www.faronotizie.it - Anno XIX - n. 216 - Aprile

Trascurati da riscoprire, con curiosità

Scritto da Carlo Di Stanislao il 1 febbraio 2014
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Ogni anno che passa si lascia strascichi di smemoratezza e non fa eccezione quello appena trascorso, con smemoratezze in vari ambiti, dal cinema, alla letteratura.

Per quanto concerne i film trascurati, la mancanza maggiore riguarda Tom à la ferme del 24enne canadese Xavier Dolan, applaudito a Venezia e vincitore del  Fipresci , assegnato dalla critica internazionale come miglior film del concorso, che ha battuto Tsai Ming-liang  e lo stesso Rosi, vincitore del Leone d’oro  con il sorprende Sacro GRA, ma  poi rapidamente passato nel dimenticatoio, opera a metà fra un thriller di Hitchock ed una commedia,  tesissimo, esteticamente raffinato e curato in ogni dettaglio,  in grado di tenere incollati alla poltrona con una narrazione semplice e coinvolgente, che sembra nascere spontaneamente ed è invece frutto di uno straordinario acumee lavorio.

Si tratta del quarto lungometraggio di un sorprende autore classe 1989, vero  enfant prodige sia come attore che come regista, tratto dalla piéce teatrale di Michel Marc Bouchard, una disamina dei meccanismi della bugia e sul perché le persone scelgono di mentire, con una ben precisa idea di cinema,  individuandone con nettezza le coordinate stilistiche, il metodo, l’approccio: il primo piano sul fazzoletto di carta su cui il protagonista verga il suo senso di colpa preannuncia, alla sua maniera – enfatica, toccante -, le modalità di gestione del coté drammatico.

Il protagonista rimpiazza, nella fattoria in cui si reca in visita per parteciparne al funerale, quel figlio/fratello morto che è anche stato il suo compagno, anche se questo, la madre inconsolabile, rinchiusa nel suo microcosmo ostile a ogni infiltrazione del mondo esterno, non deve saperlo. La fattoria diventa allora una trappola anche psicologica nella quale il protagonista cade e in cui le vicende si svolgono secondo un verbo che affonda nell’horror (l’apparizione notturna di Francis, il fratello del morto, che irrompe senza preannunci in scena) e del thriller (la tensione che si accumula nelle minacce tacite e costanti di Francis, l’inseguimento nel campo di mais, le menzogne da gestire, il continuo gioco a rimpiattino tra i due giovani), impregnati degli umori terragni e malati di una tragedia familiare cupa sì, ma a tratti illuminata da raggelanti lampi ironici.

Come in tanto cinema odierno, si mette in scena (letteralmente e non) una famiglia che non esiste, un nucleo deviato che di quella mantiene la parvenza: ce la si prende allora con una compagna che non è andata al funerale (e che non c’è mai stata, salvo inventarsela – cosa che accadrà -) e si finge la descrizione indiretta della storia etero di quel figlio nascostamente gay, racconto che, dalla finzione, sconfina in un’intimità che è palesemente vera, inequivocabilmente “diversa”, ma che non scombussola una madre abbarbicata alle sue fittizie certezze, quelle alle quali non sa rinunciare neanche quando le parole di Tom raccontano spudoratamente altro, sotto mendaci spoglie. Di segno simile il rapporto tra Tom e Francis, conflitto in cui l’omofobia classicamente, risaputamente, banalmente (e non lo si legga in chiave negativa) è quella del cripto-gay e che sancisce la storia del film quale apologo sulla psicosi di due esseri che affrontano assieme un percorso di evoluzione (l’uno di scoperta di sé e delle proprie pulsioni sessuali e sentimentali – con disperata ammissione finale -, l’altro della tormentata elaborazione di una colpa non meglio definita). Nel parallelo percorso dei due si vedano allora le ragioni per le quali Tom si lascia risucchiare dalla ferme: ne diventa parte e meccanismo, si sottomette alla legge e al sadismo fraterno, si scopre complice dell’aguzzino, lo segue nelle sue scorribande alcoliche e allucinogene, lo difende persino, accetta di diventare il sostituto del compagno morto, di piegarsi a un ripristino artificiale dell’ordine sovvertito. Il protagonista non avverte il peso della violenza esercitata su di lui perché tutto il dolore che gli viene inferto in quella casa fa parte del suo processo di espiazione: è dovuto, accettato, cercato.

