FARONOTIZIE.IT  - Anno III - n° 25, Maggio 2008

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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi

ADDIO LUGANO BELLA…

Editoriale del Direttore  Giorgio Rinaldi

Urne finalmente chiuse.

C’è chi esulta.

C’è chi piange.

Come al solito, del resto.

Questa volta qualcuno piange di più.

Le dirigenze politiche del Mezzogiorno d’Italia, che in questi anni hanno accelerato il processo di impoverimento di interi territori e popolazioni, questa volta hanno fatto il gioco di chi ha cavalcato la tigre di quel malcontento che, a giusta ragione, si annida in quanti assistono –impotenti- agli sperperi inauditi di ricchezze nazionali ed al dilagare della criminalità organizzata, che da decenni tiene addirittura in ostaggio intere regioni.

L’Italia ora si avvia ad essere affettata come una soppressata.

Il Sud d’Italia resterà abbandonato a sé stesso, e dalla povertà passerà di sicuro alla miseria, con lo spettro di una balcanizzazione della società nazionale, con tutto quello che ne può derivare.

L’elettorato, stanco di assistere ad una colpevole cecità di una classe dirigente che si è rivelata incapace di governare quei processi più elementari dell’economia, che avrebbero dovuto assicurare il benessere dei cittadini, ha premiato chi ha promesso isole che esistono solo nella fantasia di chi le invoca.

Ma, poiché la speranza è l’ultima a morire, proviamo ad inventarci un test per capire se possiamo sperare in un rapido passaggio della “nuttata”.

Assegniamo un punteggio da 1 a 10 ai nostri scienziati della politica ad ogni risposta per capirne l’attitudine al governo:

  1. Quanta intelligenza occorre per capire che la rete viaria del Nord Est è al collasso e che l’economia, non solo locale,  rischia di avere seri contraccolpi (lo sapete quanto tempo occorre per superare il breve tratto autostradale tra Mestre e Venezia) ?
  2. Quanta intelligenza occorre per capire che la gente non è più sicura neanche nelle proprie case per la straripante delinquenza e lo Stato è totalmente incapace di darsi un minimo di leggi per far scontare la pena anche ai criminali più feroci?
  3. Quanta intelligenza occorre per capire che la gente è stanca di vedere processi celebrati dopo anni ed anni per non arrivare ad alcun risultato, sia nel campo civile, sia nel campo penale?
  4. Quanta intelligenza occorre per capire che in un qualsiasi altro paese civile avrebbero fatto intervenire anche i sommozzatori e le dame di carità pur di eliminare lo scempio della spazzatura (almeno quella visibile!) nel napoletano e casertano in tempi rapidi?
  5. Quanta intelligenza occorre per capire che neanche nel Kossovo esistono più interi territori in mano alla criminalità, e che la lotta a quella organizzata nelle regioni meridionali (mafia, ndrangheta, camorra) è una priorità nazionale assoluta ed improcrastinabile?
  6. Quanta intelligenza ci vuole per capire che le famiglie italiane sono tartassate mensilmente da bollette di luce, gas, telefono, acqua, spazzatura e altre delizie simili, i cui importi per grande misura sono dovuti per tasse ?
  7. Quanta intelligenza  ci vuole per capire che non è più possibile che quello stesso Stato che non riesce a trovare soluzioni per un aumento del tenore di vita dei propri cittadini, contemporaneamente fa di tutto per impoverirle ulteriormente ?
  8. Quanta intelligenza ci vuole per capire che una famiglia con un reddito modesto non può pagare 800 euro al mese per l’affitto dell’abitazione?
  9. Quanta intelligenza ci vuole per capire che il cittadino non può più essere costantemente la vittima sacrificale di banche, finanziarie, compagnie di assicurazioni e telefoniche senza che nessuno, imponendo comportamenti codificati (per esempio contratti-tipo), ci metta le mani?

Fermiamoci qui.

Al mio personale test ogni risposta ha dato un punteggio uguale a zero.

Non so a voi.

Nessun dubbio che i grandi processi economici esulano da questioni terra-terra, e che è certamente molto importante l’accordo Basilea 2 e quello di Kyoto perché da questi, per fare solo un esempio, dipendono non pochi destini di ciascuno di noi.

Ma, non si può solo discutere (spesso male) delle grandi questioni e dimenticare la quotidianità che ciascuno  ogni giorno affronta, inesorabilmente, a volte solo per evitare che possa combaciare il pranzo con la cena.

Poi, i politici, politologi, esperti a vario titolo, si meravigliano che gli operai di Sesto San Giovanni abbiano votato per la Lega e che in Sicilia abbiano ripreso vigore le trombe del separatismo?

Il grande Totò a questo punto avrebbe detto, di sicuro, “…ma mi faccia il piacere!”.

Accanto all’Italia moderata, per certi versi xenofoba, spasmodicamente attratta dai venditori di sogni,  tanti altri cittadini hanno celebrato il requiem alle “lenzuolate” ai tassisti che, per la difesa dei loro interessi corporativi, hanno polarizzato l’attenzione politica per intere settimane e bloccato diverse città.

Altri, stanchi di discorsi alla trasmissione TV Porta a Porta, diventata una succursale del Parlamento,  sulla “Corazzata Potenkim”, che dai tempi di Stalin tutti si guardavano dal fare, tranne qualche autocompiaciuto leader della raffazzonata Sinistra Arcobaleno, hanno dato l’addio al “rematore-contro”  Bertinotti (che si è anche meravigliato perché Veltroni non l’ha voluto in coalizione) e ai fratelli Pecoraro Scanio, il cui sole oggi non ride più.

Certo è che i dirigenti della sinistra radicale, dei socialisti e di altre frange laiche e libertarie dovranno riflettere molto ed approfonditamente, ed interrogarsi sul perché sono stati incapaci di porsi alla testa di quel popolo che in larga parte è passato con altre formazioni politiche.

Occorrerà tanta pulizia e, soprattutto, quei dirigenti  faranno bene a ricordarsi che al popolo di sinistra, se non si è proprio un Berlinguer, le “prime donne”  sono sempre state invise.

Un nuovo Parlamento con pochissimi gruppi è da salutare positivamente.

Ciò dovrebbe semplificare, di molto, tutta l’attività.

C’è chi è stato scacciato da quelle ambite stanze senza colpa alcuna, chi per colpa gravissima.

Ora, aspettiamo tutti che prima che in Parlamento si discuta, per esempio, di mozzarelle, i nostri eletti sappiano –almeno- che si fanno con il latte e non nascono sugli alberi.

uanta intelligenza occorrr

CAMBOGIA, CHE RIMANE DI POL POT?

di Federica Rosanna Russo

Bella. Elegante. Colorata. Misteriosa. Cosí immagginavo la Cambogia quando si é inserita nelle pieghe del mio destino. 

Al mio arrivo a Phnom Penh, tra motorini, grosse macchine e risció andavo alla ricerca delle tracce di tutto quello che avevo letto. Del regime di Pol Pot, dello svuotamento delle città, delle violenze, del silenzio, della distruzione di ogni simbolo del passato, del valore del tempo e della cultura. Cercavo di immaginare anche tutto quello che non avevo letto, che esisteva ma che nessuno raccontava. Storie, pene, gioie... Volevo lanciare lo sguardo dietro a quel paesaggio da cartolina che si presentava a miei occhi, per scoprire l’anima nascosta di questo Paese.

Quando ho incontrato Lida, una giovane donna khmer, passeggiava con sua figlia. Una bambina di quasi cinque anni, occhi neri tanto grandi da perdercisi dentro, un sorriso timido. Mi stupisco ancora oggi della naturalezza con la quale Lida ha iniziato a raccontarmi la sua storia. Lo ha fatto tutto d’un fiato, come quando ci si vuole liberare da un peso troppo grande da portare. Aveva l’età di sua figlia quando “Brother number 1”, così viene chiamato Pol Pot, prese il potere. Viveva in un villaggio vicino a Siem Reap con i suoi genitori e cinque fratelli e sorelle. Con una sorprendente calma mi racconta di come suo padre sia stato ucciso. Fucilato dai khmers rossi, colpevole di saper leggere. Anni dopo, la sua famiglia é riuscita a recuperarne le spoglie solo perché conosceva il luogo dell’esecuzione e perché quell’uomo era particolarmente alto, tanto da distinguerlo dagli altri cadaveri ammucchiati nella fossa comune.

La stessa sorte attendeva la madre, deportata, che racconta di aver visto l’ombra del Buddha ai suoi piedi, poco prima che il soldato la colpisse a morte. Ha pregato e supplicato quella polverosa sagoma sacra di salvarle la vita. E il momento dell’esecuzione venuto, il boia non é riuscito ad usare la sua arma. É stata l’unica sopravvissuta quel giorno. Da allora, per quattro anni, ha vissuto facendo la cuoca in un piccolo borgo. Un giorno, all’alba del 1979, é partita a piedi alla volta del suo villaggio di origine. Sotto i vestiti aveva nascosto dei pesciolini cucinati in gran segreto. Erano per i suoi figli. Al suo arrivo al villaggio, di quei figli ne ha trovato solo uno, la più piccola, Lida. Degli altri non vi erano notizie. Nei mesi seguenti, sono tornati tutti. Quasi per miracolo. Uno ad uno. Tutti.

Alla fine del racconto Lida ha gli occhi velati dalle lacrime e graffiati da un’ombra di paura. Mentre accarezza le ferite del tempo, decide di coccolare la vanità di sua figlia, le compra un orologio. Quellorologio che lei per anni non ha avuto il diritto di avere. Un orologio per non dimenticare. E per tracciare, secondo dopo secondo, un solco profondo tra il terrore di ieri ed i desideri di oggi. Voglia di TV satellitare, di cene con gli amici, di shopping al centro commerciale, di belle macchine. In una parola, voglia di una vita “normale”. Perché, se sono trascorsi quasi trent’anni dalla caduta di Pol Pot, l’urlo di dolore di questo paese é ancora lacerante. Dietro alla sua maschera, la Cambogia cela drammi, paure, ricordi di una persecuzione folle, piombata all’improvviso, che ha quasi

disintegrato l’intero Paese, come a volerlo cancellare con un colpo di spugna dalla lavagna del mondo.

RITORNO A RENNES LE CHÂTEAU

di Francesco Aronne

Risalendo dalla Catalogna la strada più breve per raggiungere Rennes-le-Château (RLC) prevede il passaggio dei Pirenei, la segnaletica indica da un lato Andorra e dall’altro il tunnel del Cadì, la strada si inerpica sino a Puigcerdà. La route N116 ci porta a Mont-Luis e da qui ci avventuriamo sulla D118 con la quale raggiungere Axat su suolo francese. Il valore sull’altimetro continua a salire ed i segnali di uso di catene o pneumatici da neve sono sempre più frequenti. Passiamo il Col de la Quilliane, siamo oltre quota 1.700 mt. Pur se in primavera, sui monti nevica. Proseguiamo oltrepassando il lago di Matemale, siamo ai piedi del Pic Bastard (!) che sfiora i 2.100 mt, verso La Matte. Di colpo la strada sia pur pianeggiante è tutta bianca, dai lati arriva, spinto da un vento orizzontale, un nevischio che rende difficile la visibilità. C’è uno slargo, bisogna decidere in fretta, non conosciamo il profilo altimetrico del percorso e, temendo altre alture, optiamo per il montaggio delle catene. Sulle cime circostanti continua a nevicare da un cielo sempre più cupo. Dopo qualche chilometro arriviamo a Formiguères, incrociamo uno spazzaneve, e già nel villaggio la strada è di nuovo sgombera da neve. Gli indigeni sono intenti a spalare per liberare gli ingressi delle abitazioni dalla neve abbondante. Scene familiari. Tolte le catene proseguiamo verso Axat direzione Limoux. La strada scende sempre più e finalmente la neve scompare dai bordi stradali, piove; la strada è stretta, bagnata e piena di curve. Non incrociamo altri veicoli. Siamo nella valle dell’Aude. Costruzioni abbandonate, nella scarsa luce che filtra a quest’ora  tra gli alberi della stretta valle (Gorges de l’Aude) ci appaiono come tristi e mesti catafalchi dall’aria sinistra. Ci ricordano, ogni tanto, che un tempo questo valico era una importante via di comunicazione tra Francia e Spagna, e le luci provenienti da questi edifici dovevano rincuorare gli attardati viandanti nelle notti di tempesta. La strada scivola come una biscia del fiume Aude che ora è passato alla nostra sinistra. Transitiamo in una stretta gola dalle inquietanti pareti verticali (Gorges de Saint Georges), con la carreggiata letteralmente scavata nella roccia. Usciamo con sollievo in una valle aperta, un segnale indica la stradina che conduce al villaggio di Le Clat. Grappoli di pensieri alla vista di questa indicazione mi riconducono alle vicende che hanno reso famosi e sinistri questi luoghi. E’ ormai sera, pioviggina, e dopo una tappa risultata impegnativa oltre ogni previsione, decidiamo di fermarci a Quillian. La cittadina ci appare semideserta e sotto la pioggia, un pò tetra. RLC è ormai vicina, e le suggestioni occupano i miei pensieri. In albergo, in attesa della cena, sfoglio il mio “dossier personale” dove ho raccolto una sintesi di cartine e articoli sul luogo nelle cui vicende mi imbattei nel 1990. Rifaccio quel percorso a ritroso spolverandone i comunque vivi ricordi come post-it di quelle carte, nell’atmosfera particolare dei luoghi originari!

Sentii parlare per la prima volta di RLC da un amico d’oltralpe che mi regalò “Glaube kann Berge versetzen” libro pubblicato a Lucerna nel 1987 in cui si parlava di quel mistero. Stavo per fare un viaggio in Francia e questo amico mi chiese di reperire alcuni testi di Gerard de Sède non tradotti in italiano. Nonostante la infruttuosa ricerca, mi appassionai comunque alla vicenda e acquistai, fresco di stampa, “Il Santo Graal” di Michael Baigent, Richard Leigh ed Henry Lincoln (autore di 2 documentari della BBC del 1972 e 1979 che accesero i riflettori sulle note vicende), pubblicato nella collana Oscar Arcana da Mondadori. Era il 1991. Di questo testo si è ritornato a parlare di recente per il contenzioso legale con Dan Brown (che ne ha clonato la sostanza nel suo Codice Da Vinci) ma anche prima: Umberto Eco, se non ricordo male, lo stronca senza alcuna remissione nel suo Pendolo di Focault. Le vicende lette mi incuriosirono e decisi di fare una visita ai declamati luoghi. Con un paziente ed assecondante amico partimmo nell’agosto 1992 alla volta della Rue Catare nel cui crogiuolo si era animata la vicenda di RLC.

La vicenda dei Catari è dai contorni complessi e tragici ed assunse caratteri di un vero e proprio genocidio. Il catarismo pur se movimento cristiano si distinse dal cattolicesimo. Questo movimento era radicato in Linguadoca in appetibili e fiorenti terre, in pacifica convivenza con i cattolici. San Bernardo disse di loro: “Nessun sermone è più cristiano dei loro e la loro morale è pura.”  Papa Innocenzo III, nel 1208, con un evidente pretesto bandì una sanguinosa crociata contro l’eresia, denominata contro gli Albigesi, dalla città di Albi e la prima in terre cristiane. Numerose furono le stragi e le persecuzioni avvenute nel sud della Francia, come la strage di Béziers dove furono massacrate migliaia di persone, cattolici e catari, uomini e donne, bambini e anziani. Secondo il cronista cistercense Cesario di Heisterbach, quando al legato pontificio (Arnauld Amaury, abate di Cîteaux), si chiese come distinguere chi delle persone rifugiate in una chiesa dovesse essere riconosciuto eretico e quindi ucciso, ordinò di uccidere tutti indiscriminatamente, dicendo: Caedite eos! Novit enim Dominus qui sunt eius ovvero "Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi". Ad una ad una caddero le fortezze degli eretici Puivert, Puilaurens, Queribus, Peyrepertuse e Lastours. Il culmine fu nel 1244 con la caduta dell’ultima mitica fortezza catara: Montsegur. Gli occupanti dopo la resa, rifiutarono di abiurare la loro fede e in circa 200 il 16 marzo di quel funesto anno furono arsi vivi nella spianata sottostante l’impervio maniero. Oggi una stele ne ricorda l’orrendo ed enorme rogo. Chissà se e quanti di loro si chiesero dove fosse Cristo in quei tragici frangenti, alcuni lo videro avvampare con loro tra le spaventose fiamme; forse a nessuno dei loro carnefici interessava ciò… Questa la storia. In quelle antiche mura, vuole la legenda che avvenne qualcosa, nei tremendi e finali frangenti, il cui mistero aleggia fino ai giorni nostri. Un cerimoniale, un inquietante segreto in grado di minacciare il potere della Chiesa di Roma, il Graal, un tesoro, messo comunque in salvo prima della capitolazione finale…chissà. Di congetture e fantasie questa intera vicenda è ben intrisa, ma proprio le congetture e le fantasie sono lo strumento usato dalla realtà per occultarsi meglio… Certo è che visitando Montsegur la suggestione è forte, immaginare da quella rocca ed in quelle mura quanto accadde tocca le corde nel profondo. Di fronte alla stele che ricorda l’eccidio, un altro, uno dei tanti, né il primo, né l’ultimo fatto in nome di un Dio che è lo stesso che scrisse sulle tavole delle legge date a Mosè qualcosa di molto diverso, il pensiero va agli orrori perpetrati da pastori di una Chiesa avvinghiata alla materia con gli artigli della cupidigia e con le menti ottenebrate dal potere del male. 

Arrivammo la prima volta a RLC il 10 Agosto 1992, ci ritorniamo, con lo stesso amico, circa 16 anni dopo… quanta acqua l’Aude ha portato a valle da allora. 16 anni son tanti ed in 16 anni ne ha fatto di strada questa storia… Salendo per la stretta e tortuosa strada  D52 che da Couiza porta a RLC, inevitabile il pensiero ai tanti che hanno percorso questi 3,5 km con ansia e aspettative di varia natura. Primo tra tutti il curato Francois Bérenger Saunière (1852-1917), parroco di RLC dal 1885 al 1909. Chissà come gli apparve questo villaggio la prima volte che vi venne da ministro di fede.

La storia racconta che durante i lavori di ristrutturazione della parrocchia, eseguiti tra il 1887 e il 1897, l'abbé Saunière trovò all'interno del vecchio altare un contenitore con quattro pergamene. C’è chi dice che trovò anche un sepolcro in un sotterraneo (pare sia scritto anche in un suo diario) ed un vaso contenente monete d’oro.

L’energico curato e la sua giovane ed accontentante perpetua che gli rimase fedele sino alla morte, Marie Dènarnaud, di notte agivano nell’annesso cimitero spostando lapidi e modificandone le iscrizioni tombali, non senza la preoccupazione dei cittadini (si conservano ancora due lettere del sindaco al prefetto).

