato il suo capo e discusso degli ultimi

sviluppi riguardo il nuovo progetto. La grafica pubblicitaria, il possibile impatto sul mercato, i potenziali acquirenti di questo gioiellino dell’ elettronica digitale, per il quale si contendevano già un patent.

Carla era davvero in gamba. 30 anni, laurea in ingegneria gestionale, master a Birmingham, e due anni di ricerca alle spalle. Parlava tre lingue, suonava il pianoforte e proveniva dal liceo classico. Non aveva avuto scelta quando a 13 anni come tutti gli adolescenti si apprestava

a decidere quale scuola frequentare. Sua madre, insegnante presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Milano, le aveva categoricamente imposto il liceo classico e Carla lo dovette frequentare. Non contro voglia, perché era bravissima a scuola, ma avrebbe preferito fare lo scientifico, proprio per la sua naturale tendenza verso la scienza e la tecnologia, che coniugata con le materie umanistiche, faceva di lei una ragazzina davvero colta. Aveva rimediato a questa sconfitta, qualche anno più tardi, scrivendosi ad Ingegneria e coltivando così quello che precedentemente aveva dovuto mettere da parte.

Quando annunciarono che il volo sarebbe stato spostato ad un altro gate, stava modificando la presentazione dell’ultimo meeting, dove aveva presentato il nuovo gingillo appena immesso sul mercato. Salvò il file, raccolse le sue scartoffie, e si diresse verso l’altro gate, dove presumibilmente avrebbe continuato a lavorare, fino a prima di imbarcarsi.

Carla amava i bambini, anche se non ne aveva di suoi e spesso la sua attenzione veniva distolta dal loro baccano, soprattutto durante le sue lunghe attese nelle varie sale d’aspetto. Li guardava, li studiava, pensava cosa avrebbe permesso loro e cosa no se fossero stati i suoi figli.

Fu così anche quella volta. Stava per dirigersi verso l’altro gate, con in

 mente la presentazione da accorciare per rientrare nei tempi che le erano

stati assegnati, quando vide un bambinetto che danzava giulivo attorno al caffettano verde di sua mamma.

Il piccolo saltava come un grillo e non smetteva, sebbene la sua mamma lo avesse già pregato di star buono e di seguirla. Sembrava andasse a batterie, su e giù senza stancarsi mai. Carla passandogli vicino gli accarezzò i capelli. Quindi la signora dal caffettano verde, trascinandosi dietro un minitrolley semivuoto e un po’ sfasciato, le chiese in francese: "Madame, Madame, potete aiutarmi?

Mi sono persa, devo prendere l'aereo per Casablanca, non so dove andare e sono sola" “Ma non siete da sola, avete con voi questo bel cavaliere. Dovete andare al gate 89, dritto di qui e poi a destra”. “Grazie, grazie tante, non so come ringraziarvi, non so, ho comprato un peluche a Yussef e in tasca ho solo 10 euro”. “Non vi preoccupate. Buon viaggio”.

Carla li seguì con lo sguardo, la mamma preoccupata e Yussef felice, barcollante accanto al minitrolley col peluche in mano, fino a quando arrivati al gate 89, Carla si accorse che a terra, non distante da lei, c’era un libretto verde. Lo raccolse, in un istante guardò la foto ed era lei…Madame Votre Passport!! Corse in avanti per portarglielo prima che fosse tardi. E poi con un sorriso luccicante augurò loro di nuovo buon viaggio e tornò indietro. Si sedette nella prima sedia libera, tra un lattina di Coca e alcune pagine della Gazzetta dello Sport e cominciò a riflettere, totale estraniazione, evadendo da tutto ciò che le stava intorno.

Anche Rashida come lei aveva 30 anni e sul passaporto aveva le foto di altri due bambini. Scuri e magri come Yussef e sorridenti.

Non aveva il cellulare, non aveva il portatile, neanche una valigia nuova come la sua. In una mano il biglietto per Casablanca e nell’altra Yussef che spingeva il minitrolley. Un caffettano verde e 10 euro in tasca.

Carla si fermò a pensare e per mezz’ora non scrisse una sola parola sulla

presentazione. Pensava a come la vita fosse diversa, pensava a quante volte lei aveva preso l’aereo e a quante lo aveva preso Rashida, pensava al suo corso di aerobica, alla vacanza in Egitto, al salto con l’elastico a Parigi, mentre Rashida e Yussef ormai spariti offuscavano i suoi pensieri con i loro sorrisi. Pensava che forse anche Rashida era arrivata in Europa su un barcone e magari aspettava Yussef quando la Protezione civile le

aveva dato soccorso. Pensava, pensava tanto…

Pensava che in fondo lei e Rashida erano tutte e due donne.

GLI OCCHI DEI BAMBINI….

di Marilena Rodica Chiretu

Gli occhi dei bambini

girano intorno a noi,

disegnano con gli sguardi

un paese senza confini.

Le ciglia grandi, nere e belle

alzano il peso delle palpebre

verso la luce che faccia colorare

le cose e le persone abbruttite

dalla tempesta dei tempi.

Le guance rosee

fioriscono sotto le carezze dolci

delle mamme e degli amici,

i baci intrecciano mani

nell’ abbraccio tra il cielo e il mare;

le due ciliege delle labbra

conservano sulla bocca

i sorrisi e le parole della primavera.

Adesso, è un autunno amaro,

sta piovendo sul volto dell’infanzia,

le lacrime delle nuvole

cancellano l’ allegria solare degli occhi,

oggi, uno schiaffo doloroso

arrossisce le guance dei miei bambini;

le ciglia nere degli sguardi

filtrano la luce che abbaglia

lasciando sulla sabbia fredda

solo le parole

di una passata estate calorosa:

“Amico mio, ti voglio bene

per la diversità dei colori

accesi dai tuoi occhi di bambino!”

LE MERAVIGLIOSE CONTRADDIZIONI

di Veronica Khayam

Da dove cominciare a decrivere le meravigliose contraddizioni del mio paese d’adozione?

Dopo avere viaggiato con lo zaino in spalla dall’India fino al Perú, passando per l’Europa Medio Oriente e Asia posso affermare che non é facile trovare un paese cosi’completo.

Ti svegli una mattina sulla costa peruviana e il sole e il mare la fanno da padróni.

Ti prepari per partire  e in un ora ti ritrovi sulle punte delle Ande,nella sierra centrale. Parti da Lima e raggiungi  Ticlio, il punto transitabile piú  alto del mondo, a 4800 m s.l.m.

E passando le montagne spoglie della sierra Peruviana, scendi dolcemente fino a raggiungere la selva, la regione amazzónica, il polmone verde del nostro pianeta.

E cosi mágicamente senza pensarci hai attraversato tre regioni, tre climi totalmente differenti tra loro dove le stagioni sono invertite. Se nella costa è estate nell sierra è inverno e viceversa.

Cosa si ama e cosa di odia di questa terra?