Un dolore cui si sottrarrà quando, scoperto il vero volto del suo amante morto, smetterà di espiare; quando, ascoltando le parole del barista del paese, il sanguinoso racconto della violenza di Francis, tornerà a vedere il giovane con lo sguardo della lucidità.

Olan costruisce la tensione attraverso espliciti rimandi a Hitchcock, facendo largo uso di notabili musiche hermanniane e, diversamente da un Ozon, non sublima e volatilizza i riferimenti, ma con la voracità tipica del giovane che è, li mastica velocemente e li ributta quasi intatti sullo schermo. E’ forse questo che mi entusiasma maggiormente del lavoro del canadese: il fatto di poter vedere all’opera un cineasta che gira con l’ingenuità, l’entusiasmo, la mancanza di rigore, la ruspanteria tipica della sua età. Non ho dubbi che col tempo Dolan troverà una misura, riuscirà a dosare magistralmente gli elementi che ha a disposizione, a girare un’opera equilibrata e perfetta, ma adesso e solo adesso il suo cinema si mostra sinceramente tellurico e irruente, naif come quello di nessun altro. Solo adesso sfodera il furore autentico di chi non si preoccupa delle sfumature e del calcolo delle atmosfere, solo ora riluce di tutto bianco e si ottenebra di tutto nero. Esagerato, sfrontato, spericolato, sempre sull’orlo del kitsch, Tom à ferme è davvero la cartina di tornasole del cinema di Dolan: vincolato nella sostanza, ma pazzamente libero nell’esibizione di uno stile proprio di chi non si pone il problema di eccedere, di essere anche grossolano (e allora lo schermo si restringe in scope per soffocare nell’immagine i personaggi), che non calcola ogni effetto: Dolan schiettamente si butta e fa quello che sente.

 E quando alla fine – Tom sta tornando alle luci e ai rumori della città – piazza sui titoli un veramente ovvio, telefonatissimo Rufus Wainwright, quello di Going to a Town – che più didascalico non si può (I’m going to a town that has already been burnt down/ I’m going to a place that has already been disgraced /I’m gonna see some folks who have already been let down/ I’m so tired of America) – mi verrebbe voglia di battergli il cinque.

Altri film da recuperare  sono: The Sessions di Ben Lewinn, film dolce, divertente e mai scontato che affronta il tema della malattia senza far mai provare compassione; Before Midnight Richard Linklater, terzo episodio di una delle saghe romatiche per eccellenza, che però dopo anni riesce a non cadere nel già visto o nel banale;  “Come un tuono” di Derek Gianfrance, una tragedia generazionale, ben strutturata nella sua circolarità, con un cast a dir poco perfetto; Looper di Rian Johnson, uno dei migliori film di sci-fiction visti negli ultimi anni, dove non mancano né azione né colpi di scena; “Pacific Rim” di Guglielmo Del Toro, il miglior “giocattolone” della stagione, che fa vivere  più di due ore di effetti speciali eccessivi e incredibili nella loro perfezione scenica, ma senza dimenticare la loro aderenza ad un classico racconto di fantascienz e che conferma il regista, con un’opera lontanissima dai suoi canoni tradizionali, uno dei più grandi talenti cinematografici del nostro tempo; “Zero Dark Thrty” di Kathryn Bigelow, che spaventa per la sua durezza  anche il maschio più temerario ed avvince,  nonostante la marcata confezione a stelle e strisce e “Il lato positivo” (per fortuna nei cinema al 1° gennaio), di David O. Russell, con Jennifer Lawrence, un dramma che sa anche fazrci ridere, per poi avviarsi verso la classica commedia sentimentale, ma di eccelente, straordinaria fattura.

