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Moliere in bicicletta

Scritto da Carlo Di Stanislao il 1 febbraio 2014
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Un milione di spettatori con critica entusiasta in patria e grande accoglienza al Torino Film Festival per “Moliere in bicicletta” (brutto, rispetto all’originale “Alceste à byciclette”),  diretto da Philippe Le Guay  che, dopo il successo di “Le donne del 6º piano”,  torna a girare un film decisamente originale nella sua volontà di rileggere uno dei testi fondanti del teatro francese: Il Misantropo di Moliere;  idea nata, dicono, da unalunga discussione a più riprese fra lui e il suo attore-feticcio Fabrice Luchini, che all’epoca stava corteggiando proprio per il film  precedente.

Comunque siano andate le cose,  questo film funziona e funziona anche bene, attraverso lo scontro nella vita e a teatro fra Filinte e Alceste, con il celebre attore Serge Tanneur, ritiratosi dalle scene, che conduce una vita solitaria sull’Île de Ré, godendo di lunghe passeggiate in bicicletta e con l’arrivo improvviso del collega Gauthier Valence, che gli suggerisce  di tornare a recitare ne Il Misantropo; sicché Serge si trova di fronte a una difficile decisione: da una parte non vorrebbe non vorrebbe, ma dall’altra sente che la solitudine lo ha reso molto simile al personaggio.

Vi è però un problema: Alceste è probabilmente il ruolo più importante di tutto il teatro francese e Tanner ne è convinto, ma invece Valance lo vorrebbe come Filinte, che “ha solo cinque scene”, sicché, alla fine, i due decidono che si alterneranno ogni volta e faranno così anche durante le prove della prima scena, che proveranno in modi diversi per molte, molte volte.

In equilibrio fra opera colta e di divulgazione, la commedia fila via divertente e col valore aggiunto di una interpretazione eccelente dei due protagonisti (Fabrice Luchini e Lambert Wilson) e di Maya Sansa, con uno spettacolo sul teatro che si fa cinem, a che graffia meno di “Venere in pelliccia” di Polanski, ma è comunque più alto della media grazie ad attori fantastici, regista in gamba, e dialoghi che ragionano su distanze: approccio moderno vs approccio classico, città vs isola e così via.

Emergono pian piano rancori, slanci, animosità e bassezze, materiale umano che si stacca dalla pagina e affonda impietoso nei vissuti, in un magnifico, amarissimo, duetto di finzione e verità, teatro e vita. La sceneggiatura (di Le Guay e Luchini) è musica, nobilitata da tre splenditi interpreti, in cui anche le canzonette (fra cui “il mondo” di Jimmy Fontana), illustrano i passaggi e gli stati d’animo, con  nubi che prima si addensano e poi si diradano, molti che ritrovano il sorriso , la fiducia, l’amore e con l’arte che davvero guarisce.

Al suo quarto film Le Guay, diplomato nel 1980 presso il mitico IDHEC,  l’Institut des hautes études cinématographiques, ha esordito come regista e scenegiatore nel 1989 con “Les deux Fragonard”, ottendo un grande successo nel 2003, con “il costo della vita”, un film che coniuga intelligenza e profondità con leggerezza e divertimento, presentato a Locarno e articolato su storie parallele, un po’ come ‘Magnolia’ ma in chiave infinitamente più lieve; sostenuto da un cast di campioni come Fabrice Luchini (anche qui), Vincent Lindon e Claude Rich,  accanto a giovani già affermati come Isild Le Besco, che  richiama fin dal titolo ‘Il gusto degli altri’. Agnès Jaoui,con  l’idea di annodare vite diverse intorno a un tema centrale e rivelatore come il denaro, che potrebbe sembrare astratta, ma che finisce per rendere vivi e toccanti ogni personaggio. Poi, due anni fa e sempre con Luchini, “Le donne del 6° piano”, una commedia di costume tipicamente francese, costruita con cura nei particolari e nei dialoghi, certamente non brillante come quelle di Oscar Wilde o come un film di Frank Capra, ma vivace e frizzante e molto gradeviole e che  ha il pregio di illustrare anche alcuni aspetti ormai poco noti della storia Europea di pochi anni fa. L’ultima messa in scena, in teatro, del “Misantropo” è stata curata da InteatroFestival Academy di Villa Nappi, nel Parco del Conero, con la regia di Antonio Mingarelli e l’intrpretazione di Lino Musella, Federica Sandrini e Walter Cerrotta, ricollocata in uno spazio di autorappresentazione continua, di perenne movimento, svago, vizio, in una sala da ballo dal vago sapore anni ’30, concepita come la più nera delle commedia: una riflessione amara sul vivere e sul rapporto gli altri, con la società, il mondo, la donna amata, con una apparato scenico che gira attorno ad una sensualisima donna in intimo nero e con espedienti scenografici che permettono a tutti i personaggi di essere in perenne rapporto col proprio doppio, con la propria rappresentazione. In fondo una scelta analoga, ma resa più divertente, che si fa nel film, con i tre protagonisti che riassumono tutte le debolezze e le grandezze dell’essere umano, comico perchè patetico ma anche eroico e tragico perchè patetico, cos’ come nei grandi personaggi letterari:  Amleto, Don Chisciotte e pochi altri archetipi, che continuano a distanza di secoli, a parlare di noi, del fuoco divorante che ci attanaglia quando con un solo gesto vogliamo abbracciare la parte inaccettabile, oscura che ci abita,  con quella pura, sincera, innocente e leggera, troppo spesso schiacciata dalla prima.