FARONOTIZIE.IT  - Anno III - n° 22, Febbraio 2008

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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi

MISERIA E NOBILTÀ

Editoriale del Direttore  Giorgio Rinaldi

Caro Direttore,

grazie ad internet anche nel mio Stato riusciamo a leggere Faronotizie.

Nella mia qualità di Ministro mi sento in dovere di esprimere il mio disaccordo con quanto Lei scrive sulle tante storture del Suo Paese, perché ritengo che qualunque paese civile non può che avere servizi e servitori totalmente asserviti agli interessi generali, e non ai piccoli e meschini propri.

Prendiamo i giornalisti, per esempio.

Da noi hanno l’obbligo di non fare già dall’inizio delle indagini della Magistratura i processi sui giornali o in televisione, lasciando agli inquirenti e ai giudici di fare il loro lavoro.

Ovviamente,  vigilano sul corretto operato di tutti i preposti, denunciando ogni deviazione.

Allo stesso modo, non riportano notizie attribuendo connotazioni d’origine ai responsabili di fatti e misfatti,  giacché si incentiverebbero così solo spinte razzistiche nei lettori.

Dire che tizio è francese, palermitano o kossovaro, nulla  aggiunge o toglie alla valenza della notizia.

I telegiornali nel mio Paese riportano solo in ragione di uno scarso 1% i fatti di cronaca nera, senza ridursi a bollettini della questura, visto che tante e tante sono le notizie che meritano, invece, la ribalta.

Così anche nelle interviste ai politici, mandate in onda solo una volta alla settimana per 10-12 secondi, poiché gli intervistati, siano essi ministri o capi-partito, difficilmente possono essere in grado di saper dire qualcosa su un semplice argomento alla volta.

Che dire, poi, dei magistrati ?

Nel mio Paese è un fatto ovvio e naturale che si alzino dalla loro scrivania e salutino per primi chiunque acceda nei loro uffici.

Come, del resto, qualunque pubblico funzionario fa.

Hanno l’obbligo di non partecipare a trasmissioni televisive, non rilasciare interviste su fatti oggetto di indagine, non dare corso ad alcun provvedimento nell’imminenza di un loro trasferimento o nel caso dagli stessi dichiarata incompetenza.

I giudici si occupano solo di applicare la legge, senza infarcire le sentenze di loro opinioni personali, come se fossero degli oracoli che danno valore assoluto alle loro idee sulla politica, la morale, la filosofia, le questioni internazionali, la sociologia  e quant’altro con interpretazione vincolante per tutti.

I processi da noi si concludono in pochi mesi, perché da noi i termini processuali valgono per tutti, e non capisco come nel Suo Paese non vengano rispettati: sarà forse per quella manìa tipicamente bizantina di dividere, per esempio, i termini tra “ordinatori” e “perentori” (i primi anche se non li rispetti non succede nulla, gli altri sono sanzionati con la nullità) ?

Nel mio Paese abbiamo poche leggi, chiare e precise, solo qualcuna in più di quelle preparate da Zaleuco di Locri e da Caronda di Catania nel VII secolo avanti Cristo.

Certamente è un refuso tipografico avere letto, invece, che nel Suo Paese le leggi sono oltre 300.000…spesso l’una in contrasto con l’altra.

Coloro che fanno  le leggi nel mio Paese sono persone di altissima cultura e capacità, di grandissima moralità, i consulenti per ogni singola materia sono scelti tra i più preparati e tra quelli che hanno le idee più diverse e conoscono la realtà quotidiana, cosicché è molto difficile che vengano scritte leggi senza né capo né coda, né che ne vengono varate contrastanti versioni ogni tot mesi, o che i giudici debbano esercitarsi quotidianamente a farne spezzatino.

Le pene è previsto che quando vengono comminate vengano scontate e subito.

Da noi esiste per davvero la certezza del diritto e la certezza della pena.

Da voi, per la verità, non mi è molto chiaro.

Nel nostro Parlamento si  discute sempre con toni di alta civiltà, i parlamentari che non si ritrovano più con lo schieramento con il quale sono stati eletti si dimettono immediatamente e nessuno rilascia interviste che smentisce dopo cinque minuti.

Ho letto sui giornali che in Italia ci sono politici che come il manzoniano Don Rodrigo  attendono nelle loro ville i beneficati da qualche raccomandazione, e aspiranti tali, che portano in dono caciotte e ricottine, salumi e vini, regalie varie.

Politici che hanno fatto partiti-azienda, partiti di regioni inesistenti, partiti-famiglia.

Politici che davanti allo scempio epocale di intere città sommerse dall’immondizia, continuano a discutere del nulla.

Caro Direttore, io spero che tutto ciò sia solo malevola pubblicità per il Suo Paese, non potendo credere che una Terra che ha visto i natali di Cicerone, Leonardo Da Vinci, Michelangelo, Garibaldi, Fermi, Marconi, per citare solo una infinitesimale parte di personaggi che hanno assicurato progresso all’Umanità, possa essere così degradata.

Perché, se così fosse, allora bisognerebbe avere il coraggio di mettere da parte i propri interessi di bottega e ripartire da

capo, trovando –innanzitutto- una nuova classe dirigente che non abbia contaminazioni con le stantie abitudini, diciamo così,  dalla vecchi politica.

Grazie per l’attenzione.

Il Ministro della Repubblica d’Ailati

Caro Ministro,

è un vero peccato che Lei e la Repubblica d’Ailati siate solo il frutto della fantasia dello scrivente.

CERTA ITALIA FA CADERE LE BRACCIA AGLI ITALIANI ALL’ESTERO

di Goffredo Palmerini

Mortificata dalle recenti vicende italiane l’opera dei nostri connazionali

Bisognerebbe stare nei panni dei nostri connazionali all’estero per capire quanta rabbia e delusione hanno provocato le vicende italiane degli ultimi giorni. E soprattutto quanta mortificazione per l’immagine del nostro Paese, degradata agli occhi della comunità internazionale molto più impietosa di certe sbrigative pratiche assolutorie di casa nostra. L’altra Italia, quella che vive nei cinque continenti, si è invece conquistata stima e rispettabilità in virtù di testimonianze di vita, di lavoro e di impegno civile esemplari.

Dunque avverte con amarezza e sconcerto la vanificazione dei propri sacrifici. Superano il tempo d’un secolo gli sforzi duri e spesso dolorosi dei nostri emigrati per risolvere i bisogni del proprio destino personale, ma anche per affrancare l’Italia da un giudizio all’estero a volte trito ed ingiusto. Quante umiliazioni e quali sofferenze morali i nostri connazionali hanno dovuto subire prima d’avere tempo e possibilità di far conoscere di che pasta fossero fatti, di quale orgoglio nazionale e di quale talento essi fossero dotati.

C’era sempre una parte d’opinione pubblica, nei Paesi d’emigrazione, che continuava a giudicare “Italietta” il nostro Paese, stentando ad assegnare all’Italia il ruolo politico ed economico che pure le competeva per i grandi passi avanti fatti nel secondo dopoguerra, fino a diventare la sesta nazione industriale del mondo. Ebbene, se certi pregiudizi all’estero man mano cadevano, gran parte del merito lo si doveva non solo alle crescita della nostra economia, ai risultati nei settori in cui l’Italia è all’avanguardia, alle altre valenze del Paese, quanto  proprio alle positive testimonianze civili e sociali che i nostri emigrati hanno impartito all’estero, dimostrando con l’ingegno, la capacità d’iniziativa, il rigore e la serietà dei comportamenti, contro ogni pregiudizio, l’esistenza d’una Italia davvero diversa. Un’Italia che attraverso i suoi figli all’estero, in sistemi di grande competizione, è riuscita quindi a progredire, a guadagnarsi il rispetto ed a primeggiare, specie nei Paesi più avanzati. Essendo, gli Italiani, più seri affidabili e rigorosi dovunque all’estero, in primis in quei Paesi evoluti che vantavano democrazie più antiche e solide della nostra, riuscendo ad illustrare in quelle società l’indole italiana e contribuendo così a cambiare in meglio il concetto e l’immagine dell’Italia.

Questa premessa ora non sembri fuori misura. Piuttosto la si compari con l’immagine deprimente che alcuni recenti fatti in Italia hanno determinato sull’opinione pubblica mondiale, di cui parla la stampa internazionale, fino a riattizzare quegli antichi pregiudizi che sembravano in buona parte risolti. A cominciare dal disastro dei rifiuti in Campania, dove la capacità di governo d’un Paese moderno e civile ha invece mostrato il peggio dell’insipienza, del degrado e dell’inadeguatezza del suo sistema politico ed amministrativo. In che modo spiegare a chi all’estero fa domande come di fronte a tale scempio, dovuto a problemi lasciati trascinare per anni, nessuno oggi paghi il conto. Insomma in Campania, come pure

altrove, non esiste un’etica delle responsabilità. Nella circostanza, meno male che il Governo s’è mosso con determinazione, con misure

eccezionali rispetto all’emergenza. Ma il danno d’immagine era ormai devastante. E che dire del comportamento del Presidente della Regione Sicilia! Appena incassata una condanna a cinque anni di reclusione per reati gravi, specie per un rappresentante d’una istituzione, con interdizione perpetua dai pubblici uffici, è apparso quasi soddisfatto, benché condannato per favoreggiamento semplice e rivelazione di segreti d’ufficio, perché prosciolto dall’imputazione di favoreggiamento alla mafia. E per questa stessa ragione egli sentendosi in condizioni di poter continuare a ricoprire il suo ruolo, non essendo sentenza passata in giudicato. Non lo ha sfiorato non dico l’obbligo morale – ovvio, in un Paese normale –  ma almeno l’opportunità di fare un passo indietro, proprio a salvaguardia della credibilità dell’istituzione. Si è dimesso solo una settimana dopo, pendendo nei suoi confronti un provvedimento del Governo di sospensione dalla carica. Come potrà districarsi l’italiano in Australia,  in Canada o in Germania e così via, con le domande pertinenti per “capire” l’Italia che in quei Paesi gli verranno rivolte? Stendiamo un velo di pietà sulla vicenda che ha indotto il Papa nella rinuncia ad intervenire all’Università La Sapienza di Roma, per le proteste d’uno sparuto gruppo di docenti e studenti.

Figurarsi poi il caso d’un Ministro della Giustizia che, pur dimettendosi a seguito d’indagini e misure giudiziarie riguardanti familiari e sodali di partito, in Parlamento si lancia in un’invettiva contro il sistema giudiziario - beninteso quello di cui egli fino a quel momento detiene la responsabilità – a suo giudizio reo di perseguitare con le Procure,  per fini men che oggettivi, politici di rango e l’intera classe dirigente del suo partito in Campania. Non gli balena neanche per un momento, pur nella comprensibile amarezza, che il suo dovere di uomo di governo e Guardasigilli gli imponga il rispetto e la tutela dell’autonomia della Magistratura, anche di fronte ad errori, reali o presunti, che solo il procedimento sarà in grado di chiarire e risolvere, in istruttoria e con ben tre gradi di giudizio. E d’altronde, quanti danni alla credibilità dell’ordinamento avevano inferto negli anni scorsi le dichiarazioni contro la Magistratura d’un Presidente del Consiglio che in ogni modo, persino con leggi ad personam, cercava di risolvere le sue vicende giudiziarie.

 Sembra d’assistere ad un impazzimento del sistema. Ancor più con l’uscita dalla maggioranza del partito del già Ministro della Giustizia il quale, sulle sue gravi ed inopportune dichiarazioni in Parlamento, pretendeva solidarietà e consenso totale dagli alleati. Con l’uscita dalla maggioranza l’Udeur ha aperto una crisi in un momento molto delicato per il Paese, quando riforme e scelte sociali importanti erano sul tappeto ed un risanamento economico davvero significativo era in atto, cui l’Europa guardava con interesse. Ora incombe il rischio di elezioni anticipate, dopo che Prodi, portata la crisi in Parlamento unica sede deputata a discuterne,  e chiesta la verifica della fiducia al Governo, si è dimesso dopo essere stato battuto al Senato con 161 voti contro (156 a favore) con il voto contrario dei senatori Mastella, Barbato, Dini e Turigliatto, eletti nell’Unione. Così ciascuno ha pubblicamente assunto le sue responsabilità. Quando si concluderà la convulsa transizione della nostra democrazia. Occorre una responsabilità, un senso delle istituzioni ed un sistema di regole condivise che solo un miracolo, nell’attuale congiuntura, sarà in grado d’assicurare.

Il Presidente Napolitano ha affidato l’incarico esplorativo al Presidente del Senato, Franco Marini, per formare un Governo di scopo. Una nuova legge elettorale che non faccia trovare di nuovo il Parlamento in condizioni d’ingovernabilità, se si andasse con l’attuale legge. I margini di successo per Marini sono molto risicati. Perché da anni la politica italiana è nana, manca di grande respiro, e dove c’è la tendenza, data l’estrema frantumazione del quadro politico, a pensare più all’interesse della propria parte che al bene comune, con le dovute eccezioni e distinzioni che ciascuno è in grado di fare. Dove ognuno si sente statista – con quale abissale diversità rispetto ai padri della Repubblica - con una visione che bada al presente e poco al futuro, spesso distante dai cittadini e lontana dal senso comune.

Sarà dunque capace l’Italia e la sua classe politica di cambiare radicalmente, d’essere all’altezza dei suoi compiti? Passa da queste parti la credibilità delle Istituzioni, la maturità della nostra democrazia e l’affidabilità del suo funzionamento. Al popolo italiano spettano grandi responsabilità, specie nella selezione della classe dirigente, se una buona legge elettorale glielo consentirà. Contro ogni evidenza, bisogna essere fiduciosi che finalmente il nostro sistema democratico ed istituzionale sia capace di correggersi. E tuttavia farebbe bene la classe politica italiana a tener conto di ciò che pensa anche l’altra Italia, i nostri connazionali all’estero. Troverebbe molti spunti per emendarsi.

ITALIA SI, ITALIA NO…

di Veronica Khayam

Alcuni anni fa un famoso cantante italiano fischiettava questa canzone che scivolando tra doppi sensi e verità descriveva l’immagine del bel paese.

Oggi dicono che l’Italia sia in crisi…sarà !

A me sembra solo che il potere resti nelle mani delle solite persone e chi se  lo meriterebbe  resti a inseguire un riconoscimento che quasi sicuramente non avverrà.

Tutto questo perché,  pur criticando il modello statunitense,  dobbiamo riconoscere alla meritocrazia il pregio di creare individui più solerti alla realizzazione personale, perché li si   è  ancora possibile.

Tornando ogni anno in Italia mi si presenta uno spaccato della realtà piuttosto interessante,  e le lunghe conversazioni con amici, ex colleghi e vicini di casa rendono il panorama più completo.

Anche se mi resta inevitabile riflettere sui due modelli che oggi come oggi si contrappongono nel panorama mondiale, da un lato quello proposto dai paesi in via di sviluppo, se così li vogliamo chiamare, in cui la famiglia e la struttura parentale resta al centro del panorama sociale.

L’altro il nostro modello occidentale che seppur rimanendo ancorato a storici legali familiari, oggi vede l’ individuo al centro di tutto.

Riassumendo, abbiamo da una parte l’individualismo  a cui tende la società occidentale, dall’ altro un modello familiare tipico dei paesi del Sud del mondo.

Quale dei due funziona? Nessuno!

Entrambi i modelli secondo la mia modesta opinione sono destinati a fallire, in cambio una fusione dei due sarebbe ideale.

Nel primo si sta perdendo di vista il valore del gruppo, familiare, d’ amicizia, di lavoro che esso sia;

viene spazzato via dall’informazione rapida, dalle rapide comunicazioni che ci permettono di stare con tutti e con nessuno...

Nel secondo ci si affida troppo agli altri per la realizzazione personale o economica, il gruppo familiare resta il luogo dell’accettazione totale venendo meno in questo modo il confronto con il resto del gruppo sociale e quindi il raggiungimento di obiettivi personali.

Probabilmente se le società occidentali imparasse

Un giorno un amico mi ha fatto riflettere sull’uso smodato dei cellulare in Italia e nel resto del mondo occidentale. Mia figlia si scambia messaggi con cento persone. Quante di queste sono davvero suoi amici.

Io alla sua età avevo tre amici e sapevo di potermi fidare.

Lei sa di chi si può fidare?

O l’effimera comunicazione che abbiamo a disposizione oggi ci rende solo piú schiavi?

Siamo liberi di comunicare con tutti quando vogliamo in qualsiasi parte del mondo, il nostro modo di ubicarci nello spazio e’totalmente cambiato.

Ma questo modo di vivere lo spazio e le comunicazioni ci rende davvero “migliori”? il nostro modo individualista di vedere il futuro ci rende persone più “felici”?

A voi lascio l’ardua sentenza...

LA MAIALATA

di Giorgio Rinaldi

Cominciando dunque dal Porco, qual per delitiar più d’ogni altro animale nell’immondezza, è così detto”.

E’ con queste parole che il letterato Vincenzo Tanara da Bologna  apre l’opera, pubblicata nel 1644, “L’economia del cittadino in villa”, che tratta del porco.

Un estratto di questa opera, riprodotto anastaticamente, ti viene offerto dalla Famiglia Visconti di Modrone che, nella ricorrenza di Sant’Antonio Abate, oramai da nove anni offre agli amici una rara occasione per assaggiare i prodotti tipici della cultura contadina ed assistere alla lavorazione del maiale, tradizionalmente utilizzando suini della quasi scomparsa mora

romagnola.

La giornata è splendida, l’aria è frizzante.

Il freddo tipico di gennaio oggi ha dato tregua.

Siamo sulle colline bolognesi, in agro di Casalecchio di Reno, località Tizzano.

L’Azienda Agricola della Famiglia Visconti di Modrone prende il nome proprio da questa località, oramai conosciuta in tutto il mondo per l’eccezionale qualità dei vini prodotti.

Il posto è di particolare bellezza.

E’ da cartolina.

Filari di vigneti.

I prati perfettamente rasati.

Tutto magnificamente ordinato.

Nulla fuori posto.

Sembra quasi di essere sul set del “Mulino Bianco”.

Ad un gendarme svizzero in pensione di passaggio da queste parti gli verrebbe di sicuro un attacco di bile, abituato com’è a sollazzarsi con le tristi immagini di questi mesi sul problema tutto italiano (e di qualche paese sottosviluppato) della spazzatura accumulata per strada.

Il Conte, Dott. Luca, assieme al suo “braccio destro” Sig. Forni, accolgono gli ospiti in maniera impeccabile.

Nel vecchio fienile due cuoche sono alle prese con 500 uova da strapazzare con il lardo.

Una vecchia ma efficientissima Berkel ospita un prosciutto: chiunque può manovrarla e affettarsi la quantità desiderata.

I vini dell’Azienda Tizzano padroneggiano il tavolo sul quale è fumante il pane appena sfornato.

Tre esperti norcini locali armati di affilatissimi coltelli, nello spazio della sola mattinata hanno trasformato la mora di oltre due quintali in prosciutti, salami, ciccioli, costine, braciole etc., etc..

Un simpatico signore, travestito da Dottor Balanzone (la Maschera bolognese) diverte grandi e bambini.

Altri cuochi sono pronti a servire la gramigna con il fresco ragout di salsiccia ed altre succulenti parti del maiale.

La giornata, dopo un simpatico intrattenimento musicale ed un’estrazione di premi a fini benefici, volge al termine.

Tutti hanno la faccia soddisfatta.

E’ un arrivederci al prossimo anno.

IL MAIALE

di Luigi Paternostro

Il poeta cosentino Michele De Marco detto Ciardullo a proposito del maiale diceva che esso è la ricchezza della casa [1] .

Anche per i mormannesi l’animale rappresentò la vera abbondanza. 

Per conseguirla bisognava rispettare alcuni tempi e attenersi  ad una prassi ancestrale e rituale.

Si cominciava anzitutto col comprare un bel rivòtu [2] , possibilmente già  sanàtu [3] .

L’occasione migliore era la fiera di S. Lorenzo.