E’ meravigliosamente contradditoria!

Che significa?

Un paese estremamente povero e schifosamente ricco.

Nella grande e unica cittá  peruviana, Lima, convivono le genti che sono immigrate da tutto il paese per cercare fortuna nella “splendida metrópoli”, dove nella maggior parte dei casi non riescono a trovare i mezzi sognati per mantenere le numerosissime famiglie.

Le stesse belle  differenze che si contrappongono e stupiscono gli occhi del viaggiatore quando attraversa le sue  regióni climatiche vivono e perseverano nella sua cultura.

Lo stesso stupore che  meraviglia quando vedi spuntare tra le Ande lo splendore di Macchu pichu, si impadronisce dell’animo del viaggiatore quando dalle belle ville limene si allontana della cittá,  entra nella Panamericana, la grande strada percorsa anche dal CHE, fino ad avvistare le baracche che si impadroniscono delle colline della cittá.

“Il Peru é un mendicante seduto sopra un baule d’oro” cosi’lo scienziato italiano Antonio Raimondi esprimeva la sua opinione del paese ancora alla fine del 1800.

Questa e’la cosa che piú fa riflettere.

La diversita’culturale e paesaggistica del Perú unita alle sue meravigliose rovine Inca e pre-Inca lo rende un paese estremamente interesante non solo dal punto di vista culturale, che oggi nel mondo globalizzato e superficiale in cui viviano non ha tanta importanza, ma anche dal punto di

vista economico, in quanto pieno di risorse e di possibilitá per creare qualcosa di nuovo.

Il problema del Perú é l ‘educazione e la poca considerazione che le viene data. Il tema educativo anche nelle campagne elettorali viene spesso relegato a una questione di secondo piano, quando invece  dovrebbe essere, se non l’unico, almeno uno dei più   importanti argomenti di dibattito politico.

E’ semplicemente sconvolgente e irritante pensare che questo meraviglioso paese non possa  e non debba esigere di piú.

Ma si sa, non si puó chiedere agli altri quello che noi stessi non siamo disposti a dare.

Il mio sogno e’vedere cambiare le cose, cambiare le mentalitá , vedere diventare i peruviani indivudui consapevoli ed autonomi, non costretti a sognare un visto per qualsiasi paese del mondo.

Il mio sogno é che il Perú ritrovi se stesso e che sia l’unico a godere delle proprie ricchezze, senza che altri Paesi  o investitori di tutte le nazionalitá sfruttino risorse che non gli appartengono.

Sogno che questo paese si meravigli di se stesso.

UNA BEVUTA D’ACQUA DI MORMANNO

di Luigi Paternostro

Per secoli insieme alla stanchezza e alla fame la povera gente che rientrava in paese dopo una giornata di lavoro in campagna doveva anche preoccuparsi di portarsi dietro l’acqua potabile reperibile solo in fonti naturali [13] .

I ricchi erano approvvigionati da ciucciàri, mulitteri e sèrivi [14] .

Nelle loro case c’erano poi i pozzi che raccoglievano l’acqua piovana, buona per molti altri usi domestici.

La fonte più nota e vicina al paese era quella della Salviera che favoriva, per lunga sperimentazione, anche un’ottima diuresi.

Nelle case dei poveri sul muro che stava dietro l’ingresso era scavato un apposito vano, ù varlàru [15] , contenente mensole sporgenti su cui venivano poggiati vari barili.

Si usavano anche, specialmente nelle campagne, gli ‘nzirri, dall’arabo zir, orci di terracotta a due manici smaltati anche internamente.

Nel 1886 Mormanno ebbe l’acquedotto e nella cittadina furono impiantati fontanili comunali.

Il più noto fu quello del Fosso, di cui non è rimasta traccia [16] .

Era stato eretto come un portico sul cui frontone si leggeva, dettata dal professore e latinista sacerdote don Vittorio Pandolfi, la seguente frase: diu optatam, nunc laetae bibimus, dopo averla tanto desiderata beviamola ora lietamente.

Questo invito alla gioia era rivolto, credo, ai poveracci e soprattutto alle donne, liberate dal peso di un immane sacrificio.  

Le fontane rionali [17] furono per le comari del vicinato punto d’incontro e di scambio di  pettegolezzi.                                                                 

Intorno al 1930 l’acqua fece la comparsa nella cucina di un quindici per cento delle abitazioni.

L’acqua fu considerata un bene da non sprecare e utilizzata con parsimonia secondo precise e inderogabili necessità.

Per bere, ad esempio, si riempiva un boccale cui tutti accedevano [18] .

Solo intorno agli anni sessanta fu completata la rete idrica e l’acqua entrò in ogni abitazione raggiungendo anche i bagni che da allora furono parte integrante della casa.

A proposito dei bagni ricordo che fino agli anni ’30 si usavano come vasi da notte i càntari [19] oggi detti tube per la loro forma di cappello a cilindro, in cui si depositavano orine ed escrementi che si portavano poi a svuotare in determinati punti del paese posti fuori del centro abitato.

Queste processioni avvenivano all’alba.

Se invece era cattivo tempo e pioveva a dirotto la merce si affidava alle piogge torrenziali cui era appaltata pure la pulizia del paese.

Torniamo all’acqua da bere.

Quella di Mormanno è meteorica in quanto proveniente esclusivamente da pioggia, grandine o neve. E quindi tutta di sorgente e anche se contiene disciolto del carbonato di calcio che le conferisce una certa durezza, ha tutti quei caratteri organolettici, fisici, chimici e batteriologici che ne fanno una buona acqua potabile.

Come la rimpiango!

Quando giunsi a Firenze nel 1975, dovetti cambiare abitudini.

L’acqua del sindaco [20] aveva un forte sapore di cloro [21] .

Comprai un depuratore a carbone ma l’apparecchio non rispondeva.

Mi dissero che c’era una fonte al di là di Villamagna ove si poteva attingere della buona acqua. Comprai delle taniche ma appena sul posto mi accorsi della non potabilità di quella sorgente a cielo aperto.

Desideroso di trovare acqua pura cominciai a peregrinare nei dintorni nella speranza di una fonte Bandusia [22] .

Giunsi perfino a La Verna! Alla fine desistetti. Cominciai a comprarla come facevano tutti. In bottiglie di plastica.

Addio scroscio festoso delle mie fontane, addio sicurezza di purità incontaminata, addio!

Oggi pur apprezzando gli sforzi delle pubbliche amministrazioni per l’individuazione di nuove risorse, il miglioramento dei servizi e gli investimenti per raggiungere efficienza e tutela ambientale, penso con tristezza cosa succederà alle future generazioni se non s’interverrà subito con un programma d’educazione al consumo, al risparmio e al riutilizzo di un bene così necessario ed indispensabile alla vita. 

RICETTA: RISO ALLA CUBANA

di Elisabetta Coniglio

Lo chiamo così nonostante sia un modo di consumare il riso comune all’arcipelago delle Antille, perché ho imparato a prepararlo ed apprezzarlo a Cuba con i miei amici cubani.

