FARONOTIZIE.IT  - Anno II - n° 13,  Aprile 2007

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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi

LA RAGION DI STATO

Editoriale del Direttore,  Giorgio Rinaldi

Da sempre, i governanti, i delinquenti e i pazzi hanno invocato qualcosa o qualcuno per giustificare, scientemente o meno,  le loro nefandezze.

Dio lo vuole”; Ragioni di Stato lo impongono”; “Una voce mi ha ordinato di farlo”.

All’indomani della liberazione del giornalista Mastrogiacomo, rapito da terroristi Talebani (Dio lo vuole!) si sono formati subito almeno due schieramenti, l’uno che anteponeva la vita umana a qualsiasi critica su cedimenti ai terroristi, l’altro che invocava superiori ragioni politico-istituzionali che avrebbero dovuto impedire ogni trattativa a scapito di qualsiasi vita umana.

Chi difendeva la trattativa ad oltranza poneva, come limite, solo richieste che avrebbero comportato scelte di carattere strategico da parte dello Stato (ritiro di truppe militari, per esempio, da un teatro di guerra).

Gli strenui difensori dell’altra tesi hanno dimostrato, al di là della bontà o meno delle  ragioni addotte, di essere degli ipocriti e dei falsari che avrebbero fatto impallidire anche  Tartufe, il famoso personaggio dell’omonima opera di Molière, il “tartufo” per antonomasia.

L’altra sera alla TV la summa del pensiero antitrattativa era rappresentato da una vecchia conoscenza italiana, mister Luttwak, ex consigliere per la sicurezza nazionale USA, ammiratore della Roma Imperiale, intristito per l’immatura scomparsa di Caligola; da un miracolato della politica diventato ministro non si sa per quali meriti, e da un direttore di giornale famoso più per le sue giacche da pecoraio inglese che per altro.

Il simpatico trio, dimentico che ogni governo di qualsiasi parte  del mondo ha sempre trattato, seppur per interposta persona, con rapitori di propri cittadini per ottenerne la liberazione, ha sostenuto, senza tema di ridicolo, che gli italiani “predicano bene ma razzolano male” perché trattano sempre con i sequestratori; che una cosa è pagare in moneta un riscatto, altra è liberare in cambio dei terroristi, e che –in ogni caso- nessuno deve preoccuparsi per chi invece di starsene comodamente seduto a casa sua i guai se li va a cercare.

Per gli americani, sbugiardati da un ospite della trasmissione televisiva che ha dimostrato che a razzolare male erano un po’ tutti, americani compresi, l’importante è “che non si sappia in giro” di trattative con terroristi, mentre i Nostri non sono stati minimamente sfiorati dall’idea che con i soldi (nostri) pagati dal Governo Berlusconi per la liberazione di due ragazze rapite in Iraq, i terroristi, verosimilmente, non hanno comprato certo dei cioccolatini per la festa della mamma.

E’ di tutta evidenza che i 5 talebani liberati dal Governo di Kabul (certo non sordo alle richieste di quello italiano!) rappresentano ben poca cosa in una realtà dove i potenziali terroristi sono migliaia e migliaia e quindi la  “preoccupazione” che possano ancora commettere dei crimini non è, ovviamente, apprezzabile.

Vale la pena aggiungere che se i terroristi vogliono rapire degli italiani, non devono di sicuro aspettare che ne arrivino nei territori da loro occupati, ma basta che si facciano una passeggiata per Kabul per catturarne a decine.

Sempre che un italiano sia più “appetibile” di un inglese, o francese, o giapponese, o altri: visto che forse solo gli eschimesi si sono salvati sino ad oggi dalle grinfie banditesche.

Che dire, poi, del direttore di giornale in mantellina che ha incredibilmente sostenuto che non manderebbe mai un suo inviato in zona di  guerra: lui le notizie se le cerca al supermercato di seconda mano? O, forse, le chiede all’ufficio stampa del ministero della difesa di qualcuno dei belligeranti?

Ogni ulteriore commento è, chiaramente, inutile.