Se non poteva essere acquistato in contanti si otteneva anche con il baratto o con altre forme di compromesso.

Chi ne aveva disponibilità lo teneva in campagna.

Ad una crescita più rapida contribuivano quelle erbe rinate dopo la calura estiva. Al finire dell’estate di San Martino veniva portato in paese e, accolto come un trionfatore, occupava il posto d’onore non solo nella zìmma [4] ma nel cuore di tutta la famiglia. 

La mamma era deputata alle sue cure.

Per  ingrassarlo si metteva in pratica un  rigoroso procedimento.  

Non si buttava più l’acqua lorda cioè quella derivante dalla rigovernatura dei piatti e delle stoviglie. Anzi si recuperava anche quella dei vicini. 

Poi, quando finiva quella appositamente conservata in casa, ove si faceva il pane alla maniera antica, bisognava comprare la crusca. Con essa si faceva il pastone giornaliero farcito con mais crudo,  patate cotte, prughìgghj, cioè le bucce degli ortaggi o della frutta in genere, e con ogni  altro avanzo dei pranzi.

Quando la stagione si faceva più fredda e l’appetito della bestiola aumentava, si ricorreva a cibi più nutrienti quali la ghianda e le castagne. 

Le migliori patate erano quelle di Campotenese  o del Pantano.  Le ghiande, quelle di Filomato. Le castagne cùrce si raccoglievano nei boschi di Guddràvu o di Santa Dumìnica. [5]  

E si arrivava sotto Natale. Il maiale mangiava, dormiva e...ingrassava. Sopraggiungevano  i  freddi invernali.

La neve cadeva in abbondanza e la notte gelava. I piziferri [6] si autoappendevano come spade alle tegole sporgenti. A casa si cominciava a parlare di morte. Aspettiamo fino a Sant’Antonio [7] , diceva la mamma, ci farà la grazia di non far irrancidire il salame!

Va bene così, confermavano tutti: saremo anche in carnevale e una bella sfrittuliàta [8] non guasterà!

I bambini erano preoccupati. I più grandicelli cominciavano a leccarsi ...i baffi! Una bella sera si decise: dopodomani si fa festa!

Bisogna andare da compare Nunzio a procurarsi ù scànnu [9]   e da compare Giuseppe ù pilatùru [10] .

Il nonno è indaffaratissimo. Non delega nessuno.

Deve preparare la legna per la grossa caldaia nella quale bollirà l’acqua, assicurarsi che la centra [11] non è fuori uso e poi questo e quello e quello ancora...

Con calma fa tutto.

Pensate: aveva già procurato i pirtugàlli [12] barattando con la papasirona [13] cinque chili di patate per una diecina di essi che nessuno aveva visto, per fortuna!

Al giorno fatidico, sul far dell’alba ecco i macellai.

Sono i chianghèri [14] più esperti, quelli da sempre chiamati che conoscono anche la casa ed in essa sanno muoversi bene.

Portano i loro affilati coltelli e la cordicella - à sàvula - che serviva per imbrigliare il grugno del maiale, passandogliela fra i denti.

Mentre beatamente dormiva, con un rapido guizzo degli assassini, è

immobilizzato. Fa solo a tempo ad emettere due o tre urla.

A quel lacerante grido si svegliano i ragazzi, dai più grandi ai più piccoli, e accorrono in cucina, già piena di vapore e calda di fuoco.

Poco dopo arriva il morto e s’inizia la sua lavorazione.

Prima viene depilato e lavato. Poi, trovati i tendini delle sue zampe posteriori, viene appeso al gammèri [15] , a testa in giù.

Comincia un’operazione alla quale assistono  grandi e piccoli.

E’ il macellaio più anziano che procede.

Comincia con lo spaccarlo davanti partendo dall’inguine per arrivare alla gola. Dietro poi parte dalla coda e scende giù fino al collo.

La lama affonda nel lardo.

Il nonno infila la mano nella fessura e ne misura lo spessore.   

Binidìca dice! Ride!

Si tolgono le fumanti interiora. Arriva comare Rosa con la cesta pronta per prendere li stintìni [16] e portarli a lavare al fiume. Saranno poi messi in acqua con sale, aceto e due o tre arance, per farli sbòmmicare [17] ed essere pronti per insaccarvi la carne.

Sui glutei del morto si appendono i polmoni, il cuore ed il fegato. Se l’animale è un maschio si evidenzia il sesso facendo cadere sulle dorso il membro ancora ancorato al suo lungo cordone.

Sono intanto le dieci del mattino. Per oggi le operazioni sono terminate. Si pulisce la casa. Prima di mezzogiorno passerà il veterinario per la visita.

Solo la sera sarà consentito mangiare un po' di fegato arrostito se ve n’è rimasto dopo la sua spartizione al dottore, al compare del pilatùru  a quello dello scànnu,  alla comare dell’acqua lorda, al  compari sangiuvànnii [18] , e 

All’alba del terzo giorno ritorna il macellaio anziano e comincia a selezionare il maiale ormai completamente raffreddato.

Per prima cosa taglia la testa che posa sul davanzale col muso rivolto alla strada e con un’arancia tra i denti. 

Tutti sanno così che in quella casa si fa festa.

La stanza intanto comincia riempirsi di pezzi di carne.

Quella per la salsiccia, quella per la soppressata, quella per il capicollo, quella da cucinare, quella da mettere in salamoia.

C’è poi il lardo, la pancetta, ‘u pilatèddru, ci sono i grassi per fare i cìculi… ce n’è per tutti i gusti!

Nel frattempo sono arrivati gli aiutanti.

Sono le vecchie zie e altri esperti del vicinato. 

Tutti sono comandati dal nonno che con un affilato coltello in mano guida questa banda di scotennatori.

Dalla cucina viene un buon odore: con la pasta di casa - i rascatèddri - si mangerà parte della costata fritta con patate.

Ad un certo momento il nonno sparisce.

Quando riappare ha in mano un bella cannatèddra [19] di vino.

Si mangerà pure il sangue, fritto con peperoni secchi e piccanti.

Che allegria. Dal morto risorge la vita!

La casa è piena di odori.

Per almeno una settimana si lavora sodo. Si insaccano le salcicce, e le soppressate. Non si butta nulla. La cotenna si mette in salamoia. La sugna, la gelatina, e i ciccioli in appositi vasetti di creta. Pensate che anche le setole sono ambite. Serviranno per fare spazzole, fiocchi da barocciaio, guarnizioni per museruole di asini, muli e cavalli.

Il maiale sfama e sfamerà tutti, parenti e vicini compresi. Elargirà i suoi doni fino all’estate.

Le serate si concludono sotto l’ampia cappa del camino e con comare Gànnina [20]   che intona canzoni ad aria [21] tra cui quella del Cupi-cupi..

ADDIO GIORNALI

di Nicola Perrelli                     

Ve lo immaginate un futuro senza giornali?

Se pensiamo a quanto leggono poco gli italiani, si; forse un giorno non  troveremo più i quotidiani nelle edicole. Ma il futuro della carta stampata non dipende certo  dal numero dei  lettori nostrani!  A decretare l’eventuale fine dei giornali   è l’uso crescente del computer e in particolare della navigazione su Internet, che sta modificando velocemente, in ogni parte del mondo, le  abitudini e gli stili di vita  della maggior parte della gente.

In effetti da quando il Web è entrato nella vita quotidiana  i giornali accusano una crisi crescente. Impensabile  fino a qualche anno fa allorquando l’informazione on line veniva ritenuta  solo un’utopia  o al massimo  qualcosa adatta unicamente a determinate  persone, magari del settore. Ma l’attuale miliardo e passa di utenti di internet, i milioni di video guardati ogni giorno su You Tube e tutto il fiorire di iniziative collegate al Web 2.0, hanno scombussolato il sistema: la carta stampata non ha più la priorità  comunicativa. E’ la  nuova realtà mediatica, con i suoi incredibili tassi di crescita,  ad   assumere, giorno dopo giorno, sempre maggiore diffusione e credibilità nel mondo.

In altre parole: addio ai quotidiani.

A sostenerlo non è la gente comune ma i colossi della carta stampata americana e gli esperti del settore,  dopo aver preso atto che Internet  ormai sottrae sempre più lettori e pubblicità ai giornali.

Il proprietario del New York Times, uno dei quotidiani più letti al mondo, ha dichiarato di recente di non sapere  “se tra cinque anni stamperemo ancora in nostro giornale”. Troppo sfiduciato? No è uno che guarda in faccia la realtà. I lettori diminuiscono, conquistati  dalle nuove tecnologie,  e i costi tra la stampa di un giornale e il mettere le notizie on line sono davvero incomparabili. Prima che  un giornale arrivi tra le mani dei lettori l’editore sostiene molteplici  costi,  dalla carta all’inchiostro, dalla stampa alla distribuzione, e cosi via, dall’altra parte invece le stesse notizie, con un banalissimo, economicissimo clic per metterle in rete, in un batter d’occhio, sono a disposizione dei milioni di utenti che sono connessi a internet.  A conti fatti, un risparmio enorme.

Ma le difficoltà dei giornali poggiano anche su ragioni socio-anagrafiche.  

E’ evidente che le persone più anziane, spesso per nulla preparate all’arrivo del digitale,  possono non avere notizie dai portali Web, mentre

le nuove generazioni le ottengono  proprio dai nuovi strumenti tecnologici, con i quali interagiscono e grazie ai blogs  autoproducono informazione, dando vita cosi al “giornalismo dei cittadini”. Non c’è dunque da meravigliarsi se i giovani, in particolare quelli della seconda generazione di internet, stiano abbandonando i giornali cartacei a favore della sconfinata informazione reperibile on line.

Del resto lo aveva già previsto il famoso finanziere Warren Buffett: “i lettori dei giornali stanno andando verso il cimitero e i non lettori stanno appena uscendo dal college”.

Gioca poi a sfavore della carta stampata il tangibile calo della pubblicità. Quella sui giornali diminuisce, mentre in rete aumenta, e non di poco.

Il perché è presto spiegato: la pubblicità sui giornali porta soldi all’editore e  pochi ritorni  a chi la fa, mentre chi la vede su internet, e sono sempre di più,  non si limita solo a leggerla, con un clic, magari involontario, finisce dritto nel sito dell’azienda inserzionista  che gli offre in genere anche la possibilità di fare acquisti, on line naturalmente.

Con l’avvento di internet , qualche lustro fa, gli esperti dell’editoria profetizzarono la scomparsa dei libri, che però non si è verificata. Può darsi invece che  i giornali su carta spariranno veramente dalla circolazione. Rimpiazzati da nuovi mezzi di comunicazione, come i giornali on line, i blogs, i podcasters, ecc., che sebbene non potranno essere piegati, ritagliati o sottolineati, saranno in ogni momento e in ogni posto sempre disponibili con un semplice clic.

Resta fermo un punto: indipendentemente dal tipo di supporto, cartaceo o digitale, il giornalismo deve essere  di qualità. Solo cosi troverà il modo di adeguarsi e di sopravvivere.   

Sui presupposti che il giornale cartaceo è destinato a scomparire e che l’informazione è un bisogno fondamentale di ogni comunità,  è nata  la rivista on line FARONOTIZIE.IT .

VERSO LE OLIMPIADI

di Raffaele Miraglia

Chi può escludere che qualche lettore di Faronotizie sia intenzionato ad andare in Cina a vedere le Olimpiadi?

Sarà bene che questo lettore si attrezzi in anticipo, se non è mai stato da quelle parti.

Anche il turista del tour tutto compreso può trovarsi ad avere un pomeriggio libero e cercare di prendere un taxi. E in Cina questa non è la cosa più semplice.

Le migliori guide turistiche prevedono per la Cina il capitolo “Shock culturale”. E questo capitolo non lo trovate nelle guide dedicate a paesi apparentemente ben più diversi e più avventurosi.

Il primo shock sono la lingua e l’alfabeto. Se avete visto il film Lost in translation – peraltro ambientato in Giappone – potete esservi fatta qualche idea.

Difficile trovare qualcuno che parli inglese o sappia leggere il nostro alfabeto. E ancora più difficile per voi tentare di pronunciare correttamente una parola in cinese, anche se ve la trovate scritta in pinyin, la traslitterazione in nostri caratteri della loro pronuncia. Il fatto è che il cinese è una lingua tonale e ciò vuol dire che quella che a noi appare una sola parola in cinese sono parole diverse, molto diverse, a seconda di come intonate le vocali e le consonanti. Nell’ultimo viaggio mi è parso di toccare il cielo con un dito quando un taxista presbite, che non riusciva a leggere il nome dell’albergo nella guida, ha sorriso al mio tentativo di pronunciare il nome dell’albergo, ha scosso il capo in segno affermativo e ha ripetuto il nome in modo corretto. Per capirci, io volevo andare a quell’hotel che nelle guide troverete indicato con il nome di Cammelia Hotel e che in cinese si chiama Chahua Binguan, con una serie di accenti che vi risparmio. Quello che considero il miglior sito cinese per prenotare alberghi consiglia vivamente di stampare il nome dell’albergo in caratteri cinesi per mostrarlo a chi vi porterà in taxi o a chi chiederete informazioni su come arrivarci. E mai consiglio mi è stato più utile la prima volta che ho messo piede in Cina.

La cosa divertente è che, al contrario, per i cinesi avviene qualcosa che a noi appare incomprensibile.

Se parli il  mandarino non ti capisce chi parla il cantonese, ma tutti e due potete leggere senza problemi lo stesso giornale. E’ come se girasole e sunflower si scrivessero nella stessa maniera, ma poi l’italiano lo legge in un modo e l’inglese in un altro. Se parlano fra di loro non si capiscono, ma se si scrivono si. Magia degli ideogrammi. Ovviamente tutto questo funziona dove si usano gli ideogrammi, perché la Cina è immensa e esistono molte minoranze etniche, con lingua, alfabeto e costumi diversissimi. E quando si parla di “minoranze” dobbiamo aver ben presente quanti sono in cinesi e quanto numerose possano essere le “minoranze”.

Regola prima, dunque, munirsi di una guida dove ci sia scritto in cinese il luogo dove volete andare, sia esso la città, il monumento, l’albergo o il ristorante e, regola seconda, munirsi di uno di quegli utili strumenti che gli

inglesi chiamano phrasebook. Utile, poi, chiedere alla reception dell’albergo di scrivervi su un pezzo di carta quello che intenderete chiedere appena varcherete la porta girevole. Tenete conto, però, che anche nell’hotel a 5 stelle può capitare che ci sia solo un addetto alla reception che parla decentemente inglese, se l’albergo è prevalentemente orientato a una clientela cinese. Gli altri non vanno oltre a qualche frase d’obbligo e appena pronunciate frasi complesse tipo “Quanto tempo ci vuole in taxi dall’albergo all’aeroporto?” li vedrete girare vorticosamente lo sguardo in cerca di aiuto. E a voi può capitare di trovarvi in una meravigliosa camera matrimoniale, al costo di 25 euro a notte!, e di avere qualche difficoltà a far funzionare l’aria condizionata, visto che nel telecomando ci sono solo ideogrammi cinesi. Non disperatevi, a gesti spiegate alla cameriera al piano che volete esser seguiti nella stanza e lì impugnate il telecomando. Vi mostrerà il suo funzionamento e, se avete un po’ di inventiva, potete – come ho fatto io – salire su una sedia e mostrare che volete che le alette siano alzate verso l’alto. Lei premerà il tasto giusto, mentre vostra moglie memorizza le istruzioni. 

Superato o, quantomeno, arginato il problema di lingua e alfabeto, troverete qualche altro problemino.

Nella cultura cinese sputare per terra non è affatto disdicevole.

Non è in verità l’unico popolo al mondo a non trovare nulla di riprovevole in questa pratica, che a noi europei fa un tantino schifo. Il problema sorge soprattutto al ristorante, anche in quello non dico di lusso, ma quasi, dove vi capiterà di vedere sputare, o meglio, scatarrare sulla moquette. Non fateci caso.

Nella cultura cinese il cesso è proprio un cesso.

Usciti dai posti per turisti del primo mondo, qualsiasi toilette vi farà ribrezzo. Non tanto perché il livello degli standars igienici vi sembrerà opinabile – questo capita in molte altre parti del mondo e nella toilette di qualsiasi bar vicino alla stazione Termini di Roma -, quanto per la totale abolizione del concetto di privacy. Tutti i vostri bisogni, siano liquidi o solidi, li farete in pubblico, nel senso che, varcata la soglia principale, non vedrete più porte, ma solo – se siete maschietti – in genere da una parte un muro piastrellato sul quale dirigere il vostro getto e dall’altra parte una sequela di turche. Le turche le vedrete bene perché, come ho detto, non esistono porte dentro i bagni. Mi dice mia moglie che nel bagno delle signore esistono di solito solo le turche, senza porte, e che le donne cinesi amano conversare anche accucciate.

Nella cultura cinese il concetto di gentilezza è con ogni evidenza ben diverso dal nostro. Durante l’ultimo viaggio ho visto nella piazza principale di una grande città un megaschermo che proiettava filmati in cui si spiegava cosa vuol dire essere gentili per un occidentale, tutto ciò in vista delle Olimpiadi e al fine di far capire ai cinesi cosa si aspetta il turista che arriverà. Del resto basta osservare cosa succede quando si prende un bus di linea per intuire che la sdaura bolognese rimarrebbe sconvolta e scriverebbe subito indignata una lettera al giornale per lamentarsi del degrado.

Detto tutto questo, la Cina è un paese splendido.

Girare in un posto che vi fa tornare analfabeti, è un’esperienza in sé affascinante.

Ordinare il vostro pranzo in un ristorante che non ha il menù scritto in inglese è divertentissimo e fornisce una soddisfazione enorme – quando arrivano i piatti giusti. Enorme quanto quella di imparare ad usare le bacchette e riuscire per la prima volta a portare un’arachide dal piattino alla vostra bocca o quanto quella di scoprire che i vostri vicini di tavolo, cinesi, stanno sbagliando, come avete fatto voi il giorno prima, nell’assemblare gli ingredienti degli “spaghetti sopra il ponte”, perché anche loro non conoscono il piatto tipico dello Yunnan - una delizia – e vi godrete l’espressione della cameriera che fa loro vedere come si fa, indicando il vostro tavolo e, con ogni evidenza, dicendo loro di imparare da voi! Non dimenticherò mai quel ristorante di Kunming e le facce di quei cinesi che osservavano con attenzione l’agire navigato delle bacchette che io e Rosella facevamo danzare tra una ventina di piattini, gli spaghetti e le due tazze di brodo.

La cucina cinese, quella vera, vi farà capire quanto deprecabili siano i ristoranti cinesi in giro per il mondo. Quella autentica e buona di Pechino vi farà detestare chi impone ai quei poveracci costretti ad emigrare dallo Zhejiang di improvvisarsi cuochi di riso alla cantonese.

Il Tempio del Cielo a Pechino vi farà capire di che meraviglie può essere piena la Cina e lo smog – incredibile – delle megalopoli lo dimenticherete non appena uscite a vedere i luoghi della natura, così diversi dai nostri, così inaspettati.

Se poi date un’occhiata al mappamondo e vi fate un’idea di quanto è grande questo paese, allora capirete che – Olimpiadi o no – è il caso di farci più di un viaggio e di evitare di fare come quei turisti con gli occhi mandorla che in una settimana pensano di visitare tutta l’Italia. O come quella ragazza cinese di cui ci parlò orgogliosa la madre, seduta al nostro tavolo in un ristorante mussulmano di Xian (quei tavoli enormi e tondi dove ci si siede accanto a sconosciuti). La ragazza aveva in diciassette giorni visitato l’Europa, partendo dalla Grecia e finendo con l’Inghilterra. La signora era troppo contenta di saper parlare un po’ di inglese, di aver scoperto che eravamo stati a Datong, la città natale del marito, e, soprattutto, ci era stata utilissima per riuscire ad ordinare un piatto particolare che non si trovava nel menù in inglese, e così non abbiamo avuto il coraggio di dirle che probabilmente la figlia aveva visitato gli aeroporti europei, non l’Europa.