Per riuscire ad apprezzare questa preparazione bisogna convincersi che il riso non serva a fare esclusivamente risotti ma che può divenire qualcosa di diverso.

Questo metodo di preparazione vi farà apprezzare il riso nella sua naturale genuinità e non insaporito da vari ingredienti, quindi è importante scegliere uno di qualità e adatto a quello che andremo a fare…pertanto prendete dei chicchi non troppo piccoli e assolutamente trasparenti, cioè privi di tanto amido. Detto questo cominciamo.

Ingredienti:

Procedimento:

Prendete un tegame a doppio fondo capiente a sufficienza per la quantità di riso che dovete preparare (il riso cocendo triplica il suo volume).

Mettete l’acqua, l’olio e il sale(1) e portate all’ebollizione, inserite il riso e mescolate, regolando se necessario la quantità d’acqua.

Infine coprite col coperchio e lasciate cuocere a fuoco bassissimo, quando tutta l’acqua sarà assorbita normalmente la cottura è ultimata.

I chicchi risulteranno gustosi e staccati tra loro, pronti per essere un ottimo accompagnamento di carni in salsa o secondi particolarmente piccanti.

(1)  attenzione, il riso assorbirà completamente il sale contenuto nell’acqua quindi mettetene meno rispetto a quello che mettereste per cuocere la pasta.

RICETTA: MAIALE IN MOSTARDA

di Elisabetta Coniglio

Cominciamo con lo sfatare un mito : la carne di maiale e’ grassa

In effetti il maiale è un animale grasso, però contrariamente alla carne di bovino contiene poche particelle di grasso tra i muscoli ed è facile liberarli dai comunemente detti grassetti laterali ottenendo una carne magra e meno calorica di altra.

Maiale in mostarda

Semplicissimo piatto di facile riuscita

Ingredienti:

·        filetto di maiale

·        sale

·        pepe

·        rosmarino

·        aglio

·        mostarda se è possibile in grani (in francese detta all “ancienne”)

Procedimento:

tagliare la carne a medaglioni spessi circa due dita, dopo averli massaggiati con sale, pepe, rosmarino e aglio schiacciato lasciarli riposare per almeno mezz’ora (1 ora sarebbe meglio).

Insaporitosi il nostro maialino è pronto per essere saltato in padella a fiamma media, attenzione a non cuocerlo troppo altrimenti la carne perderà la sua dolcezza.

Verso la fine della cottura spruzziamo un po’ di brandy e lasciamo evaporare,  togliamo la carne dalla padella disponendola nel piatto da portata, rimettiamo la padella sul fuoco, e aggiungiamo un po’ di brandy mescolando con un cucchiaio di legno (allo scopo di amalgamare l’alcool con quello che resta della cottura della carne); infine aggiungiamo un paio di cucchiai di mostarda, amalgamiamo il tutto rapidamente, e lo disponiamo sulla carne ancora calda.

Questo piatto si presta ad essere accompagnato da funghi trifolati, patate al forno, riso alla cubana (vedi ricetta a parte)

KERALA

di Paolo Donati

Il battello procedeva lentamente fendendo le acque torbide e immobili della laguna. Anche l’aria era densa e ferma. Si aveva l’impressione, più che di navigare, di aprirsi un varco attraverso una bolla di materia gelatinosa. Avvertivamo un senso di tormentosa compressione alle tempie, reso più intenso dall’umidità bollente seguita all’acquazzone.

Per compenso, il disagio fisico  si mutava in coscienza delle più remote regioni del nostro corpo: immobili come statue, ascoltavamo le sue reazioni e diventavamo consapevoli della copiosa attività escretiva  di ogni singolo poro  della nostra pelle.

Io sedevo su una scranna di giunco sul ponte più basso, con le gambe incrociate e le caviglie appese al bordo dell’imbarcazione.

Leon si trovava accanto a me, intento a sminuzzare, sulla copertina lucida di un libro che teneva sulle ginocchia, un ciuffo di foglie di canapa indiana; quando ne ebbe raccolto i frammenti in una stretta pila, trasferì il tutto in una cartina e con esperto gioco di dita arrotolò e incollò, con un filo di saliva, una smilza cannetta.

Me la passò accesa senza dire una parola e senza neppure fare lo sforzo di girarsi dalla mia parte.

Da dove ci trovavamo, la visuale sulla riva destra del canale si dipanava lentamente davanti ai nostri occhi come in una ripresa al rallentatore.

La vegetazione appariva talmente folta e inestricabile da fornire l’illusione di una immagine bidimensionale, come uno smisurato, interminabile murales realizzato da un artista in stato di grazia con larghi e vigorosi spruzzi di colore in tutte le tonalità dal verde al nero assoluto, mescolando le forme più ardite e sorprendenti.

Questa apparenza era resa ancora più realistica dal fatto che le chiome degli alberi erano così alte e il corso d’acqua così stretto in quel punto, che non era visibile il cielo a ristabilire la prospettiva.

Poi improvvisamente, come quando da un sipario chiuso si affaccia un volto facendo intuire che dietro al velluto scarlatto c’è spazio e vita, delle forme azzurre, rosa e gialle danzarono a scomparire e ricomparire nel verde restituendo al quadro una profondità ovvia, ma che, tuttavia, ci lasciò strabiliati.

Seguimmo con lo sguardo quelle macchie di colore e presto vi riconoscemmo delle giovani donne avvolte nei loro sgargianti sari che si affrettavano lungo il corso d’acqua procedendo a pochi metri dalla riva.

Eravamo consapevoli ciascuno della meraviglia dell’altro, ma non osammo scambiarci un commento.

Ora vedevamo distintamente visi sorridenti, denti bianchi, trecce nere. Giravano lo sguardo in direzione del battello, parlavano fra loro e, intanto, acceleravano il passo nella stessa direzione dell’imbarcazione.

Fu Leon a domandarsi: “Ma dove staranno andando ?”.

La risposta ci venne da una repentina variazione del suono, fin lì uniforme e monotono, prodotto dal motore.  Il macchinista stava riducendo la velocità e si stava preparando ad ormeggiare. Evidentemente avevamo raggiunto una stazione fluviale.

Ci sentivamo incollati alle nostre poltroncine dal sudore e da un profondo senso di spossatezza, tuttavia, dopo esserci consultati, ci risolvemmo a scendere anche noi insieme agli altri.

Percorremmo la traballante passerella fino a terra e ci dirigemmo verso una baracca distante una ventina di metri dove la vegetazione era più fitta e il sole non poteva penetrare. Si trattava di una capanna di frasche adibita a luogo di sosta e rivendita di cibo e bevande per i viaggiatori in transito.

Ordinammo un bicchiere di te e un cartoccio di banane fritte.

Mentre aspettavamo di essere serviti, riconoscemmo, nei volti delle giovani che si affaccendavano ai fornelli, quelli delle gentili apparizioni silvestri di poco prima.

