FARONOTIZIE.IT  - Anno II - n° 14,  Maggio 2007

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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi

CHIACCHIERE E TABACCHIERE DI LEGNO…

Editoriale del Direttore,  Giorgio Rinaldi

Chiacchiere e tabacchiere di legno al Banco di Napoli non fanno pegno”.

Così recitava un antico proverbio per indicare l’assenza di valore dei discorsi fatti tanto per parlare e delle tabacchiere non metalliche, che venivano rifiutate anche dalla caritatevole istituzione del banco dei pegni.

Le tabacchiere, metalliche e di legno, sono scomparse da decenni.

Le chiacchiere no.

Anzi, sono cresciute, moltiplicate, proliferate.

Prendiamo, per esempio, ciò che accade in Calabria.

E’ la regione più arretrata d’Italia.

Se l’Unione Europea non si fosse allargata con l’ingresso di quelli che furono i “Paesi dell’Est”, ultimi dei quali la Romania e la Bulgaria, la Calabria avrebbe avuto anche il primato di essere l’ultima regione dell’Europa politica.

Eppure, in Calabria sono letteralmente piovuti, per decenni e decenni, miliardi di lire prima e miliardi di euro da quando corre la nuova moneta.

Qualcuno si è accorto di qualche cambiamento, diciamo…negli ultimi 30 anni ?

Penso proprio di no.

Se non nella proporzione degli sprechi: sontuosi uffici regionali all’estero non si sa bene a promuovere cosa; stands megagalattici nelle varie fiere e manifestazioni, buone solo a far arricchire con cospicui “rimborsi spese” funzionari dalla barba incolta vestiti come Al Capone e clientes vari; lavoratori forestali il cui spropositato numero in rapporto al territorio non ha eguali nel mondo.

L’enorme massa di danaro catapultata da Bruxelles in Calabria, a cagione della sua condizione di “regione sfavorita”, non è stata -per la gran parte- neanche spesa soltanto la totale incapacità ed inefficienza della classe politica locale, che già ora attende l’arrivo di altri 15 miliardi di euro che consentiranno, fra sicuri sperperi giganteschi,  l’appagamento di sospetti appetiti.

Il clientelismo, il nepotismo, l’affarismo in Calabria raggiungono dimensioni stratosferiche, paralizzando ogni possibilità di concreto sviluppo.

Il trasformismo politico, poi, è un elemento caratterizzante della vita politica calabrese.

In Calabria si cambia partito come in altri posti si cambia cravatta.

Tutto continua ad essere legato agli interessi personali dei singoli personaggi che contano all’interno dei gruppi politici di potere.

Da almeno trent’anni sempre gli stessi, magari figli, nipoti o comunque parenti, o galoppini dei precedenti leaders , che solo ragioni  note all’anagrafe hanno tolto di mezzo.

La Calabria è una regione in agonia: solo un totale azzeramento di tutta la vecchia classe politica può dare una speranza alla stragrande maggioranza dei calabresi.

Solo un rinnovamento totale della classe dirigente potrà consentire a questa regione di riscattarsi finalmente e riottenere quella dignità calpestata e perduta.

Lo stesso potrebbe dirsi per la Sicilia, una terra che ha tutto, ogni ben di dio, che potrebbe essere ciò che la California è stata ed è per gli Stati Uniti d’America.

Invece, è una regione che di unico ha, istituzionalmente, solo il  nome: Regione Siciliana, anziché Sicilia, come tutte le altre Regioni che hanno come denominazione il nome proprio.

Una regione che ha pagato, e paga, un altissimo tributo all’emigrazione verso tutti i paesi del mondo e che non riesce a liberarsi dalle mille piovre che l’avviluppano e la mortificano!

E, si potrebbe continuare a parlare di queste e di altre regioni ancora ed ancora, con poche eccezioni da salvare.

In un’epoca in cui tutto il mondo è in movimento, dove a pranzo e cena si parla di globalizzazione, dove gli scenari politici ed economici stanno mutando con trasformazioni di proporzioni immani, alla Regione Calabria si discute del nulla, si fanno chiacchiere, ovvero ci si accorda per assegnare quell’incarico lucroso a questo o a quello.

E, nella regione, nei piccoli come nei grossi centri, vedi girare il boss, piccolo o grande che sia, con attorno uno stuolo di aspiranti al posto fisso che invocano ora Giacomino, ora Riccardino, ora Sandrino e così via (in Calabria i nomi che contano si indicano con un amichevole diminutivo, per lasciare ad intendere una certa complice intimità) per l’agognato miracolo lavorativo.

Per non parlare di intere zone della regione completamente consegnate nelle mani della delinquenza mafiosa e ‘ndranghetista.

Solo un intervento massiccio delle forze di polizia e la cacciata di quella classe politica che è stata la rovina di tutti i calabresi, possono ridare speranza ai calabresi, i quali, però, dovranno dimostrare un necessario e significativo cambio di mentalità, che deve iniziare, quantomeno, con il rifiuto dell’adorazione di santi che si invocano con…confidenza!

Alla fine di maggio i murmannòli, come tanti altri calabresi, andranno alle urne per eleggere la nuova amministrazione comunale.

Già da queste elezioni, nonostante il piccolo borgo, si possono avere dei segnali importanti sulla reale volontà di affrancamento da antiche schiavitù clientelari.

Sarebbe interessante vedere tutti i candidati a sindaco partecipare ad assemblee pubbliche per rispondere alle domande dei cittadini sui programmi che intendono attuare.

Per chiarire, ad esempio, non con generici buoni propositi, ma in modo preciso e documentato, come intendono agire per favorire l’occupazione e gli insediamenti produttivi, per aiutare l’agricoltura e la zootecnia, per incentivare il turismo, per risolvere il problema del traffico, per abbellire il paese.

Come intendono rapportarsi con  le opportunità offerte dal Parco del Pollino, la ex centrale del Mercure, il neonato aeroporto scaleoto e quello auspicato Pollino-Sibaritide.

Quali iniziative intendono adottare a favore dei giovani, degli anziani, della cultura, del tempo libero.

E chi più ne ha, più ne metta.

Idee chiare, programmi dettagliati e precisi, al di là dell’appartenenza a vacillanti quanto effimeri schieramenti politici e partiti che campano su altrui rendite.

In un piccolissimo comune come Mormanno, per far sì che l’acquedotto e il sistema fognario funzionino, che l’erogazione della corrente elettrica venga garantita non solo con il bel tempo, o che si individuino le responsabilità del dissesto della pavimentazione del corso principale, e che intanto vi si ponga anche rimedio, non è necessario essere a favore o contro il rifinanziamento della missione militare in Afghanistan, ma è solo sufficiente saper leggere, scrivere e far di conto.

E, soprattutto, è importante che chi si propone abbia spirito di servizio e l’intenzione di non utilizzare le istituzioni pubbliche a fini personali, in particolare al solo scopo di occupare qualche poltrona che surrettiziamente  garantisca un reddito che, ordinariamente, si è stati incapaci di procurarsi altrimenti.

Così, ognuno avrà la reale possibilità di scegliere, se vuole, chi meglio possa rappresentarlo, al di fuori di schemi precotti e cordate di parentati.

E, magari, qualche candidato o pseudo tale –alla fine- rimarrà anche con il classico “cerino in mano”. 

Tutto il resto sono solo perniciose chiacchiere, e il Banco di Napoli di una volta…non esiste neanche più.


AMICI ED ALLEATI
Bush viaggia a Roma e Prodi scommette sulla relazione bilaterale


di Silvia Garnero

in collaborazione con http://www.italianosenamerica.com/

Buenos Aires 26-4-2007 

Non appena Romano Prodi ha confermato la visita di George W. Bush in Italia per il prossimo mese di giugno, ha approfittato dell'opportunità per smorzare l'importanza delle recenti tensioni tra i due Paesi, alleati quasi incondizionatamente negli ultimi anni, attraverso il governo dell'ex Premier Silvio Berlusconi

E' una realtà che la linea "berlusconiana" di politica estera verso gli Stati Uniti prosegue pressoché intatta, salvo che per alcune dichiarazioni della sinistra”massimalista”, che, in ogni modo, non ha cambiato il corso dei rapporti.

In effetti, l' Unione , coalizione di partiti di centro-sinistra, non ha cambiato, nonostante le radicali prese di distanza rimarcate durante la campagna elettorale, la politica di Berlusconi verso uno suoi dei principali partner internazionali: gli Stati Uniti d'America.

Bush aveva tenuto in passato una stretta alleanza con Silvio Berlusconi che ha rappresentato, per anni, uno dei suoi più stretti ammiratori e difensori in Europa e non sembrerebbe preoccuparsene ora.

Quella di giugno sarà la prima visita a Roma da quando Prodi è stato eletto Premier nelle elezioni d'aprile 2006, sebbene i due governanti si siano visti e incontrati in diverse occasioni internazionali.

Lo stesso hanno fatto più volte il segretario di stato Americano Condoleeza Rice e il ministro degli esteri Italiano Massimo D'Alema.

Il programma dell'incontro Bush-Prodi si terrà il prossimo 9 giugno , dopo la riunione del “gruppo degli otto” che si svolgerà dal 6 al 8 giugno in Germania. Bush approfitterà di quest'occasione per incontrare anche il Papa Benedetto XVI in Vaticano.

“Due Paesi che sono stati amici e alleati per tanto tempo, come Italia e Stati Uniti, uniti da tanti valori in comune, possono sopportare alcuni problemi bilaterali” ha riferito Prodi alla notizia dell'annuncio ufficiale della visita.

In realtà Prodi si riferiva con questa frase a dispute che sono avvenute in campo militare, dove l'Italia accompagna gli USA in quasi tutti i suoi scenari in Medio Oriente.

Così sono sorte alcune dispute riguardo ai comportamenti, sia nel modo in cui è stato liberato l'ultimo sequestrato in Afghanistan , Daniele Mastrogiacomo, come nell'incidente in Iraq, due anni fa, quando un

arine USA uccise l'agente del SISMI Italiano Nicola Calipari, durante la liberazione dell'altra giornalista Giuliana Sgrena.

Un altro caso, quello dell'Imam Egiziano Abu Omar, ha suscitato tensione con la magistratura italiana che ha accusato 26 agenti americani di averlo sequestrato a Milano, perché sospettato di terrorismo e come parte di un programma segreto della CIA.

Per di più, la base USA di Vicenza è stata un altro dei recenti motivi di discordia, sebbene soprattutto interna, che ha registrato l'opposizione di parte della cittadinanza e d'alcuni importanti esponenti della coalizione di governo, che però rimane intatta, come altre, in vari insediamenti in Italia.

Però nessuno di questi fatti mette in pericolo, a quanto pare, le buone relazioni bilaterali, che Prodi ha definito “senza traumi”.

Verrebbe da chiedersi se i “traumi”che non esistono all'“esterno”, non esistano invece all'”interno”, generando risentimento e tensioni assolutamente irrisolti.

La sinistra più radicale osserva e si defila in queste ore, con le decisioni sul nuovo “Partito Democratico”, alzando le bandiere tradizionali, dove il valore dell'ideologia tuttavia passa per la coerenza e l'ora di definire la posizione e il peso delle idee che determinano i fatti.

Al contrario, la linea moderata e “centrista” sembra vincere la lotta di potere all'interno del governo, tanto da costituire un “nuovo partito” moderato, quasi liberale e fuori dell'appartenenza storica al Partito Socialista Europeo, come da definire le linee d'azione e di pensiero con il resto dei Paesi del mondo…E se no, basta vedere i fatti. E forse i traumi...

CHERNOBYL

di Elena Bebeshina

Il 26 aprile per noi e’ il giorno “nero”.

Quest’anno  e’ il 21mo  dopo il disastro di Cernobyl, un incidente terribilmente dannoso, accaduto il 26 aprile 1986, che ha causato la contaminazione con radiazioni nucleari di un quinto della Bielorussia, con conseguenze pesanti persino oggi.

Molte persone pensano che tutto sia già passato, che la vita si e’ normalizzata e tutto va bene, perché, oramai, sono passati piu di 20 anni.

Non e’ vero!

Non e’ giusto assumerlo!

Pensano così solo per calmare se stessi e vivere tranquillamente.

Quel disastro ha avuto, sta avendo e ancora avrà effetti nocivi sulla terra, sulla salute, sullo spirito e sull’avvenire dei Bielorussi.

E’ da poco tempo, che molte organizzazioni pubbliche fanno delle ricerche e riportano  dati contraddittori sugli effetti e sulle conseguenze di Chernobyl.

Alcune cercano di diminuire il danno e mostrare tutta la cosa come un piccolo  ed innocuo incidente.

Ma, io sono dalla Bielorussia, il paese piùdanneggiato da questo terribile incidente.

Ricordo, come l’incidente sia stato nascosto alla popolazione  Bielorussa, intenzionalmente sia stata diminuita la scala di pericolosità del disastro.

Ma, bastava solo dire alla popolazione durante le prime due settimane dopo il disastro di prendere iodio, e si sarebbero evitato tantissimi casi di tumore alla tiroide e morti per altre malattie.

Per più di un anno la popolazione ha continuato a vivere nelle zone più contaminate dalle radiazioni nucleari prima di essere trasferita nelle zone “più pulite”.

Molta gente vive adesso nelle zone che sono considerate “non tanto contaminate” rispetto alla fascia di 30 kilometri attorno alla stazione nucleare di Chernobyl, nonostante che il livello radioattivo in queste zone superi la norma.

Il nostro governo ha deciso di riprendere, e anzi di sviluppare l’agricoltura sui campi delle zone contaminate dalle radiazioni nucleari.

Così dicono che le diverse colture sono assolutamente “ecologicamente pure” e non dannosi per la salute.

Per questo motivo alcune famiglie tornano nelle zone contaminate.

Questi prodotti vengono consumati in tutta la repubblica!

Chi ne ha vantaggio a propagare il mito della sicurezza dei prodotti locali?

Come ci si può comportare cosi?

La radiazione nucleare non e’ visibile, ma questo fatto non significa che abbiamo l’ambiente pulito come l’abbiamo avuto prima!

E nuovamente si hanno decisioni e atteggiamenti incoscienti verso il  “sarcofago” che incapsula il quarto blocco della stazione nucleare di Chernobyl, che continua a distruggersi, mentre i lavori necessari e urgenti sono sempre rinviati (fino ai 2010-2012, secondo la più recente decisione).