VIA COL VENTI  

di Giuliano Berti Arnoaldi Veli

RACCONTO PER BAMBINI

beh, ma c'è un'altra rotonda

c'era una strada larga e dritta

mica come la porrettana

e loro ci vanno a fare una rotonda

ah, c'è anche una rampa nuova per andare in tangenziale.

beh, ma ce n'è un'altra ancora

eh ben bèn

prima c'era solo quella in fondo che ci passa sopra la tangenziale

rotonda paradisi

chi è poi sto paradisi?

che fosse un amico di massarenti

che poi era di molinella, come la norma,

la vecchia fruttivendola di via solferino

che abbiamo trovato morta un giorno in casa

che era scivolata in casa battendo la coppa all'indietro

guarda mo' quanti ce n'è tutti lì a parlare

nel parcheggio dei camper attorno al carriolo del tirannosauro

devono essere tutti dell'est, vengono dallo stesso posto

per forza, anch'io se dovessi emigrare mi piacerebbe incontrare

quelli del mio paese, e parlare italiano, e ricordare com'era bello

andare sui colli a mangiare d'estate

o fare due passi in piazza

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Regalisticaaaaaaaaa?

Finalmente siamo a porta San Vitale

guarda il cartellone con i faccioni degli Stadio

c'è anche una frase

Se vuoi toccare sulla fronte

il tempo che passa volando.

cosa vorrà poi dire?

Beh, che c'è?

Non mi direte che quando girate in autobus

pensate cose più intelligenti di così.

CARNEVALE

di Antonio Penzo

Il Carnevale è una festa le cui origini sono antichissime ma che caratterizza il tempo successivo all’Epifania fino all’inizio della Quaresima.

Etimologicamente la parola carnevale deriva dal latino "carnem levare", popolarmente tradotto "carne-vale" o "carnasciale", perché anticamente indicava il banchetto di abolizione della carne che si teneva subito prima del periodo di astinenza e digiuno della Quaresima.

Si hanno notizie del carnevale già nel mondo degli Egizi, circa 4000 anni fa, quando si effettuavano feste in onore della dea Iside, dea della fertilità dei campi e degli animali.

Questo spirito licenzioso, inneggiante alla vita, si trova anche negli antichi Greci, dove il carnevale il carnevale veniva celebrato tra l'inverno e la primavera , con riti e sagre in onore di Bacco, dio del vino e della vita, fra i quali le  “dionisiache”, feste orgiastiche che si tenevano tra il 15 marzo ed il 15 aprile, in Atene, e che segnavano il momento culminante del lungo periodo carnevalesco. I Romani non furono da meno con i “Saturnali”, che rappresentarono la prima espressione del carnevale, che con il tempo perdettero il significato rituale, assumendo una impostazione da festa popolare che iniziava il 17 dicembre e si prolungava per tre o sei giorni.

Durante i “Saturnali” venivano sospese le leggi e le norme relative ai rapporti umani e sociali e non vi era distinzione fra patrizi, plebe e schiavi, ed era concessa ogni vacanza di costumi e di lascivia, che spesso degenerava in dissolutezza se non in intemperanza.

Nel Medioevo, con l’avvento dei barbari, si ha la personificazione del carnevale in un essere umano o in un fantoccio risale, unendo usi e costumi propri con quelli del popolo romano.

La Chiesa Cattolica contrasta questo costume e considera il periodo o Tempo del Carnevale  come momento essenziale di riflessione e di riconciliazione con Dio. In questo è periodo si celebravano le Quarantore (o carnevale sacro), che si concludevano, la sera dell'ultima domenica di carnevale. Ora il Carnevale, che inizia dalla Epifania, ha termine il martedì grasso, giorno che precede il mercoledì delle Ceneri, quando ha inizio la Quaresima.

Il Carnevale rappresenta da sempre una festa del popolo, un momento in cui si lascia spazio alle maschere, al riso ed allo scherzo. Lo stesso mascherarsi rappresenta un modo attraverso il quale uscire dal quotidiano, disfarsi del proprio ruolo sociale, negare sé stessi per divenire altro.

Il Carnevale è caratterizzato dalle maschere, dal lancio di coriandoli e stelle filanti e dai carri allegorici. Si può dire che ogni città ha un modo diverso e proprio di festeggiare il Carnevale.

Il Carnevale, destinato ad anticipare e compensare, i rigori della quaresima, è il periodo dell'eccesso alimentare. Nelle settimane di penitenza che seguono, fino a Pasqua, non sarà più possibile, seguendo i precetti della Chiesa, mangiare carne e altri alimenti che eccitano i sensi.
Si ha pertanto una concentrazione festaiola nell'ultima settimana di Carnevale, dal giovedì grasso al martedì grasso, con festini e banchetti a base di carne e dolci.

Si sotto intende con ciò il passaggio dell’elemento stagionale, si va verso la primavera e occorre consumare le scorte alimentari invernali per fare posto ai nuovi cibi primaverili, sintomo di abbondanza e fertilità propiziatoria. E’ anche il periodo che negli animali si risveglia la vita e si procede alla fecondazione.

Come detto il dolce impera! …. ed ecco alcune ricette tradizionali. E ricordiamoci del buon detto “semel in anno licet insavire” che si adatta più al Carnevale che all’arrivo del Capodanno.

CICERCHIATA

E’ una specialità tipica del Centro- Italia (Abruzzo, Umbria, Marche, Lazio); tra l’altro, la presenza del miele indica che si tratta di una preparazione molto antica.

Ingredienti per 6 persone

Miele g 500, Mandorle pelate e sfilettate g 100, Frutta candita g 50, Olio extravergine d’oliva g 30, Scorza di Limone un pezzetto, Farina q.b., Liquore aromatico n. 2 cucchiai, Uova n. 3.

Preparazione

Sbattete le uova con la scorza grattugiata del limone, olio di oliva e il liquore. Quando tutti gli ingredienti saranno ben amalgamati, incorporate della farina, in quantità giusta per avere un impasto morbido.

Ricavate dalla pasta dei bastoncini lunghi e stretti e tagliateli a pezzettini di 1/2 cm., quindi strofinandoli tra le mani, ricavatene delle palline.

Friggete le palline di pasta in abbondante olio caldo e quando saranno dorate sgocciolatele. Scaldate il miele in una larga casseruola e fatelo leggermente imbiondire, quindi togliete la pentola dal fuoco ed incorporate le mandorle, i canditi e le palline di pasta fritte.

Ungete con dell'olio extravergine d’oliva uno stampo ad anello e versatevi il composto livellandolo. Lasciate che l'impasto si raffreddi e si rapprenda bene, quindi capovolgete sul piatto da portata e servite.

STRUFFOLI

Sono dolci del meridione in particolare di Napoli e pur presentando analogie con la cicerchiata, se ne distingue ed in particolare vengono serviti con accompagnamento di “cannulilli” e di “diavulilli”.

Ingredienti per 6 persone

Farina g 500, Uova n. 4, Olio extravergine d’oliva n.  4 cucchiai, Miele g 300, Zucchero g 100, Limone n. 1, Arance n. 2, Canditi misti g 100, Olio di semi q.b., Sale q.b., Diavolini q.b., Ciliegie candite q.b.

Preparazione

Setacciate 400 g di farina sulla spianatoia, fate la fontana e nel centro mettete del sale, le uova, la scorza di limone grattugiata e l'olio di oliva. Lavorate fino ad ottenere una pasta liscia, morbida ma solida: se servisse unite della farina.
Formate con la pasta tanti bastoncini lunghi e tagliateli, quindi friggeteli nell'olio molto caldo, scolateli e fateli asciugare su carta assorbente.

Scaldate in una larga casseruola il miele con lo zucchero e quando sarà ben sciolto unite la scorza delle arance grattugiata, i canditi tagliati e poi le composizioni di pasta fritte. Mescolate con cura con un cucchiaio di legno e cuocete per circa un quarto d'ora, fino a quando tutti i pezzetti di pasta saranno ben amalgamati con il miele.

Mettete gli strufoli su un piatto da portata, formando una ciambella.

Completate cospargendoli di diavolini e guarnite con le ciliegine.

CHIACCHERE  o SFRAPPOLE o GALANI

E’ uno dei dolci più semplici e come tale diffuso in tutt’Italia, con nomi diversi: “Grostoli” in Friuli, “Sfrappole” in Emilia-Romagna, “Galani” nel Veneto, “Frappe” nelel Marche, “Cenci” in Toscana, “Chiacchere” in Campania. La variante è costituita solitamente dal liquore divers: marsala, acquavite, liquote all’anice, vino bianco.

Ingredienti per 4 persone

Farina g 500, Uova n. 4, Olio di semi q.b., Burro g 50, Zucchero g 100, Limone n. 1, Grappa n.  4 cucchiai, Vino bianco secco n. 4 cucchiai, Sale q.b.

Preparazione

Disponete la farina a fontana, mettetevi nel centro il burro ammorbidito a fiocchetti, lo zucchero, le uova sbattute, la grappa, il vino, la scorza del limone grattugiata ed un pizzico di sale.

Impastate tutti gli ingredienti e lavorate a lungo fino ad ottenere un impasto liscio ed elastico. Formate una palla, coprite con un telo e lasciate riposare per 30 m.

Lavorate ancora la pasta, poi tirate una sfoglia sottilissima con il matterello. Ricavate delle strisce della larghezza di circa 8 cm, quindi con una rotella tagliate tanti rettangoli ed effettuate due tagli paralleli per il lungo.

Friggete le chiacchiere, poche per volta, in abbondante olio bollente, scolatele con un mestolo forato quando saranno dorate ed appoggiatele sulla carta assorbente. Lasciatele raffreddare e cospargetele con lo zucchero a velo.

CENCI DI CARNEVALE

Ingredienti: 300 gr di farina, n. 2 uova, 110 gr di zucchero, scorza grattugiata di limone, qualche cucchiaio di marsala, 40 gr di burro, 1 pizzico di sale, n. 2 cucchiaini di lievito, olio per friggere
Preparazione: Setacciate la farina sulla spianatoia, fate la fontana e aggiungete le uova, lo zucchero, la scorza grattugiata del limone, il burro fuso, il sale, il lievito (sciolto in qualche cucchiaio di latte) ed il marsala.
Lavorate bene gli ingredienti, fino ad ottenere un impasto liscio ed omogeneo, che farete riposare 15 minuti.
Con il matterello, tirate una sfoglia sottile, tagliatela a rettangoli o triangoli con la rotella dentata. Friggete i cenci ottenuti in abbondate olio bollente, quando saranno dorati, sgocciolateli e metteteli ad asciugare su carta assorbente. Spolverizzate con zucchero a velo.

CASTAGNOLE

Sono dolci tipici del Friuli, gustosi e morbidi.

Ingredienti

Per l'impasto:
500 gr. di farina, 100 gr. di zucchero, 125 gr. di latte, 50 gr. di burro morbido, 2 uova intere, 3 cucchiai di liquore anice oppure 25 gr. di semi d'anice, 1 pizzico di sale, buccia grattugiata di un limone, 1 bustina di lievito vanigliato (da setacciare nella farina), olio per friggere.

Per la bagna:
250 gr. di acqua, 6- 7 cucchiai di liquore Alchermes, 150 gr. di zucchero, zucchero semolato per finire.

Impastare tutti gli ingredienti dell'impasto, formare una palla e far riposare in frigo circa 1/2 ora. Ricavare tanti bastoncini grossi come un

dito, tagliarli ogni 2 cm. e con le mani dare una forma sferica. Nel frattempo portare ad ebollizione una pentola d'acqua; scottare le castagnole poche alla volta e scolandole quando salgono in superficie. Metterle sopra uno strofinaccio per farle asciugare. Nel frattempo preparare la bagna facendo bollire l'acqua con l'alchermes e lo zucchero, poi fare raffreddare. Friggere nell'olio ben caldo le castagnole e adagiarle sopra fogli di carta cucina per eliminare l'unto in eccesso. Immergere quindi le castagnole fritte (una o due alla volta)nella bagna ed infine rotolarle nello zucchero semolato.

TORTELLI o RAVIOLI DOLCI

Sono dolci costituiti da cuscinetti di pasta ripieni di crema, o marmellata, o frutta secca, o ricotta o senza nulla.

Ingredienti ricetta

60 g Burro, 200 g Farina, n. 5 Uova, n. 1 Limone, Latte, Olio extravergine d'oliva, n. 2 cucchiai di Zucchero, Zucchero a velo, 1 pizzico Sale.

Mettete in una casseruola un quarto di acqua, un pizzico di sale e 60 g di burro. Portate a bollore, mescolando, finché il burro sarà sciolto. Togliete la casseruola dal fuoco e rovesciatevi dentro, tutti in una volta, 150 g di farina setacciata. Mescolate per incorporare la farina all'acqua e rimettete su fuoco basso. Sempre mescolando, fate cuocere l'impasto fino a quando formerà una palla che si staccherà dalle pareti del recipiente, sfrigolando leggermente. Fate raffreddare, mescolando; poi unite al composto la scorza di mezzo limone grattugiata e 2 cucchiai di zucchero. Incorporate quindi 3 uova piccole, uno per volta. Lasciate riposare il tutto per un'ora e nel frattempo, per preparare la crema, sgusciate le 2 uova rimaste, facendo scivolare i tuorli in una casseruolina. Unite 3 cucchiai colmi di zucchero e sbattete con una frusta, a mano o elettrica. Quando i tuorli saranno gonfi e spumosi aggiungete un cucchiaio colmo di farina, facendola passare da un colino e amalgamate bene. Diluite lentamente con un quarto di latte, sempre mescolando, e aggiungete la scorzetta del mezzo limone rimasto. Mettete il recipiente sul fuoco, a bagnomaria. Cuocete la crema, sempre mescolando con un cucchiaio di legno, finché accennerà a bollire. Togliete dal fuoco il recipiente, eliminate la buccia del limone, trasferite la crema in una terrina e passate sulla superficie un pezzetto di burro infilato su una forchetta: formando una patina protettiva, il burro impedirà alla crema di asciugarsi troppo durante il raffreddamento. Trascorso il tempo di riposo della pasta, versate abbondante olio di oliva nel recipiente di ferro per la frittura, che dovrà essere stretto, a bordi alti e dotato di un cestello a rete estraibile. Non appena l'olio sarà ben caldo (ma non fumante) prelevate con un cucchiaino un po' di pasta e, con l'aiuto di un altro cucchiaino, fate scivolare nell'olio, una per volta, delle palline grosse poco più di ciliegie. Friggete pochi tortelli alla volta, in modo che 'nuotino' nell'olio. In questo modo gireranno da soli nel condimento e si gonfieranno. Non appena saranno dorati uniformemente, e ben cotti, sollevate il cestello, scolateli bene e metteteli subito a perdere l'unto di cottura su carta assorbente da cucina. Passateli quindi nel forno, che avrete prima acceso e poi spento, in modo da mantenerli caldi. In questo modo friggete tutti gli altri tortelli, sempre pochi per volta, in modo che abbiano lo spazio necessario per gonfiarsi bene. Quando li avrete cotti tutti, mettete la crema preparata in precedenza in una siringa per dolci montata con bocchetta lunga e sottile. Infilando la punta in un tortello, farcitelo con la crema. Procedete allo

stesso modo con tutti i tortelli, badando di non farli raffreddare. Quando tutti i tortelli saranno pronti, adagiateli su un grande piatto di portata, oppure in un cestino di vimini ricoperto con un tovagliolo. Spolverizzateli di zucchero a velo e serviteli subito, ancora caldi.

TORTELLI SEMPLICI


Ingredienti (per 4 persone): 60 gr di burro, 4 uova, 150 gr di farina, sale, 50 gr di zucchero, 250 ml di acqua, olio per friggere.
Preparazione: Mettere sul fuoco a bollire l'acqua con il burro a pezzetti, lo zucchero ed un pizzico di sale. Quando si alzerà il bollore, aggiungere in un sol colpo la farina mescolando con un cucchiaio di legno. Continuare a mescolare per qualche minuto, fin quando il composto si staccherà dalle pareti, formando una palla. Lasciare intiepidire il composto dopo averlo tolto dal fuoco e incorporarvi, mescolando con il cucchiaio di legno, le uova, alternando un albume montato a neve ad un tuorlo, non aggiungendo il successivo fino a quando non sarà stato amalgamato il precedente. Amalgamare bene il tutto poi friggere una cucchiaiata di pastella per volta nell'olio ben caldo. Continuare a girare i tortelli con una forchetta poi aumentare il calore gradatamente sino a portarli a completa cottura. Servire i tortelli dopo averli cosparsi con abbondante zucchero semolato.

ALL’AQUILA IL CARNEVALE PIU’ BREVE DEL MONDO

di Goffredo Palmerini *

Dal 1703, dopo un terribile sisma che distrusse la città, il Carnevale comincia sempre il 3 febbraio

L’AQUILA – Dura solo tre giorni, quest’anno, il Carnevale all’Aquila. Un po’ perché la Pasqua è talmente bassa, per via del plenilunio, che tutto il calendario ne risente. Canonicamente il giorno di Pasqua è fissato dal ciclo lunare e cade nella domenica immediatamente seguente il primo plenilunio, dopo il solstizio di primavera. Dunque, la festività pasquale ricorre quest’anno appena dopo l’ingresso della primavera. Conseguentemente, considerato il tempo di Quaresima, il Carnevale cade martedì 5 febbraio. Ovunque si celebri la tradizione carnevalesca, a motivo della Pasqua bassa, nel 2008 il periodo è più breve,. E tuttavia il Carnevale ha potuto contare quasi sulla durata d’un mese. Dovunque, ma non all’Aquila. Perché nella città capoluogo dell’Abruzzo il Carnevale parte sempre dopo il 2 febbraio, festa della Presentazione di Gesù al Tempio più nota come festività della Candelora, per via del rito della consegna delle candele benedette. Corrono ora 305 anni da quel terribile 2 febbraio 1703 all’Aquila. Era appunto il giorno della Candelora. Le chiese aquilane erano piene di fedeli quando, in pieno giorno, la terra fortemente tremò, e più volte, fino a sera. Solo nella trecentesca chiesa di San Domenico ottocento persone rimasero sotto le macerie. Molti ancora persero la vita nelle altre chiese della città che – per la stessa storia della sua fondazione con il concorso di molti castelli – erano assai numerose, quasi un centinaio. 

Migliaia le vittime in quel giorno nefasto, oltre seimila con l’immediato circondario. Le splendide basiliche di Collemaggio, San Bernardino e la stessa Cattedrale, come le chiese di Santa Maria Paganica, Sant’Agostino, San Francesco e San Domenico, per citare le più grandi, furono gravemente danneggiate dal sisma, stimato oggi quasi alla massima potenza distruttiva. Tutto il patrimonio architettonico della città ne risentì, i tanti palazzi medioevali e rinascimentali, proprietà delle famiglie armentarie, commerciali e professionali furono strutturalmente compromessi. Crollati per le scosse gli edifici popolari, staticamente meno solidi. Davvero un’immane tragedia che ridusse la popolazione d’un terzo. Non che L’Aquila non fosse abituata ai terremoti, avendone subiti d’ogni specie dall’epoca della sua fondazione, nel 1254. Terra sempre ballerina, sul dorso dell’Appennino. Ma i precedenti terremoti erano stati tragici più che altro sulle cose, in particolare quelli del 1315, 1348, 1349, 1456, 1461 e 1654. Mai tante, però, erano state le vittime, sia per aver nel tempo gli aquilani migliorato le tecniche costruttive, sia per essersi la comunità preparata a proteggersi, quasi anticipando qualche attuale forma di protezione civile. Nel caso che trattiamo, però, tutto avvenne quando la gran parte della popolazione, molto legata alla ricorrenza liturgica della Candelora, si trovò riunita nelle chiese della città. Furono tra le vittime del terremoto il Vicario capitolare reggente la diocesi ed il Camerlengo della città.

Un dramma del genere avrebbe schiantato la più forte tempra civica ed annichilito il senso comunitario. Per fortuna questo non avvenne all’Aquila.