La riconoscenza che manifestammo loro quando prendemmo in consegna i nostri te al latte, dovette parergli bizzarra.

Ci disponemmo a bere, rinfrancati dalla frescura e riscossi per l’emozione di aver sfiorato la mano alle nostre ignare guide in quel fulmineo itinerario ai confini dell’apparenza,. Presto il vuoto che fiaccava ogni nostro muscolo divenne un pieno. Quanto più sorbivamo il te – dolcissimo e bianco come l’avorio – tanto più ondate di energia si canalizzavano lungo la nostra spina dorsale. Le rotelle di banana, croccanti e grasse per l’olio di cocco in cui erano state cucinate, ci parvero un complemento perfetto.

All’ombra di quegli alberi sconosciuti, grandi come montagne, Leon pronunciò la fatidica frase: “Io di qui non mi muovo più…”.

Una rituale dichiarazione di intenti che segnava un momento preciso dei nostri viaggi: quello in cui ci sentivamo più remoti e distanti dalla nostra vita di tutti i giorni e, al tempo stesso, a un soffio, a un nulla dall’idea che inseguivamo di essa.

Un momento che scivolava via e si confondeva col successivo nello spazio di un respiro. Una brevissima illusione che si consumava mentre veniva concepita. Così, quando dal battello giunse il segnale di partenza, ci incamminammo entrambi verso il lungo e ancora inconsapevole ritorno.

AI PIEDI DI SANTA CROCE: LA FAMIGLIA SARNO

di Francesco Regina

La cima montuosa prospiciente la Costa era ed è detta Santa Croce [23] , ai cui piedi trovasi la chiesa di San Michele, sorta a sua volta (e successivamente ampliata) sulle rovine di un Convento Basiliano (o ancor prima di un cenobio) che sino al 1092 appartenne ai benedettini di Cava de’ Tirreni [24] e che cadeva nel tracciato attraversato dall’antica via dei Sibariti.

I due colli erano evidentemente separati da una voragine, o Vallone; tant’è vero che ancor oggi con quest’ultimo termine s’identifica una delle zone sottostanti la chiesa madre.

Anche se non contemporaneamente, i colli predetti si raccordarono nell’attuale piazza, essendosi colmati nel corso dei secoli, gli strapiombi interstanti con materiale riportato.

Su questo colle esposto ad occidente lo sviluppo demografico avvenne certamente più gradatamente e lentamente rispetto alla Costa.

Diffusa era difatti la tendenza a costruire abitazioni cosiddette  dèstre di sole, esposte cioè ad oriente per chiare ed ovvie ragioni legate essenzialmente alla massimizzazione del riscaldamento naturale nei periodi invernali ed allo sfruttamento dell’illuminazione nelle ore diurne.

Saturate pertanto le zone edificabili, o quasi, sul colle Costa, il seicento ed il settecento furono secoli che conobbero un’intensa attività di costruzione e di relativo popolamento riguardante la zona che dalla chiesa di San Michele mena all’attuale Piazza non esclusa quella intercettata dalla direttrice ideale che congiunge il rione della Torretta, anticamente denominato Cavaddrèri [25] , con quello circostante all’ex Convento dei P.P. Cappuccini poi divenuto Seminario Vescovile.   

Nella ferma convinzione di far cosa gradita al nostro lettore sudamericano che espresse vivo compiacimento per le iniziative di questo notiziario on line, diremo qualcosa su un altro casato antico e rinomato, che tra i primi si insediò nella zona sopra descritta: i Sarno.

Gli indizi locali più remoti non ci conducono oltre la seconda metà del ‘500 [26] .

In merito all’origine della famiglia e del cognome, le stesse fonti araldiche ufficiali non sono in grado di offrire connotazioni particolari o di rilievo [27] .

La loro cappella privata intitolata a San Francesco di Paola [28] , nella quale per la verità risiedono le scaturigini dell’elevazione socio - culturale della famiglia, risultava distaccata dal Palazzo residenziale, maestosa costruzione su più piani cinta da possenti mura ed accessibile attraverso uno splendido portale in pietra sormontato dal blasone.

D. Nunzio Sarno senior figlio di Gaetano [29] figura quale fondatore di una Cappellania intitolata appunto a San Francesco di Paola [30] , la cui spettanza – per esplicita volontà del fondatore – passò prima al nipote Don Giuseppe Sarno il quale “praticando sempre più tratti di amorevolezza verso suo nepote D. Nunzio, che da più tempo l’abito clericale vestiva, pensò di facilitargli la strada al Sacerdozio di rinunziare a pro dello stesso sotto il dì 26 del mese di Novembre dell’anno 1783, ad una Cappellania laicale [31] sotto il titolo di San Francesco di Paola [32] .”A nulla valse l’azione intentata dal causidico [33] Chierico Filippo Perrone, figlio di Porzia Sarno sorella del Fondatore, cui surse talento di pretenderne la spettanza per approssimarsi anche egli al Santuario, donde ad altro mestiere rivolto erasi ben guari tempo prima allontanato [34] .

Pertanto, della numerosa prole del Gaetano, ne risultarono privilegiati i soli discendenti di Nicola, i quali eccelsero in prevalenza nella vita ecclesiastica: Don Simon Pietro fu per lungo tempo Luogotenente Vescovile e Don Nunzio jr  visse a Napoli quale Regio Cappellano dello Squadrone della Real Artiglieria a cavallo [35] .

Don Francesco Sarno – fratello dei predetti e marito di Donna Mariannina La Terza – creò sul finire del ‘700 e gestì profittevolmente una cereria che funzionò sino agli anni ’20 del secolo trascorso. [36]

Il culmine della ricchezza e del prestigio si raggiunse nell’ottocento in seguito all’unione in matrimonio di Don Giuseppe Sarno [37] con la signorina Anna Pisani di Sant’Agata d’Esaro, suggellato dalla cognazione spirituale con la famiglia dei Borboni, e grazie all’intraprendenza del signor Nunzio Sarno, gentiluomo d’altri tempi, che rafforzando vieppiù quel sodalizio, era tenuto in grande considerazione in quel di Napoli, ove per diversi anni visse.

Ma sovente accade che ciò che si è costruito in molti anni, per una serie di cause e concause, si sgretoli in pochissimo tempo ed in modo travolgente ed irreversibile.

Un matrimonio che oggi diremmo incestuoso, ma che allora rispondeva ad un’accreditata logica volta a garantire l’accentramento della ricchezza, si caratterizzò di fatto come catalizzatore dell’estinzione completa del ramo: da quella unione nacquero figli affetti da gravi malattie congenite che ne cagionarono prima la demenza ed indi la morte in giovane età.

La signora, rimasta lei stessa vedova, venne insidiata e circuita da un perbenista dell’epoca molto più giovane di lei, la cui famiglia non navigava più in belle acque, il quale portò a compimento in breve tempo il premeditato disegno di sottrarre ogni sostanza all’ingenua donna per rimpinguare le riarse casse della sua famiglia [38] .