Da qui cominciò comunque un periodo di notevoli ed inspiegabili disponibilità di mezzi economici che trasformarono parte dell’antica e strategica roccaforte romana e visigota. Fu ristrutturata la chiesa dedicata a Maria Maddalena, in modo alquanto originale ed insolito, a partire dalla scritta “Terribilis est locus iste” che campeggia tuttora all’ingresso anche se segnata dal tempo. Varcata la misteriosa soglia della chiesa, sulla sinistra l’acquasantiera poggia su un sottomesso e spaventoso demone (per i più trattasi di Asmodeo custode dei tesori nascosti). Le stazioni della via crucis, ognuno con un particolare bizzarro: quella più studiata e la deposizione di Cristo nel sepolcro dove a differenza di quanto riportato nei vangeli si vede una luna notturna: il corpo di Cristo trafugato nottetempo e non risorto? Anche le statue all’interno sono enigmatiche con due gessi di Sant’Antonio (l’eremita e di Padova) le cui iniziali con alcune altre formerebbero la parola GRAAL… e tante altre misteriose anomalie ancora. Oltre alla chiesa l’insediamento è costituito dall’annesso presbiterio oggi sede del museo, Villa Bethania da un lato, la statua della Madonna di Lourdes posta sul pilier visigoto su cui era poggiato l’altare ed al cui interno pare siano state trovate le pergamene; dall’altro lato il Calvario ed il giardino con la grotta della Madonna, una cisterna vicino all’ingresso del cimitero (ormai chiuso ai non residenti). Più in la, oltre il parco, la serra e la torre Magdala adibita da Saunière a biblioteca.

Il nocciolo del mistero ruota intorno ad un fantomatico Priorato di Sion, una sorta di loggia massonica P2 con origini antichissime; si tratterebbe del braccio occulto dei cavalieri templari con progetti di un’attuale quanto improbabile restaurazione monarchica in Francia dei discendenti della dinastia merovingia.  Inconfessabili segreti che individuano nel Sang Real (Graal?) di Cristo l’origine di questa dinastia, Cristo non morto sulla croce che con la Maddalena ha generato questa stirpe di sovrani dalla folta chioma.

Certo è che questa zona, da tempo è bersaglio delle correnti del pensiero esoterico europeo e non solo, che in modo trasversale e longitudinale alla storia si incrociano ed intersecano da tempo immemore in queste contrade.

Un antico e criptico quadro di Nicolas Poussin custodito al Louvre “I pastori d’Arcadia” dipinto intorno al 1640 rappresenta tre figure maschili (pastori) ed una femminile (?) ed una tomba su cui è scritto “Et in Arcadia ego” (lo stesso tema è stato curiosamente trattato dal Guercino). Una copia speculare di questo quadro è stata riprodotta nel XVIII sec. in un bassorilievo marmoreo a Shugborough Hall, nello Staffordshire. Alla base di questo monumento vi è una indecifrata iscrizione D.O.U.O.S.V.A.V.V.M.  il cui segreto, probabilmente, è stato portato nella tomba da Lord Anson, ammiraglio che lo commissionò. Tra gli anni ‘70 e ‘80 si scopre che il paesaggio del quadro non è immaginario ma reale (sullo sfondo vi è RLC) ed il sito è tra Coustassa (teatro di una altro misterioso crimine di un prete amico di Saunière, l’abate Gelis, trovato nella canonica con il cranio fracassato) ed il castello di Arques.

Nel primo viaggio facemmo fatica a trovare il posto dove si ergeva la vecchia e solitaria tomba del quadro. Era stata distrutta dal proprietario del terreno disturbato dalle numerose intrusioni e solo l’indicazione di un signore abitante poco distante ce ne consentì l’individuazione. Allora vi erano ancora i resti del sepolcro visibili, oggi la vegetazione ha praticamente coperto tutto e delle macerie del sarcofago, a parte qualche rara e vecchia foto, non resta traccia. Rimane l’attempato cartello monitore che ricordava il divieto di accesso in una proprietà privata. Questo quadro dovrebbe contenere una chiave o indizi utili a dipanare l’intricata matassa e l’oscuro segreto che in essa si cela.

La zona è stata oggetto di indagini e ricerche di moltitudini, tra queste vogliamo ricordare (anche per le implicazioni che comporta)  l’interesse di uno storico medievale tedesco: Otto Rahn. Nacque nel 1904 e morì in circostanze misteriose (scomparve nelle Alpi svizzere) a soli 35 anni nel 1939. Il suo primo libro, “Crociata contro il Graal”, non passò inosservato ad Heinrich Himmler, assillato dall'occulto e dalla ricerca del Graal nonché aberrante mente delle famigerate SS. Persecuzioni razziali e violenze diffuse ed indistinte lasciavano presagire l’avvento del secondo famigerato conflitto mondiale.

Nel castello del  Wewelburg, in Westfalia, nella Germania settentrionale, in quel periodo, prendeva forma una realtà separata e parallela, fatta di riti magici, meditazioni, ricerche scientifiche e filosofiche.

Un ordine cavalleresco religioso: l'Ordine Nero delle SS nacque tra le sue mura e qui aveva sede anche una particolarissima Accademia di studi scientifici denominata "Ahnenerbe". Il braccio scientifico-archeologico di uno dei più sanguinari e crudeli corpi militari che la storia ricordi.  Ahnenerbe  era nata con lo scopo di trovare le prove scientifiche, storiche e archeologiche dell'origine ariana dei tedeschi. Otto Rahn, nel 1936 entrò a far parte delle SS col grado di Untersharführer. I nazisti, se pur pagani, erano convinti che Cristo fosse un ariano puro ed erano ossessionati dalla ricerca di reliquie cristiane che attraverso il contatto col suo corpo (es. la lancia di Longino) avessero acquisito poteri straordinari in grado di trasmetterli ai loro possessori.

Questo oscuro personaggio che occupò un importante ruolo nella storia del nazismo esoterico individuava il baricentro dei suoi studi sui Catari ed incentrò le sue ricerche del Graal su quella parte dei Pirenei, tra grotte e caverne e nei resti della fortezza di Montsegur, ma anche nei dintorni di RLC. Altri suoi camerati  scienziati intanto vagavano nel Tibet alla ricerca dell'entrata del regno sotterraneo atlantideo di Agarthi dove, secondo Madame Blavatsky si erano ritirati gli ultimi membri della razza ariana o dove si immaginava, ad ordire le sue trame, il Re del Mondo.

Anche qui le congetture sul triste destino di Otto Rahn sono fervide e fiorenti: aveva trovato ciò che cercava, non lo aveva trovato, fu ucciso dai suoi stessi camerati poiché lo aveva trovato… fu costretto al suicido poiché estraniatosi dagli orrori del nazismo perpetrati anche nei lager… fantasie, congetture, ipotesi…

Come una trottola destini diversi di tante vite ruotano e si avviluppano intorno allo sperduto borgo di RLC, fantasmi di moltitudini lo avvolgono nella nebbia di un fitto mistero e di trame ordite da oscuri intrecci.

La chiesa di RLC mantiene ancora, ad un secolo di distanza, immutato, il suo fascino. Nella grotta vicino al Calvario dietro una grata una statuetta di una madonna con il viso sfigurato da una fiamma. Traccia inequivocabile del passaggio di triviali imbecilli, venuti sin qui chissà da dove, con chissà quali intenti, che non perdono occasione di mostrare al mondo la pasta di cui è fatta la loro rozza cervice.

Nella visita al museo a cui si accede dal presbiterio osservo le statue di Berenger Saunière e della sua perpetua nella ricostruzione di un ambiente familiare. Sono recenti. Al piano superiore trovo la ricostruzione della pietra tombale della Marchesa d’Hautpoul Marie de Négri d’Ables con le bizzarrie di alcune lettere spostate ed errori grossolani certamente voluti, la Dalle des Chevaliers una lastra che raffigura due cavalieri su un solo cavallo (simbolo dei templari) trovata durante il restauro della chiesa. Giro tra i frammenti di questo passato assorto nei miei pensieri. Vedo una porta che da sul parco. E’ aperta, esco nel giardino e mi trovo davanti all’altro accesso di villa Bethania.  Entro nella veranda che protegge questo passaggio e vedo il piccolo altare in cui Saunière continuò a celebrare messa durante il periodo di sospensione vaticana. Sono dentro la villa, una stanza non accessibile contiene oggetti appartenuti al curato tra i quali alcuni paramenti sacri. L’accesso al piano superiore è interdetto. Vedo sul portone d’ingresso sulla strada due vetrate con un Sacro Cuore quasi uguali tranne il disegno che cinge i due cuori. Cerco di immaginare quante persone hanno varcato questa soglia, ospiti del curato e dei suoi rinomati banchetti, dei discorsi che hanno udito queste mura.  Esco nel giardino e mi dirigo verso la torre Magdala. Mi accolgono vuoti scaffali, una volta ornati di libri rari, volumi e trattati che sono ora chissà dove. Salgo attraverso la stretta scala sulla torre. La giornata è molto umida, un freddo vento mi avvolge. Guardo l’intorno, da qui si gode di un panorama straordinario. Immagino Saunière avvolto nei suoi pensieri intento a guardare da questo insolito osservatorio un punto ben preciso le cui coordinate ha portato con se nella tomba. Un nascondiglio finora invano cercato da tanti che ha alimentato ipotesi, credenze e leggende. Il vento porta con se presenze e voci di altri mondi. Sono sul terrazzo e guardo i merli del torrino della scala. Vedo attraverso l’apertura di accesso al terrazzo della torre la stretta finestra ogivale. Sono convinto che in questo posto dove nulla è casuale sia come il mirino di un’arma puntata verso il mistero.

Resto non so quanto tempo a guardare il panorama e le fugaci e bianche nebbie che lo accarezzano. Quando esco sono frastornato da insoliti pensieri. Scendo e noto una mattonella (l’unica) con una decorazione anomala: un settore di un cerchio rosso (in tutte le altre è nero) indica forse la scala di accesso al terrazzo della torre. Ma qui nulla è casuale, nemmeno il casuale. Anche questo l’ago di una bussola che aiuta a districarsi nel labirinto? Faccio una foto e vado verso la serra. Incrocio due signore inglesi visibilmente emozionate. Continuo a guardare il paesaggio, chissà come era allora.

Ho perso il contatto con l’amico che mi accompagna e solo ora mi rendo conto che da quasi un’ora sono solo in questo frammento di universo.

Nella serra ormai vuota guardo l’orologio, si avvicina l’ora di chiusura del museo. Nel corso della precedente venuta non era stato possibile visitare villa Bethania (allora privata), la torre Magdala e la serra. Soddisfatto oltre ogni aspettativa vado verso la porta che mi riporta nel presbiterio e quindi verso l’uscita. Ho una sensazione che mi impedisce di lasciare il giardino, è come se qualcosa mi trattiene… Mi giro intorno, non capisco…  Ce un cespuglio, lo aggiro e con somma sorpresa trovo una visione inattesa ed ignorata. Una recente costruzione con un sarcofago marmoreo dentro cui riposano le spoglie mortali di Francois Berenger Saunière. Ricordavo la precedente modesta tomba ancora nel piccolo cimitero vicino a quella della fedele Marie Dénarnaud. Il cimitero, dopo atti vandalici dei cercatori di reliquie che ne hanno asportato alcune parti è stato chiuso ai non residenti a RLC. Avevo letto che i familiari avevano autorizzato il trasferimento della salma, ma pensavo per portarla in una cappella privata di qualche anonimo cimitero, lontano dalla curiosità delle moltitudini.

Resto silenzioso ed immobile davanti a questa sorta di sacello, anche questo “della fatal quiete imago” e sento il respiro dell’eterno infinito che alita sulle fragili miserie umane, sulla nostra vacuità.

Penso alle notti che Saunière trascorse con la perpetua al lume di una lampada nell’adiacente cimitero, appena oltre il muro, assorto in frenetiche e misteriose ricerche a cambiare iscrizioni tombali e profanare sepolcri.

Penso al riposo delle sue spoglie, dopo la morte, dopo la sua turbinosa ed inquieta esistenza, in questo piccolo cimitero di campagna, finalmente raggiunto dalla sua fedele Marie, tra i suoi parrocchiani, lontano da ogni facezia di questo mondo.

Penso al destino beffardo che per rendergli onore lo ha sradicato dal suo camposanto, allontanandolo dalla devota Marie, dai suoi parrocchiani, dai fantasmi del suo passato cui aveva turbato l’eterno riposo, relegandolo in un angolo di fatua gloria e sconsacrata solitudine.

Possa tu riposare in pace Abbé Saunière!

L’automobile procede lentamente per i tornanti della discesa che porta a Couiza. Sovrastati dalla torre Magdala e dal regno dell’Abbé lasciamo RLC e i suoi misteri alle nostre spalle, immersi nei nostri pensieri. Dopo questa frastornante tappa dai forti simbolismi nei cui labirinti si perde la ragione, andiamo ad Antugnac. E stavolta non per cercare il Cristo dalle mani tagliate, ma solo per comprare della prelibata Blanchette cremant e ancestral da un produttore biologico, da bere in Italia, con gli amici, magari parlando di questo viaggio. Partiamo quindi alla volta di Arles.

OLIMPIADI DI PECHINO: LE CINQUE BAMBOLE DELLA FORTUNA

di Paola Cerana

E’ difficile in questi giorni parlare di Olimpiadi con serenità ed entusiasmo, come l’argomento invece meriterebbe. Sarebbe interessante farlo, mettendo per un attimo da parte polemiche e discussioni che stanno inquinando l’evento, partendo proprio dal biglietto da visita dei Giochi: il motto e la mascotte, i due simboli che ne interpretano lo spirito.

One world one dream”, suona così lo slogan di quest’anno e lo si vede sbandierato ovunque, a partire dalle strade e dalle piazze di una fiera Beijing, che per l’occasione sta compiendo un miracoloso restyling del suo look. Il motto è espressione della saggezza di centinaia di migliaia di persone", così ha detto Liu Qi, presidente del Comitato Organizzatore di Pechino per i Giochi della XXIX Olimpiade (BOCOG), durante un suo discorso. In maniera semplice ma profonda vuole esprimere l’essenza e i valori universali che animano i Giochi Olimpici, interpretando perfettamente l’anima della filosofia cinese: Unità, Amicizia, Progresso, Armonia, e Partecipazione. Traduce in sintesi la speranza e il desiderio del popolo cinese di unirsi al mondo.

L’armonia dell’uomo con la natura è un concetto e un ideale intrinseco della cultura cinese da sempre, che si traduce in una ricerca di armonia tra gli uomini, presupposto per lo sviluppo di una società in equilibrio, rispettosa delle differenze culturali. Questa idea è un’eredità fondamentale dell’insegnamento confuciano e racchiude in sé la convinzione che se ognuno nella società svolge il proprio ruolo, allora l’armonia generale sarà garantita.

In teoria i simboli dovrebbero servire ad ovviare eventuali differenze di linguaggio, bypassando traduzioni e interpretazioni, cucendo distanze culturali e comunicando in maniera semplice e diretta concetti importanti senza bisogno di ricorrere alle parole. Ma anche le scelte dei simboli hanno un senso e sono il frutto di uno studio che, forse, è bene conoscere per capire fino in fondo lo spirito dei simboli stessi e della gente che li esprime.

La traduzione inglese del motto “One world one dream”, infatti, non trasmette il senso profondo che l’espressione in cinese in realtà racchiude. “One”, infatti, sarebbe “tongyi” in lingua pinyin, ovvero “lo stesso” e non “uno”, a sottolineare un significato di appartenenza anziché di unicità come intuitivamente, invece, la frase suggerisce. Il messaggio in realtà vorrebbe essere questo: “tutta l’umanità vive nello stesso mondo e condivide gli stessi sogni e gli stessi ideali”.

Un problema linguistico analogo coinvolge anche la mascotte, o meglio le cinque mascotte, delle Olimpiadi di Beijing. Infatti “Fuwa”, questo è il loro nome cinese, significa letteralmente “Five Friendlies”, ovvero cinque amichevoli. Nome che ha dato vita ad equivoci e a interpretazioni scorrette, perché può essere facilmente frainteso come “Friend-less”, ovvero senza amici, o come “Friend-lies”, cioè bugie d’amico, soprattutto in un Paese in cui l’inglese non è ancora molto diffuso. Perciò il Comitato Organizzativo dei Giochi Olimpici, ha deciso alla fine di battezzare le mascotte con il loro nome originale “Fuwa”, per renderle più comprensibili e simpatiche a tutti.

I cinque personaggi sono le bambole della fortuna, disegnate da Han Meilin: ognuna di esse riprende il colore di uno dei cinque cerchi olimpici ed è associata ad un elemento o ad un animale significativo nella cultura cinese (il pesce, il panda, la fiamma olimpica, l’antilope tibetana e la rondine). Si rivolgono innanzitutto ai bambini di tutto il mondo, con i loro sorrisi colorati e il loro augurio di amicizia e pace. Sono infatti bambole, prossime protagoniste tra l’altro di una serie di cartoni animati, e il loro nome è un accostamento di due sillabe ripetute, abitudine, questa, di rivolgersi in maniera affettuosa ai bambini in Cina. E non a caso sono inque, come i cerchi olimpici: il numero cinque (wu ) è per i cinesi un numero fortunato poiché, per tradizione, suggerisce forza e completezza. Cinque sono gli elementi di base, o fasi (Wu Xing 五行), che regolano l’universo (acqua shuǐ, , terra tǔ, fuoco huǒ,  legno   e metallo jīn); cinque sono i punti cardinali (nord, sud, est, ovest, centro); ma cinque sono anche i classici confuciani e le stelle sulla bandiera cinese. 

Bèibei, Jingjing, Huanhuan, Yingying e Nini, sono queste le “Fuwa” e i loro nomi accostati compongono la frase Bei Jing Huan Ying Ni, ovvero, Benvenuti a Beijing. Questo è il caloroso invito delle cinque piccole ambasciatrici delle Olimpiadi al mondo.

Esse sintetizzano i paesaggi naturali di una Cina talmente vasta da contenere tutto e il contrario di tutto (mare, foresta, fuoco, terra e aria), fondendoli con le aspirazioni e i sogni di un popolo altrettanto complesso e contradditorio (prosperità, felicità, passione, salute e fortuna). 

Bèibei è il pesce, è femmina, di colore azzurro come  il suo elemento, l’Acqua. E’ di natura gentile e pura e simboleggia la Prosperità. Nella cultura tradizionale cinese, infatti, l’ideogramma “pesce” () si pronuncia esattamente come quello di “abbondanza” ( / ). Il suo copricapo, posto su una chioma di onde a ricordare il mare, rimanda a dei preziosi ritrovamenti di un villaggio neolitico della cultura Yangshao. Bèibei rappresenta tutti gli sport acquatici.

Jingjing  è un simpatico panda gigante, maschio di colore nero. Incarna l’elemento del Metallo, è onesto e ottimista e il suo messaggio è un augurio di Felicità. Il panda è un simbolo nazionale ed è adorato da chiunque in Cina. Le foglie di loto sulla sua testa si ispirano ai dipinti della dinastia Song e richiamano l’armonia tra l’uomo e la natura. Jingjing rappresenta tutti gli sport di forza e le arti marziali.

Huanhuan è la fiamma olimpica. Simbolicamente è il fratello maggiore delle Fuwa, rosso naturalmente perché figlio del Fuoco, è estroverso e socievole. Rappresenta la Passione per lo sport, il vero spirito olimpico e sta al centro come incoraggiamento a correre più forte, saltare più in alto ed essere il più resistente. Il suo copricapo si ispira ad un fuoco acceso nelle Grotte di Mogao, le più famose grotte buddiste cinesi. Huanhuan, con la sua energia, abbraccia tutti gli sport con la palla.