Che cosa stiamo aspettando? Cosa ne pensa l’Ukraina?

Abbiamo il più alto livello di tumore di tiroide radioindotto nel mondo. Rispetto a prima del disastro, il livello di questa malattia e’ aumentato 80 volte tra i bambini e 3,2 volte tra gli adulti.

La conseguenza dell'influenza delle piccoli dosi della  irradiazione odierna, e’ che si accumula nell’organismo (il risultato sono molte malattie differenti) e determina piccoli mutamenti nel codice genetico (e’ una questione sulla quale ancora discutono i diversi scienziati).

Il lungo influsso delle piccole dosi di radiazione aumenta la sensibilità generale dell’organismo verso  altri sfavorevoli fattori della vita.

Ma, gli statistici mostrano che il livello delle malattie generali della gente che vive sui territori contaminati con radiazioni nucleari e’ più alto rispetto alla gente che vive sul territorio “pulito”. Tra le persone sui territori contaminati questo livello e più alto tra i bambini, le donne in gravidanza e le donne in generale.

Inoltre, abbiamo 80 000 persone (30-60 anni), che hanno avuto diretta contaminazione in conseguenza del disastro di Chernobyl, incluse 57 000 persone che hanno partecipato ai lavori negli anni 1986-87 in Chernobyl e nella fascia di 30 kilometri attorno Chernobyl. Quelle persone le hanno fatto venire senza alcuna informazione  sulle  conseguenze di quei lavori, senza il loro consenso, senza essere esaminati dal dottore, senza la difesa più elementare.

Oggi, nelle zone contaminate vivono circa due milioni di persone, circa 500 000 sono i bambini. Irradiazione principale, che ricevono, proviene dai prodotti locali, che sono contaminati. Quando mangiano i prodotti uguali, rispetto agli adulti, i bambini ricevono una dose di irradiazione 3-5 volte  più alta, perchè hanno meno peso e sono più attivi. Per di più, i bimbi dei centri rurali ricevono dosi 5-6 volte  più alte rispetto ai loro coetanei delle città. 

Con la mia esperienza posso dire che, vivendo nella capitale, che è abbastanza lontano dalle zone molto contaminate, per anni non mi ero mai imbattuta nei bimbi con dei problemi di salute, sebbene ne avessi sentito parlare molto, a causa delle conseguenze pesanti di Chernobyl.

Solo guardando la TV, ho potuto conoscere la realta’, specialmente vedendo delle  trasmissioni dagli ospedali. Mi e’ accaduto così che mi hanno chiamata per fare l’interprete per un gruppo di bambini bielorussi che veniva in Italia per ragioni sanitarie.

Sono partita con un gruppo di 20 bambini di 9-11 anni, sopravvissuti a malattie bruttissime. Ogni bambino aveva avuto il tumore, era stato operato e aveva subìto  la chemioterapia. Al momento del viaggio ogni bambino era in fase di remissione, ma alcune bambine ancora non avevano abbastanza capelli. Il gruppo veniva accompagnato dalla psicologa del centro infantile di oncologia e ematologia della nostra Repubblica, che conosceva tutti quei bimbi e li aveva aiutati a sopravvivere. Avevamo anche il dottore rianimatore con noi. I bimbi sono i bimbi, e niente nel loro comportamento mostrava qualcosa di speciale, tranne le cicatrici ai corpi e i capelli radi di alcune bimbe, che ricordavano quelle sofferenze che ogni bimbo aveva passato.  Avendo lavorato per un mese con le persone che lavorano nel centro infantile di oncologia e ematologia, è naturale che abbia appreso tante cose terribili dalla vita quotidiana di questo centro...

Il nostro governo cerca di diminuire le conseguenze dell’incidente dannoso e ogni anno stanzia i soldi per l’eliminazione dei effetti di Chernobyl. Abbiamo anche il programma di risanamento per i nostri bambini che vivono nelle zone contaminate. Questi bambini ricevono nutrizione gratuita nelle scuole durante l’anno scolastico, la quale include anche i prodotti supplementari obbligatori per la zona contaminata. La gente di queste zone utilizza anche l’aiuto medico gratuito, che include esame medico completo e cura gratuita. Inoltre, i bambini devono essere risanati due volte all’anno. Per questo motivo vanno nei sanatori con la  classe assieme all’insegnante e lì studiano e si risanano. Certamente, che il paese non ha abbastanza mezzi per risanare tutti 500 000 bambini ogni anno. Per di più, la parola “risanamento” e’ un po’ esagerata. Come si può “risanare” i bimbi sul territorio contaminato e con i cibi non ecologicamente puri! E’ chiaro, che facciamo quello che possiamo, ma non basta. Apprezziamo tantissimo l’aiuto umanitario dall’estero, specialmente la possibilità del risanamento dei nostri bimbi all’estero, quando possono respirare l’aria fresca, mangiare i prodotti puri e restare sulla terra pulita. Ogni anno circa 50 000 di bambini vanno in vari paesi europei per ristabilire la propria salute. Una grandissima parte nel risanamento la fa l’Italia. Solo la fondazione “Aiutiamoli a vivere”, la più grande in Italia, con i suoi moltissimi comitati dalle differenti regioni accoglie 4000-5000 bambini all’anno. Ma ci sono tantissime altre piccole fondazioni, che invitano i nostri bambini.

La vostra bontà e i cuori aperti all’altrui dolore sono veramente senza i confini! Vi ringraziamo di cuore! Non e’ possibile esprimere la gratitudine e tutti i sentimenti che hanno i genitori dei bimbi che sono stati accolti in Italia, perché regalate non sono la possibilità di ristabilire la loro salute, ma di trascorrere un mese indimenticabile nella loro vita e conoscere e scambiare la cultura e le tradizioni dei due popoli.

I SERVIZI PUBBLICI LOCALI
TRA “CONCORRENZA” E “IMPRENDITORIALITÀ”

di Nedo Biancani

Durante gli ultimi dieci anni la consapevolezza del sostanziale fallimento del tradizionale modello dell’impresa pubblica, dovuto sia alla qualità dei servizi erogati, sia al basso livello di redditività degli stessi, ha determinato un progressivo smantellamento delle partecipazioni pubbliche nelle imprese economiche e, nel contempo, ha avviato un massiccio processo di trasformazione degli enti e delle imprese pubbliche.

Tuttavia, la filosofia sottostante a tale rivoluzione, anziché determinare un disinteressamento dello Stato per il settore economico, si è estrinsecata nel passaggio da un modello gestionale ad un altro: da una gestione diretta ad una incentrata sul controllo pubblico dell’economia. La pubblica amministrazione, pur continuando a rivestire un ruolo di primo piano nella dinamica delle interazioni economiche, non è più operatrice di mercato in prima persona, ma diviene l’autorità deputata, attraverso la formulazione di regole e l’enucleazione di meccanismi di controllo, all’assicurazione della regolarità e della correttezza dei rapporti economici.

Questo nuovo orientamento non è in contrasto con quanto è unanimemente riconosciuto rientri tra i precipui compiti di un moderno stato sociale di diritto: indirizzare l'attività economica pubblica e privata a fini sociali.

L’Unione Europea riconosce ai servizi pubblici economici di interesse generale un ruolo fondamentale nello sviluppo del modello europeo di società, attribuendo agli stessi servizi un ruolo determinante nella crescita economica europea.

L’importanza dei servizi pubblici di interesse generale, nella loro dimensione sociale ed economica, è stata di recente ribadita nella Comunicazione della Commissione del 20 settembre 2000, in cui si sostiene la centralità di un’azione da parte della Comunità e delle autorità pubbliche, tanto a livello nazionale che regionale e locale, atta a perseguire l’obiettivo dell’efficienza dei servizi, nonché l’obiettivo di realizzare un mercato unico improntato al dinamismo ed alla competitività, che comprenda anche i servizi di interesse generale. La Comunicazione sottolinea come “le norme del Trattato in materia di concorrenza e di mercato interno siano perfettamente compatibili con i più alti livelli di prestazione dei servizi d’interesse generale”, con la conseguente assoggettabilità di tutti gli operatori, indipendentemente dalla loro natura pubblica o privata, alla disciplina della concorrenza e del mercato interno. Restrizioni alla concorrenza e limitazioni alla libertà del mercato unico sono consentite esclusivamente laddove le sole forze di mercato non siano sufficienti a garantire servizi soddisfacenti.

La liberalizzazione dei mercati dei servizi di interesse generale e l’abbattimento di situazioni di monopolio costituisce la premessa necessaria per la creazione di un mercato competitivo, ove possa operare una pluralità di soggetti i quali, proprio in virtù del confronto concorrenziale, saranno spinti ad offrire servizi qualitativamente e quantitativamente migliori con conseguente diminuzione dei prezzi.

Nel nostro Paese, dove i servizi pubblici nella loro totalità sono stati caratterizzati più di ogni altro settore da un massiccio intervento statale, dalla presenza di situazioni di monopolio, nonché dalla sussistenza di diritti esclusivi e privilegi, da dieci anni a questa parte sono intervenute profonde modificazioni che hanno interessato, da un lato, la struttura delle imprese pubbliche (privatizzazione formale e sostanziale), dall’altro la struttura dei mercati (liberalizzazione dei mercati).

Dapprima lo Stato, spinto dal contingente motivo di risanamento del deficit pubblico, ha avviato un vasto processo di privatizzazione delle imprese pubbliche statali, mentre solo successivamente, sulla spinta comunitaria, sono stati aperti alla concorrenza importanti settori come elettricità, gas, trasporti, servizi postali e telecomunicazioni.

La realtà dei servizi pubblici locali, benché dominata da situazioni di monopolio ben radicate, ha conosciuto una parziale apertura dei mercati. Le riforme che hanno interessato il settore dell’energia, il servizio dei trasporti pubblici locali, il servizio idrico ed il settore della gestione dei rifiuti urbani sono accomunate sostanzialmente da obiettivi e strumenti comuni che consistono nella necessità di definire il livello dei servizi in grado di soddisfare la domanda dei cittadini, promuovere la qualità dei servizi, introducendo regole per la concorrenza nella loro gestione.

La più importante innovazione derivante dall’intervenuto processo di liberalizzazione del mercato del gas ha interessato il segmento della vendita al minuto che dal 2003 sarà sottoposto ad un regime di semplice

autorizzazione; l’attività di distribuzione secondaria di gas deve invece essere affidata dagli enti locali esclusivamente mediante gara.

Per quanto riguarda il mercato elettrico, dal 1° aprile 1999 Enel ha cessato di svolgere in regime di riserva legale le attività di produzione, importazione ed esportazione, trasporto, trasformazione, distribuzione e vendita dell’energia elettrica sul territorio nazionale. A livello locale il “Decreto Bersani” ha liberalizzato parzialmente il segmento della vendita distinguendo i clienti idonei, ai quali è consentito di acquistare liberamente energia elettrica, dai clienti vincolati che possono acquistare energia elettrica esclusivamente dal distributore che svolge il servizio nell’area in cui è localizzata l’utenza.

Anche il settore dei trasporti pubblici locali è stato interessato da un processo di riforma regolato dal D.Lgs. 19 novembre 1997, n. 422, cosi come modificato dal D.Lgs. del 20 settembre 1999, n. 400.

L’obiettivo dell’efficienza dei servizi pubblici locali è stato perseguito percorrendo un doppio binario, ossia agendo contemporaneamente sulla struttura dei mercati dei servizi (introduzione della concorrenza nel mercato) e sulle forme per la loro gestione. La prima tappa dell’avviato processo di privatizzazione dei servizi pubblici locali può essere individuata nella legge n. 142 del 1990 che ha riservato la gestione in economia ai soli servizi di “modeste dimensioni”, mentre per i servizi a rilevanza imprenditoriale, in caso di affidamento diretto, è stata prevista la soluzione dell’azienda speciale o della società per azioni a capitale pubblico maggioritario.

La privatizzazione sostanziale delle imprese pubbliche locali riveste importanza sotto un duplice aspetto: in primo luogo consente di migliorare la gestione dei servizi pubblici locali ricercando il contributo dell’esperienza di operatori privati qualificati, che con il loro know how possono apportare maggiore efficienza produttiva ed incrementi di qualità; in secondo luogo permette di beneficiare appieno degli effetti positivi derivanti dalla liberalizzazione.

A livello locale il fenomeno della creazione delle cosiddette multiutilities, ossia di soggetti in grado di offrire più servizi, risulta favorito da una serie di fattori connaturati allo stesso mercato dei servizi locali quali, ad esempio, la comunanza dei clienti e la maggiore vicinanza e conoscenza delle loro esigenze. La strategia di diversificazione settoriale comporta senza dubbio notevoli vantaggi per le imprese le quali possono in tal modo conseguire maggiori economie di scala e di scopo, utilizzando la stessa infrastruttura per fornire servizi diversi e valorizzando l’azienda che sarà così in grado di contrastare più efficacemente l’entrata dei concorrenti nei settori in crescita. La tendenza a diversificare la propria attività operando in più mercati è oggi riscontrabile soprattutto nelle società miste, benché abbia caratterizzato anche le aziende speciali. La scelta delle società miste di proporsi come fornitrici uniche di tutti i servizi di pubblica utilità (energia, gas, igiene urbana, gestione delle acque,

trasporti) a fronte dell’evoluzione dell’intero settore dei servizi pubblici locali, può certo consentire la nascita di operatori più forti da un punto di vista competitivo, ma inevitabilmente comporta la necessità di individuare accorgimenti utili al fine di evitare che tali imprese possano operare un sostanziale aggiramento del confronto concorrenziale attraverso un sistema di sussidi incrociati tra i diversi settori di attività. Ciò in realtà potrebbe facilmente accadere dal momento che per quei servizi ritenuti essenziali ma scarsamente remunerativi è prevista l’erogazione di sussidi volti a coprire la differenza tra i ricavi e i costi relativi alla gestione del servizio.

Il mutamento di strategia pubblica consistente nel graduale abbandono dell’interventismo statale all’interno di settori economici nevralgici e nella sua sostituzione con una politica di regolazione esterna. La necessità di contemperare diverse esigenze, la libertà dei mercati, le pari opportunità di accesso ad essi ed il pieno soddisfacimento dei bisogni dell’utenza ha dato il via all’inaugurazione di un sistema incentrato su nuove figure organizzative: le Authorities, Autorità Amministrative indipendenti, figure istituzionali che non dipendono né dal potere politico né dai forti gruppi economici. Queste nuove figure sono chiamate a razionalizzare e controllare il sistema degli affidamenti e delle revoche delle concessioni, a concorrere a definire gli standard di qualità dei servizi e i livelli di efficienza e di efficacia della loro erogazione, a determinare l’entità delle tariffe da praticare all’utenza e ad assicurare il più ampio soddisfacimento delle esigenze degli utenti attraverso la previsione di efficaci strumenti di tutela per contrastare i ritardi e le inesattezze nell’erogazione del servizio.

