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Il Nobel a Mo Yang

Scritto da Carlo Di Stanislao il 1 novembre 2012
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Fra le sue numerose opere narrative, pubblicate in Italia da Einaudi,  Sorgo rosso, L’uomo che allevava i gatti, Grande seno, fianchi larghi, Il supplizio del legno di sandalo e Le sei reincarnazioni di Ximen Nao.

Delle sue undici novelle si ricordano poi Felicità, Fiocchi di cotone, Esplosioni, Il ravanello trasparente e tra i racconti, Il cane e l’altalena e Il fiume inaridito, che Einaudi ha pubblicato nella raccolta di racconti L’uomo che allevava i gatti.

Ha anche scritto opere teatrali e sceneggiature cinematografiche come Sorgo rosso, Il sole ha orecchie, Addio mia concubina.

Non è un intellettuale “contro” come Liu Xiaobo, che ha vinto il Nobel per la pace del 2010 e l’assegnazione della Accademia di Svezia  sta suscitando reazioni contrastanti, con le autorità cinesi  che si  congratulano e gli attivisti che affermano che la sua vittoria è una sorta  di “riparazione” per lo smacco che la Cina subì due anni fa.

Tra le voci critiche si leva quella di Ai Weiwei, artista e dissidente, che non critica il valore letterario dell’opera di Mo Yan, ma definisce il suo Nobel  inutile,  a meno che il neo-laureato non si pronunci per la scarcerazione di Liu Xiaobo,  cosa che in passato si è rifiutato di fare.

Al di là di queste polemiche, Mo Yan è certamente il più importante scrittore cinese contemporaneo, con alle spalle una vita di privazioni, simili a quelle di molti della sua generazione.

Nato nel 1955 nella provincia dello Shandong,  con la rivoluzione culturale  ha dovuto interrompere gli studi per dedicarsi al lavoro manuale.

Ha fatto il guardiano di mucche e pecore e per fuggire alla solitudine e alla fatica si è rifugiato nella fantasia. In seguito, dopo avere lavorato in una manifattura di cotone, si è arruolato nell’Esercito di Liberazione Popolare e, mentre era ancora un soldato, ha cominciato a seguire la sua vocazione di scrittore, tanto da guadagnarsi un posto di insegnate nell’Accademia Culturale dell’esercito.

È diventato così uno degli scrittori più amati in patria, pubblicato in Italia da Einaudi, autore di storie reali e magiche che lo hanno fatto paragonare a Garcia Marquez e anche a William Faulkner.

Certamente il suo romanzo più noto (in realtà una trilogia) è “Sorgo rosso” da cui Zhan Yi Mu ha tratto il celebre film di cui è stato anche sceneggiatore, ambientato nella Cina rurale degli anni Venti, scrittoc con uno stile affascinante ed insolito, evocativo e di fascino supremo.

Ma suoi sono anche Supplizio del legno di sandalo (nel 2005 premio Nonino per la letteratura internazionale) e il colossale Grande seno, fianchi larghi: un diluvio di parole,cento personaggi da seguire nell’arco di oltre mezzo secolo, dalla società feudale degli anni Trenta al capitalismo di stato di oggi, passando attraverso i rivolgimenti dell’era maoista.

Un romanzo monstre di 904 pagine, censurato in patria per la crudezza delle testimonianze e i toni corrosivi, in apparente contraddizione con il significato del suo nome (Mo Yan è infatti  lo pseudonimo di Guan Moye e si può tradurre con “non parlare”, imperativo che allude agli anni della Rivoluzione culturale quando, una parola sbagliata, poteva stravolgere una vita).

Il suo è un realismo magico un fiume potente che lascia alle parole il compito di illustrare e al lettore la libertà del giudizio.

Infatti, a differenza di Gao Xingjian, premio Nobel per la letteratura nel 2000, Mo Yan vive in Cina e più volte è stato accusato di essersi piegato al governo: è vicepresidente di una discussa associazione di scrittori sostenuta da Pechino, nel 2009 si è rifiutato di partecipare alla fiera del libro di Francoforte per la presenza di alcuni autori dissidenti in esilio e ha partecipato alle commemorazioni per Il discorso del 1942 di Mao Zedong, quello che ha plasmato la letteratura dei primi anni del partito comunista.