Yingying è l’agile antilope tibetana. Maschio, vivace e brioso come il suo colore giallo, il suo elemento è la Terra e il suo augurio la Salute. Riassume l’immensità degli spazi in Cina, ma anche l’armonia con la natura. L’antilope tibetana infatti è, come il panda, un animale caro alla tradizione cinese, anche perché in via di estinzione. Una sua caratteristica è la velocità, per questo rappresenta l’atletica leggera. Il suo copricapo è decorato con alcuni simboli presi dalla cultura Quinghai e Sinkiang. Il fatto che si sia scelto un elemento proprio del Tibet ha sollevato molte discussioni e polemiche ma alla fine Yingying ha vinto.

Nini è la rondine, femmina, di colore verde, innocente e serena. Il suo elemento è il Legno e comunica buona Fortuna. Anche nella cultura cinese la rondine è messaggera di primavera e felicità. Nini trasmette un senso di leggerezza e desiderio di libertà, come i coloratissimi aquiloni che i bambini cinesi amano liberare nel cielo di Beijing, gli stessi aquiloni che stanno sul suo copricapo come ali aperte. Il suo nome in cinese è yan () e compare anche in quello dell’antico nome di Beijing, Yanjing (燕京). Essa, con la sua femminilità, rappresenta  la ginnastica artistica e ritmica.

Le Fuwa sono inscindibili e interdipendenti , come i cinque anelli olimpici, perché rispecchiano la logica che regola la vita dell’uomo e della natura, garantendo equilibrio e armonia attraverso due cicli: il Ciclo della generazione (, shēng) e il Ciclo della distruzione (, ). Nel primo il Legno nutre il Fuoco, il Fuoco crea la Terra (con la cenere), la terra genera il Metallo, il Metallo trasporta l’Acqua (attraverso il rubinetto), l’Acqua nutre il Legno. Nel secondo il Legno divide l’Acqua, la Terra assorbe l’Acqua, l’Acqua spegne il Fuoco, il Fuoco fonde il Metallo, il Metallo spacca il Legno.

Sicuramente l’anima delle Fuwa resterà sconosciuta ai più, che continueranno a vedere in esse solo un cartone animato o  un simpatico gadget da comprare come ricordo delle Olimpiadi. Così come il motto “One word one dream” sarà alla fine talmente inflazionato da ridursi ad un tormentone stampato su t-shirt, bandiere e portachiavi.

Peccato, perché come dice una mia amica cinese, Chen Zhuohua, essere curiosi di conoscere le cose e le persone avvicina le distanze e aiuta a capire le differenze. E credo che le Olimpiadi siano un’occasione meravigliosa per tutti di partecipare non solo ad un evento sportivo ma soprattutto umano e culturale. E’ sotto questo aspetto, innanzitutto, che auguro alla Cina di meritare l’oro, dimostrandosi all’altezza della sua tradizionale saggezza e mantenendo fede all’interpretazione autentica del motto con cui ha scelto di presentarsi al mondo.

Spero che questo non resti solo un sogno. 

IN TRENO IN INDIA

di Raffaele Miraglia

Quindici anni fa mi trovavo a Badami.

Non era un paesino molto frequentato, pur facendo parte insieme a Aihole e Pattadakal del cosiddetto “Triangolo d’oro” nel Karnataka,. Si trova ancora oggi un po’ fuori mano rispetto alle usuali rotte turistiche e all’epoca andarci era time consuming, come precisavano le guide in inglese.

La sera prima di andarcene io e Rosella scambiammo al ristorante qualche opinione con due ragazze spagnole. Quale era il modo migliore di raggiungere Goa? A noi il capostazione aveva garantito che c’era un treno diretto alle otto del mattino, a loro qualcuno aveva detto che era meglio prendere l’autobus alle sei e mezzo del mattino.

L’indomani, uscendo dall’albergo per andare a prendere il treno, vedemmo le due ragazze in attesa dell’autobus, che era in ritardo. Le salutammo, salimmo su un carretto trainato da un cavallo e ci facemmo portare fiduciosi alla stazione ferroviaria. Qui lo stesso capostazione che ci aveva garantito l’esistenza del treno diretto per Goa ci spiegò che no, non c’era un treno diretto, che avremmo dovuto comperare un biglietto per non so dove, scendere, acquistare un altro biglietto, salire su un altro treno, andare non mi ricordo più dove e lì avremmo trovato il nostro treno diretto. Un po’ indispettiti ci armammo di santa pazienza e iniziammo il nostro andare. I treni in India sono molto lenti, ma quello che prendemmo andava praticamente a passo d’uomo. I sedili erano di legno, ma questo non ci sorprese. Il panorama era piacevole e per un breve tratto un giovane studente si impegnò a conversare con noi prima di chiederci in regalo una moneta italiana. Quattro o cinque ore dopo scoprimmo che non avremmo dovuto cambiare tre treni, ma quattro. E alle sei o sette del pomeriggio giungemmo a ..., non chiedetemi dove, per scoprire che l’ultimo tratto lo avremmo coperto con un treno notturno, che impiegava quasi otto ore per fare circa duecento chilometri. Tentai di capire se c’era un’alternativa, ma verificai che in autobus era peggio. Mi decisi così a comperare l’ennesimo biglietto, ma la gentile bigliettaia mi spiegò che i biglietti erano in vendita non prima di un’ora avanti alla partenza, che era prevista per la mezzanotte. L’ufficio prenotazioni delle cuccette era chiuso, ma venni a sapere che a quell’ora si poteva fare la prenotazione all’ufficio bagagli. Lì mi spiegarono che non potevo prenotare le cuccette se non avevo i biglietti e che, pertanto, dovevo tornare dalla gentile bigliettaia. Così feci e spiegai il tutto alla  signorina, la quale, inflessibile, mi rispose che lei i biglietti non li vendeva prima delle undici di sera.

Tornai all’ufficio bagagli e feci presente il problema. Gli addetti discussero un  po’ e alla fine uno di loro mi diede una strisciolina di carta dove aveva scritto due righe in uno dei tanti alfabeti indiani. L’avrei dovuto mostrare alla bigliettaia. Quando mi riaffacciai al suo sportello la signorina mi guardò molto male e la sua espressione peggiorò quando lesse il pezzettino di carta che le porsi, ma mi allontanai da lì con i due ambiti biglietti in mano. Tornando verso l’ufficio bagagli mi chiesi cosa ci fosse mai scritto in quelle magiche due righe. Chissà se mi davano del rompicoglioni? Comunque, riuscii a prenotare le due cuccette e ciò risollevò, e di molto, il morale prostrato di Rosella, da tempo seduta per terra nell’atrio, a gambe incrociate, appoggiata a una parete, con i due

zaini ai lati che fungevano da bastioni contro l’invadenza delle mucche, apparentemente curiose di scoprire quale libro stesse leggendo.

 Quando il treno arrivò cercammo la nostra carrozza, che non c’era. Capimmo subito, però, che sarebbe stata attaccata da lì a poco. Finalmente stesi sul duro pianale delle cuccette, ci disponemmo a dormire. Il lentissimo sferragliare del treno fu una specie di nenia, ma all’arrivo alla stazione successiva fummo svegliati da uno stridio dei freni assolutamente incongruo rispetto alla velocità di crociera.

Entrarono nel nostro scompartimento due anziani, a cui avevano assegnato le cuccette nella parte alta. Il controllore ci chiese se gentilmente potevamo fare cambio delle nostre con le loro. Acconsentimmo volentieri e fummo sommersi dai ringraziamenti. Il controllore ci chiese perfino di che religione eravamo e a fronte della nostra bugia – cattolici – si sperticò in lodi alla bontà di questa religione, che ci rendeva così disponibili verso il prossimo.

Per farla breve, nel giro di ventiquattrore coprimmo i quattrocento chilometri del viaggio e giungemmo a Goa, accolti da una pioggia monsonica scrosciante.

Due ore dopo, usciti dall’albergo alla ricerca di un localino per fare colazione, incontrammo le due ragazze spagnole che, zaino in spalla, stavano cercando un albergo. Erano appena arrivate. Il loro viaggio si era rivelato ancora più lento e scomodo del nostro e ci invidiarono molto.

Magari la prossima volta vi racconto di quella volta che, diretti ad Aurangabad, la nostra carrozza fu invasa da uomini e pugnali (nessun assalto al treno, erano solo fedeli della dea Kalì che tornavano da un

pellegrinaggio), oppure di quando a Varanasi salimmo sul treno notturno sbagliato e  scoprimmo così che la stazione di Allahabad è estesa quanto il centro storico di Bologna e che la notte lì siete più sicuri che a casa vostra, oppure di come, di ritorno da Sanchi, riuscimmo ad aggirare un passaggio a livello chiuso e a raggiungere in tempo la stazione di Bhopal per viaggiare sullo Shatabi Express (nel 1999 il treno indiano più veloce: raggiungeva in alcuni tratti la temeraria velocità dei 90 Km l’ora!).

EGYPT

di Giorgio Rinaldi

Un deserto immenso, con l’immenso Nilo che lo taglia in due.

Dall’aereo, guardando gli aridi territori,  capisci finalmente il significato della grande piena che sommergeva –per chilometri e chilometri- tutte le terre attorno al grande fiume, rendendole fertili per via del limo di cui erano ricche le acque.

“Erano”, perché ora il limo resta tutto a sud di Assuan, dove c’è la grande diga che sbarra il Nilo creando il grande lago dedicato a Nasser, dove sono rimasti anche gli ultimi coccodrilli di cui il fiume una volta pullulava.

Un quarto di tutta la popolazione egiziana abita nella capitale Il Cairo, l’antica Babilonia.

Il nome arabo del Cairo è Al-Qahira, che in italiano vuol dire “La Vittoriosa”.

Oltre 250.000 dei venti milioni di cairoti abitano le necropoli della capitale.

Si, perché le migrazioni interne degli egiziani verso Il Cairo, intensificatesi dopo la disfatta militare della “guerra dei sei giorni”, hanno trovato una risposta al problema abitativo con l’occupazione dei grandi cimiteri.

La tradizione degli egiziani voleva che al di sopra delle tombe si costruissero dei ricoveri per i congiunti che venivano da altre città a rendere omaggio ai loro defunti, così nelle necropoli si sono potute  sistemare, all’inizio precariamente, ora stabilizzate, centinaia di migliaia di persone.

Se vuoi attraversare Il Cairo in auto devi preventivare qualche ora, tanta è la massa sterminata di case d’ogni misura e fattezza.

Le auto che affollano le strade cairote sembrano circolare solo per puro e reiterato miracolo.

E’ un parco auto di altri tempi, sfuggite, non si sa come, alla rottamazione.

Antiche Ford Anglia, vecchie Fiat 124, stagionate Peugeot 304… ammaccate, arrugginite, tenute insieme con il fil di ferro.

Nel caos di lamiere che ti impediscono anche solo di pensare ad un attraversamento della strada (il pedone deve dare sempre la precedenza e i semafori, quando ci sono, sono solo degli inutili totem), si districano alla meglio carretti trainati da dromedari o da rassegnati somarelli.

Il rumore per le strade è assordante, è un suono ritmato di clacson senza tregua.

Le Piramidi, immobili, eterne, t’aspettano alla periferia del Cairo, nella piana di Giza, a ovest del Nilo, in alto per evitare le cicliche inondazioni del sacro fiume.

Gli Egizi manifestavano la loro potenza con costruzioni spettacolari per celebrare una morte che rappresentava solo il percorso per un ritorno ad una vita ancora più grandiosa.

Il culto della morte trova la sua massima rappresentazione nel tesoro del giovane faraone Tutankamon ( e la vista della maschera funeraria tutta d’oro vale da sola  il viaggio) o nelle tombe che puoi visitare in quella desolata pietraia della Valle dei Re o nella Valle delle Regine.

Tutta la civiltà degli antichi Egizi si è sviluppata lungo il Nilo.

Navigare questa tranquilla ed enorme massa d’acqua, molto più placida del Don, è il modo migliore per capire una civiltà antica 5000 anni.

Nonostante alcune inevitabili contaminazioni dovute a un turismo di massa più preoccupato del menù al ristorante che dei geroglifici del “Gran Libro dei Morti” (una infinita rappresentazione di storie nelle tombe dei Faraoni), l’Egitto conserva intatta la sua immagine e le sue tradizioni di paese in bilico perenne tra le civiltà mediterranee, l’Arabia e l’Africa.

Il turista qui è coccolato da una popolazione gentile e disponibile.

La sua sicurezza è assicurata da una presenza continua e costante di militari (polizia turistica) non solo in tutti i siti archeologici, ma anche ad ogni angolo di strade  e mercati.

La milizia è immediatamente identificabile dalla divisa nera di pesante lana grezza che i militari indossano, nonostante le insopportabili  altissime temperature.

C’è da dire che i controlli sono più di forma che di sostanza, e alcuni improvvisi e improvvisati posti di blocco volanti sembrano fatti al solo beneficio del senso di sicurezza dei turisti.

Al di là di improbabili corse in carrozzelle tirate da cavalli spelacchiati che vi vengono immancabilmente proposte, o di bande musicali in kilt scozzese e cornamuse ad intonare l’Aida, l’Egitto può ancora affascinarvi per quel che è veramente.

Una visita in uno dei bazar egiziani, se avrete la fortuna di scampare agli assalti ininterrotti di venditori d’ogni mercanzia, appiccicosi come le mosche prima d’un temporale, è una esperienza da fare, sia per cimentarvi nell’arte della contrattazione, sia per farvi quattro risate nel guardare qualche fantozziano turista vestito come Lawrence d’Arabia che, sfibrato dall’onda d’urto mercantile,  ad alta voce rimpiange quel negozietto a Sharm El Sheik , dall’esotico nome (La piccola

Venezia…), dove incontravi soli italiani ed i prezzi erano fissi, come all’Upim.

La Sfinge, imperturbabile, vi attende.

I SUOI PRIMI QUARANT’ANNI:
LUCI E OMBRE DEL ’68

di Nicola Perrelli                   

“Vedrai, vedrai, un giorno cambierà, non so dirti come e quando, ma vedrai che cambierà”, cantava Luigi Tenco nel 1967.

Evidentemente il cantautore, morto tragicamente, sentiva che qualcosa di importante stava per accadere, e non si sbagliava: l’anno successivo, nella primavera del ’68, al grido di “vietato vietare”, esplodeva la protesta studentesca verso ogni tipo di ordine costituito e di tradizione.

Le giovani generazioni contestavano l’individualismo, il potere della tecnologia, i partiti politici, il consumismo e tutte le istituzioni, compresa la famiglia. Era una vera e propria rivolta etica, un tentativo di rovesciare i valori dominanti imposti dalla borghesia.

Si cominciò cambiando innanzitutto modo di vestire e apparire. I ragazzi non portavano più capelli all’Umberto, giacche e cravatte, ma jeans, barba e capelli lunghi, mentre le ragazze rinunciavano al trucco, agli abiti eleganti e ai tacchi per indossare  pantaloni, jeans, maglioni e scarpe basse. E  durante l’inverno tutti con l’eskimo  e la sciarpa al collo.

L’idea di fondo era di impedire inizialmente agli studenti e successivamente agli operai  di interiorizzare i valori della società capitalista. Per la prima volta sembrava fosse arrivato il momento per dare vita  a una  rivoluzione culturale che  avrebbe  concretamente e rapidamente abbattuto le convenzioni, le gerarchie costituite e le istituzioni, a partire dalle università. Considerate veri e propri strumenti di indottrinamento. Non a caso G. Viale scriveva: “L’università funziona come strumento di manipolazione ideologica e politica teso ad instillare negli studenti uno spirito di subordinazione rispetto al potere (qualsiasi esso sia) ed a cancellare, nella struttura psichica e mentale di ciascuno di essi, la dimensione collettiva delle esigenze personali e la capacità di avere dei rapporti con il prossimo che non siano puramente di carattere competitivo”.

Perno del movimento era indubbiamente la lotta all’autoritarismo. Nessun potere e ordinamento ne venivano esclusi. La prima istituzione ad essere messa sotto accusa fu proprio la famiglia, vista come  contenitore di disvalori, capace solo di opprimere ed alienare i giovani che ne facevano parte. Eloquente lo slogan: “Voglio essere orfano”.

In politica il disprezzo era riservato in primis al Partito comunista e poi a tutti gli altri gruppi Parlamentari.  Per l’esercizio del potere i contestatorimiravano, seppure senza un valido e organico programma, a realizzare una democrazia diretta, sulla falsa riga della Comune di Parigi del 1871. 

Il movimento aveva quindi una forte  connotazione eversiva. Ma ciò che lo caratterizzava di più erano le posizioni radicali e l’astrattezza delle formulazioni. Atteggiamenti che di fatto non consentirono di realizzare quel  mutamento sociale ed economico cosi tanto agognato. Né bastò il successivo coinvolgimento della classe operaia nella lotta per  trasformare significativamente l’impianto sociale.

Oggi, a distanza di quarant’anni, quali considerazioni possiamo trarre da quella lontana primavera?

Alcune buone, altre meno.

Il forte desiderio di condivisione sociale e politica, la voglia di libertà e di partecipazione, la promozione dell’uguaglianza, l’inizio dell’emancipazione femminile, l’affermazione della dignità umana e la ricerca della pace nel mondo, sono sicuramente un patrimonio di valori e di principi che il ’68 ci ha tramandato insieme al coraggio di lottare contro ogni tipo di  ingiustizia sociale. Sono di quel periodo alcune importanti riforme sui diritti dei cittadini e sulla tutela del lavoro. Come il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, l’abbassamento della maggiore età ai 18 anni, l’abolizione della norma del Codice Rocco che considerava reato l’adulterio femminile e l’introduzione del nuovo diritto di famiglia.

Il ’68 ha però anche aperto profonde crisi nel tessuto sociale.

La classe dirigente formatasi  in quel periodo, figlia quindi dei grandi ideali della contestazione, non ha poi saputo o voluto convertire in azione politica le aspettative di quei giorni. Nel nostro Paese, ad esempio,una riforma base della P.A. non è stata ancora realizzata. I cittadini, oggi come allora, devono sopportare le inefficienze dei servizi pubblici e privati  e subire l’autoritarismo burocratico.

I giovani  nati da genitori  che sostenevano la rivoluzione sessuale e che facevano largo  uso di allucinogeni, e perciò educati all’insegna del “fa ciò che vuoi”, sono oggi individui disadatti ed emarginati, e causa di conflitti sociali irrisolti.

Può sembrare paradossale, ma nei “comandamenti” del ’68  troviamo le radici di devianze tipiche  della moderna società dei consumi. Slogan come “Vivere senza tempi morti e godere senza freni”, “Prendi i tuoi desideri per realtà”,  invitando al piacere e al sogno, prepararono il terreno  per lo sviluppo del più bieco utilitarismo e sfrenato consumismo; elementi essenziali per la sopravvivenza materiale ed ideologica di quel capitalismo cosi tanto detestato.

La profonda trasformazione culturale generata dalla contestazione del ’68, ha prodotto molti emarginati. Individui isolati che vivono  in quella condizione mentale che il sociologo Dahrendorf  definì  “anomia”,  ovvero uno stato di povertà immateriale, di rifiuto, di mancanza d’interesse per la vita politica, in parole povere: del tutto va bene.

Che dire in conclusione? Speriamo meglio per i prossimi futuri 40 anni.