Queste previsioni attinenti alle modalità di erogazione, agli standard di qualità, ai livelli di efficienza e alle tariffe imposte, unitamente a quelle che predispongono strumenti di tutela ed indennizzi automatici, confluiscono nelle carte di servizi pubblici che ciascun gestore, pubblico e privato, è tenuto ad adottare, autovincolandosi alla loro osservanza.

La tipologia dei modelli organizzativi dei servizi pubblici è sostanzialmente incentrata sulle formule della gestione diretta e della gestione indiretta. La prima ricorre quando l’amministrazione decide di organizzare e gestire il servizio con il proprio apparato di uffici ovvero quando costituisce un apposito ufficio-organo cui conferisce ampi poteri autonomistici (organizzativi, gestori, patrimoniali, finanziari e di bilancio).

La seconda, viceversa, presenta una maggiore varietà di modelli ed attribuisce agli enti locali la possibilità di ricorrere a seconda dei casi all’istituzione di appositi enti pubblici economici, all’affidamento del servizio a terzi tramite lo strumento della concessione o alla costituzione di società di capitali a partecipazione pubblica (maggioritaria o minoritaria).

Alla formula organizzativa della gestione indiretta va ascritto il modello della gestione tramite società di capitali a partecipazione pubblica. L’art.22 della legge 142/90 prevede il ricorso al modello delle società a prevalente capitale pubblico locale quando, in relazione alla natura del servizio da erogare (che è in ogni caso di carattere economico-imprenditoriale8), si renda opportuno associare per il suo esercizio soggetti diversi dall’ente locale cui pertiene il servizio stesso.

Il D.lgs.157/95 ha consentito l’ingresso in tali società anche alle Regioni e allo Stato. Tale legge ha previsto, inoltre, che i soci privati possano avere anche una partecipazione maggioritaria inferiore al 51%. In quest’ultimo caso però la loro scelta da parte dell’ente o degli enti promotori pubblici deve avvenire secondo le procedure dell’evidenza pubblica e, in particolare, secondo la procedura dell'appalto concorso.

In seguito, nell’ottica di una globale privatizzazione degli enti pubblici economici, il D.lgs.127/97 ha consentito agli enti locali di procedere, in virtù della sola delibera consiliare, alla trasformazione delle aziende speciali in società per azioni miste di cui possono detenere l’intero pacchetto azionario per non più di due anni.

Un ultimo accenno deve essere fatto all'art.35 della legge 22 dicembre 2001 n. 448 (legge finanziaria 2002), che ha profondamente innovato in materia di gestione dei servizi pubblici locali, modificando le disposizioni contenute nel T.U. degli enti locali.

Tale norma ha introdotto la distinzione tra servizi pubblici di rilevanza industriale e servizi pubblici privi di tale rilevanza, disponendo che l’affidamento dell’attività di erogazione dei servizi del primo tipo può avvenire esclusivamente a favore di società di capitali individuate attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica. Si è esclusa, pertanto, ogni altra forma di gestione del servizio, ivi compresi gli affidamenti diretti a società costituite o partecipate dagli enti locali.

La liberalizzazione del settore è stata ulteriormente rafforzata dal divieto per le società che gestiscono servizi pubblici locali in virtù di affidamento diretto o di procedura non ad evidenza pubblica (e per le società controllate e collegate ad esse) di partecipare alle gare per l’affidamento dei servizi pubblici a rilevanza industriale. Sono parimenti escluse le società eventualmente costituite per la gestione delle reti, qualora la legislazione di settore imponga la separazione tra reti ed erogazione del servizio, e le società costituite dagli enti locali a cui è stata conferita la proprietà delle reti.

Tale norma dispone, inoltre, che gli enti locali possono conferire la proprietà degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni destinati all'esercizio dei servizi pubblici di rilevanza industriale solo a società di capitali di cui detengono la maggioranza (che è, però, incedibile).

L’istituto delle società per azioni e delle società a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale destinate alla gestione di servizi pubblici era stato ritenuto ammissibile nella prassi già prima della riforma del 1990 (legge 142/90), in quanto si riteneva che il ricorso alla struttura societaria consentisse alle autonomie locali di condividere il rischio d’impresa con altri soggetti fisiologicamente in grado di sopportarne il peso relativo.

La legge di riforma dell’ordinamento locale ha originariamente previsto e disciplinato l’istituto della società per azioni a prevalente capitale o a totale partecipazione pubblica locale. Il vincolo della proprietà maggioritaria del Comune (o della Provincia) è stato soppresso dalla legge 498/92, la quale all’art.12 ha attribuito al Comune e alla Provincia la facoltà di costituire apposite società per azioni per l'esercizio di servizi pubblici e la realizzazione di infrastrutture ed altre opere di interesse pubblico senza il vincolo della proprietà maggioritaria di cui al comma tre, lett. e) dell'art.22 della legge 142/90.

ACCADDE IN APRILE

di Sandra Peluso

Se potessimo considerare i sondaggi televisivi lo specchio fedele di un campione rappresentativo della popolazione di un paese, il Portogallo sarebbe probabilmente ad un punto critico di messa in discussione della propria democrazia!

E’ così che alle porte di questo 25 aprile,in mezzo ai garofani rossi,simbolo della fine di 48 anni di dittatura, riecheggia ancora vivida e connotata di positività la figura di Salazar. Almeno tra quel 41% di telespettatori votanti del programma “Os grandes portugueses” trasmesso tra Gennaio e Marzo dalla RTP, la televisione di stato. Non è facile dare spiegazioni al fatto che il Portogallo abbia scelto António de Oliveira Salazar come il “grande portoghese”,da una lista di cento nomi tra politici, poeti, re, santi e calciatori.

La cosa ha suscitato parecchie polemiche, e c’è anche chi lancia accuse di mediocrità regnante che porta a tali risposte emozionali di fronte a ciò che dovrebbe essere solo il simbolo dell’ingiustizia.

Da tempo le teorie sui mezzi di comunicazione di massa hanno  riconosciuto il ruolo attivo del pubblico,ovvero,la televisione rispecchia ciò che siamo o che vorremmo essere,i valori in cui crediamo.

Preoccupante?Forse no,considerando che al secondo posto si è piazzato Àlvaro Cunhal, esponente storico del Pcp, simbolo indiscusso della resistenza al salazarismo, costatagli tredici anni di prigione,di cui otto in isolamento,nel carcere di Peniche.

Sulla stessa lunghezza d’onda Aristides de Sousa Mendes,un diplomatico che aiutò migliaia di ebrei a fuggire dalle persecuzioni naziste durante la II guerra mondiale. Per lui un decoroso terzo posto.

Diversi tipi di memoria storica appartenenti a giovani e anziani portoghesi, senza dubbio tutti veridici, trattati a differenti livelli di spettacolarità,all’interno del meccanismo televisivo.

Lungi dal voler demonizzare i mezzi di comunicazione di massa, dove la televisione non aiuta proviamo con la radio.

Fu Radio Renascênçia che in quel 25 aprile 1974 diede il segnale ai “capitani di Aprile”, i militari ribelli dell’Mfa (movimento delle forze armate), per iniziare a marciare in direzione della sede del governo, al fine di costringere alla resa Marcelo Caetano,successore di Salazar, ponendo fine alla più  lunga dittatura dell’Europa occidentale del XX secolo.

Il segnale fu “Grandola, vila morena”, canzone proibita dalla censura che parla di fratellanza, composta in omaggio ad una delle prime associazioni operaie severamente represse dal regime.

È così che ebbe inizio la “Revolução dos Cravos”(rivoluzione dei garofani), così chiamata per via dei fiori che i militari misero nelle canne dei loro fucili durante la rivolta, incontrando presto l’appoggio del popolo del quale erano portavoce.

L’intento comune era porre fine a mezzo secolo di oppressione, di repressione dell’espressione pubblica di opinioni contro il regime, di proibizione dei partiti.

Prigioni politiche colme,  leader dell’opposizione in esilio, sindacati controllati, scioperi impediti, vita culturale apertamente vigilata. Tutto ciò unito a livelli di povertà e analfabetismo degni di epoche medievali.

Circa  due milioni e mezzo di portoghesi (in una popolazione di appena nove milioni) furono costretti a emigrare; gente alla ricerca di una vita più dignitosa, o disertori che si rifiutavano di assecondare i deliranti progetti di Salazar, che per 13 anni sfruttò paesi come Angola,Guinea e Mozambico per sostenere il debole capitalismo portoghese e far fronte a bassissimi livelli di produttività.

 “Ci sono momenti in cui l'unica soluzione è disobbedire”. Questo il motto dei capitani di Aprile. Disobbedienza senza spargimento di sangue, la peculiarità di questa rivoluzione, insieme alla rapidità con cui gli effetti si manifestarono,al potere del contagio, che non risparmiò le masse operaie come gli ufficiali dell’esercito di gradi più alti,dai quali tutto ci si poteva aspettare fuorché l’abbandono della fedeltà al regime.

Tutto questo i giovani portoghesi lo sanno, e oltre al mega-specchio televisivo esiste tutta una serie di specchietti che mostrano la loro coscienza storica e politica. A cominciare dalle iniziative culturali,dagli eventi musicali. I manifesti sparsi per Lisbona promettono una grande festa.

Chi è ancora proiettato nel passato, anestetizzato da masochistiche nostalgie, non potrà fare a meno di risvegliare i sensi, respirando a pieni polmoni l’aria di festa. Direttamente dall’era democratica.


VOLONTARIATO:  COSTRUTTORE DI LEGAMI SOCIALI E SUPPLENTE, SUO MALGRADO, DELLA CATTIVA POLITICA

di Paola Saraceno

"Di fronte a una società sempre più disgregata, attraversata da una profonda divaricazione tra sviluppo economico e progresso sociale e civile, il volontariato può e deve rappresentare un costruttore di legami sociali".  Così il Ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero,  all’apertura della V^ Conferenza nazionale sul Volontariato, organizzata a Napoli città-simbolo della crisi, il 13/14/15 aprile scorso. A distanza di 5 anni dalla precedente conferenza nazionale di Arezzo si è inteso dare spazio alle piccole e medie organizzazioni di volontariato con tante testimonianze di volontari.  Si è voluto anche presentare la nuova "sfida per l’infrastrutturazione sociale del Mezzogiorno", che ha un nome e cognome: Fondazione per il Sud.

Toccante il video-messaggiato inviato agli oltre duemila delegati in rappresentanza di circa 2.000 Organizzazioni di Volontariato, dal Presiedente della Repubblica, Giorgio Napolitano. “Il volontario non si limita a fare per gli altri, fa con gli altri. Rappresenta la più diretta realizzazione del principio della solidarietà sociale, sulla base del criterio della gratuità e soprattutto del valore irrinunciabile del dono di una parte del proprio tempo e delle proprie capacità”.

Ed ancora: “il volontariato dà fiducia, realizza una forma di partecipazione al bene comune, aiuta a colmare il divario tra società civile e politica.  "Il volontariato dà la risposta ai bisogni emergenti che le istituzioni ancora non danno o non sono ancora attrezzate per affrontare, integrando la qualità del servizio, contribuendo ad affermare la coesione sociale contro ogni fenomeno di disgregazione e di emarginazione".

A Napoli, in occasione degli Stati Generali del Volontariato Italiano, anche un partecipato e carico di aspettative taglio del nastro della “Fondazione per il Sud”.  Fondazione nata  per realizzare un piano di infrastrutturazione sociale del Mezzogiorno al quale hanno aderito l’ACRI – Associazione tra le Casse di Risparmio e le Fondazioni di origine Bancaria - , Il Forum del Terzo Settore, la Consulta Nazionale

Permanente del Volontariato presso il Forum; la Convol - Conferenza Permanente Presidenti Associazioni e Federazioni Nazionali di Volontariato; CSV.net - Coordinamento Nazionale dei Centri di Servizio per il Volontariato e la Consulta Nazionale dei Comitati di Gestione - Co.Ge.

Attingendo agli utili derivanti dalla gestione del patrimonio del quale è stata inizialmente dotata (circa 310 milioni di euro) e di altre risorse messe annualmente a disposizione dalle Fondazioni di Origine Bancaria, la Fondazione per il Sud, presieduta da Savino Pezzotta, si sta cominciando a muovere lungo due linee di intervento.

In primis,  la diffusione di nuovi soggetti (come le “Fondazioni di comunità”) specializzati nella raccolta e nell’impiego di donazioni, private e pubbliche, per finalità di interesse collettivo e legate a singoli e ben definiti territori. Poi, sulla strada della realizzazione di un certo numero di iniziative esemplari, incidenti su problematiche cruciali, attraverso una chiamata di progetti su definiti assi tematici.

La palla ripassa alle Organizzazioni di Volontariato, da sempre pioniere di modelli relazionali di cittadinanza attiva e di servizi innovativi soprattutto nei settori delle attività socio-assistenziali e sanitarie. Loro il compito di fare un ulteriore salto di qualità nella progettazione sociale, coadiuvate dai Centri Servizi del Volontariato, per la qualificazione e l’innovazione dei servizi socio-sanitari; per la cura e la valorizzazione dei “beni comuni”; per l’educazione dei giovani con particolare riferimento alla legalità e ai valori della convivenza civile; per la mediazione culturale e l’accoglienza/integrazione degli immigrati extracomunitari.

Parole d’ordine della 5^ Conferenza  Nazionale del Volontariato, come sempre: Gratuità, Solidarietà. Partecipazione. Poi, mutuando l’intervento di Giacomo Panizza della Comunità Progetto Sud, tre nuove sfide attendono il “Volontariato adulto”. La coesione sociale connessa con la legalità per socializzare davvero territori, riprendersi spazi e piazze, strade e luoghi comuni. Una seconda sfida tocca i nodi della politica come democrazia. Il Volontariato è chiamato a darsi da fare con le Istituzioni senza però dover chiedere favori a nessun mediatore, a nessun padrino. Se non funzionano gli ospedali di tutti, non

ossiamo rallegrarci che sia cresciuto il volontariato ospedaliero. Se la scuola normale non va, come fa il volontariato a compiacersi dei contributi che riceve per gestire i doposcuola?.