Una relazione scritta tre mesi dopo la catastrofe, riporta: “…Si animarono gli smarriti cittadini rendendoli coraggiosi a non disabitare la loro Patria, come havevano principiato a fare alcune famiglie. Fu creato il Governo della Città, in luogo degli estinti del terremuoto. Si aprirono alcune strade più principali al commercio, buttando a terra l'avanzo delle muraglie, che minacciavano morte a' passegieri. Si fabricarono più forni da cuocere il pane, essendo rimasti atterrati quelli che vi erano... Furono accomodati gli acquedotti della città...”. Walter Capezzali, studioso e presidente della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, in due suoi saggi sul Settecento aquilano, vi annota come la città in quella occasione dimostrò “…una forte volontà di rinascita e ricostruzione che in effetti doveva dare gradualmente i suoi frutti positivi (…). E ancora “ Il drammatico momento del terremoto è ancora significativo punto d'intersezione tra le due storie civile ed ecclesiale (…)”, rilevando il ruolo propulsivo del vescovo Tagliatatela nel restauro del duomo ed in altre importanti iniziative di rinascita. Si confermò così una tradizione civica di forte spiritualità e connotata da un solido rapporto con la Chiesa e con i tanti ordini religiosi presenti all’Aquila.

E tuttavia, quantunque fosse stata determinante la forza di reagire e la voglia di rinascere, nel gene della comunità questa tragedia s’incise profondamente. Errico Centofanti, ideatore e regista di grandi eventi, ma anche storico, nel suo libro “La festa crudele” sul terremoto del 1703, tra l’altro deduce come la stessa indole aquilana cambiò in conseguenza di quella tragedia. Se n’ebbe d’altronde percezione persino nei simboli civici. Gli antichi colori municipali della città, il bianco ed il rosso, dopo quel 2 febbraio 1703, divennero il nero e verde attuali, l’uno a ricordo perenne di quel lutto civico, l’altro in segno di speranza. Fatto sta che da allora quella tragedia e l’infausta data sono nella memoria collettiva. Cosicché scherzi e lazzi del Carnevale, all’Aquila, hanno un profilo privato e sobrio, mai antecedono la Candelora, ma hanno inizio solo all’indomani della ricorrenza, il 3 febbraio d’ogni anno. Dunque il Carnevale aquilano è anche il più corto al mondo. Nel 2008, appunto, è di soli tre giorni. Proprio un battito. Poi le Ceneri e la Quaresima.

* gopalmer@hotmail.com - componente del Consiglio Regionale Abruzzesi nel Mondo

LA NEVICATA DEL ’74

di Gianfranco Oliva

A quelli come il sottoscritto che hanno sempre vissuto in luoghi ove la neve, con la “sua cadenza lenta” per dirla alla Roberto Vecchioni ,  rappresentava (e rappresenta) un evento poco probabile se non eccezionale , la stessa innesca una sensazione del tutto particolare, anche semplicemente osservandola in una immagine o in un filmato .

Da adolescente , affacciandomi alla finestra della mia casa di Cosenza , mi appariva di fronte , nel periodo invernale , la vetta imbiancata di Monte Scuro  e subito si manifestava la speranza che la neve arrivasse fino in città .

Raramente succedeva e l’evento diventò sempre più rado con il passare del tempo .

La voglia di neve veniva appagata con l’arrivo delle vacanze natalizie e , quindi , con la partenza per Mormanno .

In quegli anni (’50-inizi ‘60) , in inverno a Mormanno , la neve, tanta, non mancava mai .

La sensazione più intensa , si manifestava al mattino , al risveglio , in casa dei miei nonni , quando il vicinato cominciava ad attivarsi : i passi , all’esterno , risultavano ovattati , come anche le voci ; ma il rumore che non dimentico e che resta vivo nella memoria è quello degli zoccoli dell’asino di Gennarino “i Garigghiu” senior , con il loro ritmo cadenzato , che affondavano nella neve  ; senza la neve , quel ritmo era secco in quanto ,  all’epoca , la salita del Faro era rivestita di ciottolame arrotondato , che al contatto con i ferri degli zoccoli restituiva un suono distinto  e metallico .

Subito dopo , scendendo nella cucina , che fungeva da soggiorno , da sala da pranzo , da tutto , si era colpiti dall’odore dei dolci natalizi , “cannulette” e “grispeddre” , che friggevano nella padella sul treppiedi posto nel caminetto ; e mio nonno , zu’ Carmineddru,  che reggendo una sorta di padellone munito di un lungo manico nel quale aveva raccolto una discreta quantità di brace , si apprestava , avvolto nella  sua “cappa” , ad avviarsi in piazza per un’altra giornata di lavoro al suo “tabacchino” .

Una volta sul posto trasferiva la brace dal padellone in un braciere : era quello il riscaldamento sotto il bancone .

Dalla finestra , se la nevicata si era attenuata , s’intravedeva quell’immenso panorama imbiancato che si estendeva dalla Madonna della Catena ai monti del Sirino .

Ovviamente , non ero assolutamente cosciente dei disagi di chi la neve doveva sorbirsela per tutto il periodo invernale  : l’approvvigionamento dell’acqua diventava problematico , perché andava fatto alle fontane pubbliche con il barile di legno ed il più delle volte il gelo bloccava il flusso dell’acqua ; l’alternativa era quella di sciogliere dentro i “carraruni” , grossi pentoloni di rame , una consistente quantità di neve .

Si consideri  anche , che l’unica fonte di riscaldamento era il caminetto , disposto nell’ambiente principale ; nelle altre stanze , un semplice braciere , utile solo a stemperare il gelo .

L’evento più rilevante  di quell’epoca , divenuto poi storico (per lo più , oggi è ricordato per la celebre canzone di Mia Martini dedicata alla nevicata a Roma) , fu la nevicata del 1956 che provocò disagi di grande rilievo  in tutta Italia ; conservo di essa un’immagine della situazione a

Campo Tenese , ove la littorina viaggiava fra due muraglioni di neve , non esagero , di quasi tre metri .

Nel periodo natalizio del 1974 , ormai da sette anni residente a Roma , ebbi l’opportunità di poter immortalare alcune immagini a seguito di una fortissima nevicata , che , per la prima volta , bloccò la neonata autostrada Sa-Rc , e di conseguenza , molti automobilisti furono soccorsi e trasferiti in paese .

La temperatura si mantenne al disotto dello zero per parecchi giorni ; vennero interrotte l’erogazione dell’acqua e dell’energia elettrica .

Almeno a riguardo il riscaldamento degli ambienti , non si riproposero i disagi degli anni precedenti : non c’era ancora il metano (sarebbe arrivato alla fine degli anni ’90) , ma già erano molteplici gli impianti di termosifone a gasolio e le stufe a cherosene .

I problemi di viabilità furono rilevanti all’interno del paese , ove i viottoli ricavati spalando la neve , ben presto ghiacciarono ed io stesso fui testimone di molteplici scivoloni .

La S.S.19 fu resa efficiente dopo qualche giorno con il passaggio degli spazzaneve dell’ANAS .  

In una di quelle mattinate , assieme ad un gruppo di amici , percorremmo la tratta Snack Bar-San Rocco e tra una facezia e l’altra , proferita da perfetti vitelloni , scattai una serie di foto ; una puntatina la feci anche al Faro, che ripresi  forse in una delle poche  immagini sotto la neve .

Ecco nella immagine di seguito la squadra (compaio anch’io nella foto) che mi ha accompagnato durante le riprese ; non ricordo a chi consegnai  l’apparecchio per lo scatto.

In rilievo è posto Giuseppe Presta, detto  “Dostoyevski; lo abbiamo perso di vista da quell’epoca.

Propongo la foto al solo fine di ottenere  una risposta al seguente quesito : che fine ha fatto  Dostoyevski ?

Chi ne ha notizie , ci renda partecipi.

Naturalmente non è la riproposizione di una puntata di “Chi lo ha visto .

Di seguito , una selezione di quelle immagini , scattate tutte con un grandangolo da 28 mm .

Sono state , per l’occasione leggermente ritoccate fornendo ad esse un modico viraggio giallo-magenta al fine di invecchiarle alquanto e , nello stesso tempo , un leggero effetto di posterizzazione  che , in special modo nella foto a colori , ne esalta i dettagli .

Solo per la cronaca : l’albero in primo piano ricoperto di neve è stato reciso in occasione degli ultimi lavori di ristrutturazione della villa di San Rocco .

Questo cartellone del Cine San Giuseppe , rimase esposto come sempre , sulla destra della facciata della chiesa , per tutto il periodo dell’ ”emergenza” .

All’epoca , gestore , operatore , bigliettaio ecc . della sala era Nick De Franco (“Nicola i Tambumbulu”) ; sicuramente suo l’avviso sul manifesto : ironico , ma nello stesso tempo, rassegnato. .

QUANDO MANCA IL CAPITALE…

di Nicola Perrelli

Quando parliamo di capitale sociale immediatamente siamo portati a pensare alle risorse e  ai mezzi di un’azienda o all’occorrente per l’avviamento di una nuova attività imprenditoriale. Non pensiamo  invece  al patrimonio costituito  dalla complessa rete di relazioni interpersonali che regolano l’agire collettivo all’interno della società.

Sebbene sia una ricchezza difficile da misurare,  il tema del capitale sociale, del suo significato e dei presupposti che lo creano è da tempo, dagli anni ottanta all’incirca,  oggetto di studi e approfondimenti da parte degli scienziati sociali, che per meglio mettere a fuoco il concetto e trovare indicatori adeguati si avvalgono anche  del sostegno di economisti, politologi e psicologi. Tutto per scoprire e spiegare il ruolo che l’interazione (socializzazione) può avere nella crescita della società civile e nel miglioramento delle aspettative economiche della collettività. Per far luce, in altri termini, sui modi in cui le relazioni sociali  che caratterizzano una data comunità possono determinare il progresso sociale e economico. 

Ma cos’è il capitale sociale e come  si può misurare?

La piena fiducia e solidarietà tra i componenti di una comunità, il rispetto delle regole e della legalità, una sana imprenditorialità, un alto senso di responsabilità verso gli altri  e verso le istituzioni e una proba classe politica rappresentano  senz’altro una parte significativa del complesso di valori che formano il capitale sociale.

In sostanza possiamo dire che  esso rispecchia la qualità della società civile di un paese.

Per misurarlo  vengono analizzati dagli studiosi  quegli indicatori empirici che riguardano in primo luogo  i rapporti fra cittadini e istituzioni pubbliche e poi la capacità di socializzare, la disponibilità personale a darsi agli altri e via dicendo.

Sono considerati  indicatori attendibili il tasso di partecipazione alle elezioni, la vendita di quotidiani, il Pil  e tutto ciò che riguarda il cosiddetto “terzo settore”, ossia il mondo del volontariato, dell’altruismo, della disponibilità a impegnarsi per gli altri, fino alla donazione di sangue, considerata  un atto di profondo significato umano e sociale.

Sulla base di queste stringate  considerazioni, possiamo quindi sostenere che la crescita economica di un Paese dipende in buona parte dal suo

capitale sociale. 

Se per valutarne il suo livello utilizziamo gli indicatori prima menzionati, ci rendiamo subito conto che ricalcano assai fedelmente il divario economico esistente nel nostro Paese tra il nord e il sud. E’ forse l’indicatore meno rappresentativo, ma il rapporto di quotidiani venduti è di 10 a 1.!!

Nel Mezzogiorno il deficit di capitale sociale è un fatto. La sua carenza condiziona negativamente lo sviluppo economico e sociale. 

La correlazione esiste ed è evidente. Non è una questione di risorse, la Cassa per il Mezzogiorno e i Fondi Europei ne hanno mandate fin troppe e senza vincoli. Forse le risposte dobbiamo ricercarle altrove, in ambiti non solo materiali.

Un esempio per tutti: il voto di scambio o clientelare, cosi diffuso nelle città e nei borghi della Calabria,  non ha certamente favorito lo sviluppo industriale,  né incoraggiato la crescita del libero mercato,  ha svolto invece e svolge purtroppo tuttora, una funzione negativa che ha soffocato  l’accrescimento del capitale sociale nella regione.  I favori concessi a pochi “fortunati” hanno avuto  ed hanno alti  costi per la collettività in termini di  mancato sviluppo, di delegittimazione delle istituzioni, di reciproca sfiducia fra la gente, di apprensione per il futuro dei figli, di diffusa ingiustizia sociale e di malversazione e trame.

La recentissima vicenda dell’”onorata sanità” dimostra che quando in una comunità  manca il capitale sociale… il malaffare alligna.

UN VIAGGIO INFINITO SUL TRENO DI BABELE

di Paola Cerana

Viaggiare non significa necessariamente partire.

A volte è sufficiente un libro per fare volare la mente oltre ogni confine. L’immaginazione non richiede passaporto. Le sue frontiere sono porte schiuse su paesaggi senza tempo e senza leggi.

L’unico rischio è quello di perdere l’orientamento, di scivolare nel sogno, rotolando in un’avventura che ci strappa, pagina dopo pagina, alla nostra realtà e all’immagine riflessa dal nostro abituale specchio.

L’agenzia turistica della mente regala all’uomo due meravigliosi compagni di viaggio: l’immaginazione, per compensarlo di ciò che non è; il senso dell’umorismo per consolarlo di ciò che è.

Sono parole di Vittorio Salvati. Scrittore e poeta. Pittore e musicista. Filosofo e manager. Ma soprattutto minuzioso esploratore e sensibile interprete dell’animo umano. Ha la virtù di affrontare in maniera semplice e stuzzicante tematiche composite e importanti, con una pensosa leggerezza che incanta. La sua filosofia intuitiva e sorridente sublima la quotidianità in un affascinante universo non solo da contemplare ma soprattutto da penetrare e capire.

Vittorio Salvati è un saggio pret-à-porter. Ironico,  divertente e immaginoso.

Sul treno di Babele, sognando Broadway”, (Serendipity Edition), è un suo romanzo che trovo semplicemente bello. Ed è proprio uno di quei libri che hanno il potere di mettere le ali alla fantasia, di assorbire completamente la mente, fino a trasformarla in un  teatro, sul cui palcoscenico le parole respirano e gli attori prendono vita.

E’ la “cronistoria di un viaggio e di incontri bizzarri e misteriosi”. Un’avventura dentro l’avventura. Un intrecciarsi di eventi e di volti talmente vivace che ogni capitolo potrebbe avere vita propria. 

Il protagonista esordisce raccontando del suo viaggio in treno verso il suo paese natio, Manpell. “Questo luogo così incantevole non si trova sulle normali carte geografiche ed è così poco conosciuto che la gente ci arriva solamente in tre maniere: per sbaglio, perché ci nasce o perché ci ritorna”.

Anch’io salgo sul treno e parto! Mi ritrovo seduta “vicino al finestrino, con gli occhi chiusi e la mente in libertà … in una specie di effervescente dormiveglia.” Ho la sensazione di vivere in una dimensione misteriosa e seducente. Vengo proiettata qua e là nel tempo, lontano nel passato e subito dopo risucchiata nella spirale di un presente tutto nuovo, ricucito di ricordi e sogni rubati ai visi incontrati.

Il viaggio è in realtà una metafora dell’esistenza, una ricerca verso la propria identità. Una fantasmagorica avventura di serendipità, che nel suo continuo divagare e trasformarsi, porta a scoprire un disegno ben più grande di un semplice viaggio. Un po’ come fu l’avventura verso l'ignoto dei tre Principi di Serendip, che partiti alla ricerca di qualcosa, trovarono, strada facendo, altre cose sorprendenti e impreviste, tanto da modificare il loro stesso destino.

Così mi addentro, insieme al protagonista, in un labirinto di specchi, imbevuta in un elisir surreale, amalgama di realtà e sogno.

Tutta la durata del viaggio è cadenzata da una passerella di personaggi bizzarri, caricature attraverso cui l’autore gioca a raccontare se stesso, che con le loro storie colorano di una suggestione contagiosa l’ineluttabile incedere.

Un controllore ferroviario che sfodera un quaderno ritrovato, con un’inverosimile storia di parafantascienza; una giovane donna che con il suo fascino solletica imbarazzanti ricordi di seduzione; un impresario teatrale che spiega di una strana bottega in cui si commerciano pensieri usati; un attempato manager in pensione che colleziona sogni; un giovane arruffato scrittore che dipana la trama del suo primo romanzo; una studentessa innamorata della filosofia spiccia di un suo originale zio filosofo.

L’ingresso di ognuno di loro non è mai casuale e aggiunge mano a mano al mosaico narrativo un tassello da decifrare.

Unico elemento costante è un individuo del tutto singolare e a dir poco inquietante che siede nello scompartimento di fronte al narratore. Un uomo enigmatico ma al tempo stesso affascinante. Senza età, né origine. Indefinibile. Il signor Jordan, questo è il suo nome “attuale”,  ha uno straordinario potere telepatico, per cui riesce a leggere i pensieri delle persone e ne intuisce persino emozioni e sentimenti.

Solamente sul finire del viaggio, rimasto solo con il protagonista,  il signor Jordan svela il suo segreto. E rivela finalmente, attraverso il racconto di una vicenda antica, la sua misteriosa identità. Narra la storia d’amore, durata un solo giorno, tra Gisalusur, giovane maestro orafo della città di Ur, e Mahane, bellissima figlia adottiva di una ricca famiglia di Babilonia.

Racconta del loro incontro proibito, dei loro sperdimenti in passioni

sconosciute, del loro destino segnato da quel tramonto rosso infuocato, dove “… si combattono il giorno e la notte e dopo la vittoria della notte, domani all’alba, il giorno rivivrà di nuovo come noi rivivremo”.

Solamente questo capitolo, tanto suggestivo nella descrizione della città e dei due giovani amanti, meriterebbe di occupare un posto tutto suo sugli scaffali della libreria più fantasiosa e innamorata di sapere.

E’ però l’incontro con una splendida donna, al termine del viaggio, a dare una svolta definitiva a tutta la storia. Vera Donna, con il suo ciondolo d’oro e lapislazzuli raffigurante la porta di Ishtar a Babilonia, illumina il protagonista di una verità sconvolgente, chiudendo il cerchio della narrazione in un velo di rassicurante inquietudine. E contemporaneamente fornisce a chi legge, come è stato per me,  una chiave di lettura inattesa, non solamente del romanzo ma della vita stessa.

Giunta all’epilogo, anch’io ho detto, tra me e me, “ora so che il mondo è meraviglioso non solo per quello che ci fa vedere ma ancor più per quello che ci nasconde”.

Per questo il viaggio è infinito. Lasciata alle spalle una meta ne segue necessariamente un’altra e i paesaggi che scorrono guardando fuori dal finestrino non sono altro che trampolini per ulteriori voli introspettivi.  Tutto quello che succede durante l’incedere ha un suo significato. E fa capire che “ tutti noi serviamo a qualcosa in questo mondo, anche quando non sembra”.

Anche questo romanzo di Vittorio Salvati è infinito, a dispetto della parola FINE. E soprattutto ha un senso. Forse non intuibile da tutti allo stesso modo. Qualcuno si avvicinerà più di un altro alla meta, lasciandosi trasportare fino alla successiva oppure scegliendo di scendere alla prossima fermata. Ma, se non altro, durante il cammino, potrà godere di uno splendido e irripetibile panorama, pennellato da un linguaggio incantevole.

Come un vecchio Bantu aveva spiegato, in un tempo lontano, al signor Jordan, “noi crediamo di comunicare con le parole ma è soltanto un’illusione. Le parole sono come noci di cui vediamo solo l’involucro e non il contenuto. Il problema è che, a differenza delle noci, noi non possediamo uno schiacciaparole che ci consenta di vedere cosa  c’è realmente dentro a ciò che diciamo o ascoltiamo. Per questo noi siamo condannati a non comprenderci ma a consolarci con l’illusione di capirci”.

Ma è altrettanto vero, come dice Marivaux, introducendo il prologo del romanzo, che “L’illusione, se ben vissuta e resa credibile, è più dolce e reale di una vita impossibile e mal vissuta senza spazio d’immaginazione”.