47 COLTELLATE

di Giuliano Berti Arnoaldi Veli

Se si digita il nome di Francesca Alinovi su You Tube appare un video, messo in rete pochi mesi fa, nel quale si succedono immagini fotografiche e uno spezzone di intervista. Nell'intervista, Francesca è distesa sul fianco, pantaloni verde mela stivaletti azzurri e maglione nero, i capelli neri come una criniera; sta appoggiata su una struttura che non si vede, e sembra librata in aria, mentre parla di fotografia. Le immagini sono accompagnate dalla musica di Love kills (l'amore uccide) una canzone scritta da Freddy Mercury e Giorgio Moroder, per la colonna sonora della versione restaurata di Metropolis.

Il video perpetua l'immagine che, trasmessa dai media ai tempi dell'omicidio e poi del processo, è rimasta nella memoria collettiva: quella di una donna bella, colta, trasgressiva, una critica d'arte che viveva in modo non convenzionale, che fu uccisa nel giugno del 1983 da un uomo del quale era innamorata, e che non aveva tutte le rotelle a posto.

Achille Melchionda, avvocato con la passione della scrittura, fu l'avvocato della parte civile, e cioè della famiglia Alinovi, nel processo per l'omicidio.

Dopo averlo "covato", per così dire, per molti anni, ha scritto adesso, a distanza di ventiquattro anni dall'omicidio, la storia di quel processo. Il libro, edito alla fine del 2007 dalla Pendragon di Bologna, si chiama, semplicemente, "Francesca Alinovi - 47 coltellate" e ripercorre giorno per giorno, come in presa diretta, la storia della indagine, a partire dalla scoperta del delitto fino all'arresto del sospettato; e poi il processo di primo grado, concluso da una assoluzione per insufficienza di prove, che diverrà in appello condanna, confermata in Cassazione. E poi la fuga del condannato, che si eclissa con un colpo di teatro mentre i giudici della Corte d'appello sono chiusi in Camera di Consiglio; e rimarrà latitante dieci anni, fino a che non verrà arrestato in Spagna, estradato, ed espierà (parte in carcere, parte in affidamento ai servizi) la pena inflittagli. Adesso è libero.

Diversi sono i piani di lettura possibili per il libro. Il legal thriller è divenuto una forma diffusa della letteratura contemporanea, che ci porta spesso a contatto con storie di delitti e di processi davanti ai quali vien fatto di pensare che "sembrano veri". Per converso, il malvezzo di spettacolarizzare le indagini e i processi in televisione fa a volte sembrare tutto finto, o comunque organizzato ai fini dello spettacolo. In questo caso, siamo di fronte ad una tragedia vera, e il libro che ne restituisce, in modo immediato e semplice, la verità.

Il racconto di Melchionda ci fa ritornare a quel giugno 1983, caldo appiccicoso come è giugno a Bologna, agli incontri degli artisti, a quell'ultima giornata di Francesca, dipanatasi tutta nella città che noi percorriamo ogni giorno, da una inaugurazione in via Solferino, ad una mostra in Via Clavature, ad una festa a tarda sera in via della Barca; al ritorno nel suo piccolo appartamento in via del Riccio, la strada più stretta di Bologna. Sentiamo che è tutto vero, che non c'è solo costruzione letteraria, che quella di Francesca era una vita che ci scorreva a fianco, diversa ma nella sostanza simile alle nostre nel ricerca di un senso dell'esistenza attraverso l'applicarsi al meglio in quello che ognuno aveva scelto di fare.

Non racconteremo qui le fasi della indagine e del processo, che però sono appassionanti, non solo per gli avvocati, ma soprattutto per loro. Sarà il lettore, se vorrà, a trarre le sue conclusioni: magari chiedendosi (come è avvenuto di fare alla presentazione del libro alla nostra Fondazione Forense) se un processo così, vent'anni dopo, e con il codice cambiato, sarebbe ancora possibile, e in caso negativo se questo sia un bene o un male; se un caso simile ai giorni nostri sarebbe stato discusso su Porta a Porta, e se i testimoni sarebbero stati ripetutamente intervistati sulla stampa o dalla TV prima di esserlo in Tribunale; se infine il rapporto di grande correttezza e fair play che intercorse in quella occasione fra avvocati difensori e avvocati di parte civile (e che traspare dalle pagine del libro)  sarebbe ancor oggi lo stesso. Certo, a noi pare che la lettura del libro sia una esercitazione utile sul piano della professione di avvocato.

Ma, come ha voluto chiarire Achille Melchionda, la molla che lo ha spinto a scrivere il libro non è stata quella di raccontare un processo. Ha raccontato, Achille, di essere rimasto colpito nel leggere, a distanza di tanti anni, che il delitto Alinovi è raccontato ancora come se fosse circondato da un alone di mistero, e di dubbio: mentre c'è un giudicato che ha individuato il colpevole. A questo non è certo estraneo il fatto che il colpevole, essendo vivo, ha potuto continuare in questi anni ad affabulare sulla propria innocenza, trovando eco qua e là. Ed è facile parlare senza contraddittorio, cioè senza nessuno che ti contraddica, come ben sanno gli avvocati. Achille Melchionda ha voluto con il suo libro dare, in qualche modo, voce postuma a Francesca. Il responsabile del delitto ha pagato il suo conto con la giustizia: poco e tardi, come vien fatto di pensare al lettore; ma comunque ha pagato. Alla vittima resta però dovuto il rispetto per la verità, e per la sua persona, quale era.

E infatti, in appendice del libro è pubblicato anche, per la prima volta, il diario che Francesca teneva, e che raccoglie  pensieri, riflessioni e stati d'animo che abbracciano gli ultimi tre anni della sua vita, e si arresta pochi giorni prima della morte. Avrebbe dovuto essere un diario scandaloso, per come ne scrissero allora i giornali: e non è scandaloso per niente, oggi che possiamo leggerlo.

E' solamente un diario che racconta di un grande amore per l'arte, della solitudine di una vita apparentemente scintillante e di successo, di paure e presentimenti di morte che lasciano sgomenti; infine, dell'innamoramento per la persona che la avrebbe uccisa. Leggendo le sue pagine, viene il rammarico di non averla conosciuta; di chiedersi come viveva in quel piccolo appartamento in via del Riccio, pieno di libri, dischi e qualche quadro; di chiedersi che cosa leggeva, che musica ascoltava, se era la stessa che ascoltavamo noi. All'epoca, si fece molto parlare di una frase scritta sullo specchio del bagno (you're not alone anyway), e si pensò addirittura che fosse una traccia lasciata dall'omicida. Nel corso del processo si chiarì poi che era stata scritta da un amico di Francesca, che era stato suo ospite qualche tempo prima. E' una frase che echeggia rovesciandolo un verso di una canzone di Bob Dylan intitolata It aint't me babe, una canzone di addio. Certo Bob Dylan l'avremo avuto in comune.

Ma infine, dalla asciutta prosa di Melchionda esce una ulteriore chiave di lettura del libro, agghiacciante e purtroppo attuale oggi più di ieri: quelle della violenza sulla donna. Perchè la storia della morte di Francesca Alinovi è la storia di una violenza su una donna da parte di colui che era, o era stato, il suo partner. Una violenza bestiale: 47 coltellate, che giustamente sono richiamate nel titolo. Provate a contarle, una dopo l'altra, fino a 47, dice Achille: coltellate singolarmente non mortali tranne

una, inferte con un'arma corta, per fare male. Un delitto orrendo, violentissimo, al quale Francesca si oppose disperatamente, come testimoniano le ferite sulle mani e sulle braccia, a difesa del volto che infatti rimase intatto. Non è possibile neppure pensare che siamo di fronte ad un gioco finito male, come qualcuno scrisse allora (chi può mai giocare a pugnalare un partner o un amico?); ed è certamente irreale pensare che nel mondo degli artisti e dell'avanguardia la morte possa anche essere un incidente di percorso, magari accompagnato da una bella colonna sonora.

Non è stato l'amore che ha ucciso Francesca Alinovi: sono state le coltellate di uno che non l'amava niente. Questo solo possiamo fare in memoria di Francesca, ricordare la verità.

A FIRENZE “GUSTO DI CALABRIA”

di Ferdinando Paternostro

Cosa ci fanno voci, costumi e canti di Mormanno per le strade di Firenze ?

Cosa ci fa il Gruppo Folk Miromagnum nello storico Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio

che vide all’opera Leonardo e Michelangelo e che fu sede della Camera dei deputati al tempo di Firenze Capitale ? 

Andiamo con ordine: dal 14 al 19  aprile prodotti tipici calabresi sono stati presentate ai consumatori toscani in quattro strutture della grande distribuzione: Unicoop,  Il Parco, Esselunga,  I Gigli. Si è così realizzata la  “Settimana dei prodotti agroalimentari calabresi” , voluta  da un  protocollo di collaborazione sottoscritto dalle Regioni Toscana e Calabria  e promossa dal Dipartimento alle attività produttive della Regione Calabria e dal “Patto di solidarietà” stipulato  tra i Comuni di Firenze e Locri. Tra gli altri erano presenti CoPollino, la cooperativa dei produttori agroalimentari del Parco, il Salumificio Coinas e la Pasticceria Silvana di Mormanno.

Dal 24 aprile al 4 maggio, poi,  per il secondo anno consecutivo, gli artigiani e i produttori agroalimentari della locride sono stati ospitati nei padiglioni della Mostra Internazionale dell' Artigianato, alla Fortezza da Basso. Specialisti del vetro, del legno, della ceramica artistica, del trattamento del bergamotto, esperienze del saper fare che spesso hanno difficoltà ad essere conosciute al di fuori della regione, hanno goduto di una rinomatissima vetrina nazionale ed internazionale.

Queste due iniziative, in continuità non solo temporale, hanno rappresentato gli assi portanti della manifestazione “Gusto di Calabria”, la cui presentazione ufficiale si è celebrata il  24 aprile 2008 nel Salone de’ Dugento in Palazzo Vecchio con gli interventi di Paolo Abramo, Presidente Unioncamere Calabria, Federico Gelli, Vicepresidente della Regione Toscana, Ambrogio Brenna, Assessore alle attività produttive della Regione Toscana, Francesco Sulla, Assessore alle attività produttive della Regione Calabria, Domenico Pappaterra, Presidente dell’Ente Parco del Pollino, Francesco Macrì, Sindaco di Locri, Eros Cruccolini Presidente del Consiglio Comunale di Firenze, Nicola Rotondaro, Consigliere Comunale di Firenze, Guglielmo Armentano e Gerardo Zaccaria, Sindaco ed Assessore al Turismo del Comune di Mormanno.

Numeroso e qualificato il pubblico presente. Da notare i sodali dell’Associazione “Pitagora” che accoglie un nutrito gruppo di corregionali operanti a Firenze sia nel campo del lavoro che in quello professionale stimati per rara competenza ed impegno.


Ed il “Miromagnum” ?  Era presente Salone de’ Dugento il 24 aprile e ha concluso l’incontro in musica, si è esibito presso il Teatrino Lorenense della Fortezza da Basso il giorno successivo, in concomitanza con l’inaugurazione della 72a Mostra Internazionale

dell' Artigianato  ed ha suggellato, il 27 aprile, la manifestazione Gusto di Calabria con un intenso, coinvolgente ed applauditissimo spettacolo presso il Salone  dei Cinquecento di Palazzo Vecchio.

A margine di queste note di cronaca, tre considerazioni.

Il gruppo folk mormannese, chiamato nell’occasione a rappresentare la tradizione culturale Popolare di un’intera regione, ha molto ben figurato dimostrando, con brio ed entusiasmo, una notevole ed affinata maturità artistica.

Tanti enti ed istituzioni (come di evince dalla brochure che riportiamo in calce),  hanno contribuito all’ottima riuscita di Gusto di Calabria, di cui auspichiamo future edizioni: tra tutti vogliamo segnalare  l’operato dell’Avv. Nicola Rotondaro, “mormannese-fiorentino” e consigliere comunale del  capoluogo toscano, instancabile trait d’union organizzativo. Nel suo intervento in Palazzo Vecchio ha evidenziato l’importanza della realizzazione di “legami di legalità” tra Firenze e la Calabria, locride in particolare, sottolineando come i rapporti economici e culturali siano un forte collante per  raggiungere reciproca e proficua crescita comune. 

Oltre ai numerosi toscani ed ai turisti che il pomeriggio del 27 gremivano il Salone dei Cinquecento, lo spettacolo del Miromagnum è stata anche l’occasione per un estemporaneo ritrovo dei tanti mormannesi da anni vivono e lavorano Firenze, ricoprendo, per altro, ruoli di spicco nella sanità, nella magistratura, nella scuola e nell’Università, nella Pubblica Amministrazione, nelle libere professioni, nel giornalismo e nell’arte. Per loro spettacolo del Gruppo Folk di Mormanno ha sicuramente avuto un sapore particolare, come ha pure sottolineato nel suo intervento il Prof. Luigi Paternostro, che nell’occasione ha  chiosato  “C'adduru di garofalu chi veni”.

LE PRESIDENZIALI AMERICANE VISTE DALL’ITALIA

di Emanuela Medoro

La leadership e la guerra, secondo John McCain e Barak Obama

Durante un dibattito sulla televisione nazionale italiana, una psicologa ha detto che negli Usa la leadership -  ovvero  l’essere capo ed il modo di esercitarne le funzioni - è oggetto di accurati studi da parte di psicologi e sociologi. Riporto di seguito alcune frasi che indicano il modo d’intendere il capo e le sue funzioni, insomma la leadership, soprattutto in relazione alla guerra in Iraq, tratte dalle lettere di John McCain e di Barack Obama. Queste riflessioni sono più frequenti nelle comunicazioni del candidato repubblicano rispetto a quello democratico. Del tutto assenti, o quasi, nelle lettere di Hillary Clinton, rivale di Obama per la candidatura del partito democratico. Un documento proveniente dalla struttura elettorale di John McCain spiega la sua strategia di guerra contro l’Iraq,  il valore che essa potrebbe avere sia per l’Iraq che per gli USA. Questa lettera è ricca di frasi che collegano leadership e guerra... ”Non abbiamo ancora finito di portare la sicurezza in Iraq, ma non stiamo più sull’abisso della sconfitta, e possiamo guardare ad una concreta prospettiva di successo, ovvero alla fondazione di uno stato pacifico, stabile, prospero e democratico che non sia una minaccia per i vicini e che contribuisca alla sconfitta del terrorismo… 4000 americani hanno dato la vita perché l’America non soffra le peggiori conseguenze di una sconfitta in Iraq…  Ci sono dunque decisioni dure da prendere, e l’America merita capi all’altezza della situazione….Leadership significa  ignorare le pressioni politiche,  pensare alle conseguenze delle decisioni  ed avere l’esperienza e la saggezza per prendere decisioni serie…Dunque per essere capo ci vogliono esperienza, saggezza, fermezza nei principi, e queste qualità uniscono il partito e vinceranno nella competizione elettorale negli USA”. Per manifestare la condivisione di questo modo di  intendere la leadership dell’unione, si possono trovare berretti, bottoni, adesivi, insegne, magliette, spillette ( hats, buttons, bumper stickers, yard-signs, t.shirts, polo shirts, lapel-pins) in vendita  nello store johnmccain.com.

Barack Obama illustra un suo progetto per un’America più sicura. Secondo il candidato democratico i sacrifici per la guerra in Iraq - 4000 morti, migliaia di feriti, più una spesa di più di un trilione di dollari (ma quanti ne sono?) - hanno portato solo svantaggi: un paese meno sicuro e meno capace di  orientare gli eventi all’estero,  un paese diviso all’interno, le cui alleanze sono messe a dura prova poiché gravi minacce hanno intorbidato le acque della pace e della stabilità (threats have roiled the waters of peace and stability). Quindi è ora di voltare pagina di un’ideologia fallita (turn the page on a failed ideology), in modo che una saggezza pragmatica possa garantire la sicurezza del paese.  Quindi, “quando sarò Comandante in Capo - egli promette - porrò fine a questa guerra, perché è questo che renderà l’America più sicura”. Segue un elenco di provvedimenti da prendere a questo scopo. Ne cito uno solo: porre fine alla lotta contro i Talibani e sradicare Al Qaeda. Ma purtroppo non dice come. In questo quadro l’idea di guida (leadership) non è tanto

riferita al Presidente, quanto al ruolo dell’America nel mondo: ”Quando l’America guida con buoni principi e sano pragmatismo, allora la speranza 

è più forte della paura. E’ ora, ancora una volta, che l’America guidi il mondo (lead the world)”. L’idea di leadership nella politica interna è rivolta soprattutto ai giovani, ai quali si devono fornire nuovi modelli di ruoli e funzioni nella società. Come presidente Obama agirebbe in modo da raggiungere le città interne dimenticate, di collegarsi con tutti coloro che non hanno mai preso parte alla vita politica, con quelli le cui voci non sono mai state sentite, che sono stati lasciati indietro.

In un recente comizio tenuto a Filadelfia, Hillary Clinton si presenta come “Commender in Chief”, comandante in capo, e sottolinea i suoi legami con generali e capi dell’esercito. Evidentemente la cultura militare è veramente un aspetto significativo della leadership americana. Però non mi pare che da lei siano arrivate note sulla guerra in Iraq. Molte invece erano richieste di aiuto per la campagna elettorale in Pennsylvania. Dunque, sembra che questa competizione elettorale riguardi, in definitiva, la scelta fra due modi diversi di intendere la leadership dell’unione: nel  suo interno e verso il mondo.

LE PRESIDENZIALI AMERICANE VISTE DALL’ITALIA

di Emanuela Medoro

L’assistenza sanitaria in USA: la ricetta di John McCain

Da John McCain un franco discorso sulla sanità. Il candidato del partito repubblicano alle prossime elezioni presidenziali USA, il 29 aprile, ha inviato una lettera on line sul sistema sanitario americano e propone le sue soluzioni. Questo è quanto dice. Oggi negli USA ci sono 47 milioni di persone prive di assicurazione per la salute. Quasi un quarto di queste sono bambini. I problemi fondamentali del sistema sanitario sono i costi alti, che crescono in modo spaventoso ogni giorno, e l'accesso limitato alle cure.

Egli afferma che ambedue i senatori democratici, Hillary Clinton e Barack Obama, stanno portando avanti progetti sanitari grandi, costosi e fuori dalla realtà, una specie di monopolio statale sulla salute. Non condivide la loro l'idea che tutti questi problemi si possano risolvere con il controllo dello Stato, l’aumento delle tasse, nuove leggi e regolamenti che quei progetti comportano. Crede, invece, che la chiave d’una vera riforma sia quella di restituire il controllo del sistema sanitario ai pazienti stessi e dare loro nuove possibilità di scelta che vadano oltre quelle offerte dalle coperture già esistenti sul lavoro. E qui lancia l’idea di Conti Risparmio per la Salute (Health Savings Accounts) a carico delle famiglie, che diano loro assistenza proporzionata a quello che pagano. La stessa lettera contiene un video che reclamizza questa idea. Nel video le parole chiave sono: disponibilità e sostenibilità dei costi da parte del consumatore/paziente (availability and affordability), scelta e competizione (choice and competition). Invece – aggiunge McCain - il piano dei democratici, con regole rigide, lunghe attese e mancanza di scelta, rischia di degradare i vantaggi e la forza del sistema, compresa l’innovazione tecnologica consente alla medicina americana d’essere la più avanzata del mondo. Subito dopo una lettera firmata da Rick Davis, dirigente della sua campagna elettorale, promuove un libro di John McCain, “La fede dei miei padri” . Il volume narra la straordinaria storia della famiglia McCain, storia di coraggio e di leadership. Con il termine leadership s’intende il servizio che McCain e la sua famiglia hanno avuto l’onore di offrire al Paese.