Ma, nonostante questi aspetti “controversi”, nelle interviste rilasciate in Italia, Mo Yan ha sempre dimostrato autonomia di pensiero. “Credo che la letteratura deve presentare la realtà di un dato paese – ha detto a Repubblica nel 2002 – Ora c’è la modernizzazione, e va bene, a Pechino abbiamo i grattacieli, prima si viveva nella miseria, nessuno stava bene, né gli operai , né i contadini, né i soldati, ora c’è chi sta meglio, qualcuno sta meglio. Ma se la cultura muore, come si può stare meglio? Così posso dire che sono pessimista, nelle campagne la gente è ancora molto povera, tutti pensano a cose materiali. Certo, rispetto a cinquant’anni fa c’è stato un cambiamento ma cambiare non è sempre migliorare, il che non significa che io voglia tornare indietro, no. Ma senza cultura la gente avvizzisce. E che si può fare? Io penso che non si può andare avanti così”.

Lo amo soprattutto al cinema, per i dialoghi intensi e la capacità di creare suggestioni fantasmagoriche, a mezza strada fra sogno e realtà. Ha sceneggiato vari film e ricevuto diversi importanti premi: con Sorgo rosso è stato premiato con l’Orso d’Oro al Festival del Cinema di Berlino, mentre con  Il sole ha orecchie con quello d’Argento.

Del primo si sa quasi tutto, del secondo molto poco. Vásquez dice che ci sono due ragioni per scrivere contro le dottrine dominanti, siano storiche, politiche o sociali: una letteraria e una filosofica.

Mo Yan, l’uomo che non vuole parlare”, ha preferito riassumerle in prosa, piuttosto che negli atteggiamenti della sua vita.

La motivazione dell’Accademia Svedese: “Mo Yan, vince questo premio per il “realismo allucinatorio in cui fonde fiabe popolari, storia e contemporaneità”.’, e ci pare che sia una motivazione più che sufficiente.

Per convincersene basta leggere “Sorgo rosso”, una storia epica, grandiosa, che si staglia sullo sfondo degli sconfinati campi di sorgo “che in autunno scintillano come un mare di sangue”. Dal banditismo degli anni Venti, alla cruenta invasione giapponese degli anni Trenta e Quaranta, fino al periodo che precedette la Rivoluzione culturale, Sorgo rosso racconta le avventure e gli amori del bandito Yu Zhan’ao e della sua famiglia, in un affresco che ritrae un intero popolo, tutto un Paese. Un Paese dalle campagne brulicanti di anime sperdute – contadini, soldati, monaci buddisti, maghi taoisti – in cui “un vento maschio spazza una terra femmina” e il sangue versato è “morbido e liscio come piume d’uccelli”.

Il realismo magico e l’ambientazione nel passato permettono a Mo Yan di esprimersi anche su temi spinosi per la censura cinese, come la politica delle nascite.

Ed è la censura stessa a far parte della sua cifra stilistica con cui ha plasmato la sua opera, incentrata  sulla misura e il rispetto dei limiti, come lo stesso pseudonimo rivela, come ci dice dal nome scelto (ed ilnome èdestino in Cina):  “colui che non vuole parlare”.

Credo che il suo libro più struugente resti: “Il supplizio del legno di sandalo”, storia che svolte nel 1900 nella sua Shandong, con  Sun Bing che è un ribelle per caso, che si ritrova a guidare una rivolta di contadini a fianco dei Boxer, la società segreta cinese nemica delle potenze imperialistiche straniere.

Ma Sun Bing non è solo un contadino in guerra contro un potere piú grande di lui, e da cui sarà atrocemente punito. È anche un artista, è un uomo che vive di canto e per il canto. Di fronte a lui, Zhao Jia, il vecchio boia grande esperto di torture, giunto all’ultimo lavoro della sua carriera. Come Sun Bing, con il canto, anche Zhao Jia possiede una tecnica antichissima. I due maestri si affrontano con la loro rispettiva arte cercando, nelle condizioni estreme, di portare a termine il capolavoro della propria vita e della propria morte.

Un atto di ribellione, una storia d’amore, un atroce supplizio; sullo sfondo, le turbolente vicende di un Paese che sta assistendo a cambiamenti epocali: la Cina degli inizi del Novecento immersa nel caos politico che precede il disfacimento della dinastia imperiale, ma che tanto ricorda i disfacimenti di oggi.