Io sono arrivata. A malincuore scendo dal treno, con il cuore che mi batte a mille e la mente sottosopra. Ma un pensiero mi accarezza. La speranza che fra cent’anni una giovane donna, frugando nel vecchio baule della sua polverosa soffitta, scopra questo romanzo. E salendo anch’essa sul treno di Babele incontri il suo principe. Quel principe che ha sempre sognato e che sa di avere già incontrato.

E, allora, ecco che finalmente si ricorderà di lui, e lui di lei, se l’anima ha memoria. E si riconosceranno guardando quel sole all’orizzonte e quel rosso infuocato del cielo, testimone già una volta del loro eterno amore.

Lo so, sono storie d’altri tempi, direte voi. Eppure sono storie vere e bellissime, per chi ha il dono di crederci! 

EFFETTI SPECIALI

di Paolo Donati

Erano le sei e mezza di un sgarbato mattino invernale. Nell’aria si sentiva odore di neve, ma la città era asciutta, tetra e fredda come al solito. Carlo aveva indossato sul pigiama svariati strati di lana ed era uscito di casa in punta di piedi, facendo attenzione a far scattare la serratura del portone con un clac smorzato e breve. Erano suoi ospiti una decina di amici che, dopo un itinerario notturno di esagerazioni, erano rimasti a dormire da lui, crollati un po’ dappertutto nel grande appartamento del ghetto ebraico dove viveva. Da premuroso padrone di casa, si sentiva in obbligo di preparare per loro una colazione come si deve, così aveva deciso di rinunciare definitivamente al tentativo di dormire – in cui si era vanamente accanito per ore – ed era uscito per rifornimenti.

Sospinto da un vento gelido, si lasciò le due torri alle spalle e scese lungo via Rizzoli dribblando i netturbini al lavoro. Venti metri più avanti, un corto rettangolo di luce, proveniente da uno dei più rinomati caffè del centro, rischiarava il marciapiedi.

Allungò il passo, colmò la breve distanza, abbassò la testa per evitare la saracinesca – riavvolta solo parzialmente – e sospinse la porta a vetri.

Il bar presentava la sobria ed anonima eleganza degli arredamenti anni ’60, tuttavia la lucida superficie dei sandwich, le tartine gelatinate, la glassa delle brioche brillavano di luce propria negli espositori d’acciaio.

Si allentò la sciarpa e ordinò un caffè. Dopo il secondo cornetto, finì in un sorso ciò che restava in fondo alla tazza e, non avendo dimenticato lo scopo dell’uscita, si fece preparare un sontuoso cabaret di brioche assortite.

Quando fu rientrato ed ebbe richiuso il portone con la stessa cura meticolosa con cui lo aveva aperto mezz’ora prima, sostò nell’ingresso per qualche secondo. In assoluto silenzio, trattenendo il fiato.

Nessun rumore.

In punta di piedi si diresse verso la sua stanza da letto e si affacciò. Daniela si trovava nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata: bocconi, con il cuscino sopra la testa e la schiena nuda completamente scoperta fino all’elastico delle mutandine.

Sul pavimento, ai piedi del letto, Diego, con il corpo completamente arrotolato in un sacco a pelo azzurro, esclusa la folta chioma che fiammeggiava scomposta e tentacolare ad una estremità, pareva una gigantesca creatura marina misteriosamente arenata nottetempo sul tappetino di finto persiano.

Nello studio c’era Guido, semi disteso su una sedia da regista, con i piedi sul tavolo e il capo abbandonato all’indietro. Un rantolo gli gorgogliava in gola e si aveva l’impressione che avrebbe potuto soffocare da un momento all’altro, ma, all’apice dell’apnea, rumorose deglutizioni gli

consentivano di immettere nuova aria nei polmoni e di perseverare nel suo sonno tribolato. Carlo gli sfilò dalle dita una cicca spenta e la gettò nel portacenere.

Lanciò uno sguardo all’altra estremità della stanza dove quattro corpi si dividevano esigue porzioni di un divano letto a due posti. Gambe stecchite

e pelose, culi inguainati in slip bordati di pizzo. La battaglia per la trapunta doveva essere stata senza esclusione di colpi, ma ora questa giaceva ammonticchiata e inutile sul pavimento. Carlo si attardò ancora un attimo, ipnotizzato dalle seducenti rotondità di Livia che rischiaravano la penombra. Poi passò oltre.

I materassi della sala, normalmente sovrapposti e accostati al muro, giacevano a terra affiancati. Delle tre forme che emergevano da sotto l’unica grande coperta di tipo militare, solo una era immobile. Le altre due descrivevano un appena percettibile moto ritmico. Una specie di onda che rifluiva lenta.

Carlo comprese che non doveva essere stato l’unico a passare la notte in bianco e sgattaiolò in cucina chiudendosi le porte alle spalle.

Accese la radio regolando il volume al minimo e sedette sull’unica sedia di quel microscopico ambiente per fumare una sigaretta. Sulla sua frequenza preferita era ancora in onda il nastro notturno.

Quando ebbe terminato di fumare, lavò quattro tazze, sei bicchieri e tutti i cucchiaini di cui disponeva.

Mentre era intento a riempire il filtro della moka grande, fu raggiunto dalle note di “Soul love”.

New love - a boy and girl are talking
New words - that only they can share in
New words - a love so strong it tears their hearts
To sleep - through the fleeting hours of morning

Dopo tanti scialbi brani musicali buoni come sottofondo alle attività domestiche imposte dai doveri di ospitalità, “Soul Love” richiedeva una pausa…

Si sedette di nuovo e accese un’altra sigaretta. Il fumo lo fece tossire. Fece un rapido conto di quelle fumate nelle ultime ventiquattro ore. Trenta? Quaranta? Di più. Ma non era preoccupato per la sua salute. Era colpito dalla constatazione che, quando aveva acceso la prima di quella serie ininterrotta, Daniela era ancora una conoscenza occasionale: un paio di pause caffè al bar della biblioteca. Adesso, dopo la notte trascorsa insieme, tutto era cambiato. E non per quello che si erano detti o per quello che avevano fatto, ma per la sequenza di coincidenze che l’avevano accompagnata fin dentro alle lenzuola del suo letto.

L’ultima era stata la più bizzarra: nel corso del pomeriggio, il suo capriccioso apparecchio telefonico – un antiquato ‘bigrigio’ della SIP – aveva funzionato una sola volta, quando lei aveva chiamato per chiedergli che programmi avesse per la serata. Viceversa era rimasto muto ai ripetuti tentativi di Diego di contattarlo per sapere delle birre.

Carlo assegnava una straordinaria importanza al caso e si era chiesto come interpretare l’accaduto. Così, dopo l’amore, non aveva smesso di spiare il sonno di Daniela. Senza riuscire a chiudere occhio.

Tuttavia, osservarla era stato bellissimo. Per quel suo incantevole modo di riposare. Sul fianco, con il corpo raccolto, le mani congiunte sul ventre, i tratti del volto rilassati, la bocca socchiusa…

Fu preso dal desiderio preciso di percorrere subito con le labbra il sottile solco che segnava la schiena di Daniela.

Mollò tutto e si recò in camera.

Ma lei si era girata: ora si distingueva una parte del volto e il bel seno avorio dai piccoli capezzoli scuri.

Casualmente alzò lo sguardo e, dalla finestra oltre il letto, scorse, nella luce livida del mattino, rade falde bianche precipitare dal cielo avvitandosi su sé stesse.

La nevicata diventava di minuto in minuto più fitta e si cominciava a percepire sui vetri il discreto picchiettio dei microscopici cristalli.

Scavalcò il corpo di Daniela - attento a non destarla - e si sedette nella parte di letto libero con la schiena contro un doppio strato di cuscini. Le mani intrecciate a reggere la nuca.

Restò immobile in quella posizione quel tanto che gli occorse per stupirsi della velocità con cui i fiocchi, stratificandosi impercettibilmente, ricoprivano il davanzale.

Fu colpito, come sempre, dalla solennità senza tempo del fenomeno; una finta pausa, pensò, un effetto speciale ad uso e consumo dei mortali…

Il corso di queste riflessioni gli accese nel cervello la memoria di una sequenza cinematografica in cui Jean Pierre Leaud esce da una stazione della metropolitana sbucando in una piazza artificialmente innevata, mentre una voce fuori campo annuncia “via, azione”.

Nelle inquadrature che seguono esplode conturbante la musica di Vivaldi che scandisce il ripetersi ossessivo dei gesti dell’attore. Sempre gli stessi: un breve percorso a piedi, un assassinio, la fuga.

Senza interrogarsi troppo sul senso delle proprie azioni, Carlo si alzò. Si fece strada tra i corpi dei dormienti. Finì di preparare il caffè. Imbandì la tavola della sala con il vassoio dei cornetti. Infine, mise sul piatto dello stereo un disco di Vivaldi.

Accese a volume sostenuto e osservò i suoi ospiti mentre riaffioravano dal sonno con il caratteristico sguardo astioso, incarognito dall’abuso di alcool e pakistano nero. Questione di attimi. Poi la loro espressione torva si mutò in riconoscenza per il cibo e in festosa sorpresa per la neve.

Le note barocche cadenzarono il trionfale moto di nove bocche impegnate a ridurre in bolo alimentare la colazione.

La decima bocca apparteneva a Daniela; ancora sotto le coperte, non riusciva a staccare lo sguardo dalla finestra e, intanto, lanciava richiami di protesta nel timore di trovare vuoti il vassoio e la caffettiera.

Carlo aveva appena terminato di rifinire un voluminoso cono di carta colmo di una miscela profumata di tabacco e di hashish. Lo accese e un aroma intenso si sovrappose a quello del caffè.

Quando il disco finì, finì anche di nevicare.

UN GARAGE A BOLOGNA O UNA VILLA A CAPE TOWN ?

di Annamaria Cesari

Città del Capo è certamente uno di quei luoghi in cui non è permesso sedersi e sboffonchiare “oggi mi annoio e non so che fare”.

Dalle visite ai numerosissimi parchi naturali, ai paesini ancora allo stato naturale, dalle distese di sabbia bianca, ai “percorsi del vino” nelle rossicce campagne, Città del Capo spazia tra le più disparate attività per il tempo libero. C’è chi però a quai punti di vista), qualcosa urali preferisce altro, qualcosa di più proficuo (dipende un pò nca, agli immensi spazi verdi immeesti “svaghi naturali” preferisce altro, qualcosa di più concreto, magari proficuo (beh  dipende un po’ dai punti di vista).

Ebbene, il sabato e la domenica, è di moda l’ “on show”. Precisamente il “in mostra” consiste nella possibilità di potere visionare tutti gli immobili che, appunto durante il week end, espongono al loro esterno (terrazzo, finestra o giardino che sia) un cartello riportante il nome dell’agenzia ed il “faccione” dell’agente incaricato. Si tratta cioè di appartamenti/ville che, occupati o meno, vengono messi a disposizione per chiunque voglia entrare, tra le 14 e le 17 del sabato e della domenica.

Insomma uno dei passatempi del week end, per investitori e non, è quello di passeggiare per i vari quartieri, perlustrando le varie case, che ovviamente in tale fascia oraria hanno al loro interno il responsabile di turno pronto ad accogliere i visitatori, senza alcun previo appuntamento.

A parer mio questo sistema di offerta sul mercato è decisamente meno formale e più semplice della nostra, rendendo l’incontro tra l’agente e l’interessato meno impegnativo rispetto a ciò che avviene nel nostro paese.

Beh a questo punto verrebbe da chiedersi “ ma come si fa a fare rientrare l’acquisto di una casa tra i “passatempi” ? ”.. si in effetti, se teniamo conto dei prezzi europei per l’acquisto di un appartamento, la mia affermazione parrebbe blasfema. Ma in realtà, in Cape Town i prezzi per l’acquisto di un immobile sono decisamente bassi (per un europeo), ovvia conseguenza degli scarsi salari (200,00 € mensili per un sudafricano medio) e il basso costo della vita (abbondante cena di sushi €9,00). E poiché  la maggior parte degli acquirenti appartiene alla categoria dei turisti europei (che ovviamente hanno un potere d’acquisto decisamente maggiore rispetto a quello di un sudafricano medio) o ad investitori del settore, posso serenamente confermare che in Sud Africa l’acquisto di un immobile è equiparabile, quanto ad impegno morale ed economico, all’acquisto di un auto per un italiano.

Per rendere meglio l’idea, farò qualche esempio: un appartamento con vista oceano e Table mountain, di 2 camere, 2 bagni, salone, cucina e garage ha un costo medio sui 120.000,00 euro in zona turistica; una villa sulla spiaggia, in uno dei quartieri più sicuri, di 5 camere, 4 bagni, 3 saloni 2 garage e ampio giardino costa più o meno sui 450.000,00; una villetta

delle medesime proporzioni, ma distante 2 chilometri dal mare, in quartieri di minore affidabilità, è capace di costare solo 90.000,00; un bilocale vicino al mare, con garage, 50.000,00.

La domanda mi sorge spontanea…ma con 50.000,00 euro ci compro ancora un garage in centro a Bologna ?


LE SUORE DI CLAUSURA

di Massimo Palazzo

Abitavo da poco  a Treviso  e sulla strada che percorrevo giornalmente vidi  un cartello che attirò la mia attenzione: “Monastero di clausura di visitazione”.  Andai a visitarlo e incontrai Suor Maria-Odilla e Suor Maria Innocenza che  mi accolsero e lo fanno tuttora con grande disponibilità spiegandomi le caratteristiche del monastero, la vita loro e delle sorelle di clausura.

Poco tempo dopo fui invitato all’evento rarissimo di una sorella che con una scelta motivata da intendimenti  profondi e nobili che nel grigiore della mediocrità di questo mondo rappresentano un qualcosa di cosi raro, aveva deciso di prendere i voti e passare il resto della vita a contatto con Dio. Una cerimonia molto bella e alla fine il rinfresco preparato interamente dalle sorelle con tisane,biscotti,torte e l’incontro con la sposa Suor Maria-Josè e i suoi familiari, commossi e contenti della scelta della figlia .

Durante le feste più importanti ricevo a casa gli auguri e il programma delle funzioni religiose . Sono cerimonie  molto ben organizzate, accompagnate da un coro esterno e da quello di tutte le sorelle,c’è un’aggregazione con il prossimo e un’atmosfera particolare creata  dall’incontro con le stesse  che donano a chi ne viene  a contatto una serenità e una loro gioia di vivere contagiosa.

Ritengo importante  sapere  che all’interno di questa oasi felice esistono delle persone pure, esenti da pensieri cattivi, pronte in un mondo dove oramai nessuno muove un dito se non per interesse personale alla disponibilità verso chiunque ne faccia richiesta. All’ingresso c’è una targa “benvenuti in questa casa”. Qui vengono tutti, le porte vengono aperte con un sorriso, il luogo offre l’opportunità di entrare in contatto con valori  che al giorno d’oggi consideriamo in via d’estinzione e nel pomeriggio 

verso le sedici nel tempietto si possono udire le sorelle che recitano le

preghiere e cantano. Oltre a questo c’è un silenzio tanto vasto che si riesce a sentir parlare il proprio vero sé e da li si ritorna nel mondo rinfrancati.

Monastero della Visitazione

Via Mandruzzato 22

31100 Treviso

INTO THE WILD

di Carla Rinaldi

Era tra i film più attesi della stagione, “Into the wild”, letteralmente tra le terre selvagge, il nuovo lavoro come regista del controverso Sean Penn, racconta una storia straordinaria, quella di un ragazzo che decide di lasciare un futuro già scritto per avventurarsi tra le aride terre dell’Alaska. Basato su una vicenda vera, il regista esplora attraverso la cinepresa, cosa successe al giovane Alexander Supertramp prima di morire a soli ventitre anni.

Alexander non è il suo vero nome, è quello che decide di adottare quando, stanco di una famiglia della middle class americana, imbrigliata tra bugie e parvenu, senza neanche una lettera d’addio, o di arrivederci, la liquida arrabbiato e deluso. Così inizia a vagabondare tra l’enorme Paese d’origine, incontra fricchettoni benevoli, un agricoltore che illegalmente vende carte per satellitari e per questa ragione finirà in prigione, non prima però di avergli insegnato a coltivare e lavorare il grano, un vecchietto ex marine vedovo e desideroso di accudirlo, una ragazzina innamorata di lui dal primo istante che lo vede. Supera le sue paure scivolando con la canoa per ripide maestose di un fiume, trascorre il tempo con chiunque gli capiti davanti, una coppia olandese bramosa e adrenalinica, ristoratori, autisti, e una mela con la quale si troverà a fare una conversazione per trascorrere il tempo.

La vicenda è narrata a ritroso, il college, lo studio, la passione per la letteratura, la brillantezza scolastica che gli aprirebbe senza problemi le porte all’università di Harvard, il fondo accumulato negli anni che dà in beneficenza prima di strappare anche la carta d’identità e adottare, una notte a Los Angeles, il nome fittizio di Supertramp. Homeless, vagoni merci, piazzole, rive di laghi, questi saranno il giaciglio per alcuni mesi e poi un bus, il magico bus come lo battezza, appena arriva in Alaska e dove dormirà, scriverà, pregherà e penserà per più di cento giorni. All’inizio Alex sfrutta tutte le sue conoscenze e le sue capacità per pescare, dormire, accendere il fuoco. Però quando ormai ha superato i cento giorni, decide che è arrivato il momento di tornare nella civiltà che lo ha partorito, decide che forse è arrivata l’ora di avvisare i genitori, ormai distrutti, senza sue notizie dall’inizio del viaggio, che esiste ancora, che tornerà a casa, forse.

Purtroppo le terre selvagge che lo avevano accolto si tramutano in terre ostili, la carenza di cibo, l’incapacità di poter sopravvivere ancora per poco così, l’immutabilità delle acque che lo avvolgono e riempio i fiumi fino a straripare, lo costringono là, nel magico bus dove ormai privo di lucidità, si ciberà di alcune piante selvatiche che gli procureranno una morte lenta e sofferta. Ed è allora che sul diario scriverà la frase per la quale vale la

pena di vedere il film, “la felicità esiste se è condivisa”, e mentre gli occhi si stanno per chiudere per sempre, si ricorderà che in un romanzo di Jack London, l’autore insisteva con il bisogno di dare un nome alle cose, i suoi occhi allora scorreranno il suo di nome, quello vero, inciso sul legno nel bus, e Alex Supertramp scomparirà e con lui anche il desiderio di ingannarsi per fuggire a quello che, soprattutto quando si è molto giovani, si cerca di abbattere non di analizzarlo, a volte compatirlo. L’ultimo sogno ad occhi aperto che fa è infatti una proiezione, lui, i suoi genitori, sua sorella, abbracciati, sorridenti, davanti casa, con un raggio si sole caldo che li avvolge.

La felicità va condivisa, è troppo tardi per correre a perdonare gli altri ed è troppo presto per morire.

LOURDES

IL RICHIAMO ALLA SANTITA’ CHE CONTINUA!

di Margherita Vassileva

Il tempo - il concetto più implacabile della nostra vita, passa e porta via con se stesso tutto, proprio tutto… e sembra come se questo tempo  si soffermasse per inginocchiarsi davanti alla magnificenza ed eternità di certi eventi …

E proprio un tale evento avvenne 150 anni fa in Francia, a Lourdes, quando a partire dall’11 febbraio 1858 si succedettero ben 18 comparizioni della Nostra Signora, davanti agli occhi di una povera fanciulla del posto, che non si rendeva nemmeno conto che quel freddo 11 febbraio del 1858 da una giornata normale si sarebbe trasformata nella giornata più importante della sua vita, e dove niente sarebbe stato come prima! Si può dire con certezza che questo non era valido solo per la povera ragazza francese, ma per tutto il mondo!

E così, quel giorno lei si recò a raccogliere legna, insieme alla sorella ed un’altra amichetta, verso una grotta fuori della cittadina, che serviva per il rifugio dei maiali. Bisogna sottolineare il fatto che il posto dove avvennero queste straordinarie apparizioni era estremamente sporco, pieno di fango… infatti quanto è simbolico tutto ciò, proprio come la nera sporcizia dei nostri peccati!