La questione “trattative/non trattative” è estremamente delicata e non può certo essere risolta a suon di slogan e battute, ma occorre una intensa riflessione ed un appropriato studio.

I Talebani , è necessario evidenziare, non sono  le Brigate Rosse.

I primi sono una grossa componente  della popolazione afgana, che ha amministrato il Paese  e che oggi ne occupa militarmente una bella parte.

Le B.R. erano composte da qualche centinaia di sbandati politici che sono stati catturati con mere operazioni di polizia, ancorché di vasta portata.

Voler negare l’evidenza non fa altro che scollare ulteriormente la società civile da quelli che si arrogano il diritto di amministrarci.

Quando c’è  in gioco la vita di una persona, bisogna stare molto attenti nel dire cose  avventate che –spesso- riposano sul nulla e risultano congeniali solo a spregiudicata propaganda politica.

Non v’è dubbio che l’interesse alla vita del sequestrato deve essere preminente rispetto ad ogni altra cosa.

Affermare che non bisogna trattare perché così i delinquenti si convinceranno che questo reato non paga può, forse, trovare qualche ragionevole validità in un contesto ordinario, non certo in uno scenario di guerra, dove l’avversario può concepire qualsiasi soluzione criminale alternativa al semplice rapimento.

Si pensi, ad esempio, alla minaccia di uccidere chiunque, o effettuare attentati in ogni dove, senza che le potenziali vittime possano approntare alcuna efficace difesa.

E, in una situazione di guerra, non c’è neanche la necessità di dimostrare la “serietà” delle intenzioni.

Ma, la maggior parte dei governi preferisce trincerarsi dietro il paravento delle “ragioni che impongono ad uno Stato di non scendere a patti con i terroristi e con concedere alcuna legittimazione al nemico”.

E, allora, si  assiste alla farsa con protagonisti gli americani che oggi si rifiutano di trattare (all’apparenza!) con i Talebani, considerandoli dei terroristi, mentre solo qualche anno fa erano loro preziosi alleati.

Allo stesso modo non vogliono avere alcun contatto con i “terroristi” iracheni, già seguaci dell’allora alleato Saddam Hussein.

E, che dire dei “terroristi” palestinesi ospitati addirittura a Camp David, nella residenza di vacanza del Presidente degli USA  per le trattative di pace con il riottoso alleato israeliano?

Basta cambiare i termini, trovare le parole più adatte, le formule più o meno ambigue e il gioco è fatto.

Nella nostra lingua esiste il termine “bizantinismo” per marcare e connotare negativamente l’uso di formule capziose utili solo a “coprire” incapacità e furbizie.

Ai tempi del Sacro Romano Impero, diviso in quello d’Oriente e in quello d’Occidente, si inventò il “plurale maiestatis” perché i malcapitati  ambasciatori potessero  rivolgersi ad uno dei due antitetici monarchi senza rischiare il taglio della testa ad opera di quello che non c’era.

Nel secolo scorso gli americani hanno combattuto (e perso) una guerra durata 15 anni nel Vietnam senza mai dichiararla, perché non riconoscevano lo “status” di nemico  al popolo che avevano…aggredito.

Molti ricorderanno i famosi “tavoli della pace” a Parigi: gli americani non volevano sedere allo stesso tavolo con i  rappresentanti dell’allora Vietnam del Nord e, pertanto, si escogitò la soluzione di utilizzare prima diversi e più tavoli rettangolari e poi alcuni … tondi.

La stupidità umana spesso non ha limiti, specialmente quando si nasconde dietro la….ragion di stato!

BUON COMPLEANNO

di  Giorgio Rinaldi

E’ passato un anno.

Il numero 1 è stato pubblicato il primo aprile del 2006, e non è stato un pesce d’aprile.

Possiamo dire, senza falsa modestia, che è stato un grande successo, in parte inaspettato.

Decine e decine di collaboratori, tutti altamente qualificati, molti iscritti anche all’Albo dei Giornalisti.

Lettori triplicati in 12 mesi.

Corrispondenze da tanti Paesi europei ed extraeuropei che hanno fatto di Faronotizie.it un web magazine internazionale.

