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La tana del Bianconiglio ed altri temi

Scritto da Carlo Di Stanislao il 1 aprile 2012
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“Bianconiglio: Uh, poffare poffarissimo! È tardi! È tardi! È tardi!
Alice: Questo sì che è buffo. Perché mai dovrebbe essere tardi per un coniglio? Mi scusi? Signore!
Bianconiglio: Macché! Macché! Non aspettano che me! In ritardo sono già! Non mi posso trattener!
Alice: Dev’essere qualcosa di importante. Forse un ricevimento. Signor Bianconiglio! Aspetti!
Bianconiglio: Oh, no, no, no, no, no, no! È tardi! È tardi, sai? Io son già in mezzo ai guai! Neppur posso dirti “ciao”: ho fretta! Ho fretta, sai?”
(Lewis Carroll, “Alice nel Paese delle Meraviglie)

 La nostra tristezza si farà più cupa quando, Venerdì Santo, le prime note del Requem di Mozart riempiranno le navate di pietra di Santa Maria di Collemaggio e ci ricorderanno i 309 morti, tutti innocenti e cari e le macerie che ci gravano sul cuore, dopo che l’urlo feroce del sottosuolo ci ha inghiottito sogni e certezze, tre anno or sono.

Il genio  di Mozart ci consegnerà, ancora una volta,  l’idea che la morte è sorella e amica,  costringendoci a pensare al ciclo eterno della rinascita, del mistero  che ci attende oltre la soglia del visibile e del temporale.

Ma certo non sarà abbastanza per cuori che si trascinano nel silenzio delle urla non dette e dei rancori covati, alla ricerca di un senso ed in un luogo per esprimerne i dettami.

Rovine e macerie sono al centro del libro  “Il senso del tempo”, di Marc Augé,  pubblicato da Bollati Boringhieri nella collana Variantine nel 2004, un saggio che ci ammoniva sulla differenza che vi è fra rovine e macerie, appunto, con le seconde che appaiono come la prefigurazione di un mondo senza rovine, un universo in cui il tempo è azzerato e che, per tale ragione, non ha più storia.

Infatti , “abbiamo bisogno di ritrovare il tempo per credere alla storia”  e il tempo, il “tempo puro”, ce lo donano le rovine, sottraendolo alla storia e consegnandolo alla pura durata, una durata che non è quella della coscienza,  bensì quella che manifesta nelle cose prodotte dall’uomo nel momento in cui, in quanto rovine, si situano in una zona di indiscernibilità tra natura e storia.

“Contemplare rovine –scrive Augè – non equivale a fare un viaggio nella storia, ma a fare esperienza del tempo, del tempo puro.

Riguardo al passato, la storia è troppo ricca, troppo molteplice e troppo profonda per ridursi al segno di pietra che ne è emerso.

Riguardo al presente, l’emozione è di ordine estetico, ma lo spettacolo della natura vi si combina con quello delle vestigia”.

E lascia intendere, l’Autore, che ciò che incombe sulle rovine, è il fatto che possono trasformarsi in un “non luogo”: uno spazio vuoto e di estraneazione e non un’occasione per le singolarità di riconoscersi in quanto straniere e ricominciare un progetto basato sulla diversità che divenga coesione.

Negli spazi fatti di rovinose macerie, il tempo continuerà a rovinare davvero, solo attraverso le rovine delle “identità” ed è questo che più ci rattrista, in questa settimana di passione, mentre ripercorriamo il non fatto, il non detto e il non compreso, che in tre anni ha diviso, invece di unire, i brandelli sopravvissuti della comunità, sbriciolata come e più dei suoi luoghi.

Luoghi che non difettano tanto di forma, quanto di vita e sostanza, come emerge dalle foto di Berengo Gardin, con una città spogliata della sua identità, vuota di suoni e di voci e con nuove, irsute, indicibili periferie, con cartelloni pubblicitari, nomi delle ditte più conosciute scritti a lettere di fuoco nella notte delle autostrade che portano, appariscenti palazzi dello spettacolo in fieri, luoghi iridescenti consacrati al consumo che si agglutinano alla città vuota e devastata, sventrata, mentre tutto il resto, vi si arrampica sopra come gramigna, facendone cadere le ultime difese identitarie.

E’ la brutale violenza della deturpazione già radicalmente invasiva, con il cambiamento non solo urbano, ma antrolopogico,  che emerge dal confronto, foto per foto,  di Berengo Gardin;  sicchè il “silenzio” che vi scorre sopra, non è solo di bellezza e di suoni,  ma di identità e contenuti.

In “L’Aquila prima e dopo”, che il pubblico scoprirà martedì, appena prima delle celebrazioni volute dal Comune in tutto il cratere,  a tre anni dal sisma, nella Sala della Carispaq in via Strinella, lo strazio non deriva dal  centro storico trafitto da impalcature, nascosto da teli e travi, dalle strade una volta brulicanti di suoni e di vita, e ora deserte; ma dai volti colti in tralice ma evocativi di una identità perduta in una città bloccata e agonizzante.