L’autore della lettera conclude dicendo che John McCain ha passato più di 5 anni in un campo di prigionia del Nord Vietnam, dove gli esempi e le lezioni ricevuti dal padre e dai suoi antenati gli hanno reso possibile sopravvivere ed emergere come un vero eroe americano. Una copia di questo libro con autografo, costa “appena” 150 dollari.

In campo democratico ancora siamo alla competizione per l’aggiudicazione della candidatura, tra Hillary Clinton e Barack Obama. Questa settimana mi pare rilevante la lettera di Michelle, la moglie di Barack Obama, sulla loro campagna per la registrazione di nuovi votanti. Scrive che in ogni Stato dell’Unione ci sono migliaia di persone che pur avendo diritto al voto non chiedono il certificato elettorale necessario per recarsi alle urne, perché ritengono che il loro voto conti poco e si sentono esclusi da un sistema che ha perso il contatto con la gente. E dunque Obama ed i suoi  sostenitori sono entrati in questa competizione per cambiare questa situazione. I recenti risultati di tale impegno sono più di 300 mila nuovi democratici (questa volta non scrive votanti, ma democratici), più di 165 mila in Nord Carolina ed oltre 150 mila in Indiana. Sono solo l’inizio di ciò che è possibile. E commenta affermando come la politica non possa essere più come è stata finora, una democrazia per pochi.

A sostegno di Obama scende Caroline Kennedy, che vede un collegamento tra l’esperienza del padre John a quella di Obama. E ricorda come suo padre si rivolse agli americani per chiedere cosa loro potessero fare per l’America. Tanti risposero alla chiamata di JFK, costruendo un movimento che trasformò il Paese e fece emergere il meglio del carattere nazionale. Oggi Barack Obama ha seguito quella tradizione, dedicandosi al pubblico servizio come organizzatore di comunità nell’area meridionale di Chicago, e fa appello ad una nuova generazione di leaders perché s’impegnino a trasformare il Paese. "Rispondete alla chiamata, chiedetevi cosa potete fare per questo movimento, per la democrazia e per il Paese". Firmato: Caroline Kennedy.

MICROCOSMO D’ACQUA E DI TERRA

di Raffaella Santulli

A prima vista, con tutto ciò che gli sta intorno, che vive nel e del suo ambiente, è un'immagine immobile e malsana.

Piante ed animali, felci, fior di loto, canne, giunchi, anatre, cigni, rospi, rane, bisce, libellule e zanzare: un microcosmo di vita e di vite fisso, pigro ed avvolgente che in realtà racchiude, proprio nel paradosso che lo caratterizza, tutta la potenza metaforica dello stagno.

Nel suo torpore le culture asiatiche leggono il senso della soddisfazione, nella sua assenza di moto i Celti scorgevano il manifestarsi del Cielo, per alcuni contemporanei allude all'inconscio e alla figura materna.

Certo è che l'acquitrino fa parte dei più antichi repertori iconografici e letterari del mondo: compare nella pittura egizia, greca e romana, viene "adottato" dall'arte mesopotamica ed è fonte di ispirazioni per pittori ed artisti romantici.

Ne parlano le favole, i fumetti e Dante, che, nella "palude pingue", confina gli iracondi ed i golosi.

Forse, più semplicemente, la palude è il luogo delle metamorfosi: una riproduzione, su piccola scala, del brodo primordiale da cui è scaturita la vita. 

 

HANOI

di Trn Thu Trang

Hanoi sorge sulla riva destra del fiume Rosso. Il nome di Hanoi significa anche “dentro il fiume” ( HÀ – una parola cinese-vietnamita, significa FIUME, NI – anche una parola così, significa “dentro”)

Hanoi e’ stata la capitale della Repubblica Democratica Popolare del Vietnam dal 1954 al 1976 (il periodo del guerra contro gli americani. La Repubblica Democratica Popolare del Vietnam era il governo provvisorio del nord. E’ anche il periodo in cui il Vietnam e’ stato diviso in 2 parti e la parte meridionale e’ stato sotto il dominio del Governo di Saigon che era fondato e diretto dagli americani). Dal 1976 Hanoi e’ ufficialmente diventa la capitale della Repubblica Socialista di Vietnam, il Vietnam unito.

Con dei patrimoni preziosi, Hanoi e’ stata data il nome di “La citta’ di pace” dall’UNESCO nel 1999.

Molti grandi eventi sono stati tenuti ad Hanoi come la 22esima Gara dello sport della regione sudest asiatica nel 2003, la 14esima APEC nel 2006, ecc. Grazie a quegli eventi, il Vietnam in generale e Hanoi in particolare vengono conosciuti di più.

Se si viene ad Hanoi, si può trovarla sia vecchia che moderna. Gli edifici che sorgono sono sempre più troppi. Hanoi e’ stata cambiata dalla globalizzazione. Inoltre, i cittadini di Hanoi ancora cercano di mantenere sia gli originali costumi sia i monumenti belli.

I monumenti più visitati ad Hanoi sono: il Tempio della Letteratura (costruito nel 1070,  prima università del Vietnam), il lago della Spada Restituita, il Tempio di Ngoc Son, la torre della Tartaruga, il mausoleo del Presidente Hochiminh (costruito dal 1969 al 1973, al suo interno si può trovare la Residenza del Presidente, Museo di Hochiminh, la Camera del Parlamento, la casa e lo studio dello Zio Ho, la pagoda a un pilastro unico, l’altare della patria), la Cattedrale, il Museo dell’esercito, il Museo dell’aeronautica, il Regno antico di Hanoi,ecc.

Il Quartiere Vecchio fu costruito nel periodo sotto il dominio dei francesi. Piccoli, vecchi e sempre affollati sono i punti tipici del Quartiere Vecchio. Ogni strada era come un piccolo villaggio dell’artigianato o si vendeva la merce relativa al nome di quella strada. Adesso rimangono pochissime strade cosi. Il Quartiere Vecchio e’ ancora il quartiere vecchio. Si vende ancora una merce tipica in ogni strada ma la merce non e’ piu’ relativa al nome della sua strada. La merce non e’ ancora tradizionale ma diventa più moderna e contemporanea. Fino ad oggi si riserva ancora la professione dei gioielli della strada HÀNG BC. HÀNG vuol dire la merce, BC significa l’argento. In questa strada si vendono ancora i gioielli fatti dall’oro e dall’argento.

Se venite ad Hanoi, avete l’occasione di assaggiare i piatti tipici di Hanoi come PH, BÚN CH, CM, BÁNH CUN, BÚN C,ecc. Ai cittadina originali di Hanoi importa il modo di mangiare. Si mangia per mangiare, per gustare non per riempire lo stomaco. E’ una cultura tipica e buona di Hanoi. La bevanda che piace di più agli uomini e’ BIA HƠI (birra gassata). E’ quotidianamente prodotta dal piccolo bar. Il bar della birra gassata e’ un luogo ideale per rilassarsi e fare quattro chiacchiere insieme. E ci si va spesso  nel tardo pomeriggio e nella sera (dopo il lavoro e  prima di tornare a casa).

UNA GIORNATA DI UN SEMPLICE TECNICO IT

di Joseph Simionato

Parte seconda

Quale forza può catalizzare la mente di persone come me e farle decidere poi di abbandonare la comoda vita di città per andare a vivere in una zona selvaggia di 1.3 milioni di kilometri quadrati di inferno tropicale semidesertico e di costa che da’ dimora ad animali tra i più velenosi e pericolosi della terra. Certi lo fanno per i soldi, altri per fuggire dai propri problemi, altri ancora forse per ritrovare la propria identità.

...Dopo aver messo l’ingegnere minerario finalmente in contatto internet con la moglie, tornai allo spaccio, che sebbene chiuso per alcolici, rimaneva bensì aperto tutta la notte per caffé e bevande leggere.

Non avevo sonno, e ormai notte, come tutte le volte che viaggiavo nei vari minuscoli campi minerari satellitari distanti centinaia di kilometri dalla centrale di  Port Hedland, e sperduti nella vastissima area del Pilbara, volevo stare solo, lontano da qualsiasi rumore di città, non disturbato da cose di tutti i giorni, e come ogni volta questa solitudine era ormai diventata una cosa rilassante dopo la dura giornata.

Questa notte in particolare c’era anche il conforto della pioggia.

Erano anni che non capitavo nelle aree remote nel mezzo di una bassa pressione tropicale. Usualmente si cerca di evitare o rimandare il viaggio perchè troppo pericoloso o come minimo per non rimanere bloccati nel campo per giorni.

La solitudine e la pioggia a molti fa tristezza, a me porta una pace immensa, un desiderio forte di vivere, e queste sensazioni me le porto sin dall’età di sette anni.

Era il tardo Ottobre del 1953, e una sera mio padre, persona molto burbera e pure un po’ manesca, a cena mi diede l’incarico, per il giorno dopo, di raccogliere un sacco pieno di foglie di platano dai campi per poi coprire il radicchio dell’orto per l’inverno.

Il giorno dopo invece di cercare le foglie, naturalmente me ne andai al “fortino” a pescare. Già a quell’eta’ avevo la pesca nel sangue, non che a mio padre dispiacesse che io pescavo, ma  non voleva saperne che andassi al “fortino”, una costruzione tipo un grande bunker che era servito come deposito di munizioni durante la guerra, circondato da un profondo fossato, e il tutto circondato da filo spinato con cartelli dappertutto che dicevano “Attenzione Pericolo Bombe Inesplose” “Pericolo Mine” e stupidaggini del genere.

Mio padre non ne voleva assolutamente sapere che io andassi nelle vicinanza del “Fortino”, ne a pescare o altro.

Infatti l’ultima volta che mi colse in fragrante, presi un sacco di botte, ma talmente tante che ero nero dappertutto, quella volta mia povera madre mi tenne chiuso in casa due settimane per la vergogna.

Il fatto e’ che nessuno andava a pescare al “fortino”, quindi questo posto aveva le anguille e i pesce-gatti più grossi, altro che bombe.

Mentre pescavo, non mi accorsi che le ore passarono veloci, e si erano pure alzati dei nuvoloni neri che promettevano pioggia vicina.

Pensai che era meglio tornare, mio padre sarebbe rincasato dal lavoro all’imbrunire e il sacco delle foglie era ancora vuoto.

Come al solito nascosi la mia rudimentale canna di bambu’ nella riva, e mi incamminai di buona lena col proposito di raccogliere queste dannatissime foglie e poi tornare a casa, ma fatti pochi passi i primi grossi goccioloni mi bagnarono il viso.

Mi misi il sacco in testa a mo di cappuccio e attraversai i campi correndo verso il capanno di cacciatori li vicino dove, quando non in uso, diventava per noi ragazzi posto di gioco naturalmente con la disperazione dei cacciatori che dovevano rammendare i nostri malanni continuamente .

Arrivai al capanno non ancora proprio bagnato, la pioggia batteva forte sul piccolo tetto di latta ma l’interno di legno era asciutto, e le grandi tavole-finestre ribaltanti da dove i cacciatori sparavano erano abbassate.

La pioggia continuava spessa e l’ora del ritorno a casa di mio padre era passata da un pezzo, questa volta l’avevo fatta davvero grossa, avrei potuto riempire il sacco ed essere a casa prima della pioggia, ma invece no! Ho dovuto ancora una volta fare di testa mia.

Dovevo trovare una via d’uscita a tutti i costi o questa volta sarebbe stato il seminario come avevano provato a mandarmici altre volte.

Questa volta non mi salvava nessuno.

Mi pareva gia di vedere il sorriso di soddisfazione del parroco del paese poiché era lui che continuava a spingere questa idea matta del seminario nella mente dei miei genitori, e dato che i miei genitori eravamo poverissimi…

Fintanto che ero li al riparo nel capanno mi sentivo al sicuro, la pioggia sul tetto e la calma dei campi brulli e deserti appena arati mi dava una sensazione di pace quasi euforica, una voglia matta di essere vivo e libero,  pero dovevo pensare in fretta, e poi l’idea si fece largo nella mente, avrei detto “quasi” la verità! Questo sarebbe stato il mio piano di attacco.

Arrivai a casa totalmente fradicio, anche perchè ero sceso in acqua nel fossato del “Fortino” per bagnarmi per bene inclusa la testa.

Mia madre subito mi levò i vestiti e mi asciugo vicino alla stufa a legna dove bolliva la pentola con l’acqua per la polenta, tremavo come una foglia e battevo i denti, un po’ dal freddo ma principalmente dalla paura, chissà se ero capace di raccontarla giusta, nella pace del capanno sembrava tutto cosi facile.

Una volta asciutto, mio padre seduto al suo posto a capotavola, mi rivolse la domanda che aspettavo…”Si può sapere dove sei stato?”, avevo gli occhi delle mie due sorelle ma sopratutto di mia madre piantati addosso, che disse..”su rispondi a tuo padre e bada di dire la verità perchè sai che io ti leggo dentro agli occhi”. Era vero, non ero mai stato capace di mentire a lei, mai una volta.

Ero terrorizzato, cosi immaginai di essere nella pace del capanno, con la pioggia che tamburellava e l’odore della terra che mi piaceva tanto, e cominciai: Papà, dissi, ti chiedo perdono, non mi dare le botte, lascia che spieghi, ti prego, questa volta non e’ colpa mia…era cosi una bella giornata, pensavo di poter andare a pescare per un oretta e poi avrei raccolto le foglie per te, ma poi e venuto su il temporale e non ho fatto a tempo di farlo. Ho avuto paura della tua collera, cosi ho cercato lo stesso di raccogliere le foglie sotto la pioggia ma era tutto bagnato e sono scivolato in acqua (e li mi misi a piangere disperato con tanto di sussulti e naso pieno).

Poi arrivò la domanda micidiale: “Dove sei caduto in acqua?” tuonò mio padre…io tra le lacrime e cercando di apparire più spaventato e naturale possibile, gli dissi che ero andato nel fiumiciattolo vicino, dietro casa, nel campo vicino dove c’e la riva di platani.

Ma mia madre incalzo: “Allora se eri cosi vicino, come mai arrivi a casa solo adesso?” ero pronto: …risposi che ero semplicemente nascosto dietro la casa, nell’orto perchè avevo tanta paura di rientrare.

Dovevo essere l’immagine della pietà, perchè vidi mio padre fare gli occhi rossi e con burbera celia mi disse di sedermi e bere il latte caldo che mia madre aveva preparato e di non avere paura la prossima volta di dire la verità etc. etc.

L’avevo scampata!.

Il giorno dopo mia madre mi chiamo vicino, e mi disse che la potevo si raccontare a mio padre ma non a lei, mi disse di ricordarmi sempre che una donna sa quando un uomo mente. E mi lascio cosi a pensarci su.

Ma da quel giorno, per tutta la mia vita, ho sempre amato la pioggia e i temporali specialmente in posti solitari fuori città.

Nel piccolo campo di minatori, la pioggia continuava calda e copiosa cantando la sua magica canzone sul tetto di latta ondulata dello spaccio, il caldo dei tropici era soffocante e sudavo copiosamente, il campo era ora immerso nell’oscurità eccetto per le piccole mini-lampade blue di sicurezza che segnavano i viottoli e per i numeri luminosi davanti alle piccole baracche dormitorio dandone loro l’identità.

La pace era suprema.

La pioggia calda sollevava un odore particolare dalla terra e mi sorpresi a pensare che senza dubbio e’ lo stesso odore che sentii nei campi quel giorno da bambino e sempre lo stesso odore che magari un bambino dei nostri antenati preistorici seduto alla soglia della sua caverna odorò qualche decina di migliaia di anni fa, anche lui  pensieroso e silenzioso…che strana sensazione ebbi a quel pensiero, mi sembrava quasi di poterlo vedere.

E fu allora che mi chiesi cosa facevo li, migliaia di kilometri da Perth, dall’altra parte del mondo dalla mia Italia..cos’era che mi spingeva a restare in questo deserto cosi inospitale ma che avevo alla fine imparato ad amare.

Da principio era stata una ragione di praticità.

Durante la fine degli anni 80, prima di essere un Tecnico IT, e per 11 anni, sono stato co-proprietario di una piccola fabbrica di materie plastiche, vestivo bene, ristoranti, night club, bella figura, Jaguar XJ6 e feste a non finire, perfino l’istituto di bellezza per uomini per curarmi le unghie e la pelle del viso.

Andava tutto a gonfie vele fino al giorno che il mio caro partner morì per cause di cuore.

Dopo pochi mesi, ebbi la sfortuna di scegliermi una ricca vedova da poco in Australia come nuova partner d’affari, decisione che credevo saggia in principio e lo fu per un paio d’anni, ma un giorno mi ritrovai a dover dire di “no” a certe sue insistenti richieste. (Non che io sia mai stato un santo, ma c’e’ una linea…)

E cosi la sua vendetta fu orribile ed sopratutto infame, mi trovai letteralmente su di una strada, senza fabbrica, senza lavoro, senza casa, senza macchina e senza un soldo, il lavoro di una intera vita completamente distrutto, volatilizzato nelle voragini della vendetta.            (comunque questa e’ un’altra storia.).

E cosi, completamente rovinato, feci il manovale muratore di giorno per vivere e studiavo comunicazioni IT di notte, avevo allora 48 anni.

Fu molto dura in principio, ero persino arrivato a contemplare suicidio. Tutti gli amici mi avevano abbandonato quando persi la fabbrica, e se non fosse stato per un paio di famiglie che dio le benedica, non so dove sarei oggi.

E proprio vero che le amicizie si rivelano nel momento del bisogno, c’era per esempio un’amica nostra che cucinava l’arrosto e poi ce lo portava a casa con qualche scusa come che aveva cucinato troppo ed era peccato buttare via, e ce l’aveva portato “per i cani”, questo per non offenderci.

Dopo tre anni presi un diploma IT ed accettai una postazione nello sconfinato e perduto nord-ovest Australiano, nella sperduta cittadina di Port Hedland.

Una pazzia per molti, ma vedevo questo come l’unica maniera per potermi rifare uno straccio di vita e poter provvedere decentemente alla la mia giovane famiglia dal momento che lassù i guadagni sono alti.

E poi cercavo di fuggire tutto quel casino. 

Cominciai a guadagnare molto bene, il doppio di una paga IT di città.

Ma stranamente presto dopo, la situazione monetaria comincio a prendere secondo posto ad altre cose.

Cominciai ad amare quell’aria pura, i tramonti infuocati, la vita semplice e dura, senza night club, senza cinema e ristoranti, le amicizie sane e sincere, le scampagnate nei parchi nazionali di selvaggia bellezza e non toccati ancora dalla civiltà, la pesca grossa dei pesci spada senza battelli di lusso, la mia vita cominciava ad aver un senso e una direzione.

Poi cominciarono i viaggi nel deserto, nei campi minerari satellitari, piccoli centri di un massimo di una cinquantina di persone, spersi in posti impossibili dove non ci sono strade come uno le può immaginare, ma solo tracce di quattroruote di persone come me che visitano questi posti per motivi di lavoro, non segnate in nessuna mappa, tracce che letteralmente scompaiono in una stagione quando il campo viene chiuso dopo pochi anni di sfruttamento.