Insomma, la sfida delle sfide è che “il Volontariato si prenda cura di sé, nella casa comune del terzo settore e nella società, e che ci sia in quanto area di gratuità, di bene comune, di una cittadinanza che sostiene per tutti l’esercizio del diritto di dare, di fare, di governarsi”.

BOX : UNA FOTOGRAFIA DEL VOLONTARIATO 

Sono secondo l’ISTAT 11 milioni di italiani che dichiarano un loro spontaneo e gratuito attivismo civico.

 4,4 milioni sono i veri e propri volontari e ben 850.000 operano all’interno delle circa 21.000 Organizzazioni di Volontariato presenti nel Nostro Paese.

Rispetto alla prima rilevazione sulle organizzazioni di volontariato iscritte nei registri regionali e provinciali, riferita al 1995, esse sono aumentate del 152,0%, passando da 8.343 a 21.021 unità. Il notevole incremento dal 1995 si deve sia alla costituzione di nuove unità (8.530), che all’iscrizione nei registri di organizzazioni preesistenti (4.148).

Nel 2003, per ogni organizzazione che ha cessato la sua attività se ne sono iscritte più di dieci.
Nonostante il notevole incremento del numero di unità, l’analisi dei dati delle ultime rilevazioni ISTAT e FIVOL (Fondazione Italiana per il Volontariato) permette di confermare alcune delle caratteristiche salienti dell’universo delle organizzazioni di volontariato.

In particolare, si osserva:

-          il forte radicamento delle organizzazioni di volontariato nelle regioni settentrionali, anche se negli anni aumentano in misura relativamente più accentuata le unità presenti nel Mezzogiorno;

-          la prevalenza relativa di piccole dimensioni organizzative, sia in termini di volontari attivi che di risorse economiche disponibili;

-          la maggiore presenza, tra i volontari di persone in età compresa tra i 30 e i 54 anni, diplomate e occupate;

-          la concentrazione relativa di unità nei settori della sanità e dell’assistenza sociale, anche se cresce nel tempo il numero di quelle che operano in settori meno “tradizionali”;

-          la crescita del numero di organizzazioni che hanno utenti diretti e, conseguentemente, l’aumento del numero di coloro che si rivolgono ad esse per soddisfare le loro esigenze.


L’ AMORE E’ GUARIGIONE

di Mirella Santamato

Se c’è Amore, non c’è bisogno di nessuna terapia, perché con l’Amore è impossibile essere malati. L’Amore è ciò che guarisce ogni cosa. Chi ama, riamato, non si ammala e non fa ammalare gli altri.

Se siamo malati vuole dire che siamo carenti di Amore. Qualsiasi malattia deriva da mancanza di Amore, dal cancro alle verruche; ma il problema  che non lo sappiamo. In realtà non sappiamo ancora, dopo tanti millenni che ne parliamo, che cosa voglia dire “Amore”: a questa parola si sono ascritti centinaia di significati diversi, ognuno dei quali poteva quasi risultare l’opposto dell’altro, creando una enorme confusione nelle menti comuni. Lo scopo è sempre stato questo:creare confusione e fraintendimento, in modo da non dare alla gente gli strumenti necessari per evolvere e vivere felici. Il Potere ha bisogno di persone ignoranti e poco progredite, così le può sfruttare bellamente a suo piacimento, creando quello stato di “schiavitù invisibile” che ancora oggi ci fa stare male. Orari sempre più affannosi, lavori sempre più complessi e mancanza di vera conoscenza, rendono facile la strada all’istaurarsi di qualche patologia. Lo chiamano “stress”, ma in realtà si tratta di una “schiavitù invisibile” che ci aliena la vita stessa. La parola “stress” è una di quelle parole che creano confusione, cosicché sono perfette per ingannarci, rendendoci facili prede della depressione e dell’ansia.  

Non conoscendo l’origine delle malattie, non possiamo neanche trovare cure efficaci. La nostra medicina ufficiale attribuisce la causa delle malattie ai virus, ai microbi, ai batteri e  ad altri microrganismi non meglio identificati. In qualsiasi modo la si metta, la medicina ufficiale pone l’origine delle malattie  fuori  da noi.

In questo modo ci rende  impotenti ad affrontarle, tagliandoci dalla nostra meravigliosa capacità  interna di guarigione. Veniamo considerati come “ macchine da aggiustare” non come esseri fisicamente in grado di “ aggiustarci” da soli. Con questo non voglio dire che i virus o i batteri non esistano. Ci mancherebbe altro! Sono convinta, però, che il nostro inconscio più profondo  sceglie di prendere dentro di sé quel determinato batterio o quel determinato virus per darci un insegnamento attraverso l’esperienza di quella determinata malattia. Le varie patologie ( non bastano dieci anni di medicina per impararle tutte!) indicano le sfumature delle forme diverse in cui quella determinata anima ha scelto di imparare a vivere  la materia.

Ogni malattia, quindi, é anche una potente possibilità di guarigione. Guarigione di che? Attraverso la guarigione  del nostro corpo fisico, si attua la profonda trasformazione della nostra vita materiale  e della nostra coscienza spirituale, e questo spiega perché tutti i morbi sono scelti nella dimensione dell’anima. 

Molto spesso, soprattutto dopo una lunga malattia, l’esistenza stessa della persona viene profondamente modificata.  Quando la nostra parte più profonda, quella che è sempre in contatto con il Tutto ( gli occidentali la chiamano  anima,  gli orientali  la definiscono atman o tao)  decide  di cambiare le nostre abitudini e i nostri preconcetti, ci fa “ ammalare”.

I francesi usano il verbo “tomber”, che significa “ cadere”, quasi che proprio questa sia una caduta, un arresto, un blocco che ci obbliga a fermarci a riflettere e, quindi, a pensare in modo diverso. Questo fatto costituisce, per chi lo sa sfruttare, una grossa opportunità. Lo scopo di tutto ciò che ci accade, anche dell’infortunio più grave, è sempre quello di farci evolvere.

Evolvere implica cambiare pensiero. Noi ci ammaliamo per imparare a pensare in modo diverso. Perché dobbiamo cambiare pensiero? Che cosa c’è che non va nel pensiero “ comune”? Il pensiero che noi definiamo “ comune” ha, evidentemente, qualcosa di “ patogeno” che non ci rende felici.

Apparentemente, nella nostra opulenta società, tutto sembra andare per il meglio: frigoriferi pieni, vestiti firmati e canali televisivi a volontà. Come mai qualcosa non va? Abbiamo risolto tutti i “ problemi” che hanno attanagliato l’umanità per millenni e ancora non siamo contenti? E’ esattamente così:  abbiamo tutto, ma non siamo “contenti”.  Perché non siamo contenti? Che cosa ci manca davvero?

Non credo sia un caso che la parola “ contenti” risuoni nella fatidica frase posta a suggello di ogni fiaba che si rispetti: “...  e vissero felici e contenti”.

Che cosa faceva scaturire questa bellissima frase nelle meravigliose storie narrate dai nostri avi? Ma l’ Amore, naturalmente!

 L’Amore? Che sia un problema di “ amore”, allora? Forse il problema è che, nonostante il frigorifero e vestiti firmati, non conosciamo ancora l’Amore? Possibile? Possibile che la risposta sia tutta qui?

No, è vero il contrario:  tutte le risposte sono qui.  Come molti sapranno,l’etimologia della parola amore la dice lunga sul suo profondo significato. La parola è composta dalla a -  che è un’alfa privativo greco, cioè un suffisso che nega il significato della parola che segue ( come morale/amorale o settico/asettico) seguita dalla parola “mors” che significa “ morte”. Capito? l’amore è ciò che toglie la morte! L’unica energia in grado di  sconfiggere la morte? E vi sembra poco?

La nostra società è fondata su falsi valori che entrano puntualmente in crisi ad ogni passaggio di generazione, proprio perché sono falsi.  Se fossero veri, sarebbero eterni. I politici di turno tuonano dai loro pulpiti per la perdita di valori di cui ignorano anche il significato. Lo svuotare di significato le “grandi parole” come Libertà, Verità, Amore permette ai potenti di rimanere tali. I potenti hanno bisogno di persone deboli ( o indebolite) per poterle manovrare a loro piacimento e sfruttarle in modi diversi e sottili. Per rendere debole una persona basta operare un taglio invisibile a livello della coscienza e il gioco è fatto. Trattandosi di un taglio invisibile, la maggioranza delle persone non se ne accorgerà mai e riciclerà la stessa ferita alle generazioni future, perpetuando il machiavellico meccanismo in secula seculorum.

L’antico  taglio  è visibile anche sui nostri corpi ed è situato proprio nel punto che noi chiamiamo, guarda caso, vita. Il nostro punto vita divide idealmente il nostro fisico in due parti: la parte di sotto e quella di sopra. Sulla parte superiore proiettiamo le nostre capacità migliori e i sentimenti più elevati, ma su quella inferiore si muovono i mostri rimossi dei nostri tabù più ancestrali.

La materia fisica è simbolo di quella spirituale: così sopra, così sotto. E così ovunque, aggiungo io. Cosa rende la parte inferiore del nostro corpo diversa da quella superiore? non fanno parte entrambe del disegno divino della Creazione?

Viene lecito chiedersi con quale arbitrio l’essere umano si arroghi il diritto di giudicare “inferiore, e quindi  sporca” una parte del corpo divino che Dio ha creato. Potrà mai Dio aver sbagliato a crearci così come siamo? Eppure questi concetti sono diventati granito attraverso i millenni e nessuno si pone ormai più il problema di individuarne la causa remota. Si dà per  scontato  che le cose stiano così e, in questo modo sottile, non si  ipotizza neanche più che possa esistere una via di fuga dalla morsa di questi pensieri castranti.

Il concetto  malato di questa “ divisione” si è cristallizzato nel tempo e produce ancora oggi danni infiniti alle persone, impedendo loro  di avere accesso al piacere profondo del corpo, fonte primaria di ogni nutrimento sia fisico sia spirituale. Fino a che il sesso verrà considerato “sporco” o  “vergognoso”, l’uomo rimarrà tagliato a metà, separato dalla sua fonte primaria di piacere fisico e spirituale. Un uomo diviso è un uomo debole, incapace di reazione efficace e quindi facilmente assoggettabile. Gli esseri umani nel passato avevano bisogno di catene per distinguere gli schiavi dai padroni. Ora no; le catene sono superflue perché la manipolazione profonda delle coscienze è avvenuta e i robot si muovono n automatico, senza bisogno di corde o torture materiali. Nulla è cambiato: è solo stato reso nascosto.

Il Potere si fonda sull’ipnosi collettiva, mantenuta sempre oliata con mezzi invisibili, ma proprio per questo estremamente  efficaci. I mezzi usati sono sempre gli stessi da millenni: ignoranza e paura. Anticamente la paura veniva  mantenuta viva grazie alle  immagini terrificanti usate dai preti ( ma spesso anche dai re e dai potenti) che tuonavano dai pulpiti per spaventare le masse. I diavoli con le corna e con la coda o  le streghe che inforcavano la scopa, andando a fare i sabba infernali nei boschi, erano il non plus ultra per inculcare il senso del peccato (con il conseguente senso di colpa). Si vendeva qualcosa per l’al di là per barattarlo con qualcosa di ben più remunerativo nell’al di qua: l’obbedienza cieca e gratuita di ogni essere umano.

 Oggi quelle immagini ci appaiono ridicole e non funzionano più da deterrente; al loro posto sono state introdotte altre immagini che oggi incutono terrore: gli integralisti islamici, i cinesi, i nazisti e/o comunisti, i terremoti, gli tsunami e, per alcuni, addirittura le invasioni dei marziani. Non importa chi crea terrore, l’importante è mantenere alto lo stato di allerta. Un essere umano spaventato reagisce sempre ubbidendo ai comandi, non essendo in grado di pensare con la propria testa. Quest’ultima frase ci riallaccia al concetto di ignoranza: chi non pensa con la propria testa, può solo chinarla.

Oggi l’ignoranza è mantenuta a livelli spaventosamente alti grazie a varie strategie di “mercato” abilmente indotte dai mass-media e assolutamente occulte per gli occhi comuni. Le persone stesse, incapaci di accorgersi degli inganni sottili, riciclano inconsapevolmente il meccanismo.

Solo se ci rendiamo conto di quanto la nostra mente è condizionabile possiamo avere una speranza di fuga. Sapete chi non ha speranza? Quelli che dicono che “loro” non sono condizionati! E’ inutile che mi soffermi ad elencare tutti i mezzi con cui viene mantenuta nella popolazione un basso livello di conoscenza, perché sono sotto gli occhi di tutti: programmi televisivi demenziali, giornali che tacciono le notizie importanti ed enfatizzano quelle inutili, pubblicazione di libri esclusivamente di evasione, ricerca filosofica ridicolizzata e innalzamento del denaro come unico “valore”.

Che essere può risultare da un mix così intossicante? Un povero robot che pensa solo ad arrivare a pagare il mutuo della casa e a “consumare” ogni oggetto che il mercato sceglie per lui.  “Pagare” diventa l’intero scopo della sua vita e in questo atto, apparentemente, soddisfa la sua libidine repressa.

Questa “ intossicazione” invisibile è la vera causa delle malattie che si manifestano a livello fisico. La “ droga” ci viene iniettata tutti i giorni senza  che si vedano buchi sulle nostre braccia. I buchi sono nell’anima.  Noi siamo nati per vivere e conoscere il Piacere di essere vivi. Se il Piacere ci viene tolto ( o ce ne viene impedito l’accesso, che è la stessa cosa), ci rimane da vivere solo il Dis-piacere. Il corpo biologico nasce per avere esperienza delle sensazioni fisiche, che la nostra anima non potrebbe ottenere in nessun altro modo. Se questo non fosse lo scopo, ci converrebbe mille volte rimanere spiriti disincarnati, completamente immersi nell’altra dimensione.