Indubbiamente è stato scritto molto a proposito delle 18 “venute” della Nostra Signora in mezzo a noi, sono state descritte dettagliatamente, ma ciò che è essenziale, e che spicca fortemente, è che Lei scende come una Madre preoccupata per i propri figli, che vuole riportare sulla strada giusta della conversione e riconciliazione con il Padre. Desidera anche che questi figli approfondiscano il loro cammino verso  Dio e che si rivolgano alla preghiera, il che vuol dire un cambiamento radicale di tutta la vita, che spesso passa dietro la conchiglia dell’egoismo umano, priva dell’amore di Dio. Questo è l’appello fondamentale che Lei rivolge a noi: penitenza e preghiera!

Durante i loro incontri la Vergine farà degli annunci e richieste, ma la promessa principale durante la 3° apparizione il 18 febbraio 1858 è: “non Le prometto felicità in questo mondo, ma nell’altro!” E proprio qui spiccano di nuovo le radici della nostra fede cristiana, per che cosa siamo chiamati qui, sulla terra! Questa promessa invita a riflettere su quanto la vita terrena è breve e transitoria e quanto eterna è l’anima! L’appello è rivolto non solo a Bernadette, ma a tutti noi, presi dalla quotidianità della nostra esistenza materiale, piena di fama, di potere e di tanti oggetti belli e seducenti che ci accompagnano nel nostro quotidiano e che ci “invitano” ad averli, ma ad un prezzo che è sempre molto salato rispetto all’obiettivo finale perché porta alla perdita dell’anima per l’eternità! Come se noi dimenticassimo il nostro obiettivo principale: conservarci per l’eternità e corriamo dietro le ambizioni illusorie e ingannanti di grandi poteri, fama, case, macchina sempre più bella, gioielli, numerosi conti correnti…., che una volta poste come obiettivo della nostra esigenza, non portano ad altro che alla distruzione completa dell’essere umano! Tutto ciò può essere comparato con una bolla di sapone con tutte le sue belle

sfumature… ma una volta scoppiata, lascia nell’anima del suo proprietario un terribile senso di un devastante vuoto assoluto!

Ricordiamo che nell’apparizione avvenuta il 25 febbraio 1858, la Nostra Signora chiese a Bernadette di bere dell’acqua dalla fonte e mangiare dell’erba che cresceva sul quel posto sporco e fangoso… inizialmente la fanciulla non capì, pensò che si trattasse dell’acqua del fiume corrente dirimpetto alla grotta, ma la Misteriosa Sconosciuta indica molto chiaramente con la mano il posto nella grotta. E’ proprio lì che la ragazza, scavando nella terra con la mano, solo al quarto tentativo riuscì a superare il proprio disgusto ed a bere l’acqua fangosa… che simbolismo forte e limpido! E quanto sono inequivocabili le parole della piccola fanciulla francese, considerata matta dalla folla: “…faccio questo per i peccatori!” A partire da questo momento a tutt’oggi, in quel posto esiste una delle fonti d’acqua più frequentate al mondo, affollata da migliaia di persone nella ricerca di guarigione e purificazione!

Nella 13° apparizione, avvenuta il 2 marzo 1858, Lei chiede a Bernadette di annunciare ai preti di venire sul posto per fare delle processioni, nonché di costruire una cappella. La ragazza corre subito dal parroco di Lourdes, padre Peyramale, che inizialmente si dimostra molto diffidente e non solo: nasce il seguente problema - la Misteriosa Sconosciuta non rivela la propria personalità, anche se le è stato già chiesto più di una volta dalla ragazza. Invece il prete insiste su questo. E’ solo nella 16° apparizione (26.III.1858) che Lei svelerà questa personalità, facendolo in una maniera straordinaria, utilizzando il dialetto locale, Lei finalmente risponde alla Bernadette il seguente: “Que soy era Immaculada Counceptiou”… e la povera ragazza, che farà la sua prima comunione solo 4 mesi dopo, non ha nemmeno sentito parlare né di Papa Pio IX, né del dogma cattolico dell’Immacolata Concezione da lui proclamato 4 anni prima di questi eventi – l’8.XII.1854, affermando così un concetto nel quale la Chiesa ha sempre creduto e che ha sempre venerato! La ragazza corre dal parroco e gli ripete le parole appena sentite, ed è adesso lui che rimane a bocca asciutta e le chiede: “Ma lo sai cosa vuol dire questo?”…. la risposta è semplice: “No, signore.” E’ da togliere il fiato, tutto lascia spazio allo silenzio… parla solo il Vangelo: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli.”

E oggi, 150 anni dopo, le “visite” della Nostra Signora così profonde e significative per la nostra esistenza continuano ad attirare sempre e sempre di più i flussi di gente verso Lourdes, e chiamarli alla penitenza e preghiera!

In conclusione si può dire che non è mai stata, non c’è e non ci sarà  PIÙ-PURA, PIÙ-BELLA E PIÙ-AMOREVOLE DONNA, che è scesa dai Cieli in mezzo a noi con il fervente desiderio materno di abbracciarci tutti i di portaci al Padre!

I CAPRICCI DEL TUNGURAHUA

di Erika Scotti

Tempi duri per noi eroici abitanti della terra del fuoco....

Da un paio di settimane, ormai, il vulcano Tungurahua ha deciso di riscattarsi dall'etichetta di  vulcanotto di non particolare importanza facendo la voce grossa! Inizialmente erano solo sbuffate di cenere, non troppo frequenti, che a parte disegnare funghi grigi nel cielo non creavano particolari problemi a nessuno. Vista la scarsa attenzione risvegliata dalle sue ''opere d'arte'' ha deciso di intensificare la caduta di ceneri accompagnando ogni emissione con un tetro rombo che sembra arrivare direttamente dal centro della terra....Ma ancora a parte qualche volonteroso che spazza la terrazza riempiendo sacchi di cenere niente di che.

Solo dopo una ulteriore intensificazione della pioggia delle ceneri accompagnata con sporadiche eruzioni laviche , allora il signore dell'omonima provincia e' stato preso in seria considerazione.

Al momento tutto il territorio del Tungurahua e' in allerta gialla, quella che precede la rossa, ossia la completa evacuazione di tutte le città e paesi della zona.

Ad ogni modo, nel timore di una nuova eruzione molti tra gli abitanti di Banos (nota zona termale) Guadalupe Pelileo e Cevallos, hanno deciso di sfollare.

Per il momento le scuole sono chiuse e gli abitanti passano la giornata nel tentativo di arginare nel limite del possibile i problemi piu' immediati. Tutte le finestre sono tappezzate di nastro adesivo in modo che le vibrazioni causate dalle esplosioni o eventuali rocce non mandino in mille pezzi i vetri rischiando di ferire qualcuno.

La popolazione invade le strade munita di scope e scopettoni nel tentativo di assottigliare il più possibile lo strato di cenere che ricopre tutto il paesaggio rendendo la circolazione e la normale vita di tutti i giorni estremamente difficile.

Il problema più grande , però, sono le coltivazioni. Generalmente queste sono raramente colpite dagli sbuffi del capriccioso vulcano perchè  posti nella direzione contraria al normale soffiare del vento, purtroppo però questa volta anche gli elementi atmosferici ci hanno messo del loro, l'improvviso cambio della direzione del vento ha mandato le ceneri miste a materiale incandescente dritte dritte sulle coltivazioni. Il risultato e' che 40 ettari di campi coltivati a fagioli, patate e cipolle sono andati distrutti per la seconda volta in sei mesi (anche durante la eruzione del luglio 2006 l'agricoltura della regione fu messa in ginocchio).

Per una provincia che vive specialmente di agricoltura e allevamento questo e' un colpo durissimo considerando anche che il materiale vulcanico ha distrutto anche la maggior parte dei campi seminati a erba destinata alle vacche,  anche la produzione di latte e' stata notevolmente compromessa.

La opinione degli esperti non e' certo volta a tranquillizzare gli animi...pare che ,secondo gli specialisti dell'Istituto Geofisico, l'attivita' vulcanica si mantenga con tendenza ad aumentare, intanto ieri si sono potute

osservare colonne di fumo e cenere alte più di 7 Km. Nel tentativo di monitorare il più possibile il '' Gigante Nero '', un elicottero sorvola costantemente il cratere riportando tutti i dati all'Istituto Geofisico Ecuatoriano.

Speriamo che il colosso, contento di tenta attenzione si tranquillizzi.

GLI OCCHI DELLA LUCE

di Marilena Rodica Chiretu

Scivola il tempo sul ghiaccio
del gelo, la primavera
vive nella casa
dell’ amore,
scioglie
i fiocchi sulle nere ciglia,
rotolando sul viso
le gocce calde
dei desideri.
Due laghi profondi
sulla riva delle stagioni
fremono nei nuovi barlumi
accendono il silenzio delle parole
nella voce lontana dei pensieri.
Strisce di luci, ombre di dolori,
distendono ricordi sui capelli,
colori sconvolti dai suoni
ti regalo nel gioco allegro
degli occhi che non
hanno  perso
la luce...

OCCHII LUMINII

Aluneca timpul pe gheata
gerului, primavara
traieste in casa
iubirii,
topeste fulgii
pe genele negre
rostogoloind pe fata
picaturile calde ale dorintelor.
Doua lacuri adanci
pe tarmul anotimpurilor
freamata in noile licariri, aprind
tacerea cuvintelor in glasul gandurilor.
Urme de lumina, umbre de dureri,

intind amintiri pe par,

culori ravasite de sunete,
iti daruiesc in jocul vesel
al ochilor care nu
au perdut

lumina


EMOZIONI

di Paola Guasco

Durante le feste natalizie in un giorno di dolce far niente vagando nella soffitta della casa dove sono nata e cresciuta stavo cercando dei libri di latino conservati in scatoloni, libri della mia adolescenza, libri scolastici, quei libri che non ti senti di portare nella casa in cui abiti, rappresentano pezzi della tua storia ed è giusto che rimangano lì, magari in una vecchia soffitta piena di cianfrusaglie.

Ebbene sfogliandone uno è venuta fuori una busta, celeste, il mio battito cardiaco ha accelerato … che emozione!!!

Era una lettera, una lettera che ha suscitato in me oltre a tanti piacevoli ricordi (anche spiacevoli, ma il tempo rimedia a tutto e alla fine si sorride anche di questo) tanta nostalgia.

Da quel tempo non ho più ricevuto una lettera così, scritta con il cuore,   una lettera, la cara vecchia intrigante lettera!... ed ho rivissuto quei momenti: quando l’ho ricevuta, il momento in cui l’ho letta, di nascosto, e mi sono tornati alla mente persino gli odori di quel momento… la risposta data scritta su un foglio bianco con il disegno di una rosa a lato …. e anche se ormai quarantenne, la quindicenne di allora si è commossa di nuovo.

Tutto questo non tanto, o meglio, non solo per il contenuto della missiva quanto piuttosto per il fatto di aver ritrovato un pezzetto della mia vita scritto in un foglio celeste … 

Messaggi, mail  -  modalità  indiscutibilmente importanti per comunicare con semplicità ed immediatezza  nella vita di ognuno di noi ( e come se ne potrebbe fare a meno?) -  con il loro “click” spengono a mio avviso ogni emozione, anzi, non la accendono proprio; per non parlare poi del linguaggio che viene usato (soprattutto dai giovani) e dell’uso delle orrende emoticon per esprimere lo stato d’animo del momento!!!!

E allora ritroviamo queste emozioni!

Il gusto di toccare una lettera, di sentire il fruscio della carta mentre si cerca di aprirla (con frenesia riducendola quasi a brandelli per leggere con avidità o con calma assaporando ogni secondo di attesa prima di immergersi nella lettura ), il profumo della carta stessa, la curiosità  di capire lo stato d’animo del mittente dalla scrittura, e, da parte dello scrivente, l’emozione di immaginare il momento in cui verranno lette le frasi e analizzate le parole, lo stato d’animo che produrranno sul lettore….

Quante cose può racchiudere una lettera pur nella sua semplicità!!!!

Che poi a chi sia  indirizzata (quindi con contenuti assai diversi):  alla persona amata, ad un amico, ad un parente, a qualcuno cui comunque si vuole bene non ha importanza, è sempre portatrice di grosse emozioni.

Mi verrebbe da dire che anche una lettera commerciale porta con sé qualcosa del genere nel momento in cui la si riceve, ma non vorrei esagerare ….

Tutto ciò per dire che, sì, va bene la tecnologia, va bene tutto, ma riprendiamoci un po’ di “sentimento”, un messaggio, una mail, per quanto piene di “amore” non regalano le stesse sensazioni di un foglio scritto a mano.

Ritorniamo a scrivere, ritorniamo a trasportare il nostro stato d’animo con la penna su un foglio … qualche volta lasciamo il ticchettio dei tasti e ascoltiamo il rumore dello scorrere della penna sul foglio!!!

Credo che, anche se piccola, questa emozione debba essere vissuta da tutti, sono convinta che sia una piccolissima tessera del puzzle della vita che non deve essere persa ma cercata,  fatta propria o ritrovata.


POLIPI DI LUCE

di Raffaella Santulli

Una illuminazione dal fascino ancestrale e primitivo quella dei polipi di  luce, come li chiamò un poeta arabo, candelieri quando portano una sola candela, candelabri quando hanno più fiamme.

La loro origine è biblica.

Il libro dell’Esodo, racconta che fu proprio il Dio di Israele a dettare a Mosé il modello della menorah, il candelabro ebraico a sette bracci che simboleggia il cosmo e la terra, poiché sette sono i pianeti, sette i cieli, sette gli occhi di Dio: “l’albero del mondo”.

Nei secoli, questo modello ha subito infinite variazioni, ma la storia e la tradizione lo legge sempre come simbolo della luce spirituale, della vita e della salvezza.

Dante Alighieri parla della candela come la raffigurazione dell’anima, mentre considera la fiamma la grazia divina: la cera, lo stoppino, il fuoco, l’aria, componenti di questa semplice fonte di illuminazione, rappresentano una sintesi di tutti gli elementi fondamentali della natura.

Oltre all’aspetto dell’antico simbolismo filosofico, religioso o allegorico, i candelabri sono stati i preziosi strumenti che  hanno fatto risplendere tavole, pranzi e balli, che hanno abbagliato i sensi, acceso amori, chiarito sentimenti.

Hanno rischiarato i secolo bui e fatto luce su intrighi politici e imbrogli finanziari ed ora, attraverso i grandi film in costume di registi amanti del bello, illuminano i romanzi storici dell’Ottocento con la loro luccicante aristocrazia.  


CAPODANNO A QUITO

di Erika Scotti

Le feste natalizie ecuadoriane sono state una vera delusione!!!!

Niente alberi di Natale  a parte rare eccezioni, niente piazze addobbate o almeno illuminate, niente canti tradizionali e niente stelle di Natale!!!!

L'immagine più triste e' stato vedere una nota farmacia del centro che ha azzardato una decorazione fin troppo ricca: numero 3 palle di Natale dal colore incerto appese con un filo sopra il bancone....a costo di sembrare ingrata...POTEVATE RISPARMIARVELO!!

Cercate di capire, l'anno scorso ho passato il Natale a Maracaibo e già a metà ottobre l'intera città era addobbata e illuminata a giorno, il municipio irriconoscibile con la sua austerità derisa da gnomi e renne che parevano scalare pareti e terrazze, le palme completamente scomparse sotto metri e metri di lucette colorate, venditori di cappellini  rossi e bianchi in miniatura per  adornare le antenne delle auto....insomma di tutto di più.

Si si pensate pure che sia una esagerazione, uno spreco di elettricità in un mondo che già sta collassando, che il Natale e' diventata la festa del consumismo, che non servono tanti frizzi ma che la festa devi sentirla dentro in tutta la sua spiritualità ecc ecc ecc..

Ma a me piace! Mi piacciono le lucette, gli alberelli (finti va benissimo) i cappelli colorati, l'aria di festa e il pandoro! E che cavolo! Soprattutto per quelli come me che sono lontani da casa e che passano le vacanze immaginando amici e parenti che si riuniscono e cenano assieme per poi scambiarsi i regali... beh luci musica e colori aiutano molto nel tener lontana la nostalgia! Lasciatemelo dire.

E poi ci sono già tante brutte cose al mondo che anche se una volta l'anno ci lasciamo andare a frivolezze o al consumismo o come vogliate chiamarlo...capirai!!!!

Vorrei vedere voi qua, senza neanche riuscire a trovare un pandoro che non sia al limite della scadenza!!!!!!

Comunque...poco male....io e famiglia ce ne siamo allegramente scappati a Los Roques!

Per capodanno eravamo di nuovo in Ecuador. Non che per l'ultimo dell'anno le cose qua siano molto diverse, infatti siamo stati avvisati di uscire per le strade gia da  metà pomeriggio perchè prima di mezzanotte  sarebbe stato tutto finito e via tutti a nanna.

Non che la questione della mezzanotte fosse un gran problema, dove volete andare con un bambino di due anni.

Però, per lo meno una delle vie principali della capitale e' stata chiusa al traffico e adibita a mostra di carri allegorici...si avete capito bene, carri allegorici come a carnevale da noi.

Pare , infatti, che con l'arrivo del nuovo anno tutti i fatti salienti del 2007, soprattutto politici siano rivisti in chiave ironica e rappresentati come potete vedere qui di seguito.

Forse e' un modo per esorcizzare un anno non proprio facile da tutti i punti di vista. I più presi di mira sono stati i presidenti latino americani con in primis Chavez assieme al suo compagno di merende Castro, Correas e Morales...completamente escluso Lula, il leader brasiliano, forse considerato troppo filoamericano.

Non sono mancati teatrini all'aperto dove tre comici, i paralleli dei nostri Aldo Giovanni e Giacomo si sono esibiti in un'esilarante satira su tutto quello che e' il sistema governativo del Paese.

La notte del 31 culmina in piazza bruciando fantocci rappresentanti le figure salienti del 2007, che siano politici, attori, cantanti o personaggi dei cartoni animati più amati dai piccoli.

E con questo gesto si cancella in qualche modo il passato nella speranza per il nuovo anno.

Subito dopo i tradizionali fuochi artificiali, bellissimi visti dal tetto terrazzato di un palazzo in pieno centro a Quito.

E poi, con lo scoccare della mezzanotte, tutti a casa come Cenerentola.


“…BELLISSIME DONNE, VITE MERAVIGLIOSE…”

di Francesco Rinaldi

… bellissime donne, vite meravigliose …”, penso, stando qui seduto a tarda sera, in attesa di un improbabile pullman che mi riporti a casa.

Più il Paese scende verso un tragico declino e, con esso, la sua Popolazione tende verso la miseria – rifletto – più ci bombardano con messaggi pubblicitari di vite inaccessibili, almeno ai più !

Diamanti, champagne, donne meravigliose, raffinati vestiti sartoriali dei più noti stilisti, vacanze milionarie in mete tanto esclusive quanto sconosciute, lussuose dimore ed irraggiungibili fuoriserie, professioni irraggiungibili ed ineguagliabili. Questi, i messaggi che quotidianamente affannano le nostre stanche menti.

Di qui, i disagi sociali, per dirla con gli anglosassoni, i manager’s diesises !

E, se “un diamante è per sempre”, spesso lo è anche la miseria.

E così, ci ritroviamo tutti a fantasticare, chiedendoci quanti soldi ci vorranno effettivamente per soddisfare, almeno uno – non dico tutti!– di quei messaggi consumieristici: ad esempio, per acquistare un bel diamante da una quarantina di carati, senza esagerare, altrimenti si potrebbe rischiare di esser volgari; oppure, un paio di milioncini di euro per acquistare una bella villetta unifamiliare in centro; e, perché, no ! un paio di centinaia di migliaia di euro per acquistare una utilitaria !

L’amico immaginario con cui, nella mia mente, dialogo nell’attesa, mi risponde che, noi, al massimo, possiamo comprarci due paia – dico due ! – di calzini: un paio per l’estate, e l’altro, più pesante, per l’inverno.