David O Russell, uno dei più talentuosi registi indipendebnti americani di oggi, è stato uno degli ospiti più attesi ed applauditi della XIII edizione del Capri Hollywwod International Film Festival, di scena dal 26 dicembre e con chiusdura oggi, 2 gennaio, con ampia rassegna dedicata a Ingrid Bergman ed inaugurazione con il film 12 Years a Slave di Steve McQueen, pellicola favorita per l’Oscar 2014, con Michael Fassbender e Brad Pitt che ne è anche produttore, la cui trama  è tratta dall’autobiografia di Solomnon Northup, violinista newyorchese di colore, che nella seconda metà del 1800 venne rapito, venduto come schiavo e comprato da un cattivo e sadico proprietario di una piantagione in Louisiana.

Torniamo ai grandi dimenticati della’anno trascorso spontandoci dal cinema alla letteratura e parliamo di una “stremnna” mancata (per scarso battage pubblicitario):  “Il mio nome è Nesuno. Il ritorno”, di Massuimo Valerio Manfredi, mille volte migliore del precedenti: “il mio nome è Nessuno. Il giuramento”, dove Odysseo, dopo  dieci anni ininterrotti di guerra e di sangue, di amori feroci e di odio inestinguibile, per sconfiggere i Troiani, deve rimettersi in viaggio con i suoi uomini per fare ritorno a Itaca, dove lo attendono la moglie fedele e il figlio lasciato bambino. Ma il ritorno è una nuova avventura e lui, l’astuto, deve riprendere la lotta, la sua sfida agli uomini, alle forze oscure della natura, al capriccioso e imperscrutabile volere degli dei. Vano è disporre gli animi alla gioia del ritorno: l’eroe e i suoi compagni dovranno affrontare imprese spaventose, prove sovrumane, nemici insidiosissimi come il ciclope Polifemo, i mangiatori di loto e poi la maga incantatrice che trasforma gli uomini in porci, i mostri dello Stretto, le Sirene dal canto meraviglioso e assassino… Il multiforme Odysseo, il coraggioso Ulisse, l’astuto Nessuno dovrà raggiungere i confini del mondo e addirittura evocare i morti dagli inferi, sperimentando lo struggimento più immedicabile al cospetto di chi ormai vive nel mondo delle ombre, e ancora finire su un’isola misteriosa dove una dea lo accoglierà e lo terrà avvinto in un abbraccio dolcissimo e pericoloso per lunghi anni.

Poi, finalmente, con il cuore colmo di dolore per i compagni perduti lungo la rotta, ecco compiersi il ritorno. Il giorno dell’esultanza. Il giorno della vendetta.

Dopo aver cantato la nascita e la formazione dell’eroe e la guerra sotto le alte mura di Pergamo, Manfredi dà voce al viaggio più straordinario di tutti i tempi e lo fa con rinvigorito ritmo e ritrovata fantasia, con una narrazione meno sofisticatica del suo recente ed una  bellezza senza fine, costruendo uno di quei romanzi che si fa leggere, invitando il lettore ad imparare, conoscere, appassionarsi , indirizzarsi  sulla giusta via per la  sua Itaca del sapere.

L’Odissea con tutti i crismi., fedele ma non pignola, accurata ma non così nitida da evocare l’ora di greco al liceo, epica ma con un occhio puntato alla modernità sintattico/narrativa.

Un racconto fluente che ci porta in mezzo alla guerra di Troia, nel primo volume, e in mezzo alle tumultuose vicende di Odysseo e del suo ritorno a Itaca, nel secondo. In questo grande secondo capitolo, come nel primo, c’è tutto ciò che vogliamo sapere, tutto quello nella memoria di chiunque abbia sentito parlare dell’Odissea, i mangiatori di loto, Circe, Eolo, la discesa nell’Ade, l’isola di Calypso, le sirene ingannatrici, Scilla e Cariddi, le tempeste fragorose, l’isola felice di re Alcinoo e dei discendenti di Poseidone. Ma prima di tutto questo, prima degli attributi canonici di questo pezzo imprescindibile di epica greca, c’è il sentimento umano più reale, nostalgico e commovente, quello legato agli affetti, al proprio piccolo mondo disperso in un oceano di avversità che ci spaventano.