La carne, quindi, è una scelta spirituale. Si viene al mondo con il preciso scopo di avere sensazioni e, implacabilmente,  se non si possono avere quelle piacevoli, si deve scegliere di avere almeno quelle spiacevoli; queste ultime noi le chiamiamo malattie. Se guardiamo più da vicino che cosa porta la malattia nelle nostre vite, ci accorgiamo che prima di tutto essa ci dà dei sintomi cioè delle sensazioni fisiche: pruriti, dolori, irritazioni ecc. La scienza ci dice che i ricettori del dolore e del piacere sono gli stessi e che la differenza tra i due consiste solo nell’intensità dello stimolo. Il sintomo patogeno non è altro che uno stimolo troppo forte. Troppo forte? Come mai? Non sarà che noi siamo talmente sordi da potere essere svegliati solo da “sintomi”, perché le carezze e i baci non bastano più? Attraverso la patologia il nostro corpo ci comunica il suo malessere e la sua disperata richiesta di sensazioni fisiche.

 La malattia ci obbliga a venire visitati, e quindi toccati almeno dal medico. Le persone intorno a noi, quando siamo malati, si prendono cura di noi e quindi riceviamo una parvenza di amore. In qualche modo, la malattia ci crea una situazione simile a quella dell’essere amati, toccati,coccolati, come il nostro corpo desidera da sempre. Se noi capissimo questa lezione prima di ammalarci, potremmo dare al nostro fisico tutte le sensazioni piacevoli di cui ha bisogno prima  che lui ci costringa ad essere ricoverati in ospedale.

Noi siamo, di solito, talmente sordi a questi richiami da finire spesso sotto i ferri di un chirurgo senza renderci conto del prezzo che dobbiamo pagare per la nostra ignoranza. Ci ammaliamo per ignoranza e per ignoranza spesso moriamo.

Se capissimo come la nostra cultura e i nostri parametri sociali ci ingannino profondamente, potremmo trovare una strada che riunisca le “parti” in cui la nostra coscienza è stata divisa e operare la magica alchimia che ci farebbe conoscere la felicità.

Siamo stati educati a pensare che la felicità sia una utopia, che il vero amore sia cosa per stupide adolescenti e che la bellezza sia affare di chirurgia estetica. Svuotando questi concetti di significato, ci hanno condizionato a non ritenerli possibili, impedendoci a priori anche la ventura di provarci.

Se un uomo di Neanderthal non avesse mai provato a scheggiare un sasso contro l’altro per renderlo più appuntito, la storia dell’umanità non avrebbe avuto inizio. L’evoluzione ed il progresso avvengono per tentativi, ovvero per  prove.  Se  tutti  veniamo indotti a pensare che sia inutile o assurdo provare a fare qualcosa, nessuno si darà la briga neanche di incominciare. Le gabbie dei nostri schemi mentali hanno sbarre invisibili ma durissime. Sarebbe più facile segare una sbarra di ferro con le unghie che modificare un concetto mentale radicato da millenni.

L’inganno si fonda sulla separazione tra sesso e amore. La parola diavolo deriva da dia/ballo che in greco significa “separare/ dividere”. Diabolico, quindi, è ciò che divide, divino ciò che unisce. Se dividiamo il sesso ( che è la forza più sconvolgente della Natura, l’unica in grado di creare la vita) dall’amore che è il sentimento dell’unione, innestiamo una reazione a catena davvero “diabolica” i cui effetti modellano il mondo che vediamo.

La separazione tra sesso e amore crea il senso del “peccato”, che è subordinato ad un “giudizio” e quindi ad una ulteriore separazione. Il senso del “giudizio” è stato programmato nelle menti umane, perché nessun animale in natura emette “giudizi”. Non solo questo dimostra che il giudizio è stato indotto, ma anche il fatto che il giudizio varia  a seconda del secolo o della regione geografica in cui viene espresso, ci dovrebbe far capire che  è  sempre falso e ingannevole. I parametri su cui si base il giudizio sociale sono talmente diversi e contraddittori che la stessa azione ( es. adulterio) viene considerata meritevole di condanna a morte in determinati luoghi e fonte di  dileggio e ilarità in altre. Su basi così false e ingannatorie, però, noi abbiamo costruito e modellato tutta la nostra esistenza!  Fino a che il giudizio degli altri, sarà il parametro delle scelte nella nostra vita, noi saremo degli schiavi. La frase più schiavizzante, quella che ci incatena e ci imprigiona l’anima più di mille catene di ferro, è “ Che cosa penseranno gli altri di me?” Su queste frase deleteria si innestano i sensi di colpa, che sono la matrice di tutti i nostri blocchi psichici. In questo universale sistema mentale malato, un sesso disprezza l’altro e lo giudica inferiore. Non importa se è il maschio a disprezzare e a umiliare la femmina o viceversa: il punto è che questi esseri non possono mai unirsi e provare nella propria carne il senso di Dio. Sono condannati a non conoscere l’Eros divino.

I concetti di separazione permeano sottilmente tutto il nostro scibile: dividiamo l’anima dal corpo, la materia dallo spirito, il maschio dalla femmina, il cielo dalla terra e via discorrendo. Fino a che non capiremo che Tutto è Uno, saremo schiavi della divisione e della separazione. Le malattie hanno tutte origine dalla separazione e i sintomi sono, infatti emarginanti, il che vuol dire che ci inducono a sentirci separati dagli altri.

Siamo eredi di una cultura che, tra i due sessi, ha scelto di disprezzare quello femminile, ma la trappola avrebbe funzionato anche al contrario.

Il maschio ha creduto stupidamente per millenni che disprezzare le donne rendesse più importante il proprio sesso, ma si è clamorosamente ingannato. E’ vero il contrario: che valore mai potrebbe avere essere amati da un essere considerato “inferiore”? Nessuno! E così il maschio, per secoli, ha creato un meccanismo in cui si è auto-condannato a non sentirsi amato. E la femmina, sempre disprezzata, altrettanto. Entrambi, alla fine, si sentono arrabbiati, delusi, depressi. Come si esce da questa trappola? Per prima cosa bisogna vederla, capirla e poi trovare il filo di Arianna che conduca fuori dal labirinto. Il maschio, nei confronti della femmina,  ha profondamente radicata la scissione  tra “ santa” e “puttana” e la femmina, nei secoli, vi si è tristemente adeguata, diventando connivente con il presunto “carnefice”. Un quadro scoraggiante davvero.

Ho studiato per anni strategie per aiutare le persone ad uscire da questi meccanismi patogeni e a vedere l’altro/a come essere divino. I seminari che conduco sono veloci e di pronta guarigione, ma spesso talmente sconvolgenti da lasciare le persone senza parole. Proprio così devono rimanere, perché il meccanismo viene veicolato da  parole “castranti”  e con altre parole “liberanti” va guarito. Le parole nuove creano mondi nuovi, e noi abbiamo bisogno di un nuovo modo di vedere le cose. Anche Cristoforo Colombo, prima di partire per le Americhe, aveva avuto l’ idea di un mondo nuovo, e ci aveva creduto talmente da armare tre caravelle e partire alla volta dell’ignoto. Per conoscere l’ amore dobbiamo avere altrettanto coraggio. La parola “ coraggio” deriva da “cor”, quindi dobbiamo trovare la forza del cuore ( animus/a, per dirla con Jung) per salpare alla volta del Nuovo Continente, intrepidi e liberi.

Solo chi è pronto ad amare fuori dagli schemi, è pronto ad amare.

MARKETING ED ETICA

di Nicola Perrelli

Il marketing, dal momento che ha come obiettivo l’individuazione e la promozione di prodotti e servizi che soddisfano le esigenze e i desideri dei consumatori, ha senza dubbio un importante ruolo sociale. Che deve però essere gestito nel rispetto dell’etica, considerato che il consumatore è indifeso di fronte alla comunicazione pubblicitaria, che, per forza di cose, è unilaterale. Marketing e pubblicità dovrebbero quindi informare correttamente il consumatore. Innanzitutto proponendo un prezzo equo e poi fornendo tutte le necessarie informazioni sulla qualità dei prodotti , sugli ingredienti, sulla sicurezza,ecc. Ed avere una maggiore attenzione, vista la sensibilità crescente dei consumatori e della società nel suo complesso, all’ambiente e all’uso delle risorse.

Certamente una delle maggiori argomentazioni sull’eticità del marketing è quella relativa al rispetto del consumatore. Questo perché la pubblicità, l’area più visibile del marketing, svolge decisamente un’attività capace di influenzare i bisogni e le aspettative delle persone. Grandi società ed imprese hanno da questo punto di vista un’enorme responsabilità sociale.  Che le imprese guadagnino e che i consumatori si assicurino i prodotti  desiderati, quindi  tutti soddisfatti, in realtà non basta. Ricarichi eccessivi, sfruttamento dei bisogni della gente e manipolazione del pubblico, per quanto  eticamente inaccettabili, sono  strategie ancora utilizzate per regolare i rapporti  tra consumatori e  aziende.  Il fatto che la pubblicità  spesso utilizzi messaggi  che dissimulano la realtà , dicono una cosa per comunicarne un’altra ,  che appaiono frivoli e invece portano ad uno stato di asservimento, pone il  consumatore, a sua insaputa,  nella condizione di assorbire disposizioni,prescrizioni o proscrizioni. L’individuo è in altre parole  in balia di un sistema che lo manipola a suo piacimento. “ Il consumatore non è sovrano, come l’industria culturale vorrebbe far credere, non è il suo soggetto bensì il suo oggetto” (Adorno).

La pubblicità proprio perchè concentra  l’attenzione su beni e servizi idonei a soddisfare le necessità delle persone è un’attività decisamente etica. Può dare maggiore libertà al consumatore e aumentare le sue possibilità di scelta, può informare, risvegliare interessi e  finanche divertire. A patto però di risultare onesta, lecita, corretta e veritiera. O almeno cosi dovrebbe essere.

Le questioni morali  sorgono ovviamente dal fatto che da un lato, c’è un potenziale consumatore che per operare la scelta giusta ricerca informazioni e dall’altro c’è un’azienda che cerca di persuaderlo ad acquistare i propri prodotti e/o servizi.  Il punto controverso è proprio questo: come combinare l’influenza di chi vende con il rispetto della  libertà  di scelta di chi acquista. Di sicuro   marketing e  pubblicità rispettano l’individuo quando assicurano almeno due condizioni fondamentali:   che il consumatore sia adeguatamente informato e non forzato e che possa effettuare la sua scelta liberamente.

La consapevolezza del consumatore dipende dunque dall’adeguatezza della comunicazione.  Ma cos’è adeguato? Capire quali informazioni e condotte sono giuste e quali no non è sempre facile. Certamente non sono adeguate le informazioni che inducono all’errore o all’ignoranza tramite comunicazioni false o omissioni gravi. Come non lo sono di frequente   le scelte stesse dei consumatori. Motivate più da acquisti impulsivi che da logiche razionali. Influenzate dagli stati d’animo e dalle emozioni , dalle confezioni piuttosto che dalle immagini. Si compra in altre parole ciò che da o si crede dia soddisfazione e senso di benessere e non semplicemente un prodotto o un servizio.

Questo è il punto: quando si sfruttano le emozioni e le sensazioni delle  persone  o  si incide sui cosiddetti “illetterati del mercato”, ovvero le fasce deboli della società come i  bambini, gli anziani, le minoranze etniche, la rappresentazione pubblicitaria può avere effetti socialmente rilevanti. Come ad esempio far compiere alle persone azioni senza che ne siano consapevoli o senza che ne conoscano i motivi. In questi casi si passa , pericolosamente, dalla persuasione alla manipolazione delle stesse.

E  qui  entra in gioco la  responsabilità sociale di chi fa marketing. Vendere il più possibile e a tutti i costi non basta, non è etico. L’orientamento  deve essere quello di formare  consumatori maturi ed esigenti, capaci di relazionarsi in modo critico con il mercato. Che  non siano   schiavi  di tutti i desideri indotti dalla pubblicità e vivano   con la consapevolezza  che non sempre è possibile soddisfare tutti i bisogni, desideri e speranze. Capaci in altri termini  di capire che certe rappresentazioni della vita che propone la pubblicità (la famiglia felice, il benessere materiale, una vita off-limit e cosi via)  sono il più delle volte  messaggi sbagliati e fuorvianti.

Orientamento verso il consumatore significa dunque attribuire all’arte di vendere, il marketing appunto, una logica relazionale. Quella insomma che dovrebbe considerare il consumatore un reale interlocutore con cui rapportarsi, che purtroppo è ancora di là da venire.

CAMPANILISMO....TRA VULCANI !!!

di Erika Scotti

Sapete come i fiorentini non sopportino i pisani? O quelli di Udine non vedano di buon occhio i triestini? O i tifosi della Lazio che sono come il fumo negli occhi per il tifo della Lupa?

Beh...a sostegno del detto “tutto il mondo e' paese” anche l'Ecuador conosce il campanilismo, con una piccola differenza; qui non si tratta di squadre di calcio o di capoluoghi di regione ma...di vulcani!

Questo e' il Paese del fuoco! Specialmente le regioni del Cotopaxi e del Pichincha sono quelle a più alta concentrazione di vulcani.

Viviamo circondati dal pericolo! Da probabili catastrofi! Sprezzanti del rischio tutti i giorni ci svegliamo e sorseggiamo il nostro caffè affacciati alla finestra ammirando il vulcano di appartenenza. Si avete capito bene, di appartenenza, perchè qui non ci si identifica con il villaggio o con la città di residenza ma con il il vulcano che li domina.

Ora...guardiamoci negli occhi e chiamiamo le cose con il loro nome...non tutti i “coni” sono uguali. Ci sono vulcani ormai addormentati per sempre, altri così docili che hanno permesso ai laghi di invadere il loro cratere...qualcuno che fa un po' di cagnara ringhiando e sputando fumo....e poi c'e' sua Maestà...il Cotopaxi. Questo sì che e' un vulcano!!!

Noi “campesini” guardiamo con sufficienza agli abitanti della capitale, poverelli hanno un vulcano ridicolamente più piccolo del nostro e per lo più addormentato! Hanno avuto un bel da fare loro a costruirsi quel po po' di metropoli super moderna e piena di grattacieli. Non contenti adesso si regalano pure l'aeroporto nuovo. Vestiti e pettinati all'ultimo grido della moda hanno lavori di grande responsabilità e ospitano ambasciate e consolati di tutto il mondo....peccato che il loro piccolo vulcanotto sia in letargo e non riesca nemmeno ad accelerare di un pochino il battito cardiaco di chi ha la bontà di perdere due minuti ad osservarlo.

