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Un’insolita India

Scritto da Raffaele Miraglia il 1 novembre 2012
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Se sei stato in India, l’hai vista quella Vespa.
Condotta dal papà, dietro a lui sul sellino almeno due bambini e a chiudere la mamma, magari seduta di fianco con un altro figlio tra le braccia.
Ecco perché al mio arrivo a Chandigarh non volevo credere ai miei occhi.
Stavo osservando una scena alquanto improbabile. Due poliziotti avevano fermato una moto e stavano facendo la multa al passeggero perché non indossava il casco. Il casco in India? Il giovane passeggero l’aveva estratto prontamente dal bauletto e cercava di impietosire i poliziotti, inflessibili. Il guidatore della moto stava lì con il capo chino. Lui non portava il casco, ma sapeva di non aver infranto la legge. Se sei un sikh non hai l’obbligo di portarlo. Sarebbe impossibile calzarlo sopra il turbante, che non puoi mai togliere per motivi religiosi.. Osservando la strada ho capito che l’obbligo di indossare il casco era osservato rigidamente da tutti gli uomini non sikh. Con ogni evidenza, peraltro, l’obbligo non riguardava le donne. Non so se l’esenzione sia nata per rispetto alle loro acconciature o perché anche in India è risaputo che le donne hanno la testa dura.

Come avrete capito Chandigahr è un luogo particolare.

Questa città è una sorta di bambina nata grazie all’inseminazione artificiale.

Quando nel 1947 India e Pakistan si divisero, anche il territorio del Punjab fu diviso e l’India si trovò costretta a costruirvi una nuova città-capitale. Chandigarh ha dunque poco più di cinquanta anni, un’età che, per una città che raggiunge quasi il milione di abitanti, è quella di una bimba in fasce. L’India non era così sicura di poter partorire una nuova città e così decise di avvalersi dell’inseminazione eterologa. Chiese a Le Corbusier di fare da papà e oggi abbiamo un bel impianto urbanistico europeo su cui sorgono edifici indiani. Un mix che va visto e girato per apprezzare un esempio di quello che oggi va di moda definire col termine di meticciato. Un mix che deve i suoi natali anche un americano, Albert Mayer, e a un polacco,  Matthew Nowicki o Maciej Nowicki.

E’ mia personale convinzione che solo in una città pensata e disegnata da un americano, un polacco e uno svizzero-francese, e costruita da degli indiani, potesse vedere la sua vita quel meraviglioso parco che si chiama il giardino delle pietre (Rock Garden). Il sig. Nekh Chand lo iniziò a costruire nel 1954 e sino al 1975 lavorò nella totale inconsapevolezza degli abitanti e delle autorità costituite. Poi lo scoprirono e si accese una disputa: distruggere o conservare la sua opera? Il giardino sorgeva su un terreno demaniale e violava la normativa urbanistica. Prevalsero gli estimatori e al sig. Nekh Chand furono assegnati fondi e uomini per ampliare e completare la sua opera. Un anno dopo il giardino diventava un’attrazione pubblica e oggi decine di migliaia di turisti indiani lo visitano.

Sì, camminando all’interno di questa meraviglia incontrerete pochi turisti stranieri, sebbene le opere di Nekh Chand siano ormai conosciute e ammirate in tutto il mondo. Ovviamente non manca di ricordarlo il Museo dell’Art Brut di Losanna, fondato dall’artista Jean Dubuffet, che amava e studiava l’arte grezza: “lavori effettuati da persone indenni di cultura artistica, nelle quali il mimetismo, contrariamente a ciò che avviene negli intellettuali, abbia poca o niente parte, in modo che i loro autori traggano tutto (argomenti, scelta dei materiali messa in opera, mezzi di trasposizione, ritmo, modi di scritture, ecc.) dal loro profondo e non stereotipi dell’arte classica o dell’arte di moda Questi lavori creati dalla solitudine e da impulsi creativi puri e autentici – dove le preoccupazioni della concorrenza, l’acclamazione e la promozione sociale non interferiscono – sono , proprio a causa di questo, più preziosi delle produzioni dei professionisti.

Il sig. Nekh Chand era un impiegato dell’amministrazione che curava la manutenzione delle strade della città. Iniziò a raccogliere materiali di risulta e a costruire con quelli statue, case e strade in un terreno incolto e abbandonato. Mano a mano venne a formarsi un mondo immaginario creato con quel che rimaneva di piastrelle rotte, cocci di ceramica, bidoni di latta, prese e fili elettrici e rifiuti i più disparati. Sorse un villaggio popolato da uomini, donne, animali che presero forma grazie ai materiali più impensati. Difficile descriverlo questo mondo, dove ci sono vie, piazze, cascate e palazzi. Bisogna andare lì, attraversarlo e farsi attraversare dalla gioiosa follia di un genio solitario.