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Il più bravo del mondo

Scritto da Carlo Di Stanislao il 1 gennaio 2013
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E’ il fastigio della libertà individuale ed insieme della civile convivenza, incentrata sul rispetto della persona e sulla condivisione di valori come il diritto al lavoro, alla professione delle idee e alla sinergia fra differenze la nostra Costituzione secondo Benigni, che ieri sera, davanti a quasi 13 milioni di italiani, è stato grandioso, commovente, più profondo che mai.

E non solo ha sbaragliato le reti concorrenti, surclassando soprattutto quelle Mediaset, ma, lasciata da parte la satira politica, Alfano, Renzi e l’ex premier Berlusconi,  si è dedicato con rara ed ispirata passione ai dodici principi fondamentali della Costituzione e si è emozionato mentre raccontava  l’impegno dei padri costituenti, parlando di lavoro, cultura, paesaggio, ambiente e turismo  e misurando, implicitamente, la distanza che ci separa nella attuazione, dalle intenzioni dei nostri padri e delle nostre madri, che furono, nel 1947 ed in un periodo di grande difficoltà, capaci di tracciare un sogno in grado di rispondere a tutte le esigenze individuali e collettive, politiche, amministrative ma anche spirituali, in un contesto laico ma senza alcuni laicismo e con una robusta dose di cultura cristiana ma senza clericalismo, riconoscendo pari diritto ad ogni confessione e ruoli diversificati, ma paritetici, fra Stato e Chiesa, hanno creato i presupposti per una Nazione moderna e civilissima.

Benigni ha saputo accordare Darwin con il Vangelo Benigni e rintracciare ispirazioni che richiamano i nostri grandi letterati e poeti (Manzoni e Leopardi, soprattutto), nel complesso di articoli fondanti che diedero vita ad una nazione repubblicana, capace di comprendere l’unità ed il federalismo, il ruolo delle singole storie e differenze, ma anche la necessità di un respiro più ampio di portata europea.

A ben vedere non c’è nulla di più denotativo e referenziale di una Carta Costituzionale, eppure Benigni l’ha resa poetica e connotativa, con una climax costruito su  una metafora ambientata nel medioevo, con  vicende di corruzioni, prepotenze e festini che deturpavano il governo di mille e più anni fa, passata poi, sapientemente, di similitudine in similitudine e da antitesi in antitesi, sulla politica di oggi che appare così distante dai valori dei padri e delle madri costituenti.

Stamani grandissima soddisfazione viene manifestata negli ambienti Rai per un risultato ancora una volta strepitoso ed andato anche oltre le previsioni della vigilia,  considerando sia la particolarità del tema che il momento del Paese.

Non solo l’attore e regista toscano ha fatto il 43,93% di share, ma la sua performance in diretta dallo studio di Cinecittà, colta ed ispirata, profonda e piacevolissima, ci ha dimostrato che occorre essere orgogliosi di essere italiani e contrari ad una politica orrenda e ad una ancora più orrenda antipolitica, entrambe contrarie, con segni diversi, agli stessi principi costituzionali che ci contraddistinguono e, nei ruoli pubblici, su cui addirittura giuriamo.

Due ore di spettacolo sublime in cui Benigni ha commentato l’insieme dei valori propositivi che ci fanno italiani, dicendo, fra l’altro, che la dignità di una Nazione si misura dal grado di rispetto per le donne e che occorre preservare la dignità anche a chi è in carcere, sentendosi orgogliosi di aver abolito la pena di morte e di vivere in un Paese in cui gli omicidi li commettono sono gli assassini.

Se è stato grande leggendo Dante e magnifico per i 150 anni della Unità, ieri sera Benigni è sembrato immenso, una continua fonte di stimoli, riflessioni ed ispirazioni per una Nazione che si dibatte fra disperazione, amarezza e scoramento, con una politica sempre più autoreferenziale e distante ed una classe dirigente o incapace o corrotta, che fa di tutto per contraddire la più parte del dettato costituzionale.

Una lezione sublime la sua, che ha ricordato a noi tutti perché dovremmo riscattarci ricordandoci l’orgoglio di essere italiani, figli di genitori che hanno redatto una  Carta basata su principi come la solidarietà, contraria alla guerra e alle ingiustizie e, soprattutto, contro il profitto ad ogni costo.