Permettetemi lo sfogo. In questi giorni non si fa che parlare del Tungurahua, che da ottobre dello scorso anno, a intermittenza, fa i capricci. Sì, va bene, c'e' stata una piccola eruzione qualche mese fa (davvero di modeste dimensioni) e in questi giorni non fa che sbuffare costringendo gli abitanti di Riobamba (facilmente identificabile in qualsiasi cartina) a passeggiare e lavorare indossando costantemente una antiestetica mascherina.

Ma che dire del nostro Cotopaxi? Questo si che e' un vulcano di tutto rispetto! Non perde tempo LUI in immature e discutibili manifestazioni di potere....no...lui riposa osservandoci tutti maestoso, ci lascia credere di vegliare su noi, il suo picco e' ricoperto di neve, quasi perennemente nascosto dalle nubi, solo ogni tanto si lascia ammirare e fotografare in tutto il suo splendore. Vanitoso e capriccioso come solo chi e' cosciente del proprio status sa essere....lui dorme. Per 130 anni circa il gigante di 5893 metri, il signore dei vulcani non da' segno di nervosismo....e poi, improvviso, il risveglio! Non brontola, non sbuffa ma esplode in tutta la sua potenza distruttrice! Esplosioni laviche, colate piroclastiche e...dulcis in fundo, il conseguente, inevitabile scioglimento delle nevi che lo ricoprono con annesso ovvio allagamento di noi tutti!

Eh si...siamo fortunati noi ... facciamo parte dell'elite, siamo definitivamente i più coraggiosi e temerari di tutti!!! E poco importa se i 130 anni sono appena scaduti...

SCOPRIRE LA SLOVACCHIA.
LE CITTÀ: KOŠICE

di Gabriella Šolcovà

Cari amici,

Sono molto lieta di potervi dare il benvenuto nella Regione Autonoma di Košice, nell’est della Slovacchia, dove sono nata.

E’ sempre un piacere per me incontrare i visitatori della nostra regione e creare nuovi rapporti d’amicizia, presentando la nostra cultura, ricchezze e bellezze naturali.

Comincio subito da KOŠICE.

La prima menzione scritta di Košice risale all’anno 1143.

La posizione della città, all’incricio delle strade commerciali, stimolò lo  sviluppo del commercio e dei mestieri locali.

Nell’anno 1369 il re Lodovico il Grande  concesse alla città di Košice, prima città in Europa, il diritto di usare il suo proprio stemma.

L’importanza della città nell’ ex  Cecoslovacchia si accrebbe dopo la costruzione dell’Acciaieria della Slovacchia Orientale – VSŽ ( ora è l‘americana U.S.Steel).

Al momento, Košice è la seconda città più grande della Slovacchia.

La sua famosa storia viene testimoniata sopratutto dagli edifici monumentali situati nel centro storico, che fu istituito in area esclusivamente pedonale per meglio tutelare l’originario ambiente storico della città.

Il più importante dei monumenti è il Duomo di S.Elisabetta, che allo stesso tempo rappresenta anche la cattedrale sita più ad est in Europa.

La sua costruzione è stata completata nel 1508.

Le 5 navate lunghe 60 metri e larghe 45 metri sono ricche di statue gotiche.

L’altare principale a due ali del 15 secolo è uno dei più grandi altari d’Europa.

Qui si trova anche il sarcofago del leader dell’insurrezione contro il regime della famiglia Habsburg, Francesco Rákoczi II.

Ma, anche altri importanti monumenti: La Torre di Urbano., La cappella gotica di San Michele, Prigione di Miklus ecc.

Siete interessati a passare le Vostre vacanze, o un weekend in pace e tranquillità ?

Basta venire nella mia città !!!! 

Qui è possibile a trovare tutto: bei panorami, poi fantastici cibi, le specialità slovacche ed anche altre bellissime cose.....

Avete i dubbi  ?  Non dovete, basta venire.

QUEL VECCHIO E RASSICURANTE PRIMO PIATTO

di Raffaella Santulli

La pasta è un pret a porter che la tavola regionale italiana indossa quotidianamente con proprietà e disinvoltura.

Dalle Alpi alla Sicilia non c’è regione che non abbia almeno un piatto di prestigio con protagonista assoluto la pasta.

Indiscussa della cucina nazionale: senza di essa, un pranzo rischia di divenire uno spuntino, un fast food o ahinoi  un quick lunch .

La presenza da molti secoli sulla tavola nazionale di questo prezioso –povero ingrediente ha stabilito usanze, invalso abitudini  e creato tradizioni, ma come accade per molti personaggi famosi, c’è disparità di pareri su dove e quando questo cibo principale dei paesi mediterranei abbia fatto la sua prima apparizione.

C’è chi la fa nascere in Cina, chi la attribuisce agli Etruschi, chi la vede in Italia solo al tempo dei Comuni medioevali.

Marco Polo torna da Venezia nel 1292.

Allora la pasta non fu invenzione cinese o perlomeno gli italiani la conoscevano già prima che l’eroe del Milione tornasse dal suo avventuroso viaggio! Del resto ci risulta che Cicerone ed Orazio cento anni prima di Cristo erano ghiotti di “lagana”!

Ad ogni buon conto, qualunque sia la sua origine, la pasta, lo spaghetto italico, il maccarone che tanto amiamo, è certamente esploso nel Rinascimento……. a Napoli!

Non che i napoletani abbiano dato origine alla pastasciutta, i maccheroni non sono nati a Napoli, ciò è storicamente accertato, ma in questa città hanno ricevuto senz’altro la loro massima esaltazione popolaresca: l’innata sapienza gastronomica dell’estroso partenopeo, fatta di entusiasmi, di intuiti e sentori, ha subito accolto, arricchito e “fatto proprio” questo cibo così pieno di quel fascino democratico e di quel potere livellante tale, da mettere intorno ad una simbolica tavola di spaghetti, l’intero mondo. Forse, l’unico a  “dissentire” fu il cupo Giacomo Leopardi- probabilmente mai gustò maccheroni in vita sua- il quale dileggiò l’amore che i napoletani avevano per questo semplice alimento, che assieme alla speranza nella valigia dell’emigrante italiano, attraversò l’Atlantico ed ora, in maniera bizzarra ci ritorna dal nuovo continente come un benefico boomerang.    

LE VITE DEGLI ALTRI

di Carla Rinaldi

Siamo assuefatti ormai da anni, incessantemente, ad assistere ai fatti privati degli estranei, reality di ogni tipo per farci conoscere, forzatamente, abitudini, tic, manie e ossessioni che finiscono per ossessionare anche noi, spettatori passivi.

Anche il cinema ci ha provato più volte a farci fare incursioni private, ma i tentativi sono stati spesso fallimentari.

Ma c’è un film che non avendo assolutamente l’intento di mostrare e basta, è riuscito invece a raccontare in maniera sublime, delle esistenze, facendoci sbirciare non solo attraverso un buco di serratura, ma addirittura attraverso microspie, microfoni, telecamere nascoste. Il film in questione è “Le vite degli altri”, una  pellicola tedesca che racconta cosa accadeva  ai dissidenti della DDR a Berlino Est, quando il muro era ancora il simbolo eretto di una scellerata disumanità.

Un drammaturgo, nonostante riesca ancora a mettere in scena i suoi lavori, mentre molti dei suoi colleghi hanno subito l’allontanamento da qualsiasi ambito artistico della città, attira i sospetti infondati di un potente ministro che, oltre a desiderarne la compagna, attrice teatrale, crede che nasconda idee sovversive e pericolose per il governo. In poche ore la casa dello scrittore viene riempita di microspie  e, un anonimo agente federale, comincia a farsi notte e giorno, gli affari suoi. Ma l’anonimo e triste agente, privo di una sua vita, senza gioia e senza aspettative se non quelle di non fare mai errori, piano piano comincia a trasferire i suoi desideri e le sue pene proprio sulla pelle dell’ uomo che dovrebbe considerare come possibile nemico della repubblica democratica tedesca, nulla di più.

Rischiando la sua vita, occulta nei rapporti, notizie che potrebbero condurre alla morte fulminea il suo alter ego e i suoi amici intellettuali.

Costruito come un piccolo thriller, il film spiazza per una sceneggiatura perfetta e per una regia asettica e fredda, proprio come era il clima in quegli anni a Berlino Est.

Non a caso è stato premiato con l’Oscar come miglior film straniero nell’edizione di quest’anno a Hollywood e non a caso sta incassando bene ai botteghini, perché se pure è vero che la maggior parte degli spettatori che di solito affollano le sale, desidera solo svagarsi e non accrescere le proprie curiosità, è anche vero che una vicenda dai toni veritieri, non può non sconvolgere anche lo spettatore più distratto, che se pure acerbo di nozioni storiche, scopre il  terrore che infestava anche i pensieri di chi viveva al di là del muro.

E alla fine del film si mostra la caduta  del muro e lo scrittore, ormai libero di poter rappresentare nella zona Ovest senza temere censure insulse, trova alcune informazioni che gli hanno salvato la vita e va alla ricerca di quel qualcuno che mentre lo spiava, capiva di lavorare per la parte sbagliata, a quel qualcuno gli dedica un libro, ma i due non si incontreranno mai perché quando una coscienza comprende ed un’altra riconosce, non serve più stringersi una mano e  presentarsi, tutto diventa irrisorio, resta l’importanza e il ricordo di chi, spiando le vite degli altri, ogni tanto ne riconosceva il valore e le tutelava.

IL PANE

dalla collana “Storie e Memorie”

di Luigi Paternostro

Il pane è sempre stato il principale alimento dell’uomo.

Nelle famiglie di una decina di persone, che erano poi le famiglie tipo fino agli anni quaranta del secolo scorso, si consumava circa un pane al giorno dal peso compreso tra i due e i tre chili.

La sua preparazione era legata ad atti di sacralità e ad antiche pratiche devozionali.

Sulla bocca del forno, ad esempio, si trovava incisa sempre una croce. 

Prima di iniziare l’impasto la massaia si segnava e segnava poi pure i pani prima di metterli a cuocere.

Questi non dovevano stare mai rovesciati. 

Quando si tagliavano se ne cadeva anche una briciola doveva essere subito raccolta, baciata e mangiata.

Ai ragazzi si diceva che dopo morti, al lume di una candela, avrebbero dovuto ricercare tutto il pane che avevano buttato prima di essere ammessi in Purgatorio.

In tempi in cui diversa era l’economia il pane veniva fatto in casa. 

Era quindi indispensabile un forno [1] . I più poveri costretti a vivere in un seminterrato o un sottotetto [2] , utilizzavano quello dei vicini.

Torniamo al pane. Se ne preparavano in media da dodici a quindici che servivano per una diecina di giorni.

Prima di tutto bisognava avere il lievito, ù criscènti, che consisteva in una pasta cruda conservata in un vaso di coccio e risalente all’ultima volta che si era panificato.

Tale pasta diventata acida, cioè piena di fermenti, era indispensabile alla preparazione del pane nuovo.

La sera prima si prendeva ù lìmmu [3] e si riempiva con farina che s’impastava con il lievito ammorbidito e rinverdito con acqua tiepida.

Tale composto, coperto da un panno di lana, si lasciava a fermentare per tutta la notte.

Al mattino erano riservate le incombenze più faticose.

Per prima cosa occorreva avere la farina che bisognava vagliare.

Si usava un gran setaccio che girava tra le mani quasi cantando per il loro sbattere sull’ampia costola di legno.

Appena riempita la madia [4] vi si versava il fermento e s’impastava poi con acqua e sale.

Ancora sento il suono dei pugni chiusi che si ficcavano nell’amalgama  che sollevano e rigiravano con forza. 

Ogni tanto si aggiungeva dell’acqua per renderla più  omogenea.

Finita tale operazione si stendeva sulla madia un lenzuolo ed una coperta per mantenere il caldo necessario ad agevolare la fermentazione per la quale occorrevano circa tre ore. D’inverno si usavano anche dei bracieri.

La pasta cùgni [5] , si diceva.

In attesa si pensava a scaldare il forno.

Questa seconda operazione era cominciata da almeno un paio d’ore.

Si adoperava legna secca e fascine di salimmenti [6] .

Grande era la cura nel riscaldare uniformemente le pareti interne spingendovi contro carboni ardenti e legni scoppiettanti.

Per sapere quando il forno era caldo al punto giusto si controllava il colore della sua bocca che diventava biancastra ai bordi per uno spessore di due o tre centimetri. 

Ciò visto si sc’canàva cioè si staccavano con la rasùlia [7] pezzi di pasta dalla madia dando loro la forma propria del pane e disponendoli su un asse, sc’canatùru, sul quale era posto un telo infarinato che veniva innalzato a piega tra un pane e l'altro per impedire che le forme si attaccassero tra di loro.

Si puliva poi il forno dai tizzoni con un tirabrace o fruciandolo, ù scùpulu [8] , che levava dal suo piano tutti i pezzetti di carbone che avrebbero potuto ficcarsi nella crosta. Per  valutarne la temperatura, prima di posarvi il pane, si cuoceva a mezzo forno una pizzetta scondita, nà pitticèddra.

Se questa era pronta in circa un quarto d’ora, si poteva procedere. Se cuoceva prima, voleva dire che era troppo caldo. Se impiegava più tempo bisognava ritornare alla legna.

Vagliate tutte queste cose, si infornava il pane con rapidità tirando la piega del telo con la mano sinistra, afferrandolo con la destra e depositandolo sulla pala precedentemente infarinata e tenuta a mezz’aria tra il bordo della madia e la bocca del forno.

Alcune volte ci si avvaleva di qualche aiutante che agevolava i movimenti e dimezzava i tempi.

I pani venivano posati prima intorno alle pareti circolari del forno, poi al suo centro e infine vicino alla bocca.

Alla fine il forno si chiudeva con la chiudèrna, lasciandovi però uno spiraglino, dal quale si osservava se galàva la rosa, se cioè il pane pigliava colore. 

Dopo una ventina minuti si controllava la cottura.

Più tardi si spostavano i pani meno cotti, quelli vicini alla bocca, nelle zone centrali più calde. 

Poi si chiudeva definitivamente fino al momento di sfornare.

I pani levati si poggiavano a coltello nella madia e si coprivano. Una volta raffreddati si collocavano nell’apposito stipo, il minestràturu [9] .

A volte capitava che durante la cottura due forme di pane erano rimaste a contatto provocando una traccia sulla crosta, ì màsc’chi. Questo pane, detto baciato, veniva consumato prima.