Uno strazio che stempera le persone e le dissolve in un indifferenziato altrove di pensieri e prospettive, prima ancora che di luoghi, come è  raccontato nel docu-film “La tana del bianconiglio”, della giovane marsicana Linda Parente,   prodotto dalla Peperonitto Film di Avezzano, realizzato grazie al contributo di due associazioni venete,  del corpo dei Vigili del Fuoco, della Protezione Civile Regione Abruzzo, della Brigata Volontaria Arci di Roma, con il patrocinio del nostro Comune,  della Provincia e della Regione Abruzzo.

Il progetto, strenuamente voluto e difeso da Maria Grazia Cucinotta, che vi interpreta un ruolo centrale, ci racconta di un giovane, legato al teatro che riuscirà, con l’aiuto dei suoi, a compiere quel viaggio interiore che recupera identità e fa accedere verso una nuova speranza, dopo la disperazione del sisma e delle tendopoli.

Girato nel 2011 nel cuore della zona rossa, il film vede come attori Massimo Lello, Camilla Rosselli, Gianni Musy, Gaia Benassi e, appunto, Maria Grazia Cucinotta, innamoratasi del progetto delle giovane Nadia Parenti, fin dalla prima stesura.

Le musiche sono del maestro aquilano Fabrizio Mancinelli, registrate in collaborazione con il Conservatorio A.Casella  à e con il supporto di giovani studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia. Le scenografie sono state curate dal talentuoso Gianluca Amodio, mentre il direttore della fotografia è Marco Incagnoli, già docente presso quella che fu la gloriosa Accademia dell’Immagine.

Com’è noto, nel racconto di Carrol, pieno di simboli e metafore identatarie, il Bianconiglio,  con il suo senso dell’urgenza,  è il richiamo che continuamente sollecita Alice alla ricerca di Se  e se il Brucaliffo rappresenta la domanda “Chi sei?” e lo Stregatto “Da dove vieni e dove vai?” e alla tavola del Cappellaio matto  siamo alla riflessione sull’impermanenza e sull’illusorietà delle certezze del pensiero,  radicato nella percezione del tempo, il Bianconiglio ci fa riflettere su cosa sia  il ‘ritardo’ e ci spiega, che in fondo, il tempo non ha senso, se, in ogni caso, non lo usiamo per progredire.

Il Bianconiglio, nella sua tana, scova risposte e segreti che non sono doni del cielo, ma recuperi della propria coscienza. Un po’ come l’isola di Lost (per chi lo ha seguito), dove il capo degli altri, descrive l”isola” come una sorta di scatola magica da cui può uscire qualsiasi cosa si desideri, qualsiasi cosa o persona o luogo si riesca ad immaginare.

Sicché, il Bianconiglio, in Carroll e nel film della Parenti, è una metafora del di ciò che si manifesta per indicarci una via, o per metterci in guardia,  o per farci guardare dentro e fuori, per scoprire, soprattutto,  ciò che distingue, ci unisce e ci caratterizza.

Nell’Eneide Virgilio configura Cartagine come uno spazio ideale, organizzato nel rispetto dei riti e delle pratiche necessarie ad ogni atto di fondazione: concepita attorno a un centro religioso, le mura ne circoscrivono i confini, i solchi ritagliano e suddividono il territorio al suo interno.

E ci racconta l’uso di portare via dal luogo di provenienza qualcosa che lo rappresenti nella sua sostanza ideale: una parte del focolare comune, una zolla di terra, le ossa degli antenati, i sacri Penati, che dislocati nella nuova città, avranno  il compito di ricordare i caratteri fondanti del gruppo e confermarlo nella sua specificità.

Ecco allora il da farsi in questi giorni di lutto dichiarato e personale: dislocare i propri Penati affianco a quelli degli altri, per ricordarci chi eravamo e di quale sostanza vogliamo comporre il nostro futuro. Quando ero ragazzo, a volte, mi capitava di cantare insieme agli amici una canzone del Gen Rosso che cominciava così : “E’ un nuovo giorno, una nuova speranza, posso ricominciare“.

Ora che non sono più un ragazzo ancora credo in quei versi ma so che, per ricominciare, devo sapere cosa e, soprattutto con chi.

La speranza di un mondo nuovo nasce dal dolore abbracciato e superato per amore, con condisione e solidarietà  Nel libro di Giona si trova  l’invocazione: “Padre, che tutti siano uno” e questo io spero che avvenga, fra le rovine non tramutate in macerie, fra le identità recuperate e messa assieme, in una Pasqua di laica resurrezione in cui, ancora con Rosso, potremo cantare:

“Vedremo le terre, leggeremo la storia,
ameremo la patria l’uno dell’altro.

Al di là delle lingue, al di là delle razze,
ameremo la fede l’uno dell’altro.

Vivremo speranze, porteremo dolori,
ameremo il cammino l’uno dell’altro.

Al di là del passato, di ferite lontane,
costruiremo il futuro l’uno dell’altro!”.

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