Ormai il campo era diventato un’unica pozzanghera, la pioggia non dava segni di volersi spegnere, mi versai un’altro caffé e mi risedetti di fuori sotto la tettoia su di una poltrona vecchia e malandata, assorto e incantato dalla pace e dal rumore della pioggia. 

Provai una strana sensazione di pace immensa, di sicurezza ed euforia, felicita pura di essere vivo, la stessa sensazione che avevo provato da bambino in quel capanno dei cacciatori.

Mi tornò cosi in mente la mia gioventù, le prime ragazze, le balere, il primo lavoro, il primo amore, il mio matrimonio da giovanissimo, i sogni di riuscire nella vita, poi il viaggio in Australia, il difficilissimo inserimento in una società totalmente differente, ancora i sogni, poi gli undici anni con la fabbrica, la morte del mio caro socio e il travaglio della mia famiglia dopo quel momento. Ma pensai pure che dal semplice ragazzino del capanno, ne avevo fatta di strada, cose belle e cose brutte si, d’accordo,  ma alla fine tutto era servito in realtà a forgiare il mio carattere.

E fu cosi che quella notte lontana, capii finalmente che dopotutto ero arrivato alla vera felicità, avevo finalmente imparato ad essere me stesso, non avevo bisogno di niente, avevo gia tutto, non più nessun bisogno di fuggire.

E ancora una volta, ascoltando la pioggia, in un posto cosi lontano e remoto dal capanno, avevo finalmente completato il mio training della vita. 

Mi sentii veramente completo.

Ora vivo in Perth, mi sono ritirato dal lavoro per accudire a mia moglie gravemente ammalata, ma sono felice, veramente felice.

Vivo una vita sana e semplice, non mi manca niente perchè non ho bisogno di lussi, e le unghie me le taglio da solo.

Per amor di amicizia, non crediate perchè sono cambiato, che io ora disapprovi l’uomo moderno che va in un istituto di bellezza per creare un’immagine più “maschia”(?) di se stesso, forse per essere più attraente all’altro sesso o per quale altra scusa uno potesse inventare, il fatto e’ che il carattere di un uomo glielo si legge dentro nel profondo degli occhi, e nessuno può leggere gli occhi di un uomo meglio della sua donna, li lei legge il rispetto e l’amore, quindi perché perdere tempo e denaro a curare eccessivamente il di fuori quando e’ il di dentro che di solito ne ha molto più bisogno?

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In quanto alla vedova..beh spero Iddio abbia pietà di lei perchè io ancora non sono capace di perdonarla, chissà che un giorno prima di morire lo riesca a fare, ma per ora no.

Troppo ho sofferto.

MEDITERRANEO A FIRENZE

di Luigi Paternostro

Vivere a Firenze è, soprattutto in primavera, eccitante non solo per il risveglio della natura che qui assume contorni e dimensioni uniche ed originali, quanto per la varietà di stimoli che una città viva e culturalmente impegnata  offre in tanta abbondanza da farti sentire quasi irretito e stordito dalle innumerevoli proposte.

Ad un certo punto non puoi percorrere tutti i sentieri: sei costretto a scegliere quelli che più fanno vibrare le corde del tuo sentimento ed aprono quei confini che nascondono spazi sterminati.

Stamattina ne ho percorso uno. Sono pervenuto all’Archivio di Stato ove ho incontrato Mimmo Sancineto, la sua passione, la sua anima permeata di Calabria e di Pollino, atteso ad offrire i suoi  colori, i suoi gioielli, i suoi segni, i suoi sospiri, la sua palpitante, sincera, sensibile, irripetibile  anima d’artista che onora la terra ove è nato e che raccoglie da essa quelle sensazioni ed aspirazioni di libertà che le sue pennellate mi mettono addosso coinvolgendoti e facendoti respirare culture di absidi, percorsi di spiagge, di monti, di paesi e soprattutto una natura che scaturisce dal tripudio di una fantasia che comunica quella gioia che ha sorretto e ispirato il suo originale e travagliato pennellare.

Grazie, Mimmo per l’ossigeno di cui mi sono imbevuto, grazie!

La mostra itinerante “MEDITERRANEO nei colori della pittura di Mimmo Sancineto”  passerà in maggio a Torino e in giugno a Milano.

Dalla collana “Muri storici” la Madonna del Castello è il dipinto su tavola riportato (cm.100x120)

TITINO

di Francesco M.T. Tarantino

Andasti via col tuo sax in una terra di frontiera

Ad allietare altri ascolti non più raffinati di noi

Con le tue note gioiose far cadere ogni barriera

Perché non vedessero gli stranieri come avvoltoi

Fu la Svizzera la tua nuova terra come una platea

Per i tuoi sogni di musica e un lavoro da inventare

Il coraggio di lottare per farti una buona nomea

E infine una compagna per una vita da coniugare

Scorsero gli anni gloriosamente e inevitabilmente

Ti salutò l’alba del giorno all’indomani del ritorno

E fra canti balli e suoni con gli amici allegramente

Ti riconquistò il fascino della solidarietà all’intorno

Era il tempo di godere dei frutti dei fiori e del mare

Il tempo di inventare una musica diversa e canzoni

Che attraversino il cielo e ci insegnino a guardare

Oltre i limiti del reale e delle umane presunzioni

Senza annuncio ti colpì un’ improbabile teodicea

Che ti fiaccò pian piano fino a toglierti la voglia

Di riemergere dal fondo di onde della tua odissea

Preda ormai del vento quando scuote una foglia

Vorrei mandarti questi versi magari con un fax

Ma lì dove sei non ci sono macchine telescriventi

Sento girare ancora nell’aria le note del tuo sax

Che ravvivano il palpito dei nostri cuori piangenti

IL PITTORE DELLE QUOTIDIANITA’

di Nicola Perrelli                   

Bellezza, armonia dei colori e equilibrio delle forme, nelle opere di Rocco Regina,  si fondono fino a creare un’unica  visione d’insieme, che trasmette piacere e provoca emozioni.

I suoi quadri mostrano  una faccia della sua personalità e tratteggiano il suo percorso umano e  artistico. Sono evidenti il forte legame con la propria terra, a lui veramente cara, e il richiamo  ai maestri macchiaioli.

Guardando i dipinti del pittore mormannese, colpiscono innanzitutto la straordinaria capacità grafica e poi gradualmente, ma solo perché più nascosta ed emozionale, quella artistica.

La sua è una pittura immediata, spaziosa, di grande potere suggestivo, ricca di particolari, decisamente realistica. Che riconduce ai luoghi di  natura : terra, mare, campagna, alberi, fiori, vita quotidiana.

Le  immagini rappresentate vengono perciò colte dall’osservazione, en plein air, di paesaggi e di scorci colorati dal caldo sole  autunnale del Sud. Ed è proprio questo abbraccio di luce, con le sue infinite sfumature, che percepiamo contemplando le tele del Nostro. Una luce che si riverbera in innumerevoli sfaccettature cromatiche e mille riflessi. E che illumina e rende chiare e riconoscibili le scene raffigurate.

I temi preminenti delle sue opere sono la rappresentazione di elementi naturali e di  motivi paesistici in foggia apparentemente semplice e scontata, quasi scopiazzata. Ma cosi non è.

Nei suoi lavori troviamo ciò che lo  impressiona intimamente e ciò che gli rimane dentro  dopo uno sguardo, magari fulmineo, rivolto al profilo di una montagna, a un paesaggio campestre, a un vicolo o a un panorama di un paesino.

Ci conquistano  gli  straordinari effetti di luce provocati dall’accostamento dei colori, protagonisti assoluti, e dalla prepotenza della pennellata. E restiamo affascinati davanti al meraviglioso  paesaggio calabrese che l’artista stende sulla tela con linee morbide e flessuose, seppure consistenti.

Rocco Regina ama il suo paese. Ne scorge di continuo gli infiniti profili e forse non c’è soggetto che dipinge di più. Le case, i vicoli e le viuzze, le vedute e la natura montana  di Mormanno possono  diventare cosi, in ogni momento, oggetto di mirabili rappresentazioni artistiche. 

Il paese e le sue contrade sono  il vero che scruta e che poi ritrae in figure che restituiscono emozioni intense e sempre nuove.

Anche se dipinge ciò che esiste, la raffigurazione non è mai del tutto fedele. Sulle tele, del reale, fa emergere l’intrinseca vitalità della natura e delle cose e tutte le emozioni che queste sprigionano.  

Risultato: i  suoi quadri riescono sempre a suggestionare qualunque tipo di pubblico. 

"....Io non credo veramente che esistano modi sbagliati di godere un quadro o una statua...." (Ernst H. Gombrich)

*****

Rocco Regina utilizza indifferentemente diverse tecniche pittoriche, ma predilige l’olio su qualsiasi supporto.

Dipinge per gusto e appagamento personale.

Nel corso della sua lunga carriera ha partecipato a importanti concorsi ed estemporanee.

Ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi di pittura.

Primo classificato alle estemporanee di Paola 1985, di Terranova 1986, di Morano Calabro 1989, di San Demetrio Corone 1994, di Lamezia Terme 1994 e di molte altre ancora fino all’ultima di San Calogero 2007.

Sue opere si trovano in collezioni private e pubbliche, sia in Italia che all’estero.

E’ stato selezionato, studiato e interpretato dalla critica.

E’ presente su diversi cataloghi d’arte nazionali.  

L’INFANZIA

di Massimo Palazzo

Sono nato il 21.10.1957 nella sala maternità dell’ospedale di Varese un lunedì mattino alle 7.30 da mamma Emma casalinga e papà Lino rappresentante per la ditta di detersivi Mira Lanza.Il destino che qui approfitto per ringraziare  mi aveva  assegnato una mamma dolce e bella un papà contentissimo del figlio maschio una sorella Lorenza  più grande di me di 5 anni  che mi ha assistito premurosamente e al quale non è mai stato corrisposto  tutto l’affetto che ho avuto io e che si sarebbe meritata , un’affettuosa vicina di casa Mariuccia che mi considerava il bambino più bello del mondo.

Abitavamo in una palazzina  anni quaranta poco lontana dal centro in un  appartamento all’ultimo piano , tenuto in ordine maniacale e quasi invivibile per l’ossessione delle pulizie dalla mamma. L’arredamento modesto tipico di quei tempi era composto da una stufa tedesca nera a legna, il televisore in bianco e nero  sul  carrellino trasparente in bella mostra in salotto, il divano il tavolo con sei sedie e la credenza libreria ,in cucina  il fornello con i quattro fuochi alimentato  dalla bombola del gas che finiva sempre il sabato o la domenica, il frigorifero Ignis il tavolo di formica le sedie  la dispensa e una buona quantità di giochi miei .

All’età di tre anni andai all’asilo Emma Macchi Zonda, poco distante da casa, grande bello e pieno di giochi. Al contrario di tanti miei coetanei non ho mai fatto storie per andarci .La mattina mamma mi lavava mi preparava ben pulito  con il grembiulino e il cestino di paglia con le merendine e mi accompagnava per un sentiero che in primavera si riempiva di papaveri e ci  ispirava le canzoncine sugli stessi. Copiando le frasi del babbo quando la salutavo le dicevo che ci saremmo visti alla sera, che non sarei tornato a casa per pranzo perché ero lontano e dovevo visitare parecchi clienti e lei mi assecondava  con una dolcezza incredibile. Il sabato e la domenica esisteva solo il papà. Il sabato lo accompagnavo a fare la spesa, poi andavamo in Svizzera a fare il pieno di benzina che costava meno, a prendere il cioccolato  della Suchard che piaceva alla mamma,il caffé lo zucchero,  i moretti per me e per Lorenza e al rientro a casa  mi metteva sulle ginocchia e mi faceva tenere il volante il massimo del divertimento. La domenica se non andavamo tutti insieme in gita al lago o in montagna andavo con lui a vedere la partita di calcio del Varese ed è sua la colpa di questa passione , per lo sport in generale e per la Juventus la squadra del cuore che come la mamma non si cambierà mai più.

A sei anni appena compiuti iniziai la scuola. Il primo giorno alla Giovanni Pascoli nel corridoio al primo piano ci suddivisero e mentre la maggior parte dei bambini  piangeva e si rifiutava di entrare in classe io tra l’incredulità dei miei  presi possesso del mio banco curioso di saper cosa mai mi sarebbe accaduto. Fu abbastanza laborioso  e non privo di difficoltà l’inizio della lezione e ricordo che poco prima della chiusura della porta dell’aula la mamma si affacciò incredula per rivedermi e io sorridente le feci ciao ciao con la manina.

Anche a scuola come all’asilo ci andai sempre  volentieri:avevo le mie preferenze, provavo molto fastidio prima per le tabelline in seguito per le poesie mentre adoravo scrivere. Scrivevo talmente bene che sia all’elementari che alle medie compilavo con tutti i nomi dei compagni i

registri di classe. A otto anni mi iscrissero alla scuola pallacanestro Ignis Varese e conservo ancora l’articolo pubblicato sul giornale locale la Prealpina “una covata di piccioncini”. Mi divertii  e procurai parecchie soddisfazioni ai miei,soprattutto a papà che però mi ossessionava a tal punto da litigarci e farmi passare la passione. 

Erano i tempi dell’invincibile squadra gialloblu e  parecchie volte giocammo prima della partite importanti. Mi procurava un’emozione  e un agitazione incredibile che per fortuna sparivano una volta entrati in campo, prendere applausi poi mi rendeva felice e mandavano in visibilio papà quando sentiva parlare bene del numero dieci cioè io. In società scommettevano su un probabile futuro da giocatore  ma non fecero i conti  con un allenatore antipatico, papà sempre più assillante e nuove passioni come il motorino, il motocross e le ragazzine che piano piano mi allontanarono da questo sport.

Un’altra valvola di sfogo per i giochi,per gli animali e per l’affetto erano mia nonna materna Angela e mio zio Augusto fratello di mia mamma, figure importanti della mia infanzia che abitavano vicinissimi a noi e dove io passavo la maggior parte del tempo. La casa  aveva un grande giardino dove potevo  correre con le automobiline a pedali di latta  con la bicicletta con le cartoline nei raggi che simulavano il rumore del motore, giocare a pallone o a basket invitare amici e soprattutto tanti animali che adoravo:  un boxer di nome Darma,i gatti, il pollaio con le galline e i conigli,i canarini, le tartarughe,i pesciolini rossi e andare con lo zio in passeggiata in montagna e al lago in bicicletta o con la sua Vespa 150 3 marce. Le vacanze ad Agosto  a Bellaria per tre settimane talvolta quattro erano un appuntamento irrinunciabile. Partivamo di mattino presto per evitare il caldo con la  600 prima la 850 dopo caricate all’inverosimile di valigie valigette e borsette. Mi mettevo alle spalle di papà e per tutto il viaggio era un incitamento continuo a non farsi sorpassare da nessuno ed ad andare sempre più forte creando un atmosfera non proprio idilliaca in quanto la mamma aveva una paura terribile.

L’Hotel Gioiella era un luogo affascinante: avevamo  una camera bella grande e spaziosa,si mangiava divinamente soprattutto le lasagne al forno che all’epoca la mamma non faceva. La spiaggia  esercitava su di me un attrazione irresistibile, papà noleggiava  sdraio e ombrellone e io  tra formine palette secchiello camioncini, biglie ,amici e bagni  rigorosamente controllati e legati alla digestione (non prima delle undici e delle sedici) mi divertivo un mondo.

Papà si riposava, mamma diventava un cioccolatino e Lorenza soddisfava già allora uno dei suoi hobby preferiti la lettura. Due volte al giorno passavano gli aerei che trascinavano grandi striscioni pubblicitari e gettavano numerosi paracaduti con attaccato  un regalo. Raramente papà se ne faceva sfuggire qualcuno. Le abitudini non subivano particolari modifiche con il passare degli anni:la maggior parte della giornata in spiaggia, alla sera andavamo a mangiare il gelato,a vedere gli spettacoli,al cinema all’aperto e qualche festicciola organizzata dall’hotel  dove la mamma una volta venne eletta Miss eleganza tra la gioia di tutti noi e soprattutto del papà che la considerava e a ragione bellissima.

Sono stati anni  belli che ricordo  con emozione e affetto per i miei genitori che  pur tra grosse difficoltà hanno fatto il possibile per farci crescere bene senza farci mancare l’affetto e insegnamenti importanti.

IL SOGNO DALLA FINESTRA

di Marilena Rodica Chiretu

Alla finestra spunta un sogno

che rompe il vetro,

vola tra le ali di due orizzonti,

misura la distesa senza fini

senza confini,

abbraccia i colori del giorno

e la musica della notte,

la gioia di guardare

e il dolore di non poter toccare.

Il nocciolo del silenzio scoppia

nello scroscio delle parole,

nutre l’altezza delle montagne,

bagna la profondità delle valli

di ricordi,

senza un ieri, senza un domani,

sospesi tra due stagioni

dal filo dorato atemporale,

uccide la saggezza

di contare gli anni.

Sto al riparo della casa,

senza tetto, senza muri

al calore del cuore

riscaldato dal filo rosso

della passione,

tagliata in due sapori

assaggiati con il cucchiaiono

dell’amore

si arrotonda il calore del nido

nell’intreccio dei colori e i suoni

alla finestra dove regna

il mio sogno...

VISUL DE LA FEREASTRA

La fereastra rasare un vis

care sparge sticla,

zboara intre aripile a doua orizonturi,

masoara intinderea fara un scop,

fara hotare,

imbratiseaza culorile zilei

si muzica noptii,

bucuria de a privi

si durerea

de a nu le putea atinge usor.

Samburele tacerii erupe

in ropotul cuvintelor,

hraneste inaltimea muntilor,

scalda profunzimea vailor

de amintiri,

fara un ieri, fara un maine,

suspendate de un fir auriu,

atemporal,

topind intelepciunea

in lacrima anilor.

Stau inauntrul casei,

fara acoperis, fara ziduri,

la adapostul inimii

incalzite de firul rosu

al pasiunii

taiata in doua arome

gustate cu lingurita

iubirii;

se rotunjeste caldura cuibului

in impletirea culorilor si a sunetelor

ce stau la fereastra unde domneste

visul intre doua anotimpuri

in leaganul adierii;

ma ravaseste farmecul

primaverii...