Il forno caldo veniva sfruttato per cuocere ù panittèddru, panino per i più piccoli, pizze, castagne, biscotti, dolci e per seccare definitivamente fichi e altri frutti che si riponevano poi in appositi sacchetti e finivano in casse che emanavano odori e profumi da cui venivano tenuti lontani i ragazzi che, quando potevano, riempivano le tasche di quel ben di Dio che sgranocchiavano come merenda o si portavano dietro in chiesa durante le lezioni di catechismo o i riti della settimana santa.

Si panificava il venerdì o il sabato per avere il pane fresco la domenica [10] .

Se il pane cadeva per terra veniva raccolto, baciato e mangiato mormorando il pater noster.

QUANDO SI FERMA IL TEMPO…

di Marilena Rodica Chiretu

Quando si ferma il tempo,

sciolgo le ore in minuti e secondi,

avvolgo le foglie rubiconde

nell’ ebbrezza delle bianche nubi,

bevo l’ acqua della sorgente

nel bicchiere da vino,

trasformo la finestra

nella cupola del cielo

Quando si ferma il tempo,

ascolto il fremito del tuo amore,

assaggio il sapore del tuo bacio

nell’ abbraccio dei sentieri,

chiamo il mormorio delle labbra

che ci dica nell’ arco della stagione:

“Amore, fermiamo il tempo

nel cerchio del silenzio...”

Cand se opreste timpul...

Cand se opreste timpul,

topesc orele in minute si secunde,

invalui frunzele aramii

in betia norilor albi,

beau apa de izvor

in paharul de vin,

transform fereastra

in cupola cerului

Cand se opreste timpul,

ascult freamatul iubirii tale

gust savoarea sarutului tau

in imbratisarea cararilor,

chem murmurul buzelor

care sa ne spuna in arcul anotimpului:

“Iubire, sa oprim timpul

in cercul tacerii...”

Marilena, 10 aprile 2007


IL TURISTA MODERNO

di Nicola Perrelli

Fino a pochi anni fa il turista-viaggiatore, ovunque fosse diretto, dalla città d’arte al deserto del Gobi, portava con se solo l’essenziale: una valigia riempita in base alla durata del viaggio, un paio di occhiali e un  leggero copricapo per proteggersi dalla luce abbagliante del sole e  dai suoi implacabili raggi o una sciarpa, un cappello e un paio di guanti per difendersi dal freddo e ovviamente una macchina fotografica corredata da un buona scorta di rullini.

Tutt’altro rispetto alle partenze “intelligenti” dei nostri giorni: stressanti a cominciare  dai preparativi.

Troppi sono infatti i dispositivi elettronici di cui l’odierno turista non può fare a meno nei suoi viaggi e spostamenti. E aumentano anno dopo anno. La  valigia e gli altri pochi complementi non gli bastano più. Per portare con se tutto il materiale elettronico, dal telefonino agli auricolari, dal palmare al navigatore con antenna Gps, fino naturalmente alla videocamera, deve attrezzarsi anche di apposito zainetto porta hi-teach.

Il suo vero dilemma è un altro: cosa portare e cosa non portare ? Non è, come di primo acchito può sembrare, un problema di poco conto:  senza navigatore si perde ormai anche nel centro di Mormanno, senza le riprese e le digitali della video-fotocamera ha la sensazione che della vacanza non gli resti niente, senza lettore di adeguata capacità non può ascoltare la sua musica preferita, senza cuffie bluetooth si sente come spoglio. Senza notebook poi manco a parlarne. Gli e’ indispensabile per leggere le mail e tenersi in contatto con gli amici magari usando skype, per scaricare e archiviare le foto fatte durante una giornata in giro e non correre il rischio di vedere accesa la spia “memoria piena”, per visionare video e per guardare, se predisposto,  la Tv ovunque si trovi. E senza  cellulare ? Impossibile, in viaggio è prezioso, è lo strumento principe della moderna “emotion technology”, per comunicare emozioni con sms e mms da qualunque posto del mondo.

Non ha altre alternative: gli occorre  tutto, e di schede di memoria anche qualcuna di scorta. Si ritrova cosi con parecchi chili da portarsi dietro nonostante la miniaturizzazione degli apparecchi.

Ma i problemi non sono finiti. Quello che pesa, ingombra e dà impiccio non sono tanto gli strumenti stessi, quanto piuttosto gli alimentatori per ricaricare le batterie e gli altri  numerosi accessori occorrenti. Mettere in valigia tanti caricatori, adattatori di tensione, cavi che non ne vogliono sapere di stare avvolti e tutto il resto è  un obiettivo di  non facile attuazione. Riuscire a non rinunciare a nulla richiede una pianificazione attenta ,  una capacità non comune di sfruttare gli spazi e tanta pazienza.

La nota dolente per il viaggiatore sono gli alimentatori, pesano e occupano parecchio spazio. E sono tutti diversi. Dimenticarne uno a casa vuol dire non poter più usare la videocamera, il cellulare o qualsiasi altro apparecchio. Stesso problema con le batterie, sono pesanti e non sono compatibili tra loro, quella del cellulare è diversa da quella della fotocamera che a sua volta è inadatta a quella del notebook. In pratica   ogni apparecchio ha i suoi accessori e  devono necessariamente trovare posto  nella valigia e nello zainetto. Nei quali il turista ha già sistemato:il  cavo Usb, il carica batterie, l’ alimentatore auto, le pile, la spina inglese, il cavo ethernet , la spina shucko, il doppino, la  spina italiana e….  per la gioia dei bambini il Gameboy e la Psp.

Ora c’è tutto, finalmente può partire…se ne ha ancora  voglia.

IL RAGÙ BOLOGNESE

di Antonio Penzo

La sveglia é la mattina presto. Le mucche nella stalla cominciano a muoversi e quindi occorre prepararsi ad affrontare la giornata. Se era inverno il buio era ancora presente, ma di primavera e di autunno l’alba si affacciava ad est, mentre l’estate la luce era già piena.

La donna scende nella cucina, dopo essersi vestita, portando il pittale, il cui contenuto viene gettato nella letamaia e poi viene lavato alla fonte. Una rapida occhiata alla stalla, per controllare se tutto era in ordine e di nuovo in cucina. Si accende il fuoco, si controlla se nel secchio c’è ancora acqua da bere, si colloca sulla tavola pane e salame e si va a mungere un po’ di latte per la colazione mattutina.

Il primo pensiero è quello di preparare il mangiare agli uomini, che iniziano a scendere per recarsi in stalla, dove puliscono la lettiera, portano la paglia sporca nella letamaia e la sostituiscono con della nuova. Stringendo un pugno di paglia, viene pulita la mucca da eventuali tracce di escrementi e si rinnova il fieno nella mangiatoia.

Le donne puliscono la cucina, e non appena formate le prime brace le pongono nei fornelli, onde potere scaldare il latte, sul quale affiora il grasso.

Si sbuccia una grossa cipolla, togliendo le prime foglie, si taglia e si leva il germoglio, si puliscono carote raschiandole, al sedano vengono lasciate le foglioline mentre si sfila la costa. Il tutto viene posto sul ceppo e con l’apposito attrezzo curvo a mezzaluna con due manici in legno si inizia a tagliuzzare il tutto. Si prende un po’ di lardo o di pancetta e tagliati a dadini si pongono in un tegame di coccio e posto sul fuoco a rosolare. Una volta tritata tutta le verdura, si pone il tutto in un tegame di coccio e posto sulla fiamma a soffriggere. Quando ormai non si riesce a distinguere gli odori dei componenti, vuol dire che il soffritto è quasi pronto; si lasciano asciugare le verdure che vanno a prendere il caratteristico colore nocciola. Il tegame si pone di lato, in modo da mantenersi caldo.

Intanto si prende la carne di manzo e lo si pesta fine con il coltello grosso (mannaretta), fino a farne un composto omogeneo e si rovescia, mescolandolo, nel tegame delle verdure. Si pone di nuovo sul fornello e si lascia cuocere a fuoco lento per molto tempo. Il ragù è pronto quando il  colore è divenuto di nuovo uniforme. Si sala e si aggiunge un pizzico di pepe, si mescola il tutto per bene, si aggiunge mezzo bicchiere di vino rosso e si continua a mescolare fino all’evaporazione del vino. Si aggiunge la conserva di pomodoro e si lascia di nuovo a cuocere lentamente per circa altre due ore.

Il ragù diviene pronto verso l’ora del mezzogiorno.

Il ragù bolognese è utilizzato per condire qualunque tipo di pasta, sicuramente l'abbinamento più tradizionale è quello con le tagliatelle oppure unito alla besciamella per la preparazione delle lasagne, oppure come ingrediente per accompagnare la polenta.

Ragù bolognese: ricetta tradizionale

Ingredienti per 4 porzioni:

-          cartella di manzo 300 g

-          pancetta (di tipo dolce) 150 g

-          carota gialla 50 g

-          costa di sedano 50 g

-          cipolla 50 g

-          salsa di pomodoro 5 cucchiai ovvero estratto 20 g

-          vino bianco/rosso 1/2 bicchiere

-          200 g di latte intero

-           

Preparazione: si scioglie nel tegame la pancetta tagliata a dadini, e tritata con la mezzaluna. Si aggiungono le verdure ben tritate con la mezzaluna e si fanno appassire dolcemente. Si aggiunge la carne macinata e la si lascia, rimescolando sino a che "sfrigola"; si mette il 1/2 bicchiere di vino e il pomodoro allungato con un poco di brodo, e si lascia sobbollire per circa 2 ore, aggiungendo volta a volta il latte, e aggiustando di sale e pepe nero.

FRANCHINO  C.

di Francesco M. T. Tarantino *

                                     

Non insegnavi soltanto matematica

Tu eri un matematico perso nei sogni

Tra i teoremi ti inebriavi di semantica

E parlavi alle nuvole dei tuoi bisogni

Vivevi la vita fra geometrie sconnesse

E il quotidiano tra il fumo e il bicchiere

E senza rincorrere amori di principesse

Sognasti un sogno che stavi per cadere

Congegnasti la tua vita su altre sintonie

E ai tuoi baffi narrasti lunghi baci proibiti

Combattesti col mondo nuove malinconie

Sfidando leggi morali e confini prestabiliti

Raccogliesti le tue cose e con ali di vento

Seguisti l’itinerario di un’Aquila in volo

E fra le fontane batteva il tuo cuore lento

Finalmente la sera anche tu non eri più solo

Ti ricordo professore tra il piscio e le stelle

Sotto un cielo d’agosto stupito e compiacente

O con la neve di natale ed il freddo alla pelle

Avrei voluto indagare i segreti della tua mente

Giocavi coi numeri e con le tue vicissitudini

Fra seni e coseni e un’allegria appena scorsa

Con il vino e l’amore e le tue inquietudini:

Un fardello di sogni raccolti in una borsa

Ed ora sei qui con i tuoi baffi e il foulard

Umilmente nascosto da una lastra di granito

Ci guardi come dal tuo ultimo boulevard

E sorridi divertito per questo paese finito

Ogni riferimento è voluto

UN PICCOLO GRANDE FIUME: IL BATTENDIERO

di Nicola Perrelli

Guido per la strada che costeggia il laghetto artificiale di Mormanno e in lontananza  tra gli argini naturali e la selva delle piante acquatiche, che per la distanza sembrano isole ed isolotti coperti di verde, scorgo il ramo di corrente del  Battendiero. Il piccolo fiume , lungo 23 Km., che nasce in un territorio particolarmente bello come la “Laccata” dell’altopiano di Campotenese, proprio al confine con il comune di Morano Calabro e scendendo  arriva nella zona del Pantano di Mormanno. Dove, tra magnifiche foreste di faggi e castagni, raccoglie le acque incontaminate di altre due  polle sorgive del posto, una situata nella zona della Sambuchita, l’altra alle pendici della Vernita.

Il ruscello attraversa quindi i prati verdi e gli ampi spazi del Pantano, in un ambiente che si può facilmente assimilare a quello di una vallata alpina, per concludere la  corsa, con passo cauto, nello specchio d’acqua artificiale, sul quale nelle belle giornate, per i giochi di luce, sembra galleggiare tutta la valle. Qui, nelle calme acque del laghetto, popolate da pacifiche carpe e sorvolate da stormi d’uccelli, si concede una pausa prima di riprendere nuovamente  il  tragitto naturale. Che si sviluppa ora in un territorio molto più accidentato, aspro e armonioso al tempo stesso.

Appena uscite  dal lago le acque del Battendiero si gettano infatti in formidabili scoscendimenti, superano strette  gole, si scontrano con gli enormi massi precipitati dagli erti monti sovrastanti, serpeggiano tra i sassi scivolosi che sporgono dal greto e più volte scompaiono in passaggi folti di cespugli e macchie. Solcano una natura  spettacolare ma soprattutto selvaggia, che in certi tratti inquieta e  soggioga gli animi più sensibili. Come quella lugubre e ombrosa sottostante al  ponte  di “minnarra”, tristemente  noto in paese per essere stato teatro in passato di infausti avvenimenti, che solo dai più tenaci e temerari conoscitori viene sfidata.

A valle, nel territorio di Laino Borgo, il Battendiero conclude finalmente l’impegnativa discesa con un tuffo nel più copioso e importante fiume Lao. Il corso d’acqua, citato in fonti letterarie di età romana  come antichissima linea di confine sul versante tirrenico calabrese.  Noto soprattutto per la sua vallata, un vero e proprio sito archeologico, un museo all’aria aperta. E’ qui che gruppi di nomadi del tardo periodo Paleolitico, portando a pascere le mandrie di buoi dal mare al massiccio del Pollino, hanno lasciato tracce del loro passaggio. Come dimostrano le

famose incisioni  di bovidi su uno dei massi nel riparo antistante la Grotta del Romito, presso Papasidero.

Si, nel mio paese c’è un piccolo grande fiume, il Battendiero, che  nasce, scorre e  muore in questo frammento di territorio del Pollino, senza cercare, come la maggior parte dei fiumi,  il mare.

Una vena d’acqua che nasce quasi dal nulla e che nella manciata di chilometri del suo percorso ha ancora, stranamente, incantevoli tratti di bosco che ombreggiano le rive. 