E se anche si è favolosi, invincibili regnanti, guerrieri impavidi rivestiti di bronzo, il cimiero al vento e la lancia tesa alla brezza dell’Egeo, si è sempre piccoli uomini al cospetto di un Fato inesorabile. La piccolezza del volere singolo traspare dalle pagine di questo romanzo come quelle del testo originale, ci appare con evidenza e tenta di spiegarci anche come la forza, la tenacia fisica e mentale riescano a vincere qualsiasi tipo di ostacolo. Poco importa che queste avversità siano create da Poseidone, il dio supremo dei mari, invidioso di un uomo dalle infinite qualità, che porta un nome, Odysseo, che ispira l’odio altrui. Importa l’insegnamento cruciale del “non arrendersi” in ogni più cruda circostanza atta a metterci alla prova.

E’ questo che un grande viaggio, forse il “grande viaggio” in assoluto, mira a trasmettere e Manfredi sa farlo senza  inutili anacronismi, con il grande fascino che solo le ombre di un passato ancora più leggendario possono avere.

Un trascorso mitologico che gli stessi protagonisti, successivi alla generazione dei grandi Argonauti, sentono gravare come una incedente eredità sulle proprie spalle, nel tentativo ultimo di emulare la nobiltà e il coraggio dei padri che costruirono il loro mondo a fianco degli dei.

E anche questa velata malinconia che racconta la fine degli eroi supremi e invincibili come Eracle e Achille, questa amarezza che vede finire nella cenere quelli che furono gli astri splendenti di imprese senza oblio, partecipa all’architettura pregevole che regge la rievocazione di Manfredi.

Tutto contribuisce a rendere questo volume e quello precedente dei romanzi godibili, in cui la terminologia garbata e “in stile” si mescola con grazia agli spezzoni tratti dai testi omerici, paletti storici che come occhi benevoli fanno spaziare lo sguardo sul nostro mondo e sul nostro modo di raccontare una vicenda che rimarrà nelle nostre memorie.

In fondo un romanzo per ricordarci di non trascurare mai la curiosità,  l’importanza di scoprire nuove cose, perché se un uomo non è curioso, non ha alcun interesse a scoprire, ricercare nuove cose e, in questo modo,  la vita andrebbe avanti monotona e senza un vero futuro che è principalmente novità ed un modo diverso di guardare alle cose.

Altrettanto bello e trascurato: Il silenzio del guerriero di Michelle Willingham, dove, caduto nelle mani dei nemici inglesi, dopo sette anni Callum MacKinloch riguadagna la libertà, eppure una parte di lui è rimasta prigioniera nel castello da cui è fuggito. Le indicibili torture che ha dovuto sopportare gli hanno sottratto la voce, e Lady Marguerite de Montpierre, fidanzata del suo crudele carceriere, gli ha rubato il cuore con la sua bellezza e la sua compassione. Un legame tra loro, però, è impossibile, perché la fanciulla, figlia di un duca francese, è già promessa a un conte e lui, Callum, è solo uno scozzese ribelle privo di mezzi e incapace perfino di parlare.

Una storia che insegna che la narrazione fa assumere valore alle cose, un chiaro esempio di come i fatti scanditi da semplici sguardi e carezze possono comunicare più di tante parole, con protagonista un uomo che ha perso l’uso della parola ma che arriva dritto al cuore con la sua dolcezza, con una forza ed un coraggio che nemmeno le indicibili sofferenze patite sono riuscite a scalfire e con un amwraviglioso personaggio femminile che, nonostante la sua posizione sociale privilegiata, conserva un cuore umile e generoso.