Al ramo “meno fortunato” apparteneva invece Francesco Sarno detto zàmpa [39] , propiziatore di una catena binomiale di Gaetano – Gregorio che si sviluppa dal 1700 per arrivare ai giorni nostri.

Da quel punto in poi avviene per cosi dire la “diaspora” o meglio,perdita d’appartenenza, visto che ogni stipite assunse un proprio soprannome [40] identificativo che poi tramanderà: troviamo infatti, zimprìllo, cordàro e fà fùni [41] , cinque grana, bruscatèllo (  -->  America)    ed altri.

IL RISPETTO DELLE ISTITUZIONI

di Paola Guasco

“A voi uomini e donne delle Forze Armate della Repubblica - che quotidianamente operate con abnegazione e indiscussa professionalità per la salvaguardia delle libere istituzioni, per la costruzione della pace ed a tutela della sicurezza nazionale - vada la gratitudine ed il riconoscente pensiero mio personale e di tutti gli italiani".

Così concludeva il Suo messaggio il Presidente della Repubblica , Giorgio Napolitano, per il 4 novembre, Giorno dell'Unità Nazionale e della Festa delle Forze Armate.

Un grande riconoscimento per questi uomini e donne che ogni giorno sono sulla strada per la sicurezza di noi cittadini.

Vorrei soffermarmi  sull'ultimo periodo delle parole del Presidente della Repubblica: “vada la gratitudine ed il riconoscente pensiero mio personale e di tutti gli italiani".

Ecco, queste ultime parole soprattutto fanno riflettere.

Dove sono la gratitudine e la riconoscenza?

Secondo me recenti fatti, anche gravi, di cronaca sconfessano queste parole.

Ora , ciò su cui ci si deve soffermare, al di là delle ragioni giuste o sbagliate dei fatti successi recentemente nel nostro Paese,  è la presa d’atto che per taluni attaccare le forze dell’ordine significa attaccare lo Stato, le istituzioni, e allora viene fuori la rabbia repressa delle persone “ignoranti che cercano di soddisfare le proprie frustrazioni” attraverso atti feroci verso coloro che rappresentato le istituzioni.

Questa rabbia  verso tutte le forze dell’ordine, e che è la causa principale per cui basta solo  un pretesto per dare il via agli insulti alle sassaiole e, in certi casi ad aggressioni vere e proprie ai militari, nasce da una critica allo Stato che può (ammesso e non concesso) manifestarsi solo in questo modo.

Personalmente non trovo giusto tutto ciò …

Ci sono tanti mezzi per esprimere il proprio disagio verso un’istituzione politica da cui non ci si sente rappresentati, ma bisogna avere il coraggio di affermare il proprio disagio in altri modi e non incendiando caserme o danneggiando beni  che poi, sappiamo, inevitabilmente concorreremo tutti a ripristinare anche e soprattutto economicamente con l’aumento di tasse e quant’altro, perché ogni bene pubblico danneggiato è un bene che è stato realizzato e che verrà ripristinato con il “concorso economico di tutti i cittadini”.

La cosa, però, più raccapricciante secondo me è che in questo clima di odio insensato vigliaccamente si riesca a prendersela con gli antagonisti

( le forze dell’ordine) che rimangono vittime nell’espletamento della propria missione, perchè, checché se ne dica, la professione del “tutore

dell’ordine” è da ritenersi  ancora una missione che denota coraggio e abnegazione verso il prossimo, quindi:

si sentono fischi nel minuto o due di silenzio in commemorazione di un militare vittima di un attentato,

si vedono striscioni con scritto “una, cento, mille Nassyria”, come se quei soldati morti non avessero dato la vita “anche per la nostra libertà”,

si sentono urla contro le forze dell’ordine  o si leggono scritte che è meglio non riportare ….

Beh! … mi dispiace … ma io non ci sto! …

Io sto cercando di inculcare in mio figlio, quindicenne,  l’idea del rispetto di questa “missione”, al di là dei soggetti che poi sono e saranno chiamati a svolgerla, si sa le mele marce ci possono essere dappertutto … per cui non accetto l’idea che lui  ( e come lui tanti altri) possano crescere con l’idea che le forze dell’ordine e quindi lo Stato, possano essere denigrate in questo modo.

Chi, tra i nostri tutori dell’ordine, come in ogni campo del resto, ha sbagliato o sbaglierà  forse per troppo zelo, pagherà e la Giustizia si farà carico di questo, ma l’istituzione non si tocca!!!!

Pensiamo, sì, ad un soggetto che ha sbagliato, ma pensiamo anche a quel soggetto che ha dato e darà la vita per la nostra libertà.

VOLARE …

di Erika Scotti

Bene, dopo una lunga e meritata vacanza nel Bel Paese eccomi di nuovo qui, non senza una punta di nostalgia per la mia bella e problematica Italia.

Sono rientrata due giorni fa e al mio arrivo all'aeroporto di Quito, laggiù in fondo alla pista, come fosse in castigo, ecco l'aereo Iberia che una settimana fa e' a mala pena e rovinosamente riuscito ad atterrare ''per il rotto della cuffia'', come si dice da noi, spaventando a morte passeggeri e ''vicini di casa'' del Mariscal Sucre.

Ebbene si', lasciate che vi spieghi un po' com'e' fatto e orientato l'aeroporto della capitale.

Trattasi di una delle piste di atterraggio più difficili al mondo, un vero incubo per i piloti, corta e stretta, si trova in pieno centro abitato, al punto che solo una inferriata e un piccolo campo di calcio divide la fine della pista dalle case degli ecuadoriani.

Come ormai sapete la citta' si allunga per 70 km tra montagne e vulcani questo rende gli avvicinamenti strumentali praticamente impossibili. I piloti devono atterrare ''in manuale'' come si dice in gergo.

Bene, l'ultimo atterraggio ''in manuale'' dell'Iberia che arrivava dritto dritto da Madrid non e' riuscito proprio bene.

Pare che per essere certi di poter atterrare in sicurezza un aereo deva toccare terra entro il primo terzo della lunghezza della pista, l'Airbus A340-600 in questione ha superato la zona limite ed ha colpito la pista in maniera molto brusca e a velocità sostenuta.

Vista la forte pressione il treno di atterraggio ha subito danni tali da innescare il meccanismo di sicurezza del carrello stesso che fa si che una volta raggiunta una certa temperatura i pneumatici perdano immediatamente pressione.

Tutti i 335 passeggeri e i 14 membri dell'equipaggio sono rimasti illesi.