Un fiume cosi discreto e confuso con l’ambiente che molti giovanissimi mormannesi  ne ignorano addirittura l’esistenza o perlomeno l’ubicazione. E pensare che una volta, proprio al fiume, i ragazzini , al seguito della donne che andavano a lavare i panni colorati e le muttite (trapunte) di lana cardata, vi trascorrevano le ore più belle: correndo  lungo le sue sponde, esultando per la vista di un pesciolino, sguazzando tra i rivoli.

Anche i miei ricordi d’adolescente, ai margini del Battendiero, risalgono a quando era già un’avventura arrivare al ponte “fravicato”. La passerella sul fiume che ancora oggi introduce nell’area del Pantano. La strada per giungervi  era lunga e faticosa: a picco all’andata, erta al ritorno. Ma insieme agli amici tutto appariva lieve e agevole. Andare al fiume ci piaceva tanto.  Sembrava offrisse a noi imberbi molta più libertà.  Il paese del resto era  lì in alto, in cima al vallone di “cavalera”, lontano. 

Sparse lungo le rive c’erano delle spiaggette  dove ci mettevamo a prendere il sole e li in acque fredde ma limpidissime facevamo anche il bagno, incuranti dei pericoli e delle raccomandazioni dei nostri genitori. Era vera libertà.

Scendeva ormai la notte quando, stanchi per le lunghe nuotate nella “piscina” naturale e per le tante esplorazioni, rientravamo in paese sognando la scampagnata successiva.  

Anche se l’asfalto non ha avuto pietà di un posto cosi incantevole, giù al Pantano c’è ancora un piccolo universo da scoprire nascosto nelle anse del Battendiero, che  suscita  emozioni dolcissime.

Scendi in riva al fiume, mettiti seduto ed osserva in silenzio lo scorrere dell'acqua. L'acqua segue la sua via, procede nel suo cammino, si impensierisce quando qualcuno o qualcosa ostacola il suo cammino, una pietra, un detrito, un albero, ma l'acqua con la sua fluidità non si ferma, li affronta, li devia e prosegue la sua via e lungo il percorso tanti saranno gli impedimenti ma lei giungerà sempre alla sua meta. Tu fai come l'acqua, prosegui il tuo cammino desidera la tua meta affronta sempre gli ostacoli ma evita di cercare ad ogni costo una risposta, lascia che l'acqua del fiume scorra e con essa le tue domande, perché un giorno, quando meno te lo aspetti la risposta bagnerà i tuoi piedi.
L'acqua è la vita, il tuo io interiore è la sua fluidità, davanti a te traccia la via e inizia il cammino verso la tua meta. Non importa come, se appoggiato ai sogni e alla fantasia come faccio io, l'importante e desiderare di conoscerti ogni giorno di più.”
(da ”Avalon”...il mondo dei sogni)

HADES
a Francesco M.T. Tarantino

da Giò Maltese la notte del 18° compleanno di Deborah di Martino

Hades

Non ci sono mai stato

Ci andasti tu

Baciando la morte

Inebriandoti d’iniquità

Assorbendo il peccato

Hades

Predicasti agli antidiluviani

E mentre tu piangevi, io dormivo

Mentre il sangue irrigava il tuo volto

Io ti rinnegavo…

Scaldando le mie fredde mani

Hades

Il soggiorno dei morti

Albergo di demoni

Orto di spine

Farmacia di veleni

Fonderia di torti

Hades

Scendesti fino al fondo

E mentre tu gridavi, io fuggivo

Abbandonato alla solitudine

Ti immergesti nella desolazione

Ma creasti un nuovo mondo

Hades

Non mi ci farai andare mai

Apristi le braccia

Sconfiggendo ogni minaccia

Mi apristi il cielo

E ti ritroverò lì… adesso


SUB-POSTE &LEZIONI

di Francesco Aronne

Il dado è tratto, il Rubicone oltrepassato è ormai alle spalle… Si è ufficialmente conclusa la gran bagarre preelettorale di metà del cielo mormannese che ha vivacizzato, strapazzandola, la monotonia quotidiana in cui è avvolto il contado. Finalmente i protagonisti potranno dormire sonni tranquilli (quelli che ne saranno capaci) in attesa del fatidico strip-tease che metterà a nudo di che pasta è fatto il reame.

Le loro alacri fatiche hanno preso forma nei due eserciti che si contenderanno il dominio del borgo.

Due quindi le liste ed entrambe civiche. La temuta terza lista, era quella del “o ci date il sindaco, e quello che diciamo noi, o corriamo da soli!” a cui in coro gli attuali alleati hanno risposto, e con il condiviso consenso del proprio elettorato, “dove credete di andare con un pugno di voti? La maggioranza dei voti la abbiamo noi e le decisioni strategiche spettano a noi!…”.

Sorpresa: con astuzia e abilità antropofaga la terza lista ha divorato le velleità e tracotanze degli arroganti propugnatori della seconda lista (attuali alleati e concrociati) sottomettendoli al loro giogo, prendendone il posto di lista di opposizione ed esponendoli al ridicolo. Delle tre liste paventate sono rimaste quindi in campo quella del sindaco uscente dottor Gianluca Grisolia (L’ALTERNATIVA DEL BUON GOVERNO – PER MORMANNO CHE VUOLE CONTINUARE) e quella originariamente minoritaria che ha frantumato quella più titolata, di opposizione, neutralizzandone ed ammansendone (sulla carta) tutti gli aspiranti sindaci,  incapsulandola e sottomettendola ai propri sostanziali voleri (INSIEME VERSO IL FUTURO) capeggiata dal, fino all’istante prima osteggiato, signor Guglielmo Armentano. Scherzi della democrazia….

Da una prima e frettolosa lettura delle liste si evidenziano subito delle differenze di stile:

-         La lista del sindaco uscente elenca i nomi dei candidati con a fianco la loro data di nascita (tranne per il candidato sindaco) e ricorda nel simbolo il nome di Mormanno

-         quella antagonista riporta a fianco del nome dei candidati la loro professione, anzi il loro titolo (tranne per il candidato sindaco) palesando l’abbondanza di risorse intellettuali ed al contempo l’assenza cronica di categorie senza voce quali operai, artigiani, casalinghe, disoccupati, arcaico baluardo di una sinistra oramai a brandelli e rappresentanti del mondo non più esclusivo del lavoro ma certamente di quello esclusivo della fatica quotidiana del vivere e della lotta per la sopravvivenza. Nessun richiamo a Mormanno nella denominazione di questa lista.

-         In entrambi presenti le quote rosa e in entrambe (in una è normale) assenti le quote rosse….

Quasi tutti gli eletti della uscente maggioranza nella precedente tornata elettorale, o per lo meno gran parte di questi li ritroviamo candidati…Squadra vincente non si cambia? Non esattamente. Qualcuno, invece, motivato dagli ottimistici e futuri, ma non sicuri, pronostici della vigilia, per vincere ha cambiato uniforme, squadra e bandiera. Di acrobati e saltimbanchi aspiranti governanti è pieno il reame da Tarvisio a Pantelleria. Nei tempi che viviamo si registrano sempre più repentine metamorfosi ed ardite chirurgie plastiche, supportate da mode tipo “Second life”. Mondi virtuali in cui si creano “Avatar” in grado di rimuovere rapidamente lo squallore di queste umane miserie, erigendo l’inaffidabilità a segno dei tempi… Gli stessi funamboli, impermeabili al pudore, osano pretendere dal mite elettore cieca obbedienza e coerente fedeltà a patti matrimoniali scaduti da decenni.

Cosa accadrà e quali orientamenti prevarranno nell’elettorato mormannese sarà la campagna elettorale prima e lo strip poi, a dirlo.
I residenti saranno bene informati sulla evoluzione degli eventi, mentre a chi è lontano possiamo dare qualche ulteriore elemento di acclimatazione preso tra i consueti umori della prima ora che serpeggiano nella piazza.

La perplessità maggiore che si intercetta a caldo, tra la gente, è quella della dissoluzione della seconda lista e del suo assorbimento nella terza (il sindaco è di fatto l’elemento determinante e qualificante della coalizione) e per quanto risultava incomprensibile l’energico veto alla legittima candidatura dell’attuale capolista, risulta ancora più incomprensibile e paradossale la sua candidatura. Le inavvicinabili posizioni di qualche giorno fa si sono di colpo fuse in un idillio apparente. Ciò, secondo dichiarazioni di alcuni imbarazzati protagonisti, per non meglio precisate persuasioni pervenute dalle istanze superiori dei belligeranti partiti alleati o di ciò che di essi resta. Come dire: visto che a Mormanno siete incapaci di scegliere chi dovrà correre per la guida del borgo ve lo diciamo noi cosa fare. Avvilente e frustrante che gente per cui Mormanno è un punto imprecisato di una carta geografica, un pugno di voti e qualche numero di telefono di referenti elettorali ne decida le sorti. Offensivo per le intelligenze di quanti qui vivono e lavorano e di quanti che, con titoli o meno, hanno proposto la loro candidatura a sindaco, sbeffeggiata e derisa. Qualcuno, saggiamente, aveva proposto le primarie, mai temute da un elettorato democratico e progressista che è quello che dovrebbe costituire il bacino preferenziale a cui questa lista si rivolge. Neanche prese in considerazione. Si sa, con le primarie si gioca e carte quasi scoperte e i giochi dei bari sono più faticosi… Diversi sostengono che la trattativa estenuante è stata solo una farsa teatrale di consumati attori per bruciare tempo e far ingoiare in extremis l’amaro (viste le tante energie sprecate per scongiurare questo temuto finale) boccone…del resto se ancora uno più uno fa due il dubbio è legittimo. E tra i bene informati di Radio Fante c’è chi rincara la dose: il paese venduto in un baratto (scambio) per un futuro e aleatoriamente sicuro piatto di ghiotte lenticchie.

Torniamo alle evidenze oggettive: non sappiamo ancora nulla dei programmi delle rispettive liste. Ci sarà tempo (forse) per valutarli. La scelta finale di ogni elettore non potrà non tener conto del punto di forza (o di debolezza) della lista: il candidato a sindaco.

Il sindaco uscente porta dalla sua l’aver governato per 5 anni mantenendo saldo il timone anche quando membri del suo stesso equipaggio invece di remare si sono messi a dare (tardivi e poco credibili) colpi d’ascia alla chiglia. La perdita di pezzi della nave lungo il tragitto (pezzi che ritroviamo stavolta nell’altra lista ma che in futuro, per la storia del lupo e del vizio, potremo trovare anche nel più inimmaginabile dei posti possibili) non gli ha impedito di raggiungere il traguardo. Certamente buona parte del merito va all’opposizione che in cinque anni non si è vista o sentita se non per chiedere le dimissioni ad ogni pioggia di marzo che si è abbattuta sull’amministrazione, o per noiose e inconcludenti prolusioni che hanno provocato il sopore anche nei più interessati ascoltatori del consiglio comunale. Le cose che ha fatto bene saranno argomento dei comizi della sua coalizione, quelle che non ha fatto o fatto male saranno argomento dei comizi degli avversari. Del suo concorrente che dire? Impiegato al Consorzio di bonifica, storico baluardo di socialismo reale, non ha ancora fatto il sindaco!

Lo scenario è quindi definito. Chi evoca la propria legge dei numeri da il risultato scontato. I bookmakers inglesi non hanno nemmeno preso in considerazione l’evento. Per quanto ci riguarda preferiamo illuderci che l’esito dello scontro sarà deciso dal combattimento dei lottatori nell’arena: i due candidati e le loro milizie. Tra questi dovremo scegliere. A loro gli auguri ed il nostro apprezzamento per mettere in gioco la propria faccia. Per gli imperatori (in senso esageratamente metaforico) che stanno sulle tribune o ancor peggio nell’ombra, timorosi della polvere dell’arena, richiamiamo lo scontro finale del film Il gladiatore: gli imperatori passano, il popolo, sempre uguale ma sempre diverso, resta ed il suo giudizio è sovrano. Ognuno sceglie il proprio mestiere ed ognuno ha l’obbligo di farlo bene, con onori e oneri.

In un’epoca ed in un contesto in cui la parola Cavaliere assume ben altro significato il nostro pensiero va a Don Chisciotte. In questi tempi dove molti rinunciano al traguardo evolutivo della conquista della posizione retta ci piace ricordarlo ben rizzato sulla schiena a cavallo del suo destriero… Libero di affrontare i suoi mulini a vento (oggi forse torri eoliche) ma comunque libero. La libertà è il valore massimo ed il bene più profondo alla cui tutela tutti dovrebbero tendere e concorrere. Vivo il ricordo in questo scampolo di aprile del prezzo di vite costata quella di cui tutti godiamo. Libertà impastata di sangue ed ideali di cui ognuno è chiamato ad essere difensore e custode. Libertà di esprimere senza alcun timore il proprio pensiero, libertà di scegliere la lista in cui candidarsi senza pressioni e tentativi di dissuasione, libertà di scegliere chi votare o non votare o se votare. Al popolo la decisione e dalle urne il verdetto che tutti dovremo accettare.  Auguri Mormanno!



[1] Antiche e rigide erano le regole per la sua costruzione. Si dovevano adoperare mattoni capaci di assorbire e mantenere il calore e speciali cocci tenuti tutti insieme da calce di fornace di prima qualità.

[2] Ricordo stanze dalla muratura rustica, senza finestre, con le travi a vista coperte solo dai coppi. L’ambiente era pieno di fumo proveniente da un angolo ove si bruciava la legna su un rialzo di calce che fungeva da focolare. Si tinteggiavano, ogni tanto, solo i muri e il bianco assumeva un colore di cioccolata.

[3] Dal greco lima, latino limmus, vaso di creta senza manici e smaltato

[4] Occorrevano circa una quindicina di chili di farina

[5] Lievita

[6] Legna ricavata dalla potatura delle viti o degli ulivi

[7] Radimadia

[8] Dal latino scupulum. I comuni tirabrace avevano alla loro estremità una tavola fatta a mezzaluna. Lo scùpolo invece aveva legato in cima uno straccio che si bagnava in un apposito catino

[9] Credenza a muro

[10] Chi non aveva potuto fare il pane andava ad acquistarlo presso Pippina la Petraiola o dalla Lupicèddra. Pippina à Petraiola, maritata Bloise, era la mamma di Nicola Bloise. La Lupicèddra abitava in via Scesa Laino. Aveva due figli. Uno, mastro Pèppe Donnici era  fabbro e l’altro, Giacomino, un ottimo meccanico che sognava di scoprire il moto perpetuo.

FARONOTIZIE.IT  - Anno II - n° 14,  Maggio 2007

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