E, probabilmente, non ha torto !

Di per sé la miseria non fa paura, nel senso, cioè, che, in molti noti casi, accentua le virtù di ognuno di noi, sino all’eccellenza. Ciò che preoccupa maggiormente quando un Paese declina verso la miseria è il pericolo di sciacallaggi … mors tua vita mea !

Così, aumentano i furti, anche di bassissimo livello e, con essi, gli omicidi, anche quelli “bianchi”, riducendosi clamorosamente le aspettative ed il valore della vita.

Certo, ciò, almeno per il momento da noi non accade, o, accade solo limitatamente; ma in posti non troppo lontano, si tratta di fenomeni all’ordine dell’ ora.

Ci sarà una soluzione ?

Un globale ridimensionamento dei nostri desideri potrebbe essere sicuramente utile nella direzione della riconquista di una dimensione umana; così come pure utile risulterebbe l’abbandono, almeno ogni tanto, di pensieri esclusivamente egoistici, irrevocabilmente destinati all’affermazione del singolo sulla massa informe.

Certo, la questione non è di poco conto ! Ma, già restare, di tanto in tanto, in attesa alla fermata di un pullman, a stretto contatto con tanti volti diversi l’uno dall’altro, immagini di esperienze di vita, può, a volte, esser di aiuto, quanto meno, alla riflessione: che, poi, … non è poco !


RICETTA: FARFALLE AL SALMONE E VODKA

di Elisabetta Coniglio

Burro

Cipolla

Salmone affumicato

Vodka (non armatizzata)

Pomodorini

Prezzemolo fresco

Salsa di pomodoro

Panna da cucina preferibilmente fresca

Sale, pepe

Tagliare a piccoli cubetti la cipolla e lasciarla soffriggere dolcemente col burro, aggiungere i pomodorini anch’essi tagliati a piccoli pezzi e lasciare insaporire il tutto con l’aggiunta di un pizzico di sale e pepe, quando il tutto ci sembra sufficientemente dorato, sfumiamo con mezzo bicchiere di vodka che tenderà ad evaporare velocemente; infine aggiungere il salmone tagliato in precedenza a pezzettini la panna da cucina e un paio di cucchiaini di salsa di pomodoro, giusto per rendere il tutto leggermente rosato.

Le nostre farfalle al dente faranno un tuffo in questa salsa e solo quando saranno adagiate nel piatto da portata riceveranno una pioggerella di prezzemolo fresco, tritato finemente.

Questo è un primo piatto che non deve assolutamente riposarsi quindi va servito molto caldo.

Se le farfalle risulteranno non abbastanza untuose aggiungere, finché la nostra pasta è ancora calda, una abbondante noce di burro.

PRONTO IN TAVOLA

di Ileana M. Pop

La cucina è parte integrante della cultura di un paese e qui in Spagna il peso della tradizione si sente anche a tavola. La protagonista dei pasti iberici è la cucina mediterranea: verdura, frutta, pesce e carni formano la grande corte del re Olio d’oliva, l’oro liquido proveniente dagli oliveti dell’Andalusia e, insieme al vino, uno dei vanti della corona spagnola.

Quali sono le abitudini alimentari a Madrid?

La giornata inizia presto, molto presto, per molti madrileni. Dopo un’oretta di (stressantissimo) viaggio in macchina, in autobus o in metropolitana per arrivare al lavoro, il madrileno DOC arriva in ufficio, vi si trattiene un’oretta o due per poi scendere a fare colazione al bar. Ordina una spremuta d’arancia con un croissant o caffellatte e  tostadas (con o senza tomate): due fette di pane abbrustolito che condirà con olio d’oliva oppure con polpa di pomodoro e olio d’oliva.

Come spuntino a metà mattina, la versione con pomodoro è un attentato per lo stomaco, ma è davvero buonissima. Provare per credere, in fondo è una bruschetta:

1 caffellatte

2 fette di pane

1 dente d’aglio

la polpa di un pomodoro fresco

olio extravergine d’oliva

Abbrustolire il pane in una padella o sulla griglia.

Sfregare l’aglio sulle fette di pane ancora calde.

Spalmare la polpa del pomodoro.

Condire con un cucchiaino d’olio extravergine d’oliva.

A pranzo è raro che ci si sieda a tavola prima delle 14:30. L’ora di punta dei ristoranti è subito dopo le 14:00, proprio mentre mezza Italia sta iniziando la digestione e l’altra metà sorseggia già il caffè.

La scelta è davvero amplia: crema di zucchine, paella e pasta vanno a ruba, ma ancora più apprezzato è il cocido madrileño, un piatto tipico della capitale che si presenta come un bollito di ceci, pastina, patate e carni miste.

Ecco un abbozzo di ricetta per chi fosse curioso (e coraggioso) e avesse 3 orette da dedicare alla preparazione di questo piatto tipicamente madrileno:

Preparare un brodo con carne di pollo, gallina, un osso di prosciutto e lardo

Dopo circa mezz’ora, aggiungere i ceci.

Far bollire il tutto per quasi un’ora e poi aggiungere 2 patate intere, 2 carote, del chorizo (salsiccia secca dal sapore forte) e morcilla (trattasi di un insaccato fatto con sangue di maiale, riso e spezie).

Quando il tutto sarà pronto, far cuocere gli spaghetti spezzettati in circa 4 o 5 parti nel brodo.

La tradizione dice di mangiare prima il brodo con la pasta, i ceci come secondo e infine la carne con le patate.

Sullo spuntino non mi trattengo: in ogni casa spagnola che si rispetti c’è un prosciutto iberico e la miglior merenda che una madre possa dare al figlio è costituita da un paio di fette di jamón serrano appena tagliato.

Per la cena ci si prepara dopo le 21:00 solitamente. Tortilla de patatas, crocchette di formaggio, pollo, baccalà o prosciutto, pesce impanato e fritto oppure uova fritte sono piatti molto gettonati. Se si ha ancora sullo stomaco il cocido, però, è meglio evitare il fritto e tenersi sul leggero. Il pulpo a la gallega potrebbe essere un’ottima opzione.

La versione casalinga si questa famosa ricetta galiziana è semplice e ottima:

Cuocere il polpo (gli spagnoli lo comprano quasi sempre già bollito).

Tagliare i tentacoli a rondelle, posizionarli su un piatto e metterli nel microonde per non più di 3 o 4 minuti.

Portare in tavola (possibilmente su un tagliere di legno rotondo) e, prima di servire, condire con sale grosso, paprika piccante e abbondante olio d’oliva. Accompagnare con patate bollite.

¡Buen provecho!

IL SOGNO DI UNA VITA

di Miriana Vadalà

Graziella da bambina aveva un sogno: assistere seduta in prima fila ad una sfilata di pret a porter, dentro un lussuoso abito bianco, stretto in vita e con gli strass sui fianchi. Desiderava questa cosa più di ogni altra cosa al mondo e faceva di tutto per avere un’occasione tale e poter prendere parte ad un tale evento. Sperava di incontrare qualcuno legato con il mondo della moda e guardava tutte le locandine affisse nei negozi di sartoria, nella speranza di leggere la data di qualche spettacolo, di un evento del genere di cui lei immaginava già ogni momento.

A scuola non era molto brava. Arrivava al sei stentato e quando c’era compito di matematica faceva in modo di sedersi accanto a Guglielmo, il più bravo della classe, che oltre a essere bravo era pure ricco e poteva permettersi il doposcuola, le lezioni di pianoforte al sabato mattina e la partita di tennis al club “Le dune”. A Graziella della scuola interessava ben poco. Ogni pomeriggio dopo aver fatto l’essenziale per guadagnarsi il sei nel caso in cui l’avessero interrogata, Graziella andava al negozio di sua zia Rita, che era sarta e assemblava tutti i ritagli delle stoffe che erano avanzati. Triangoli neri su scampoli azzurri, che intersecavano frammenti di stoffa gialla fino a formare graziosissime geometrie, frutto della sua naturale creatività. Nel mese di Novembre lavorava di più la stoffa rossa così per le feste di Natale avrebbe avuto di che vendere tra borsettine, presine da cucina, calendari in pannolenci e calzettoni da befana.

Per tanti inverni trascorse così buona parte dei suoi pomeriggi, dilettandosi al meglio con quei ritagli di stoffa e diventando una brava sarta. Le cose cambiarono decisamente quando a 17 anni rimase incinta di suo figlio Luigino. Anzitutto non era sposata e secondariamente non era neanche ufficialmente fidanzata, cose che la rendevano invisa a buona parte del paese. Aveva avuto una breve relazione con un giovane dottore del Pronto Soccorso, che si era improvvisamente conclusa quando egli era tornato a casa sua a Torino. Come conseguenza naturale di questo episodio, i rapporti in famiglia si erano deteriorati e la domenica a tavola, al ritorno dalla Messa, era un vero e proprio mortorio. Graziella voleva scomparire ogni volta che gli altri la guardavano; avvertiva quel sentimento di rancore misto a colpevolezza che le trasferivano volutamente e dal quale lei rifuggiva solo chiudendosi in un forzato silenzio.

L’uomo di cui si era invaghita e con il quale aveva avuto la breve relazione si trovava in paese di passaggio, per due mesi di praticantato al Pronto Soccorso dell’Ospedale “Regina Margherita”. Quando un giorno Graziella invece di cucire le presine si cucì due dita, con tanto di ricamo sull’indice

sinistro, non ebbe altra soluzione che andare all’Ospedale per riavere mani e dita come le aveva sempre avute. Fu lì che conobbe Rodolfo, giovane medico specializzando, il quale, dopo averle separato le dita, la invitò a tornare per controllo nei giorni seguenti.

Trascorsi i due mesi di praticantato e fatti i dovuti controlli, Rodolfo se ne tornò a Torino, prima ancora che Graziella si accorgesse di Luigino e quando, poco dopo la partenza, lei se ne rese conto e decise di

parlargliene, Rodolfo diventò misteriosamente introvabile. Non rispondeva mai alle telefonate che Graziella con mille difficoltà cercava di fare. E poi … era la fine degli anni ’50, i mezzi di comunicazione non erano certo quelli di oggi e per chiamare la gente fuori città c’era ancora bisogno del collegamento tramite il centralino.

L’unica persona su cui Graziella poteva veramente contare era sua zia Rita, la sarta, che come di sovente accade, non avendo figli, trasferiva sui nipoti l’affetto e le attenzioni di cui avrebbe ricolmato i suoi marmocchi.

Così quando Luigino nacque, Graziella e la zia Rita lo tirarono su con non poche difficoltà. Erano una famiglia modesta, e non potendo contare su nessun altro economico supporto, con i guadagni della sartoria arrivavano diritti alla fine del mese. Finito il periodo dell’allattamento, Graziella decise di andare a lavorare e si propose come cameriera all’Hotel “Miramare”, a due chilometri dalla stazione ferroviaria, a metà strada fra casa sua e il mare.

In quanto ad affari l’Hotel “Miramare” non aveva di che lamentarsi. D’estate e d’inverno sempre pieno così: milanesi, bolognesi, veneziani, tutta gente del Nord che per un motivo o per un altro si fermava lì a godersi un po’ di pace e di salutare aria salmastra. Donne infagottate in costosissimi giacconi di volpe, indossati per il puro gusto di mostrarli alle mogli degli altri colleghi; coppie che festeggiavano l’anniversario di matrimonio; professori di liceo appena arrivati in paese in cerca di una sistemazione; marescialli dei Carabinieri in trasferta; gente qualunque.

Di tutti questi signori Graziella rifaceva i letti, cambiava gli asciugamani, rassettava i pigiami, dava una sbirciatina ai guardaroba, scopriva gli intrighi e desiderava i gioielli. Ogni mattina alle 10.30, dopo il caffé con Filomena, saliva al primo piano e cominciava. Prima le stanze dalla 1 alla 8, poi la 9 e la 10, che stavano di lato all’ascensore, e in ultimo le stanze dalla 11 alla 20. Ogni mattina il solito rito: spazzare i pavimenti, sistemare il bagno, apparecchiare il letto…

Trovava un non so che di interessante in questo metodico, non eccitante lavoro e quando era di buon umore canticchiava allegramente sottovoce per non svegliare i ritardatari che scendevano a fare colazione cinque minuti prima che la sala chiudesse.  Una volta si prese un fortissimo spavento. Entrò a rifare la stanza di un Carabiniere che aveva avuto il turno di notte e lo trovò nel letto con la mascherina sopra gli occhi coperto fin sul naso. Sobbalzò di scatto impaurita, svegliandolo ed egli scusandosi, si giustificò dicendo che non aveva fatto in tempo ad avvertire la reception che avrebbe preferito non essere disturbato.

Un’altra volta venutosi a trovare tra gli ospiti dell’albergo il professor Meroni, cardiologo di fama internazionale, Graziella in mano ancora caffé e cornetto su un vassoio dorato, lo guardò e gli chiese: “Professore, perché al cuor non si comanda?” Il professore le sorrise, aveva intuito che Graziella non aveva fatto quella domanda perché pretendeva da lui una spiegazione scientifica, bensì come mero pretesto per cominciare una conversazione. Chiacchierarono qualche minuto, fino a quando il professore scese giù, rientrò nella Mercedes nera che tre giorni prima lo aveva accompagnato in albergo e sparì con la nebbia tra gli scogli.

Una mattina aveva appena cominciato a pulire la stanza di una ricca signora venuta lì per tre giorni, quando scoprì la vasta collezione di anelli

che la signora aveva portato con sé per la permanenza. Di alcuni aveva addirittura i doppioni. Due smeraldi, due zaffiri, un rubino incastonato tra diamanti, un perla grigia grossa quanto un cecio, un’ambra montata su oro giallo e un anello di lapislazzuli, di sicuro souvenir di un viaggio in qualche paese esotico. Graziella dopo aver lucidato lo specchio, si asciugò le mani, ancora gonfie e rosse e cominciò a provarli uno per uno. La signora era uscita da poco e certamente non l’avrebbe vista. Solo l’ambra le entrò nell’anulare, evidentemente erano anelli per dita lunghe e affusolate, di chi già con le mani attira l’attenzione di chi l’osserva. Subito Graziella rimise a posto gli anelli, ognuno nella sua scatoletta, lucidandoli delicatamente e, incamminandosi verso le altre stanze pensò a quanto lei avesse desiderato poter avere almeno uno di quegli anelli e sfoggiarlo davanti a tutti i suoi conoscenti.

Il tempo intanto era passato, Luigino era adolescente e Graziella ormai più che adulta del “Miramare” sapeva ogni segreto, chi veniva, chi c’era già stato, chi per causa di forza maggiore aveva dovuto disdire. Indovinava il tipo di cliente da uno sguardo, dal libro che lasciava sul comodino, dalla lingerie che indossava, dal necessaire che si portava dietro e non sopportava affatto quelli che per tre giorni si portavano sei cambi, neanche si sporcassero scesi giù a fare colazione. Specialmente quando rifaceva le stanze dei signori che avevano dietro così tanti vestiti e scarpe da abbinare a ogni completo, ripensava al suo sogno da bambina e continuava dentro di sé a sperare in un incontro, in una coincidenza, in qualcuno che per caso le regalasse un’occasione.     (…continua…)

STULTIFERA NAVIS

di Francesco Aronne

Passeggio per le strade di Mormanno e vedo “via delle bacheche oscure” mestamente dimessa senza le policrome, anche se innocentemente oscene, teche. Gli ultimi resti di un pluralismo paleopolitico (e non solo) oramai appassito e sul definitivo viale del tramonto, sono state rimosse per volere dell’amministrazione comunale e sostituite con decorosi ma anonimi e freddi catafalchi di metallo. Personalmente vedo nella diversità il maggiore patrimonio di ogni specie vivente e, di contro, nell’uniformazione l’inibizione di ogni possibilità di evoluzione. Ma, e per fortuna, i tempi cambiano e con i tempi i punti di vista. La modernità impone altre e più efficaci forme di comunicazione. Residui di nostalgia, nonostante la bacheca di personale riferimento è stata da tempo ammainata, mi propongono questo, come un altro momento di tristezza per l’urbe. Un agglomerato di situazioni (e voci) diverse che nel suo complesso poteva essere considerato un inusuale monumento storico al pluralismo. Una tradizione più che trentennale cancellata con superficiale faciloneria. Speriamo che i preziosi cimeli siano stati salvati per un improbabile, futuro, museo indigeno di storia patria. Girovagando per l’Europa può capitare di trovarsi in alcuni locali che mantengono fieramente arredi e suppellettili a volte più che centenari. Orgogliosa difesa di una identità che tutti gli avventori si sforzano di avere, rivendicando un senso di appartenenza… Seduzione dell’aria del tempo fermo al cui cospetto anche noi più mediterranei viaggiatori non riusciamo a restare insensibili. Tradizioni a molti di noi incomprensibili che, attraverso complessi ed imperscrutabili intrecci, segnano inesorabilmente microcosmi di vite. Altri popoli plasmano la loro identità alimentati da un inossidabile (anche se a volte criticabile) rapporto con la storia e con la loro storia. Al contrario l’italico gattopardo, mimetico e trasformista, dalla labile memoria, con ardite chirurgie plastiche in tempi brevi, se non brevissimi, ricicla incartapecorite cariatidi, saltimbanchi e voltagabbana, restituendo immeritatamente una nuova rispettabilità epurata da ogni rapporto col (per lo più spregevole e poco esemplare) passato (anche quando recente). Sugheri galleggianti come putrescenti e maleodoranti scorie biologiche, che sprecano miseramente il proprio tempo a rivendicare la distanza dagli spettri dei loro trascorsi…

Uniformazione nell’indecenza che provoca sgomento, come l’applauso ipocrita ad autoassolutore elevatosi da ogni scranno dell’emiciclo (che per l’occasione è diventato ciclo) a sostegno dell’evaporato ministro della giustizia. Paradosso parlamentare di un mondo rovescio: è chi non è marcio, corrotto, servo o delfino a doversi vergognare… perché è sulla fosforescenza della putredine e sulla legge della violenza che viaggia il mondo ed è basato il potere. Un applauso incomprensibile e fuori luogo, a ribadire che è sempre stato così e sarà sempre così. Invertebrati fantocci che sbavano e ringhiano in campagna elettorale gettano la maschera e si arroccano nel palazzo in solidale e delinquenziale connivenza, a difesa esclusiva dei loro inammissibili privilegi. Scritte con l’inchiostro vecchio e fantastico della rotativa del Clarion di Spoon River queste righe dall’epitaffio di Carl Hamblin possono essere adattate a cosa nasconde ognuna di quelle maschere: “le ciglia corrose dal marcio delle palpebre; le pupille bruciate da un muco lattiginoso; la follia di un'anima morente era scritta su quel volto.” E di sgomento in sgomento torniamo al pio borgo selvaggio. Tinta su tinta con i menzionati catafalchi, qua e la anche alcuni posacenere che candidano piazza Umberto a diventare una piccola Piazza Rossa moscovita o Piazza del Celeste Impero pechinese (almeno nell’apprezzabile proposito di vederla senza mozziconi e altre insozzanti scorie del tabagismo o, magari, solo veniale richiamo alla sinistra che non c’è più). I parcheggi lungo il corso volatilizzati  e al loro posto cementifere boe ed insicure catene (come ben sa, a sue spese, qualche sindaco dei paraggi). Qua è là qualche totem-parchimetro che ci risparmia, per fortuna, la frustrante visione dell’addetto al parcheggio di turno abbandonato al suo paranoico destino. Effetti di un processo di svizzerizzazione che nell’evidente e lodevole sforzo di ridisegnare il centro urbano non riesce però ad evitare più d’una perplessità.