I Paesi latino americani sono conosciuti per la leggerezza con cui prendono le cose, ma l'Ecuador costituisce un mondo a parte perchè qui poche cose vengono prese alla leggera. Tanto per cominciare l'aereo e' sotto sequestro, e' stata aperta un'inchiesta e interrogato l'intero equipaggio...e ...dulcis in fundo l'Iberia e' stata bandita dall'aeroporto Mariscal Sucre di Quito; che poi questo rifiuto sia temporaneo o definitivo dipenderà dall'esito dell'inchiesta nella quale, tra l'altro si giudicherà anche il livello di preparazione dei piloti e il grado di rispetto delle misure di avvicinamento necessari e pretesi per poter accedere all'aeroporto di Quito.

Il nuovo aeroporto e' già in costruzione, l'Ecuador si sta attrezzando.

CHE VERRA’?

di Violetta D’Addario

Quando si é disputata  qui in Venezuela la Coppa América…che é stata ben organizzata, i suoi contrasti  mi suscitavano ricordi stupendi che mi rimandavano a Italia 90, dove ho seguito cinque partite mondiali e tre  finaliste dal vivo.

Così ho potuto vedere la vera tifoseria dell’interno del  paese, del Táchira, di San Cristóbal, dove si sentono di piú i sentimenti della realtá venezuelana, dalle proteste, dei sequestri express, della vicinanza con la frontiera colombiana e tutto quello che implica, e non solo il vantaggio di fare benzina per i colombiani, essendo la benzina del Venezuela la meno cara del mondo. Molto meno cara, quasi di dieci volte in meno, che una piccola tazza di  caffé.

Ora si dovrá votare il 2 di dicembre per un referéndum discusso, non solo per i contenuti, ma per la vera necessitá o no di farlo…

Qui si seguita ad ammazzare gli stranieri italiani che visitano il Venezuela  e  tanti venezuelani per  mancanza di sicurezza per le strade.

Come diceva mia nonna: ‘povero chí ci capita-‘

La domanda dovrebbe essere: deve continuare a capitare?

Fino a quando?

Anche perchè non c’è più latte, non si trova,  i prezzi del mangiare sono alti, anche con i mercati con prezzi popolari, ma sempre più vuoti, e le abitudini che cambiano, come quella di  non poter bere il caffé con latte, equivalente al cappuccino italiano.

Ora cambieranno la moneta a gennaio, con lo stesso effetto del cambio fatto dalla lira all’ euro.

Voglio dire, eliminare tre zeri non faranno la moneta più forte.

Tre anni fa sono stata in Italia, 50 euro equivalevano a Bs.50.000, la nostra moneta.

Non a cambio esatto, ma nel valore di spesa.

La vera differenza é che qui, con Bs.50.000 non si faceva quasi niente tre anni fa, figuriamoci adesso.

Questa somma equivale ora, piú o meno, al costo di un piatto in ristorante…per esempio al prezzo di un piatto di insalata Cesare, che vale  Bs.40.000.

Ossia, il valore non è lo stesso di 50 euro in Italia, che seguitano ad essere molti.

Il non poter bere molta birra, come si faceva prima, si vede e si sente…

E non  per autocontrollo, ma perchè non si puó più comprarla.

E gli studenti? Dove li lasciamo?

E’ bello vedere la gioventú, e che faccia qualcosa, e non solo con questo governo, con tutto…

E’ bello vedere che possono muoversi, è bello anche sentire parlare alcuni, che sembrano non più giovani, ma freschi, moderni con idee non del tutto sbagliate, magari che non hanno sempre ragione, ma con idee

originali.

E’ bello sentire un Paese.

E, questo, non ci sono dubbi, si sente, per tanti versi, non solo per il movimento dei suoi leaders.

Del ‘perché non stai zitto’, detto da un Re, delle reazioni nei blog che ho letto, con opinioni diverse se un re doveva parlare cosí o no.

Ed é bello anche vedere qual é veramente la posizione della monarchía in questo secolo…esiste?

Deve rimanere?

Nella Spagna stessa contestano ogni critica al Re e alla sua famiglia, quotidianamente.

C´e gente che continua a sorridere qui, che piange troppo giustamente quando gli ammazzano i figli…

E i cento dollari al barile di petrolio?

Certo è che noi non li vediamo: puó darsi che impareremo a estrarre il latte dal litro di benzina...ma per ora, dobbiamo aspettare.

Alcuni seguiteranno a credere che tutti i cambiamenti sono necessari e lo saranno per il meglio del paese e dei suoi abitanti, altri per quello che non credono che possa succedere.

Ma sembrerebbe che vogliono piú violenza.

E i pacificifisti?

Che fanno oltre  a pregare e fare o cercare di fare sempre il meglio, alcune volte accettando le nostre opinioni o nessuna?

E senza appartenere a nessuna ‘ideologia politica’, e non appoggiare e giustificare alcuna guerra?

Cerchiamo di fare capire agli altri che una guerra non porterebbe mai niente di buono, di insegnare quello che molti sanno qua: la pace é meglio, ma fino a  quando?

Sempre.

Sempre, sempre deve essere pace, sopratutto per la gente qua, che in fondo, non le è mai piaciuta la politica, perchè la política, non si fa solo all’interno di un paese, ma anche fuori, anzi meglio fuori del paese prima che dentro, o no?

Paragonandoci con il mondo e gli altri Paesi, che altro si puo dire del Venezuela?

Che desideriamo…?

In molti sappiamo che non é con le guerre che si conquista il meglio,  il maggior benessere,  il progresso dei cittadini e del paese.

Il rispetto di questo Paese da parte degli altri, viene non solo perchè la gente se lo merita, ma anche perchè si lavora sempre con bontá e nobiltá.

E queste persone danno il risalto!.

La guerra, come dice anche mia mamma: -‘non sappiano mai ché cos´é una guerra qui’- Amén.

Lasciamo allora che quelli che favoriscono o vorrebbero favorirla restano solo dei parolai che non sanno quello che dicono.

Credo e voglio credere, che sono in minoranza, e non sono solo di una parte politica…disgraziatamente.

Verrá il meglio.

MORMANNESI NELLA RETE…

di Francesco Aronne

I freddi e bui inverni mormannesi sono un ricordo di altri tempi che nella mente dei superstiti di quei momenti si sciolgono sempre più confondendosi tra le nebbie della memoria.

Ai cambiamenti climatici del pianeta si sovrappongono i cambiamenti culturali che allontanano come galassie generazioni tutt’altro che distanti. Accelerazioni caotiche dei ritmi di vita determinano fibrillazioni esistenziali dagli imprevedibili risvolti. Il crescente depauperamento dei linguaggi ne provoca, paradossalmente, una incontrollabile proliferazione. Ambiti costretti alla coatta convivenza, sempre più distanti, vivono l’assenza totale di comunicazione. Acronimi quali sms e mms, mistero per alcuni, croce e delizia per altri, dominano la comunicazione giovanile, distante secoli da quella dei padri, anni luce da quella dei nonni.

Penso all’argot come linguaggio occulto scritto nella pietra delle imponenti e maestose cattedrali gotiche supportato in questa inusuale sintassi da conoscenze tecniche tanto più straordinarie, quanto non supportate da strumenti di calcolo automatico.