QUARANT’ANNI FA IL PRIMO CONCERTO ALL’AQUILA DI VITTORIO ANTONELLINI

di Goffredo Palmerini

Sotto la direzione del grande Maestro piemontese quattro decenni di successi  per i Solisti Aquilani e l’ISA

L’AQUILA –  Il 21 aprile scorso non si celebrava solo il natale di Roma. “Si parva licet”, ricorrevano anche quarant’anni da quel 21 aprile 1968 – che poi piccola cosa non fu – del primo concerto dei Solisti Aquilani, gruppo camerale appena costituito all’Aquila sotto la direzione di Vittorio Antonellini, piemontese di Alessandria e di forte temperamento. Il giovane musicista era arrivato nel capoluogo abruzzese per aver condiviso l’utopia di Nino Carloni, l’Avvocato della Musica per antonomasia, uomo carismatico, di notevole ingegno e raffinata cultura al quale si deve la grande fioritura di istituzioni musicali dal 1946 in poi: dalla Società Aquilana dei Concerti “Barattelli” ai Solisti Aquilani, dall’Orchestra Sinfonica Abruzzese al Conservatorio Musicale “Casella”, dall’Officina Musicale Italiana ai Festival Musicarchitettura. Carloni aveva contattato Antonellini nell’ottobre ’67 a Roma, dopo un concerto della Camerata Musicale Romana, su consiglio di Goffredo Petrassi che con “l’Avvocato della Musica” aveva un rapporto di profonda amicizia. E Carloni appunto su Antonellini puntò per costituire il Complesso da camera, 14 giovani musicisti di talento, italiani e stranieri, che in quel 21 aprile ’68 ebbero l’esordio all’auditorium del Forte spagnolo. Un grande successo, il primo d’una lunga serie in tutto il mondo. Così s’espresse Nino Carloni presentando i Solisti Aquilani: “Nata da una comune volontà della Società dei Concerti e di questi giovani musicisti, la nuova compagine non solo intende servire la Musica con una attività a livello nazionale ed internazionale, ma si propone di dotare l’Abruzzo, per la prima volta nella storia della regione, di un valido strumento educativo che sia in grado di utilizzare, in modo originale, anche le enormi esperienze musicali accumulate in questi ultimi ventidue anni all’Aquila ed un po’ in tutta la regione d’Abruzzo, vigorosamente risvegliata alla Musica”. Ed infatti, dal 1946, L’Aquila era diventata progressivamente il crocevia di grandi musicisti e di orchestre prestigiose all’interno delle stagioni concertistiche della “Barattelli”, tanto da far definire la Città la “Salisburgo d’Italia”, dove Arthur Rubinstein preferiva suonare, piuttosto che nei templi della musica, per l’atmosfera e la sensibilità musicali che vi aveva riscontrato.

Dunque la ricorrenza del quarantennale del debutto all’Aquila del maestro Antonellini non poteva passare inosservata. Anzi. Sicché il presidente dell’Istituzione Sinfonica Abruzzese, Ludovico Nardecchia, con la complicità della Presidente della Provincia e del Sindaco dell’Aquila, hanno preparato ad un ignaro Antonellini, che credeva d’andare in Provincia per un normale incontro di lavoro, la sorpresa d’una festa con le massime rappresentanze delle istituzioni civili e culturali, musicali  teatrali e cinematografiche. Accolto dalle note magiche d’un capriccio di Paganini, “La risata”, eseguite da Ettore Pellegrino, virtuoso primo violino della Sinfonica Abruzzese su un prezioso strumento Goffredo Cappa del 1675, il

Maestro non ha resistito una comprensibile emozione per l’evento del tutto inatteso, gli occhi lucidi, la commozione per la consegna di targhe e riconoscimenti, quindi i suoi ricordi di quel lontano debutto di quarant’anni fa che aprì una stagione di successi. La nascita dei Solisti Aquilani, in ambito nazionale, s’inseriva in quel progetto di rivalutazione del patrimonio strumentale italiano sei-settecentesco, dimenticato per tutto l'Ottocento e nei primi decenni del Novecento, poi gradualmente riportato alla luce dai più colti interessi musicologici, a partire dagli anni Trenta del secolo scorso.

Nel 1968 esistevano già I Solisti Veneti, I Virtuosi di Roma ed I Musici, tutti impegnati in tale affascinante ed italianissimo repertorio, ma I Solisti Aquilani si caratterizzavano per la loro collocazione geografica, essendo essi l’unica struttura del genere nel meridione che realizzava di fatto un modo nuovo di pensare la musica. Altro motivo di originalità dei Solisti Aquilani, rispetto alle formazioni similari che già operavano in Italia, stava proprio nella vocazione sociale di stretto rapporto con la realtà territoriale nella quale intendevano operare. I Solisti Aquilani hanno conquistato un’autorevole posizione nel contesto delle più valenti formazioni cameristiche internazionali, presenti nei principali cartelloni musicali italiani. Protagonisti di numerose ed importanti tournée in Europa, in Medio Oriente, in Africa, in America, in Vietnam e Singapore, ospiti delle più prestigiose sale da concerto in America centrale e meridionale, Austria, Canada, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Irlanda, Jugoslavia, Libano, Malta, Polonia, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Tunisia, Turchia, Ungheria, Egitto, Lituania, Estonia, Slovenia e Croazia, i Solisti Aquilani sono stati ripetutamente ospiti dei festival internazionali di Berna, Bonn, Cannes, Helsinki, Lucerna, Ludwigsburg, Menton, Miami, Montreux-Vevey, Passau, Puebla, San Sebastian, Toronto e Zurigo. Importanti e significative sono le collaborazioni del Complesso con i più insigni solisti del mondo. Il Complesso ha realizzato numerose incisioni discografiche e registrazioni radiofoniche e televisive in Italia, America Centrale e del Sud, Germania, Spagna, Svizzera e Stati Uniti. Nati sotto la direzione di  Vittorio Antonellini che li ha condotti per oltre trent’anni, sono stati poi diretti dal maestro Franco Mannino, quindi da Vittorio Parisi ed attualmente da Vincenzo Mariozzi.

La nascita dei Solisti Aquilani fu solo una parte del grande sogno di Nino Carloni “al servizio della Musica”, come Egli soleva ripetere. Lo ha ricordato il 30 settembre 2007, con una dotta commemorazione a vent’anni dalla scomparsa dell’Avvocato della Musica, il musicologo Francesco Sanvitale, direttore dell’Istituto Nazionale Tostiano e per molti anni stretto collaboratore di Carloni: “…Perché alla prima creatura, la Barattelli, presto seguirono istituzioni che producevano musica, a partire dai Solisti Aquilani nel 1968, con Vittorio Antonellini alla direzione. Poi affidando allo stesso Antonellini ed alla figlia Marina Carloni il compito di creare, due anni dopo, l'Orchestra Sinfonica Abruzzese…”.  Ed infatti nel 1970 nasceva l’altra creatura di Nino Carloni, una delle dodici orchestre stabili italiane riconosciute dallo Stato, anch’essa destinata ad una storia di brillanti affermazioni in Italia ed all’estero, ma soprattutto ancorata alla missione d’incrementare in ogni angolo d’Abruzzo la cultura musicale, secondo lo spirito carloniano. Dell’Istituzione Sinfonica Abruzzese, Vittorio Antonellini è da un decennio il direttore artistico. Per completare il corposo disegno della musica, progettato da Nino Carloni, nel 1986 vide la luce l’Ensemble Barattelli, che ora ha preso il nome di Officina Musicale Italiana, per la diffusione della musica contemporanea. Il complesso, diretto sin dalla fondazione dal maestro Orazio Tuccella, conquista apprezzamenti e successi in tutto il mondo ed ha di recente insediato la sua sede in uno dei borghi più suggestivi d’Italia, Santo Stefano di Sessanio, splendido villaggio arroccato ai contrafforti del Gran Sasso d’Italia che quattro secoli fa fu proprietà della famiglia Medici di Firenze per via della speciale lana nera che le greggi del luogo producevano. Insomma, davvero un caleidoscopio di strutture al servizio della cultura musicale abruzzese e nazionale, opera feconda di Nino Carloni, illustre nella professione forense e nella politica abruzzese, ma soprattutto figura di spicco nel mondo musicale italiano che lo ricorda con l’appellativo di “Avvocato della Musica”, rigorosamente con le lettere maiuscole.

BENVENUTI A SILLIAN

di Piero Valdiserra

Situato nell’Alta Val Pusteria, a 1.100 metri sul livello del mare, il comune di Sillian si trova al confine ovest dell’Osttirol, nel comprensorio di Lienz, in Austria. Con i suoi 2.100 abitanti è il capoluogo della parte settentrionale dell’Osttirol, quella che – stando alle statistiche – gode del periodo di soleggiamento più prolungato di tutta l’Austria.

Sillian si trova tra il monte Thurntalers, alto 2.407 metri, e la Drava. Il suo confine occidentale è al tempo stesso il confine di Stato tra Austria e Italia. A sud confina con il comune carinziano di Kamm. Il territorio di Sillian è solcato da verdi vallate, circondate da una corona di alte montagne ricoperte da ghiacciai; le nevi dell’inverno e il clima particolarmente mite dell’estate invitano a praticarvi varie attività all’aperto.

Per cogliere appieno tutte le grandi e numerose bellezze di Sillian, è da consigliarsi un periodo di soggiorno presso lo Sporthotel Sillian, incastonato fra le Dolomiti e il Großlockner. Trovandosi proprio nel cuore dell’Osttirol, lo Sporthotel Sillian è un ottimo punto di partenza per passeggiate nei prati e nei boschi circostanti, escursioni in bicicletta, tour in moto e nordic walking.

Per chi cerca poi un po’ di relax dopo le attività della giornata, sono disponibili ben 3.000 metri quadrati di superficie dedicati al wellness. L’area wellness è in parte all’interno e in parte all’esterno; comprende due piscine, diverse saune, una grotta di sale, un circuito Kneipp, diversi trattamenti di bellezza (molto particolari quelli alla frutta e quelli a base di pino mugo), massaggi, bagni di erbe tirolesi e una palestra fitness.

I ragazzi hanno a disposizione un Internet Cafè, e i bambini un mini club e una piccola discoteca per l’infanzia. Per i più piccini, infine, ci sono culle, babyphones e una baby sitter professionista.

Le specialità gastronomiche servite sono quelle della cucina austriaca locale: i prodotti contengono pochissimi grassi, e vengono lavorati freschi, in modo da mantenere al massimo tutte le loro proprietà nutrizionali. I vini del territorio sposano al meglio i piatti della tradizione. La proposta gourmet è completata da un’ampia selezione di grappe e di liquori pregiati.

GANBEI!  SI SVUOTINO I BICCHIERI

di Paola Cerana

Una cena ufficiale in un tipico ristorante cinese nel cuore di Beijing, con ospiti cinesi, è un’avventura assolutamente unica, istruttiva e divertente. Un’esperienza memorabile del mio breve soggiorno in Cina.

L’appuntamento era per le 18.30, si cena piuttosto presto laggiù. Sinceramente ne ero contenta, dato che camminavo dalla mattina presto con un break di soli tre caffè a ricaricarmi dell’energia spesa durante il mio vagabondare per la città. Quella sera sarei stata ospite, insieme ai miei compagni di viaggio, di un importante rappresentante del mondo imprenditoriale cinese (che per motivi di riservatezza chiamerò Mr. W.) e dei suoi collaboratori, assieme ad altri uomini d’affari giapponesi e americani, a loro volta accompagnati da uno stuolo di segretarie e traduttrici.

Sapevo già in partenza che non si sarebbe trattato semplicemente di una cena conviviale, poiché i cinesi danno molta importanza alla forma anche in situazioni apparentemente informali, spesso cruciali per l’esito di un affare, pur non argomentandone mai a tavola. La condivisione del pasto è infatti un vero e proprio rito, al quale è bene per uno straniero non giungere impreparato, se non altro per evitare qualche imperdonabile gaffe e mandare in fumo, con un gesto fuori luogo o una frase stonata, gli accordi raggiunti magari dopo lunghe trattative.

Facendo affidamento un po’ sulla mia sensibilità, un po’ su quello che mi era stato raccomandato da Zhuohua Chen, una simpatica segretaria cinese e, perché no, un po’ sul mio sorriso, mi accingevo ad affrontare la serata con entusiasmo, senza tante preoccupazioni. Confesso che credevo di essere pronta a tutto ma all’anatra proprio no! Già, perché il piatto tradizionale a Beijing è l’anatra arrosto o beijing kao ya, , un vero suicidio per una simpatizzante vegetariana come me. Oltretutto i nostri ospiti erano talmente orgogliosi di intrattenerci in uno dei più rinomati ristoranti dell’intera Cina, il Quanjude Roast Duck, ,che mai avrei osato creare imbarazzo e disarmonia a causa di un uccello.

Così, messi da parte all’istante i miei gusti e i miei fragili principi, mi sono lasciata sedurre, conquistata dalla bellezza del locale e soprattutto dall’accoglienza calda e al contempo solenne che mi attendeva. La sala era un’esplosione di rosso e oro, di draghi focosi e fenici leggiadre appollaiate su imponenti colonne intarsiate e di drappeggi e ricami tutt’attorno alle pareti. Due grandi tavoli rotondi riccamente imbanditi aspettavano che tutti prendessimo posto, rispettando le indicazioni assolutamente imprescindibili di Mr. W. Un tavolo era riservato a noi, l’altro alle segretarie e ai funzionari.

Ero onorata di essere stata ammessa a sedere al tavolo degli uomini, eccezione gentilmente concessami in quanto ospite straniera poiché là, tradizionalmente, le donne non prendono parte ai banchetti ufficiali degli uomini d’affari. Al centro un grande piatto rotante colorava la tavola di un’infinità di misteriosi assaggi, dall’aspetto incantevole e devo dire tutti gustosi, anche se non completamente decifrabili. Non erano che il contorno in attesa che l’ospite d’onore, la famosa roast duck, fosse introdotta nella sala, sopra un carrello fumante e venisse affettata con arte sopraffina davanti a noi da un abile chef. Devo dire che era talmente bella da sembrare finta, tutta rossa e gonfia, come fosse una scultura dipinta di ceralacca.

Mr. W. ci ha spiegato, fiero, che questo piatto è stato introdotto dall’imperatore Yuan nel 1300 ed è stato tramandato da tutte le dinastie successive fino a diventare uno dei piatti nazionali. Ancora oggi la sua preparazione rispetta la tradizione: l’anatra viene riempita di aria attraverso il collo, per separare la pelle dal grasso, per questo si presenta gonfia. Dopo di che viene fatta bollire in acqua e appesa ad asciugare. Il colore rosso le viene dato da una spennellatura di sciroppo di maltosio, che dopo ventiquattro ore di riposo e una lunga cottura in forno, le dà l’aspetto finale. Mr. W. ci ha tenuto a darci tutti i dettagli della cottura, dal tipo di legno usato, alla sistemazione nel forno ma a quel punto ero talmente concentrata a non pensare alla povera duck imbottita d’aria che mi son persa il resto del discorso, vagheggiando per un attimo altrove con la mente.

Ma il rito vero e proprio ha avuto inizio quando Mr. W. ci ha invitati ad alzarci per il primo ganbei! della serata, il primo brindisi. In un piccolo bicchiere di cristallo ci era stato offerto un liquore incolore derivato dai cereali (shaojiu), ad alta gradazione alcolica, simile alla nostra grappa, con cui è tradizione brindare. Era minaccioso già solo nel nome, dato che shaojiu significa letteralmente “liquore di fuoco” o “liquore bollente”. Ma quel che era peggio è che il ganbei doveva essere fatto svuotando fino all’ultima goccia e tutto d’un fiato il bicchiere, in segno di sincero apprezzamento della bevuta e soprattutto della compagnia. E se ne dava prova, alla fine, capovolgendo il bicchiere vuoto sulla testa: nemmeno una goccia sarebbe dovuta cadere.

Sottrarsi al rito del ganbei sarebbe stato un imperdonabile segno di maleducazione, perciò ho dedicato silenziosamente il mio primo brindisi alla fortuna di non essere astemia e di sopportare dignitosamente, almeno fino a quel momento, i fumi dell’alcol. Non immaginavo, però, che durante la cena mi sarebbero toccati così tanti ganbei! Già, perché ogni brindisi va onorato ma soprattutto ricambiato e alla fine pareva si fosse ingaggiata tacitamente una vera e propria gara a chi riuscisse bere di più. Credo di aver contato almeno venti ganbei in tutta la serata, senza considerare i fiumi di vino rosso (jiǔ), rigorosamente made in China, dato il nome sull’etichetta, “The Great Wall”, con cui i bicchieri venivano puntualmente rabboccati dalle cameriere.

La cosa divertente è che ogni ganbei doveva esser fatto in piedi, finché si era in grado di starci, naturalmente. Fatto sta che abbiamo passato tutti più tempo alzati a scambiarci ossequi, inchini, complimenti e auguri di prosperità e buona fortuna che non seduti a tavola. E se Mr. W. e la squadra cinese hanno dimostrato di essere ben allenati a reggere l’alcol, a metà sera giapponesi e americani hanno dato i primi segni di cedimento, appendendo giacca e cravatta alla sedia, liberandosi così dell’aria formale iniziale, e si sono alternati in battute rese ancora più divertenti dalle espressioni paonazze dei loro volti (a proposito, anche in Cina è gettonatissimo l’argomento Sarkozy Bruni!).

La mia salvezza è stata sedere accanto a Mr. B., un vero gentleman, che più di una volta ha accettato, con tacita gratitudine, lo scambio tra il mio bicchierino pieno e il suo regolarmente vuoto, senza che nessuno se ne accorgesse, ovviamente. Evidentemente doveva essere avvezzo a trattare con i cinesi, perché alla fine ha bevuto più di loro, pur mantenendo una straordinaria lucidità, vincendo così sorprendentemente la sfida del ganbei e guadagnandosi la stima e il rispetto di tutti. Ho saputo poi che effettivamente non è raro che in simili occasioni gli stranieri deleghino uno tra loro, il più resistente e allenato, al ruolo di bevitore, per evitare di finire tutti quanti brilli compromettendo l’andamento della serata.

La nostra cena ha proceduto decisamente alla grande in un crescendo di allegria: non si è mai parlato di affari, né di Taiwan, né tanto meno del Dalai Lama né delle proposte di boicottare i giochi olimpici, tutti argomenti tabù per i cinesi. La conversazione non ha mai languito e ha coinvolto tutti, alimentando un clima di armonia e di equilibrio degno dell’apprezzamento del più saggio maestro Zen.

Oltretutto l’atmosfera rilassata ha contribuito a rendere meno sofferta la mia conversione all’anatra, che fra l’altro era camuffata un po’ ovunque in ogni assaggio. Non sapevo, però, che anche il modo di consumarla avesse un suo rituale da rispettare: dal grande piatto centrale si doveva prendere una frittella cotta al vapore (héyè bǐng, letteralmente foglia di loto) e deporla sul proprio piatto, con le bacchette si doveva intingere dello scalogno in una salsa di fagioli rossi e pennellare per bene l’interno della frittella che, a quel punto, era pronta per essere rimpinzata di petto d’anatra, cetrioli e carote, chiusa, presa con le mani e addentata.

La segretaria personale di Mr. W. ha pensato bene di riverire l’unica presenza femminile al tavolo facendo la dimostrazione di questo rituale proprio davanti a me, sul mio piatto. Così mi son ritrovata con quel fagotto caldo e traboccante in mano, sospeso a mezz’aria davanti alla bocca, con

ventidue occhi puntati su di me, in attesa del primo morso e di qualche mio segno di gradimento, prima che tutti si mettessero a fare altrettanto. L’espressione compiaciuta e fiera dipinta sul viso di Mr. W. nel vedere il nostro apprezzamento per il cibo è stata sufficiente a farmi dimenticare per qualche istante l’anatra e alla sua domanda “Do you like chinese food, Miss. Cerana?” ho potuto rispondergli con sincera gratitudine “Oh, yes I do, really good!”, conquistandomi definitivamente tutta la sua simpatia.

Al termine di una lunga sfilata di fantasiose portate, Mr. W. ha proposto l’ultimo solenne ganbei della sera. Alzandosi in piedi e abbandonando poi per primo la tavola, come la tradizione vuole, ha espresso a tutti i suoi ringraziamenti e i suoi auguri di felicità, salute e successo, per noi, per le nostre famiglie, per le nostre aziende, per i nostri Paesi e per il mondo intero!