Ed intanto, ingenerosamente ed in barba alle lezioni degli invisi ma capaci economisti dell’ormai defunto governo, per coerenza di quanto sostenuto in campagna elettorale, si riapre la scuola materna comunale. Si sventola orgogliosamente un logoro e sbiadito cencio che è ciò che resta di un glorioso vessillo di altri tempi, infamato e dilaniato da fameliche e voraci belve allevate incautamente tra le sue pieghe. E come se non bastasse si pensa ad una nuova ferrovia che poi è la vecchia ferrovia, smantellata senza alcuna resistenza dei miopi e passivi governanti di allora che, intenti a leccare altre marmellate, ne hanno consentito l’orrendo scempio, sordi alle proteste delle voci contrarie alla dismissione, e che tardivamente e goffamente si ripresentano con folli e sciagurati propositi di ripristino.

Il palazzo è sempre più sprezzante e distante dalla lotta quotidiana per l’esistenza della maggioranza dei sudditi. Sprechi e scempi la fanno da padrone in ogni dove. Dal pio borgo all’immondezzaio partenopeo: parola d’ordine sprechi e/o ruberie. Da sempre c’è chi con la miseria ha fatto buoni affari.  Nessun segnale di rinsavimento all’orizzonte. La manifesta incapacità dei nostri loschi governanti ci fa chiedere: che fine hanno fatto i buoni padri di famiglia? Non basta avere un figlio per essere un uomo e non un coniglio!

Il ruolo di governante riservato ad assennati padri è svolto da scellerati figli…  Economie asfittiche di municipalità moribonde stanno a galla sui salassi estorsivi rifilati spavaldamente ed impudentemente ai sottoposti. Continui piagnistei qua e la, ai danni del governo centrale, non frenano scelleratezze ed assurdi spendi, spandi, spandi, spendi effendi: è festa! E i furbi magari non pagano tasse e servizi! Esistono efficaci ed obiettive procedure di controllo della regolarità dei ruoli emessi dal comune e di quelli pagati?

Le farse in maschera viste in questi giorni, dal livello più infimo ai più alti, tra quest’accozzaglia di nostri (nostri?!?) insulsi e decerebrati rappresentanti preannunciano altre incombenti elezioni ma ancora di più l’imminente Carnevale, esasperandone le fosche tinte. Il Carnevale ha radici antiche e diversi significati, non ultimo, nell’apoteosi finale che ne decreta la fine, la metafora dell’eterna follia.

Nel 1494 nel corso del carnevale altorenano un docente dell’università di Basilea, l’umanista Sebastian Brant pubblicò un’opera satirica: Stultifera Navis… La nave dei folli. Stupefacente e unico l’omonimo e coevo capolavoro pittorico di Hieronymus Bosch, successivo Ship of Fools, film del 1965 diretto da Stanley Kramer.

Secondo un’usanza praticata nel Medioevo gli indesiderati, “i folli”, venivano allontanati dalle città, imbarcati su grandi battelli, e mandati alla

deriva. Spesso l’inesperienza dell’equipaggio portava al naufragio della nave.

Più di una delle navi di folli salpate dai tetri moli nella oscura notte medievale, hanno percorso una fortunosa navigazione verticale, evitando nelle perigliose acque del divenire temporale ogni possibile naufragio. Dagli integri battelli giunti sino a noi è sbarcato il loro carico di folli amministratori e governanti. Ho letto che l’opera è un grottesco e disastroso viaggio dei matti che sono tutt’uno con i peccatori, verso il naufragio finale che precede la quaresima, metafora dell’eterna punizione se non interviene il pentimento. Pregnante attualità di questo messaggio se guardiamo il mondo che ci circonda e ciò che in questo mondo accade.

Non ci è dato di conoscere i pensieri dell’Altissimo di quando disse a Noè: “È venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra…, né quelli dei dissoluti, impenitenti, caparbi ed irriducibili antenati, negli istanti prima del diluvio…

I tempi che viviamo ci avvicinano tramite un oscuro tunnel transitorio a quel lontano, infelice, malinconico e catastrofico evo. Forse è il caso di fermare per un attimo la giostra, fare ognuno le necessarie profonde riflessioni, tenere ben saldo il timone e cambiare conseguentemente e decisamente rotta….

A CIASCUNO LA SUA CHIMERA

Sotto un gran cielo grigio, in una grande pianura polverosa, senza strade, senza erba, senza un cardo, senza un'ortica, incontrai degli uomini che camminavano curvi. Ognuno portava sulla schiena un'enorme Chimera, pesante come un sacco di farina o di carbone, o come l'equipaggiamento di un fante romano. Ma la bestia mostruosa non era un peso inerte; avviluppava l'uomo con i suoi muscoli elastici e possenti; si aggrappava con gli artigli delle larghe zampe al petto della sua cavalcatura; e la sua testa fantastica sormontava la fronte dell'uomo come uno di quegli orribili elmi con i quali gli antichi guerrieri speravano di incutere terrore al nemico. Mi rivolsi ad uno di questi uomini, e gli chiesi dove andavano in quel modo. Mi rispose che non ne sapeva niente, né lui né gli altri, ma che evidentemente andavano da qualche parte, perché si sentivano spinti da un invincibile bisogno di camminare. Cosa strana, nessuno di questi viaggiatori sembrava avercela contro la bestia feroce che teneva attaccata al collo, incollata alla schiena; si sarebbe detto che la considerasse una parte di sé. Tutti quei visi affaticati e seri non davano nessun segno di disperazione; sotto la cupola splenetica del cielo, i piedi affondati nella polvere di un suolo non meno desolato di quel cielo, camminavano con l'espressione rassegnata di chi è condannato a sperare sempre. Il corteo mi passò a fianco e scomparve all'orizzonte, nella foschia, dove la superficie curva del pianeta si sottrae alla curiosità dello sguardo umano. Ancora per qualche istante mi ostinai a voler capire questo mistero; ma ben presto l'irresistibile Indifferenza si abbatté su di me, e fui oppresso dal suo peso più di quanto fossero loro stessi da quelle schiaccianti Chimere.

Charles Baudelaire - Lo spleen di Parigi


Passeggiando per il Pollino

ARTE SACRA A MORANO CALABRO

di Luigi Paternostro

 Tra i paesi limitrofi a Mormanno facenti parte del Parco Nazionale del Pollino, Morano Calabro ha un’importanza tale da meritare un’attenzione viva e pensosa.

  Le presenti brevi note sono accompagnate da immagini originali tratte dal mio archivio.

 In una iscrizione databile al 130 a.C. si ricorda un Muranum come punto di riferimento posto sulla via Appia.

Solo  nel 1863 con proprio decreto Vittorio Emanuele I di Savoia lo chiamò “calabro” per distinguerlo da Morano sul Po.

Il paese ha una posizione strategica non irrilevante.

Fu dominio degli Aragonesi e poi degli Spinelli.

Ha una struttura urbana ed una architettura particolare sulla quale non ci soffermiamo in questo contesto mirato a ricordare prevalentemente opere di arte sacra.

Anche di sfuggita non possiamo comunque non menzionare una rocca di stile normanno risalente al XII secolo, forse eretta su fortificazioni più antiche o quantomeno  su torri di vedetta.

Tra il 1514 e il 1545 sorse il Castello vero e proprio a spese di Pietro Antonio Sanseverino, principe di Bisignano e signore di Morano.

Parliamo ora delle chiese che custodiscono opere di notevole valore.

Tra esse la più antica è quella di San Pietro e Paolo proprio ai piedi del Castello.

Ha tre navate. Recentemente restaurata è stata ridipinta in un accentuato rosso che deturpa e altera, secondo me l’armonia dell’insieme che sarebbe stato meglio decorato con colori più tenui.

Conserva, di Pietro Bernini, due coppie di statue  marmore scolpite tra il 1590 e i primi del 1600: Santa Lucia e  Santa Caterina, San Pietro e San Paolo. Quest’ultime provengono da dall’ex chiesa di Colloreto. Abbellisce il tempio un’altra statua barocca di San Carlo Borromeo  incisa nel 1654.

Fusco, realizzato tra la fine del 1700 e i primi del 1800.

Sulle sue cimasette sono stati dipinti ad olio, tra il 1806 e il 1807, dal mormannese Genesio Galtieri, le figure dei dodici apostoli  così come idealizzate dalla iconografia tradizionale.             

Tra le tele più importanti ricordo: una Madonna col Bambino e Santi, forse S. Francesco di Paola e S. Antonio da Padova.

  Interessante un affresco di stile quattrocentesco posto sulla parte di sinistra, primo altare della navata, proveniente da una chiesetta extra moenia già dedicata a Santa Maria delle Grazie andata completamente in rovina.

Solo per pura curiosità qui voglio notare che nella medesima posizione, anche a Mormanno trovasi, in S. Maria del Colle, un affresco simile, anch’esso databile allo stesso periodo o al più al cinquecento, pure dedicato alla Madonna delle Grazie. E’ una coincidenza o  la loro collocazione è parte di un progetto di fede derivante dall’evidenziare ad esempio il ruolo di una Confraternita come accade per Mormanno?

In alto sulla volta, in corrispondenza dell’ingresso centrale, fa mostra di sé un affresco del citato Genesio Galtieri datato 1805, che raffigura la Vocazione di Pietro o Pesca miracolosa. Il dipinto è in discreto stato di conservazione.

Abbellisce il tempio anche una  pregevole scultura lignea, proveniente da Colloreto, raffigurante la Candelora.

Nel bel mezzo del paese si erige la collegiata della Maddalena a tre navate. Ha una struttura massiccia. Interessanti sono l’organo a canne del 700, il pulpito, il fonte battesimale, tele del tardo seicento e soprattutto due statue del ‘500 di cui una, la Madonna col Bambino, proviene da San Bernardino. Abbiamo trovato anche in questa chiesa una statua marmorea dedicata alla Candelora. 

Per ragioni di sicurezza, nella sacrestia è custodito un polittico di Bartolomeo Vivarini, datato 1477 e firmato, eseguito

per San Bernardino, chiesa di tarda architettura monastica archiacuta  del XV secolo.

Su tale polittico sono raffigurati: sul pilastrino di sinistra (cm.50 per 24), San Giovanni Battista, San Nicola di Bari, Santa Caterina D’Alessandria; su quello di destra, che ha le stesse dimensioni, San Gerolamo, Sant’ Ambrogio e Santa Chiara d’Assisi.

 Al centro è collocata, in piedi, in uno spazio di cm. 54 per 147 , la Madonna con Bambino tra San Francesco d’Assisi e Bernardino da Siena. In alto, in un riquadro di cm. 69 per 55, è raffigurato Cristo. S. Antonio di Padova e Ludovico da Tolosa sono posti poi in uno spazio che misura cm.135 per 40.  Sulla predella, cm. 20 per 260 v’è Gesù benedicente tra gli Apostoli [i] .

    S. Bernardino, di cui stiamo parlando, è una fabbrica ad unica navata. Essa conserva ritoccati affreschi e alle pareti del portico e a quelle interne. Una nicchia, posta sulla parete di sinistra, definita da un arco a tutto sesto con intradossi dipinti e poggianti su colonne, contiene, di ignoto pittore calabrese, un affresco, restaurato, raffigurante la Madonna con il Bambino tra San Francesco e San Bernardo.

Nella stessa, oltre ad un pulpito ligneo di intagliatori meridionali risalente al 1611, si può ammirare, posto sulla navata centrale, un soffitto di tipo veneziano. All’esterno, significativo è un campanile sicuramente di scuola medievale.

L’annesso convento in cui si ammira anche un chiostro ben restaurato, fu costruito nel 1452 a devozione di Antonio Sanseverino conte di Tricarico e signore di Morano. Il complesso fu consacrato nel 1485.

Ritornando nel paese, quasi alla fine della serie degradante delle case, inferiore risale al periodo medievale ed è dedicata a S. Maria delle Grazie.

In quella sottostante troviamo, firmata da Angelo Galtieri da Mormanno, ultima sua opera, e datata 1739, un Giudizio Universale, che è la più grande, maestosa e significativa pala d’altare dell’intera Calabria.

Il dipinto è stato recentemente restaurato. Quella superiore risalente al XV secolo a San Nicola di Bari. Anche in questo tempio esiste un olio di A. Galtieri raffigurante l’Annunciazione.

  Altra chiesa significativa è quella annessa al Convento dei Cappuccini, che, maestri dell’intaglio e del decoro, l’hanno abbellita di armoniose opere lignee. Tra esse ammiriamo il pulpito, l’altare  maggiore e numerose statue.

  Spostiamoci ora alle falde del Pollino per visitare quel che resta del monastero di Colloreto.

 Biagio Cappelli in Morano e la sua odonomastica, edizione Pro Loco Morano Calabro, 1989, ricorda che il posto fu fondato da Fra Bernardo da Rogliano. Nel bios del frate, un tale Giovanni Leonardo Tufarello così scrive: “ch’egli è un picciol colle irrigato da bei ruscelli e inargentati rivoli di freschissime acque i quali del continuo lo rendono colorito

Il posto nel 1546 nella Platea et sentencia Morani, foglio 22, viene ricordato come “valle di Collorido”. Si potrebbe supporre, data la similitudine tra la Madonna raffigurata negli Statuti della Congregazione con quella di Loreto, che lo stesso fra Bernardo abbia nominato il posto come “Colle di Loreto”.

Leonardo Milizia, questo il vero nome di Fra Bernardo, era nato a Rogliano il 1519 e  morì nel 1602 in Colloreto, ove fu sepolto. 

Fondò una Congregazione che ebbe il titolo di Santa Maria di Colloreto di Morano di Calabria Citra dell’ordine eremitico di Sant’Agostino dell’Osservanza ratificata da Papa Paolo V.

La chiesa, ad una sola navata, orientata a ponente, era inglobata nel convento circondato da alte mura e da due torri campanarie coperte da ampie feritorie, vigili sentinelle agli assalti cui il luogo era esposto.  Non è da escludere che terminassero con un tetto conico.

 A tale ordine, possessore anche di tre case in Morano, appartennero una chiesa a Viggianello, 1598, una ad Orsomarso, 1601, e una cappella o chiesa a Mormanno, Santa Maria del Serrone, distrutta da un fulmine nel 1844 e da me ricordata anche in Mormanno un paese…nel mondo, pag. 49 e in un mio filmato ancora inedito.

Nel 1751, Papa Benedetto XV soppresse tale Congregazione trasferendo i suoi beni al Reale Albergo dei Poveri che doveva essere eretto in Napoli.

Il convento e le sue pertinenze fu acquistato nel 1752 dagli Agostiniani calabresi e rimase in attività fino al 7 agosto del 1809 quando Gioacchino Murat ordinando la soppressione di tutti monasteri posseduti dagli ordini religiosi  ne decretò la definitiva scomparsa.

Alla sua chiusura seguirono saccheggi ed espoliazioni.

Troviamo molti suoi tesori sparsi qua e là.

Un crocifisso ligneo trovasi a S. Basile. Le statue  di Santa Lucia e Santa Caterina, opere giovanili di Pietro Bernini, insieme ad un’altra della Vergine detta della Candelora furono portate, come già accennato,  in S. Pietro.

Nella Maddalena trovarono posto i marmi di S. Agostino e Santa Monica, collocati sull’altare maggiore.

Dal Serrone sono pervenuti a Santa Maria del Colle di Mormanno, un calice d’argento, datato 1677, usato per le occasioni solenni, e il quadro raffigurante l’elemosina di S. Tommaso del 1719  firmato Aloisius Cac…G.J. (Vedi miei filmati su Arte Sacra a Mormanno nonché MORMANNO UN PAESE…NEL MONDO seconda edizione 2007 Phasar Firenze).

Non è da ignorare anche la Chiesa del Carmine adiacente alla  Maddalena.  Sull’altare maggiore ammiriamo un olio attribuito a tale Pedro Torres, 1594, [ii]  che raffigura La Madonna  con Bambino.

Altri pregevoli affreschi decorano le pareti laterali.

In margine a queste brevi note mi piace ricordare che a Morano Calabro esiste, voluto e curato dal Prof. Francesco Mainieri, un importante Museo dell’Agricoltura e della Pastorizia (tel. 0981 30372) di cui possiedo un filmato inedito, ed un Centro studi Naturalistici del Pollino, denominato il Nibbio (tel. 0981 30745).

Entrambe le istituzioni sono visitabili.

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[1] Traggo dalla sua poesia  Jennaru:

Puorcu!…Gioia, ricchezza d’ogne casa, grannizza vera, pumpusia frunuta!…
Ccu lu filiettu mpacchi la prim’asa  la fragagliella, mo cce vò, t’aiuta!…
E all’urtimu, quatrà, cc’è la quadra!…Cchi cc’è allu munnu chi ssa cosa appara?!...

[2] Già da tempo avvezzo ad una alimentazione varia. Lat. revolutus

[3] Castrato, se maschio, e privato dell’utero e dell’ovaia se femmina. I sanapurcieddi (castratori di maiali) erano per la maggior parte lainesi che giravano di casa in casa proponendo l’operazione. Questa risultava per la verità oltremodo cruenta e dolorosa, praticata con coltelli disinfettati alla fiamma. Le ferite venivano legate con spago e cosparse di cenere.

[4]   Stalla che in paese si trovava all’interno di un magazzino o in un angolo di un cortile all’aperto. Dal greco cimaros.  Nei tempi di vera miseria veniva accolto nell’unica stanza e trovava posto sotto il letto. Tale camera ospitava pure le galline che sul far della sera rientravano attraverso un’apertura posta in basso sull’anta del porta e si appollaiavano sulla scala di legno che conduceva al chiangàtu, lat. plancatus, sottotetto.

[5] Contrade di Mormanno sovrastate da monte Cerviero

[6] I ghiaccioli

[7] S. Antonio abate, protettore degli animali, si festeggia il 17 gennaio. Anticamente in quel giorno o nei successivi cominciava l’ecatombe delle povere bestie che si concludeva di norma l’ultimo giorno di carnevale.

[8]   Frittura di carne

[9]   E’ una specie di culla ricavata da un tronco d’albero incavato e tenuto in piedi da quattro pioli di legno. La forma avvolgente dello strumento consente di adagiarvi il malcapitato maiale che così sdraiato e col grugno legato da una resistente e sottile cordicella presta più facilmente il collo al carnefice.

[10] Una cassa senza coperchio costruita come un parallelepipedo a sponda bassa in cui si pone il maiale ucciso per essere depilato con acqua bollente che fuoriesce attraverso un canale di legno ritornando alla caldaia da cui si riattinge.

[11] La campanella (cfr. greco kentron).  Era conficcata nella trave più grossa e resistente della cucina.

[12]   Arance.

[13]   Abitante di Papasidero. Qui, dato il clima più mite vi cresce l’arancio.

[14]   La voce è mediata dal latino planca = macelleria, in dialetto chiànga

[15]   Pezzo di legno incurvato ad arco al quale si appendeva per le gambe l’animale morto

[16]   Intestini

[17]   Decantarsi e pulirsi

[18]   Chi ha battezzato o cresimato uno dei figli. Cumpàri Sangiovànni in ricordo di San Giovanni Battista che fu il primo a battezzare. Il comparaggio era sacro. Cumpàri Sangiuvànni spartemùni li pànni, li pànni su spartùti e San Giuvànni c’è trasùtu. Significa che il legame è così forte e sincero che si possono addirittura dividere i panni, che, per estensione, sono tutte le ricchezze.

[19] Brocca, piccolo cratere ad un solo manico, Dal latino canna, gola

[20]   Annina

[21] Erano canzoni ad aria tutti quei motivi sottesi da un tema musicale a ritmo binario che cantavano le fatiche dei campi, quelle della casa, gli amori dei ragazzi ed in genere l’amore, quello vero che è in definitiva il vero sale della vita. E li vòi tornu tornu e za Rosa, ntra lu fornu; Mi nni vurrìa ì, ecc.



[i] Il Polittico di Morano ed un Trittico custodito nella chiesa di S. Giorgio a Zumpano (Cosenza) datato 1480,  rappresentano le uniche opere del veneto Vivarini custodite in Calabria.

2 Pedro Torres pittore di scuola fiamminga, dipinse le pale degli altari maggiori anche di S. Nicola (1598) e di S. Pietro (1602), nonché di un S. Diego coi suoi miracoli (1600) per di S. Bernardino 

 

 

FARONOTIZIE.IT  - Anno III - n° 22, Febbraio 2008

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