Se penso a questi nostri tempi, la tentazione di un improponibile confronto mi porta a comparare quell’argot al linguaggio dei computer, anche questo criptico, ermetico e per taluni versi esoterico. La rudimentale macchina del tempo delle reminiscenze mi porta al 1984. Correva l’anno di Orwell e delle sue nefaste profezie, quando dalle scogliere di Briatico, sulle scie di sistemi multibase, intrapresi  con uno ZX Spectrum Sinclair una navigazione che non ho mai più sostanzialmente abbandonato,

Oltre quattro lustri di un crescendo tecnologico che, più della Rivoluzione di Ottobre ha cambiato l’intero mondo e questa parte di universo.

La riproposizione biblica della creazione dell’uomo: il software, soffio divino che da vita all’hardware. Non più fango ma ferraglia, processori, cavi e circuiti, non più uomini ma dei e le loro cibernetiche protesi tecnologiche….

Leggo su una rivista tecnica che con un programma installato sul telefonino-navigatore GPS è possibile localizzare in tempo reale chi lo porta, mediante internet… penso a mio nonno ragazzino, che mentre era al pascolo col gregge, d’istinto trovò un riparo tra le rocce alla vista di quelli che seppe, in seguito, chiamarsi dirigibili.

Blog, chat come altri volatili ed informi marchingegni, ed anche FARONOTIZIE, hanno un corpo immateriale in una nuvola poliedrica, multiforme ed impalpabile dove quotidianamente, con magmatica e vulcanica effervescenza prendono forma e muoiono migliaia di disperate e disparate creature.

Miliardi di fotogrammi, evacuati da stupefacenti gingilli tecnologici, sugli argomenti più svariati, rapiti all’imparziale divenire del tempo, alla deriva in questa moderna nebulosa, si offrono al temerario internauta che in irripetibili ed originali percorsi finisce per naufragarvi.

E il nostro pio borgo selvaggio? Riottoso e riluttante all’evoluzione tecnologica, scopre di colpo internet!… Combriccole di assatanati e improvvisati esploratori naviganti nella rete tirano dalle tasche pizzini con indirizzi di siti gay dove mettere alla gogna chi la pensa liberamente e semplicemente in altro modo. In un fermento tecnologico destinato, ahinoi, a durare solo qualche giorno, la notizia passa di bocca in bocca e la curiosità patologica sale, si impenna. Ogni botte da il vino che ha… anche gli strenui difensori delle coppie di fatto inciampano nel loro peccato originale. Con morbosa e deprimente attrazione e curiosità, alla ricerca/verifica di questo angolo nostrano in rete, si ritrovano in divertite e bigotte combriccole, davanti a monitor di fortuna e non, in poco credibili vesti di giudici obiettivi o cronisti falsamente imparziali. Fiumi di commenti e attenzioni rivolti all’attore alla berlina ed alle sue brave gesta.

Nessuno si chiede del come e perché della triste scoperta e dell’identità e motivazioni del suo scopritore. Come in un fiume che scorre, pavide coscienze si lasciano, amorfe, trasportare dalla corrente.

Sul planetario  e superclickato YOU TOUBE, totem di filmati nostrani autodafé, un titolo “Mormanno, Mariannina e i suoi figli” attualmente rimosso. Una ripresa di una vergognosa molestia, fatta con un telefonino da alcuni imbecilli, a danni di una persona inerme, per chissà quale  oscuro ed a noi ignoto motivo e messa in bella mostra a disposizione di tutti i naviganti, La putrescente decomposizione del “Grande fratello” che ha sfornato decine di migliaia di Pacciani d’Italia, trova tra questi aspiranti eroi probabilmente suoi figli tra i più illustri…

Leggo sul suo recente libro, due condivisibili interrogativi di Battiato: “E’ possibile che quattro decerebrati siano stati in grado di determinare gli impressionanti disastri degli ultimi quindici anni? La Terra sta diventando il pianeta delle scimmie?”

In questo crepuscolo di un altro anno, granello di sabbia dell’eterno divenire, mi sono imbattuto in un brano di Henri Thomasson tratto da  “Bagliori dell’Anima” che voglio fiduciosamente, e come augurio, qui riportare: “Ma un bel mattino tu, uomo nuovo, cambierai rotta e ti troverai all’improvviso da quell’altra parte del giorno in cui cessa il dolore di essere nato. Giunto alla soglia di un’altra immensità, perderai il gusto di argilla che da troppo tempo t’impregna le labbra.

Buon futuro Mormanno!



[1] Con le audizioni dei rappresentanti dei seguenti consorzi di filiera: COREPLA, Comieco, Polieco, Co.Re.Ve., Confindustria e delle associazioni di imprese aderenti (ANIE, Assomet, Assovetro, ANFIA, Federlegno, FISE, Federchimica), Fise Unire e delle associazioni di recupero rappresentate (Assoraee, Unire, Assorimap, AIRA e SARA, ANPAR), Consorzio Italiano Compostatori, CIAL, Sistemi collettivi istituiti per la gestione dei RAEE, COBAT, CONAI e Confservizi. Sono stati inoltre ascoltati i rappresentanti della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, dell'UPI e dell'ANCI.

[2] Si tratta dello schema di Decreto Legislativo recante disposizioni integrative e correttive del Decreto Legislativo n. 152 del 2006.

[3] Ringrazio il signor Salvatore Alberti per avermi fornito le notizie.

[4] Se non erro e chiedo qui scusa delle omissioni, oggi a Mormanno prolificano il moto club, il circolo cacciatori, l’associazione comunalia, la pro loco, il circolo anziani,  un circolo privati, e altre associazioni sportive  Alcune unioni sopravvivono altre nascono e muoiono, come il Circolo Tennis voluto dal dott. Saverio Piragine, portato avanti da Titino Virgilio e sparito dopo la sua immatura scomparsa.

[5] La seconda guerra mondiale

[6] Per la storia dei Mormann Bojs è imminente la pubblicazione di un libro a cura di Gennaro Cavaliere contenente pure un mio scritto

[7] Allora era proprietà Blotta , oggi Regina. Vi si accedeva da via Alfieri.

[8] Qui non rifarò la storia politica di Mormanno. Vedi Uomini, tradizioni, vita e costumi di Mormanno  

[9] Il  gioco del biliardo era stato praticato a Mormanno fin dagli anni trenta in un locale, attuale profumeria, cui si accedeva dal bar Piragino, ora Rao. Tra i giocatori più agguerriti del Circolo ricordo Felice La Banca che aveva una buona tecnica acquisita in Brasile dove aveva lavorato ed Emanuele Murianni. Esigevano stecche munite in punta di pelle scamosciata e si esibivano in  perfette carambole oltre alla bazzica, alle boccette e ai birilli, tra l’ammirazione di estatici spettatori

[10] Luigi Maradei, Felice La Banca, Vincenzo Regina, Franco Cavaliere, Antonio Aiello, Marco Alberti, Raffaele La Terza, Paride Piragine, Faustino Concordia, Biagio Murianni, Franco Sergio, Lillino Grisolia, Mario Sarno, Franco Alberti, Saverio Campanella, Aldo Torchia, Salvatore Bochicchio e tanti altri che pur lavorando altrove erano soliti ritornare a Mormanno per le festività natalizie, pasquali o per le ferie estive. Tra essi e ne cito solo alcuni, Pinuccio Corrado, Pinuccio Murianni, i fratelli Saverio e Mimì Piragino.

