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Una strabiliante storia vera

Scritto da Carlo Di Stanislao il 1 gennaio 2013
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E’ incredibile ciò che l’uomo può fare ingegnandosi.

Un ragazzo e quattro animali alla deriva nell’oceano Pacifico, superstiti di un tragico naufragio. La loro sfida è la sopravvivenza. Tempo pochi giorni e, della zebra ferita, dell’orango e della iena non resta che qualche osso cotto dal sole. A farne piazza pulita è stata la tigre con cui Pi, giovane indiano senza più famiglia, è ora costretto a dividere i pochi metri di una scialuppa. Contro ogni logica, il ragazzo decide di ammaestrarla. Con l’ingegno, con la forza di uno spirito caparbio e visionario Pi affronta la sua grande avventura. Ed è un viaggio straordinario, appassionante e terribile, ispirato, spiazzante, ironico e violento, che trascina fino a che il  sipario si leva sull’ultimo, agghiacciante colpo di scena.

Il romanzo, ispirato ad un fatto realmente accaduto, fu scritto nel 2002 da  Yann Martel e vinse il prestigioso Booker Prize ed ora Ang Lee ne cava un film in 3D con una tecnologia stratosferica, facendone un capolavoro estetico,  con riprese di assoluta fascinazione:  la tempesta e il naufragio, l’inabissamento, la resa degli animali, e soprattutto della tigre, spettacolare (ne è responsabile Bill Westenhofer già al lavoro in Cronache di Narnia), l’incanto delle trasparenze dell’acqua che spesso si rispecchia col cielo confondendo la prospettiva, il brulicare di stelle e di riflessi nella notte boreale con le luminescenze delle meduse e l’emozionante irruzione di una megattera danzante al chiaro di luna, la transumanza del branco di pesci volanti, l’isola ricoperta di migliaia di teneri suricati. Tutti momenti che restano impressi nella memoria e ci ricordano che il cinema, in primo luogo, è magia.

Il film colpisce lo spettatore con la forza delle sue immagini, lasciandogli però di che riflettere alla luce del colpo di scena nel sotto finale.

Ang Lee torna alla regia dopo tre anni di inattività,  e lo fa con una vicenda che si presta a molte diverse letture, che contiene molti messaggi, le cui metafore sono comprensibili solo alla fine. Non è Mowgli e non è un edulcorato documentario alla Disney e nemmeno un crudo prodotto National Geographic; ma una storia originale, lirica e visionaria che tratta temi alti:  fede, accettazione, destino, sublimazione e, non ultimo, la forza dell’affabulazione.

Sempre sospeso fra fede e razionalità, fra l’approccio scientifico/sperimentale e l’abbandono alla volontà superiore, il film naviga fra le distese senza fine dell’oceano, dimostrando la piccolezza della nostra anima nell’immensità della natura e nel confronto con lo spirito cosmico.

Ben interpretato  dal diciassettenne Suraj Sharmaper, che da adulto è  Irrfan Khan e con un bel cammeo di Gerard Depardieu nel ruolo di un brutale cuoco di bordo, “Vita di Pi” è il miglior spettacolo nella sale in questi giorni.

Suddivisibile facilmente in tre spaccati, uno dei quali – il centrale – comprensibilmente più esteso e più coinvolgente per attrattiva ed efficacia, il film semina caparbiamente i suoi costituenti basilari nel corso della parte iniziale, lasciandoli accrescere a lungo, e in silenzio, per andarli poi a raccogliere e ad utilizzarli durante la spiazzante fase di chiusura. Con la furbizia di questa tecnica Lee assesta un doppio colpo da maestri esibendo una svolta valida a lasciare di sasso entrambi i tipi di spettatori in ascolto e sollevando inoltre il valore della sua pellicola quel tanto che basta da restituirgli un peso maggiore confronto a quello assorbito in precedenza.

Così tra giochi di luce fosforescente, scene ammalianti di balene che dal profondo degli abissi balzano fulminee fino in cielo e visioni oniriche luccicanti proiettate al di sotto della superficie piatta dell’acqua notturna, ci lasciamo immergere da un racconto strabiliante, avvincente e all’altezza di deliziare insieme gli occhi e la mente.

Ang Lee si dimostra astuto e più convincente di qualsiasi altro esperto in materia di fede e il suo tentativo di invitarci a seguirlo è decisamente il più efficace che sia mai stato messo a punto.

Amo da sempre Ang Lee, regista taiwanese classe 1954, trasferitosi dopo il diploma, ottenuto in patria,  in cinematografia, negli USA,  per studiare regia teatrale nell’Illinois;  già assistente operatore al film Joe’s Bed-Stuy Barbershop: We Cut Heads (1983), di Spike Lee e vincitore di un importante premio tecnico nel 1985, quando era ancora studente,  con un esordio folgorante nel 1992:  Tui shou (Pushing Hands), commedia sul gap culturale e generazionale di una famiglia di cinesi che vivono a New York e capace di confermare il suo enorme talento l’anno dopo con  Il banchetto di nozze , che vinse l’Orso d’oro al festival di Berlino, e ancora, nel 1994, con Mangiare, bere, uomo, donna, prodotto a Taiwan, che ebbe una nomination dell’Academy Award come miglior film straniero.

L’Oscar (ed il Leone d’Oro), lo ha vinto nel 2005,  con “I segreti di Brokeback Mountain”, affrontando di petto il problema della omosessualità inserita in un mondo, quello dei cow-boy,  che pareva esente da questa scandalosa differenza.

Nel 2007, con “Lussuria”, ha di nuovo vinto a Venezia, scandalizzato il mondo con una storia di amori torbidi e spie nella Shangai anni ’30 ai tempi dell’occupazione giapponese in Cina, vincendo anche I Sette Cavalli d’oro a Taiwan ed il Golden Globe come migliore film straniero.

A me sono piaciuti anche i suoi film più commerciali: “Hulk,” sul mito verde della cultura yankee e “La tigre e il dragone”, una storia di arti marziali ambientata nella  Cina antica.

Quanto a “Metel Woodstock”, suo penultimo film, è un racconto amaro e divertente sugli ultimi momenti di innocenza di una civiltà che metteva piede sulla Luna ma stava affrontando un futuro carico di incognite; un film sulla musica e sui figli dei fiori, un pezzo di storia d’America,che poi è pure storia nostra,con le contraddizioni che abbiamo imparato a conoscere nei quaranta anni successivi.