In tantissimi, ieri sera, ci siamo commossi ed abbiamo compreso il pericolo, sempre strisciante a casa nostra, di ricercare un uomo che da solo voglia dirsi capace di risolvere tutti i problemi, un pericolo che ha dato vita al ventennio più buio della nostra storia unitaria e che fa ogni tanto capolino nelle  stupide e pericolose uguaglianze internettiane e nelle convinzioni che al Parlamento dobbiamo mandare gente non autonoma ma dotata solo di un mandato vincolante; il  tutto basato su un tragico principio di “autosufficienza” e di isolazionismo secondo il quale il “popolo” non ha alleati, il Paese si governa senza mediazioni e tutti quelli che “non sono d’accordo con noi” sono nemici da abbattere.

Tutto il contrario dello spirito che guidò gli uomini e le donne che costruirono (da posizioni diversissime) la nostra Costituzione, certamente tra le le più belle ed imitate del mondo.

Per la diretta Benigni si e’ circondato da un pubblico composto soprattutto  da ragazzi, perché è a costoro che principalmente bisogna far capire che la nostra Costituzione è attuale e sacra, modernissima e pienamente capace di fornire le risposte ed i valori che oggi sembrano introvabili o assenti.

E l’altro grande messaggio di speranza, nonostante tutto e certamente controcorrente, Benigni l’ha lanciato a favore della politica, definita “la cosa più alta per organizzare la pace, la serenità e il lavoro”, sicché  “non avere interesse per la politica e’ come dire di non avere interesse per la vita”.

Il programma è stato un inno alla speranza e all’orgoglio nazionali, senza nessuna enfasi nazionalistica, ma in netta contrapposizione ai sentimenti di che,  in questo difficile periodo della nostra Storia, non credono più che la funzione poetica, conativa e emotiva possono cambiare la coscienza e le cose.

In occasione del suo intervento a chiusura delle celebrazioni per i 150 anni della Unità, davanti a Napolitano, Benigni fu folgorante sin dall’incipit: “”Presidente, io sono pronto a tutto ciò che lei mi chiederà. Vuole cambiare i corazzieri? Sono pronto. Vuole un settennato tecnico? Eccomi qua ad aiutarla”. Ma poi lesse le lettere dei martiri del Risorgimento, la proclamazione del Regno d’Italia stampata sulla “Gazzetta Ufficiale” del marzo 1861, gli interventi di Garibaldi e di Mazzini e gli si ruppe la voce per la commozione di quelle rimembranze.

C’èra già  tutto: sentimento, cultura storica, retorica, sincerità, buffoneria, perché lui,  Roberto Benigni, come scrisse s l’Espresso  è un grande buffone e anche un pazzo di Dio, un giullare intelligente e profondo, che sa bene il valore del sorriso per far riflettere.

E vengono in mente, allora, le “Lezioni americane” di Italo Calvino, nella parte che riguarda, appunto, la leggerezza e gli approfondimenti di pensiero che, scriveva Calvino, tendono a essere pesanti, saturnini; mentre la leggerezza che è frivola e mercuriale, congiungendosi con la serietà, genera un connubio fatto di profondità e trasparenza, soprattutto nella satira, che rappresenta la parte nobile della comunicazione e annovera i autori che hanno contato nella storia letteraria, da Aristofane a Marziale, da Rabelais a Cervantes, a Diderot, a Voltaire, a Swift, a Gogol, a Gioachino Belli.

Ieri sera ascoltando Benigni, veniva il mente il Falstaff di Shakespeare, non più soltanto un comico né soltanto un bravo attore, ma un protagonista della nostra difficile e contrastata modernità.

No so se Benigni resterà davvero nella storia del cinema (a parte le sue prove attoriali con Troisi e le interpretazioni dirette da Giuseppe Bertolucci, Marco Ferreri e  Jim Jarmusch), ma sono certo che oltre ad aver cambiato e per sempre, la satira in televisione, sarà ricordato come il più grande cantore, l’aedo più autentico e vero de l’Italia di questo periodo.

Canta gli ideali perduti in questi anni Benigni e lo fa con note leggere e strazianti, in ricordo di un tempo antico e lo fa con una tale grazia che ci ricorda Femio, il mitico cantore dell’Odissea, che nella reggia di Itaca, durante l’assenza di Ulisse, è costretto a rallegrare i banchetti dei Proci, ma che fu sempre così schietto e puro che è il solo perdonato dallo spietato Ulisse.

Ed il suo modo di fare, di argomentare e narrare, la corporeità con cui cinge le parole, fanno dei suoi spettacoli degli autentici “ipocherma”, con danze rituali dal carattere vivace, che si dedicano intere ad Apollo in nome della luce gloriosa della verità raccontata con gioia.