[11] Uno dei giochi più brillanti, spregiudicati e rischiosi

[12] E’ un modo di dire dialettale. Significa che pur invocando una potenza divina la situazione non cambiava  

[13] Ancora oggi si ricordano 'U pizèrru di don Càrmini, L’àccua di li Scioddri, L’Accua à Pètra, U Salèssiu, L’àccua i don Gustàvu, ‘A Fuci, I Malinèri ed altre

[14] Conduttori di asini, muli e camerieri

[15] Contenitore e deposito di barili

[16] Era posto ove oggi si trova la scala d’accesso al mercato coperto e quasi addossato all’attuale proprietà del ragioniere Nicola Cersosimo

[17] ‘I Pàci, à Tùrra, ù Fòssu, Sant’Anna, Santa Catarina, Sciampagnarìa e altre.

[18] C’è voluto molto tempo per usare un bicchiere individuale. Nello stesso bicchiere si beveva anche il vino dopo averlo fatto scolare come se quelle poche gocce pulissero le impronte delle labbra e sterilizzassero il vetro.

[19] Dal latino cantharus, orcio

[20] Quella dell’acquedotto comunale

[21] Oggi il super impianto dell’Anconella sterilizza l’acqua con procedimenti di ionizzazione copiati anche dall’estero

[22] O fons Bandisiae, splendidior vitro, dulce digne mero, non sine floribus, cras donaberis haedo cui frons turgida cornibus primis et Venerem et proelia destinat. O fonte Bandusia più limpida del cristallo, degna di dolce vino e di fiori abbondanti, domani riceverai un agnellino dalla fronte turgida per le nascenti corna, destinato alle battaglie di Venere. Orazio, Carmi, Libro III, carme XIII, versi 1-5

[23] Se ne celebrava la festa il 3 maggio, ricorrenza dell’Invenzione della Santa Croce, ossia del ritrovamento (dal latino invenio-is) della presunta Croce di N.S.G.C. da parte di Elena, madre dell’imperatore Costantino

[24] Storia della Diocesi di Cassano, Padre Francesco Russo

[25] Il nome attribuito potrebbe derivare dal Cavaliere Spagnolo della famiglia Vignaruol che ivi si ritirò per espiazione dei propri peccati divenendo l’Eremita Frà Gerolamo di San Giuseppe. Un suo ritratto è conservato nella sacristia della Chiesa del Soccorso. ( Cfr. autori vari)

[26] Jiulium Cesarem filium magistri Gabrielis de Sarno et Silveriae terrae Rotundae bapt. 22 maji 1547 è il primo nominativo in assoluto che si incontra.

[27] Specifico campano nella zona che comprende Napoli, Avellino, Salerno, ha un ceppo secondario nel barese. Deriva dal toponimo di Sarno (SA) o dal nome del fiume omonimo.

[28] La cappella, anche abbastanza ampia, versa da molti anni in stato di abbandono. Il 13 dicembre 1997 fu visitata dai ladri che trafugarono la tela (ritraente l’Annunciazione di Maria con San Francesco di Paola inginocchiato in atteggiamento orante – di modesto valore) posta sull’Altare Centrale dopo averla divelta dalla cornice.

[29] Da Orazio discesero Michelangelo (*30.1.1573), Giovambattista (1574<*<1590) ed Ambrosio ( 30.11.1590). Gaetano discendeva a sua volta da Giovambattista.

[30] L’istrumento di fondazione per mano del notaio Francesco Liuzzi di Napoli, datato 23 marzo 1755, riporta in maniera chiara ed inequivocabile le volontà del Fondatore

[31] La nascita e l’importanza delle numerose Cappellanie Laicali sorte in Mormanno saranno oggetto di un prossimo serio approfondimento.

[32] Minuta:Per D. Nunzio e D. Giuseppe Sarno CONTRO D. Filippo Perrone ed altri. In risposta alle nullità prodotte avverso la Sentenza del S.C., nella causa della spettanza del padronato della Cappella di San Francesco di Paola in Mormanno  - Vincenzo La Terza, Napoli, 1786 (Archivio Privato dello Scrivente)

[33] Minuta: Per D. Felice, D. Vincenzo e D. Tommaso Tufarelli CONTRO D. Giuseppe ed altri Perrone.  Vincenzo La Terza, Napoli 27 Luglio 1791 (Archivio Privato dello Scrivente).

  Il nostro, con altri membri della famiglia, avanzò mal fondati pretesti per non adempiere agli obblighi assunti   contrattualmente con i Tufarelli relativamente all’affitto di alcune gualchiere site in Grassato e Santadomenica agri di Mormanno ed all’esercizio dei diritti loro concessi.

[34] Apparteneva ad una secolare famiglia di varcatòri di panni (=gualcatori o diversamente detti follatori) e molinàri (=molitori). (Relazione per la causa beneficiale della Cappellania del Carmine e Sant’Anna, 1776)

[35] Archivio Parrocchiale, Atti di morte, documenti e scritture varie non inventariati.

[36] L’ultimo gestore della conduzione familiare fu il signor Gennaro D’Alessandro brachèlio. In quei periodi erano funzionanti altre due fabbriche: quella di Don Ciccio Apollaro nel rione San Leonardo e quella di Don Pangiolo Piragino nel rione Santa Sofia. Agli inizi degli anni ’30 fu fondata la cereria dell’Assunta dal sig. Giovanni Cavaliere attiva fino agli anni ’60.

[37] Fu l’unico della famiglia ad essere stato sepolto nella Cappella di San Francesco

[38] Notizie tramandate in parte oralmente.

[39] Archivio Parrocchiale, Libro II de’ defunti 1689-1763, atto del 21.10.1755.

Il nomignolo si tramandò in seguito per le linee femminili: da Anna Sarno che andò in moglie a Giuseppangelo Piragino per giungere ai “recenti” discendenti ( Giovanni, Luigi ed altri Piragino vissuti tra l’ottocento ed il novecento)

[40] I nobili ed i signori non avevano nomignolo, ma venivano identificati con il nome proprio frapposto tra il don ed il cognome; il soprannome in genere, oltre che elemento di riferimento alla famiglia d’origine, era anche indice di appartenenza ai ceti medio – bassi.

[41] Questi due in particolare volevano designare l’attività svolta dalla famiglia, ossia la lavorazione della canapa volta alla realizzazione di corde e funi.

 

FARONOTIZIE.IT  - Anno II - n° 20, Dicembre 2007

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