Quell’ultimo bicchiere, confesso, l’ho bevuto anch’io, tutto d’un fiato e fino all’ultima goccia, sperando di annegare il pensiero della povera anatra laccata di rosso di cui, per fortuna, non c’era più traccia ma che, ne ero certa, sarebbe presto riaffiorata nella mia mente, costringendomi a fare i conti, prima o poi, con la mia coscienza!

LA BAMBOLA SUSY

di Miriana Vadalà

Dal suo appartamento al quinto piano guardava fuori distratta e si stringeva nel golf. Fuori pioveva e lei guardava giù dalla finestra opaca, il vuoto grigio lungo la facciata, sopra le macchine parcheggiate in fila indiana.

Ripensava alla sua giornata in clinica ed era sfinita oltre ad essere molto confusa.

La giornata era stata lunga e molto intensa e il collega giungendo in ritardo l’aveva costretta  a staccare più tardi.

Al Pronto Soccorso erano arrivati in tanti e tutti erano passati da lei. 

Un ventenne ubriaco fradicio, accompagnato da un amico, una vecchietta in piena demenza senile che non intendeva prendere le gocce per la pressione e quello che più l’aveva colpita: un punk a bestia che rischiava il coma diabetico. Questo l’aveva colpita più di tutti perché uno dal punk s’aspetta un coma etilico, un virus strano o malattie non ovviamente trasmettibili.

E invece lui era diabetico e siccome seguiva una certa filosofia di vita alternativa, si abbuffava di dolcini e caramelle varie e quella volta aveva mandato giù due pacchi di caramelle Haribo. Non si sa mai, scacciamo pure le amarezze della vita!

Lei lì a combattere con tutti, col ventenne che aveva tre piercing e una paura matta del prelievo. Ma com’è possibile, si chiedeva? Il piercing farà un male cane e questo mi fa impazzire per trovare le vene? Urlava e si storceva facendola ammattire, tanto che riuscì a bloccarlo solo con l’aiuto di due infermieri. Poi, dopo averlo bloccato, aveva quasi trovato la vena e lui via a vomitare di tutto…che disastro …tutta la stanza invasa! Ma poi che s’era bevuto? A vent’anni non le capiscono certe cose?  Era proprio sfinita.

Spense la sigaretta premendo forte sul posacenere e con le scintille fece tanti cerchiolini attorno al fuoco fino a creare una spirale d’Archimede fatta di ceneri spente. Andò in soggiorno e si sedette sul sofà, indecisa se accendere o no il computer. Accese la TV e dopo cinque minuti la spense.

Non riusciva ancora a pensarci, era incredula…ma ormai aveva accettato, aveva detto sì e quindi sarebbe partita presto assieme a tre colleghi, tutti maschi e tutti stranieri: Lukas, di Amburgo, Marcel di Nancy, Sven di Goteborg. Con quest’ultimo aveva avuto una mezza storia, ma era durata poco ed era ormai acqua passata. Tutti più o meno della sua stessa età, tutti specializzandi in chirurgia. Sarebbero saliti sul bus e poi sull’aereo fino a toccare il suolo africano. Destinazione Khartoum, Sudan centro orientale.

Si erano conosciuti ad una conferenza di chirurgia plastico-ricostruttiva e da allora in poi avevano intrapreso varie collaborazioni scientifiche grazie alle quali era loro possibile incontrarsi periodicamente e discutere sugli ultimi progetti. Poi, siccome tutti tentavano di arricchire al meglio il curriculum, avevano considerato di fare un’esperienza all’estero e infine si erano trovati coinvolti in questa avventura umanitaria che li avrebbe portati a conoscere realtà inimmaginabili, che lette sui libri o viste di sfuggita in TV, non rendono la più lontana idea della loro natura.

Sola sul sofà di casa si preparava psicologicamente a quello che l’avrebbe aspettata. Si distese, si slacciò i jeans e cominciò a fissare il soffitto con sguardo ipnotico. In realtà aveva paura ma questa decisione l’aveva presa già da tanto tempo e l’idea di poter dare un contributo ragguardevole a tanta gente che purtroppo riusciva solo a sopravvivere la esaltava parecchio e risvegliava in lei quell’entusiasmo sopito che aveva avuto dentro sin da piccola e che fino adesso la aveva portata a raggiungere tanti traguardi minori seppure importanti.

Non aveva mai considerato l’idea di dedicarsi alla ricerca pura. Ciò che proprio desiderava era quello: mettere le mani laddove tutti gli altri si rifiutavano di metterle, per troppa paura, per insicurezza, per la presunta consapevolezza di fallire. Eppure lei non si poneva il problema: nessuno potrà mai dirci cosa sarà di un intervento complicato se non prima proviamo a farlo. Certo le analisi, le lastre, la casistica, ma un caso può svilupparsi in una direzione diversa da quella che si era prevista e si possono rimettere a posto tante cose e ridare il volto ad un sorriso.

Sin da bambina aveva desiderato fare il medico. I suoi giocattoli erano tutti spezzettati.   Inizialmente ci giocava come una bambina qualunque, pettinava le bambole, le svestiva e poi le rivestiva; dopo un po’ di tempo, quando pensava di conoscere abbastanza quella bambola o quel pupazzo, allora cominciava a smontarlo, a vedere com’era dentro, a staccare e riattaccare le parti.  Era stato così anche con la bambola Susy, ricevuta per un suo compleanno tanti anni prima e usata poco.  Susy non le era mai piaciuta molto. Ci aveva giocato un paio di mesi e poi l’aveva accantonata nella cesta, assieme agli altri giochi.

Tanti anni dopo, rimettendo a posto casa prima del trasferimento dei suoi, aveva deciso di sbarazzarsi di un po’ di roba e di destinare la bambola Susy e altri giocattoli a una di quelle raccolte che la Croce Rossa devolve a favore dei poveri, una di quelle in cui i bambini portano un giocattolo nuovo o usato e lo danno in dono “per la gioia di un bimbo” , di un bimbo che non conoscono e forse non conosceranno mai, e che con questo giocattolo ritornerà a sorridere o lo farà forse per la prima volta. Forse uno di quei bambini raramente biondi che si vedono sulle pagine dei giornali, scalzi sulla terra nuda con il viso impastato e gli occhi lucidi.

L'arrivo in Africa il mese dopo non era stato esattamente come previsto. Afa, caldo e ridottissima possibilità di comunicazione avevano reso tutto molto più difficile e dopo un’iniziale sistemazione e le inevitabili prassi burocratiche, si erano diretti in ospedale prendendo tutte le precauzioni di rito, secondo cui erano stati opportunamente istruiti, e si erano trasferiti nella guesthouse lì accanto. Ma anche lì le sorprese non tardarono a mancare. Sebbene avesse letto vari libri di chirurghi di guerra, e visto vari reportage in materia, vedere dal vivo le condizioni in cui quel posto versava l'aveva lasciata senza parole. Il concetto dell'igiene era oltremodo soggettivo, cosi come il concetto di sofferenza e non riusciva a non pensare a certe smancerie di mamme preoccupate, incontrate in ospedale, che si esagitavano per la puntura di un vaccino da fare ai loro bimbi.

Un altro mondo, un’altra realtà.

I giorni in ospedale passavano senza tregua, senza più guardare l’orologio né controllare la posta, nemmeno il tempo di una sigaretta; si saltava da un’operazione all’altra dopo un espresso ed un panino, smettendo di lavorare solo alle soglie dello sfinimento. Due settimane dopo era già tre chili in meno e spesso di malumore, pur avendo ancora dentro la grinta che l’aveva spinta a partire e tanta voglia di aiutare gli altri.

Il giorno cruciale della sua permanenza in Sudan fu un mercoledì di settembre, di quelli in cui alcuni vanno a fare le vacanze low cost in incantevoli villaggi al mare e altri sono appena rientrati dopo ferie stressanti e costose che il prossimo anno non faranno più.

C’era stato un improvviso attacco nelle vicinanze che aveva causato una dozzina di morti e qualche decina di feriti. I più fortunati erano stati trasportati in ospedale ancora sanguinanti su carri arrugginiti e squassati. Molte donne e molti bambini.

Dopo il macabro rito della selezione, per decidere chi “dura” di più e può essere operato in secundis, a lei toccò amputare Jasmine, 12 anni, già orfana di padre. Mentre la guardava passava in rassegna la sequela di ferri da usare per buttar via quello che restava di quella gamba destra esplosa barbaramente e barbaramente maciullata.

L’operazione riuscì bene e Jasmine lentamente si riprese. Julia andava spesso a visitarla, almeno una volta al giorno passava dal suo letto e chiacchierava con lei in inglese.

Un giorno che Jasmine aveva la febbre e poca voglia di scherzare, Julia tentò di tirarla su e cominciò a cercare fra i giocattoli di sotto, in una scatola che aveva contenuto garze e ora fungeva da raccoglitore sotto il letto dei pazienti. Rovistando tra la roba impolverata, trovò qualcosa a lei familiare, che in qualche parte della sua mente, in un angolino nascosto era stato accantonato silenziosamente.

Era la bambola Susy, quella che non le era mai piaciuta e che tanti anni addietro aveva dato in dono per la gioia di un bimbo. La Susy, come Jasmine, aveva una gamba e la notte era una buona compagnia accanto o di sotto nella scatola, col suo vestitino rosso e i lunghi capelli biondi.

Julia era senza parole. Allora era vero, le raccolte funzionavano, i giocattoli andavano in dono ai bimbi bisognosi e regalavano loro sorrisi anche nei momenti più drammatici delle loro esistenze già di per sé dolorose e complesse.

BEN VENGA MAGGIO….

di Francesco Aronne

« Ben venga Maggio e il gonfalon selvaggio!
Ben venga primavera Che vuol ch'uom s'inamori
E voi, donzelle, a schiera, con li vostri amadori,
Che di rose e fiori Vi fate belle il maggio,
Venite alla frescura Delli verdi arbuscelli (...) »

(Angelo Poliziano, "Rime")

Cosa ci porterà questo nuovo maggio, dopo il passato aprile è difficile dirlo. Forse consultando Frate Indovino qualche indizio si trova (a ben guardare la copertina del calendario del 1968 il messaggio era chiaro: focalizzava l’attenzione sui giovani e chissà se nel calendario attuale non si trovi  qualche criptico indizio profetico).

Lasciamo questa indagine agli appassionati del mistero che potranno avvalersi di astrologi e negromanti per le improbabili spiegazioni del caso e ritorniamo a guardare il presente con la nostra lente.

Maggio da sempre indica trasformazioni e rigenerazioni profonde, ma non solo. Richiami forti e poliedrici: la natura ritrova lo splendore e ci offre la rosa simbolo dei simboli, il primo maggio festa dei lavoratori, il maggio francese (e tutti gli altri a seguire) ormai negli “anta” che vede adulto ma ancora immaturo il bambino che fu… 

Come un fresco venticello, l’aria frizzante di maggio sorvola i forse placati animi reduci dal tumultuoso scontro elettorale. Le armi ancora calde non completamente riposte godono la tregua dell’attesa. Molti rancori non proprio sopiti sono in aspettazione degli inevitabili nuovi equilibri che si andranno a formare.

Quanto è accaduto nelle urne è sotto gli occhi i tutti: il verdetto è chiaro, netto ed inequivocabile (per fortuna). Non ci sono più alibi per nessuno… La maggioranza di questa massa sempre più informe che con ostinazione continuiamo ad autodefinire italiani ha scelto a larga maggioranza per

una delle due papabili fazioni. A ciò si è aggiunta una drastica riduzione delle formazioni rappresentate in parlamento: una sorta di generalmente condivisa epurazione della fragaglia.

Le laceranti fratture che attraversano da est a ovest è da sud a nord le varie Italie che di volta in volta possiamo delineare, sono implose in un risultato elettorale apparentemente univoco, ma con forti connotati di zona.

Vecchie categorie interpretative sono state cancellate dai rapidi cambiamenti che hanno sconvolto la società: scopriamo per esempio di come la questione settentrionale ha preso il sopravvento su quella meridionale (imperituramente irrisolta), prova ne è il determinante apporto elettorale che da queste regioni della nazione ha contribuito all’affermazione dei vincitori.

Queste righe vengono scritte al sud, da chi qui è nato, da qui è emigrato, qui è ritornato ed a scelto, fin che è possibile, di vivere, e stupisce sentire proprio qui, su più fronti la condivisione di principio e l’oggettiva approvazione delle richieste padane sul federalismo fiscale (o di quello che ne viene percepito) o altre opinabili iniziative.

E’ l’ennesima manifestazione della richiesta di un fattore esterno che possa cambiare lo stato delle cose nel flaccido a amorfo sud. La rassegnazione e la sfiducia che diventano senso di inadeguatezza ed illusione che il cambiamento possa venire solo dall’esterno: come se gli eletti delle nostre parti nella coalizione vincente fossero “uomini della provvidenza” e non sempre i soliti che magari alle spalle hanno più di un giro di valzer in altre (ed anche distanti da questa) formazioni elettorali ben ancorati a questo meccanismo perverso ed ai disastri che nel meridione ha provocato e provoca…

Lo scontro e tra due mentalità: una che guarda al lavoro come motore di emancipazione e progresso, l’altra che guarda al socialismo reale dell’assistenzialismo nostrano fatto di infruttuosi “27” (giorno-simbolo di retribuzione degli stipendi statali); basta che hai il tuo di 27 e del resto non ti curare… Ricerca affannosa, quella del 27, che passa per anticamere lunghe più di una vita (magari cominciate dal padre e date in lascito ai figli) nei confessionali delle segreterie di impotenti ed inetti politici che continuano a promettere ciò che ben sanno di non poter mai mantenere. E la giostra fa un altro giro e di giro in giro si consumano tante vite le cui tombe diventano i mattoni su cui è adagiata la storia.

Altro dato che ha registrato la soddisfazione generale (esclusa naturalmente quella dei malcapitati protagonisti) è la fuoriuscita dalla rappresentanza parlamentare di un nugolo di agguerriti combattenti storici rifacentesi al comunismo o meglio a ciò che ne rimane e settori collegati quali verdi, ambientalisti etc. (l’arco scomparso in un baleno).

Tante le considerazioni possibili sull’evento. La prima di carattere numerico: visti i risultati viene da pensare che le tanto agognate (e volubili) masse sono inequivocabilmente ed indiscutibilmente altrove! Se ne sono sentite di tutti i colori. C’è chi ha persino detto che la mancanza della falce e martello nel simbolo ha allontanato gli elettori: c’è un 8 nell’anno (2008) ma non è quello del 1948 dove la croce o la falce e martello potevano avere una influenza sull’elettorato di allora. Se le categorie di valutazione del proprio elettorato sono queste, non c’è proprio bisogno di cercarle le motivazioni della disfatta. Guardando le liste elettorali, poi, si scopre che comunque di falci e martello ce ne erano più di una… Ed anche questa considerazione ci viene in soccorso: da sempre la ricerca genetica del vero comunismo ha caratterizzato la storia di queste formazioni con la specialità consolidata della scissione: i proletari di tutto il mondo che sanno e riescono ad unirsi solo attraverso le scissioni… Argomentazioni politiche arretrate e d’altri tempi che continuano a riferirsi a sbiadite immagini scattate in bianco e nero e virate ancora peggio… L’inadeguatezza a capire le componenti della deriva sociale e ad intervenire su queste con responsabili azioni di governo, la sterile politica dei no (no ai ponti radio ma nessuno rinuncia al telefonino e così via discorrendo), l’incapacità di capire il valore delle imprese artigiane pesantemente minacciate da cervellotiche ed inique azioni legislative. Piccole imprese con 1, 2 ma anche 9 o 10 addetti sottosoglia per lo Statuto dei lavoratori  e per questo fuori dagli artigli sindacali e non degnate di considerazione. Il paese è altrove, altrove le masse, altrove i territori su cui misurarsi per le tanto attese politiche di progresso e di benessere dei molti.

Le indecorose acquisite abitudini di qualche ministro uscente intento più a creare il feudo di famiglia che ad assolvere il mandato ricevuto hanno squarciato il velo sulla categoria degli eletti al parlamento borghese, ammansiti dai privilegi che si sono ben guardati di intaccare, immemori degli intenti con cui si sono proposti ai loro elettori… Sonora e giusta la bocciatura!... Quanti lavoratori tra le fila nemiche… Mi ha colpito la dichiarazione di un salariato del nord che ha detto “non possiamo permetterci di essere comunisti…”: una finestra sul baratro!

Sul piano locale si registra che stavolta Mormanno si è allineato con il risultato nazionale, nessuna controtendenza. Ad appena un anno dalla vittoria alle municipali del centrosinistra e nonostante il candidato locale (forte anche del ruolo svolto all’Ente Parco del Pollino) la coalizione che amministra ha ceduto di fatto le armi. Anche qui hanno prevalso le frantumazioni di schieramenti che abbandonano sempre più l’identità di coalizione configurandosi sempre più come accozzaglie (teatrino già visto a Roma tra ben più titolati leader dell’ex governo). In più ha remato contro anche l’arroccamento d’orgoglio dei socialisti locali, che non hanno accettato di inghiottire un altro rospo a meno di un anno, e di ammainare il loro vessillo e sostituirlo nel giro di una notte con un altro con più chance ma con meno storia.

E poi c’è il nuovo corso amministrativo: la soddisfazione i cittadini l’hanno espressa nell’urna. La tracotanza dell’amministrazione che spinge a chiedere al preside del liceo scientifico una azione di censura nei confronti dell’apprezzabile TG degli studenti, poiché non in linea con la visione del mondo degli amministratori (viene da chiedersi quanti di loro sanno di questa iniziativa) la dice lunga su che idea di libertà e di progresso venga propugnata. C’è semplicemente da vergognarsi a proporre tali censure ai giorni nostri e pensare di farla franca. Il palazzo incapace a comunicare ed esprimersi pensa di risolvere il controllo delle coscienze con la riduzione al silenzio di ogni voce diversa dal coro di sacrestia. Penoso! Alcuni metodi di zittire appartengono ad altre ideologie e restano  una aberrazione in qualsiasi contesto si verifichino. L’apertura ad ogni confronto è il sale di ogni terreno democratico. La convinzione rende le proprie idee forti e non fa temere alcun dibattito in contraddittorio. Voler sentire solo le proprie di ragioni è da repubblica di banane. Restano come monito a questi distratti il 25 aprile ed il primo maggio: due date di una sola storia.

Il nuovo partito affacciatosi alla competizione elettorale ha dato una scossa al sistema dalle sue fondamenta. La pagina è stata girata e ognuno è conscio del prezzo!

I vinti dovranno necessariamente riflettere e seriamente su quanto accaduto.

I vincitori, attesi da un arduo compito, non si rallegrino, finché nella società vi saranno oppressi, deboli e ingiustizie proverranno da qui le giuste istanze per la rottura di queste catene, indipendentemente da rappresentanze o meccanismi parlamentari.

Il primo maggio come festa dei lavoratori (e solo dal lavoro può scaturire ricchezza e progresso) intende proprio ribadire questo principio ad ogni popolo e ad ogni latitudine del pianeta.

In una conferenza tenuta a Zurigo il 9 ottobre 1918 (Was tut der Engel im Astralleib) Rudolf Steiner esprimeva questo condivisibile concetto “il principio per cui in futuro nessun uomo potrà godersi in pace la felicità se altri accanto a lui sono infelici”.

Ben venga maggio, ben venga la rosa….  

FARONOTIZIE.IT  - Anno III - n° 25, Maggio 2008

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