Tantissimi gli articoli scritti,  tutti originali,  che hanno trattato argomenti di grande interesse.

Nel numero di dicembre ‘06 il nostro direttore artistico, senza il quale questa testata giornalistica mai avrebbe visto la luce, ha ben dettagliato cifre e numeri che hanno caratterizzato sino ad oggi il successo di Faronotizie.it, ed a quell’articolo rimando chi vuole avere dati più precisi.

Per quanto mi riguarda, voglio solo evidenziare un aspetto del successo di Faronotizie.it.

Per precisa scelta editoriale al giornale è stata voluta dare una chiara paternità “murmannola”, sia nel nome, sia nella rubrica dedicata “murmannoli qua e là”, con una precisa idea di raccordo con l’emigrazione in tutte le sue sfaccettature.

E’ un tracciato che si è seguito e si sta percorrendo con soddisfazione.

Ma, più grande gioia è venuta e viene dalla conoscibilità che Mormanno ha avuto non solo in Italia (moltissimi lettori sono giornalisti o comunque hanno a che fare con la stampa in genere), quanto all’estero, dove in oltre 60 Paesi del Mondo è costantemente letto: in Cina, per esempio, oltre un miliardo e trecento milioni di persone non sanno neanche dove sia l’Italia, ma qualche centinaia (di persone, non di milioni!) pensa che Mormanno sia una delle città più importanti della Penisola!

Speriamo di ritrovarci ancora a festeggiare.

“PALAZZO FILIZZOLA: STORIA DEL CASATO E DELL’AUTONOMIA COMUNALE DI NEMOLI”  presentato nella casa dei lucani a Roma dagli autori Celeste Pansardi e Salvatore Lovoi

di Paola Saraceno

Presentazione in grande stile nella Capitale del romanzo storico “Palazzo Filizzola:storia del casato e dell’autonomia comunale di Nemoli”, scritto a quattro mani da Celeste Pansardi e Salvatore Lovoi.

Alla Cantina di Ninco Nanco, la casa dei lucani a Roma, oltre centoventi amanti del buon leggere hanno risposto all’invito degli autori e della libreria capitolina  “Invito alla Lettura”, dove è possibile acquistare il volume, appena pubblicato con i tipi di Zaccara di Lagonegro. 

Vetrina romana, dunque, per un romanzo da leggere tutto d’un fiato il cui impianto ruota intorno alle origini di un palazzo del 1600, appartenuto ad una famiglia della borghesia terriera lucana, i Filizzola, imparentatasi nell'800 con quella del colonnello borbonico Alessandro Mandarini di Maratea.

La storia della famiglia con i suoi “alti” e “bassi” si intreccia con la storia economico–sociale della Basilicata dell’Ottocento e ne segna tutti i passaggi: il periodo francese 1799-1815; la resistenza lucana, la permanenza di re Ferdinando a Palermo, il ritorno dei Borboni sul Regno di Napoli, le insurrezioni popolari, le nuove disposizioni di legge sotto i Savoia.

La storia di una famiglia gentilizia scelta dalla Pansardi e da Lovoi perchè capace di essere stata per lungo tempo punto di riferimento dell’intera popolazione di Nemoli.

Degna di rilievo è la figura di Filomeno Filizzola, l’uomo delle miscele e degli alambicchi, che in uno dei numerosi locali del palazzo, ha la sua farmacia, ricca di numerosi opuscoli di medicina e di erboristeria, che si fa inviare da Milano e da Napoli. In un altro locale di Palazzo Filizzola si apre il primo ufficio postale con telegrafo diretto da una delle sue figlie.

Importante è il carteggio epistolare di casa Filizzola, che si rivela interessante per il suo altissimo valore di archivio, perchè molti documenti del tempo dell’archivio pubblico andarono dispersi con l’incendio del municipio.

Proprio le lettere sono state la fonte più preziosa utilizzata dagli autori per  comporre la trama di un racconto storico, che tratta di vicende vere, a volte drammatiche, che si dipanano nell’arco dell’ottocento, quando gli uomini ancora amavano affidare alla scrittura i loro pensieri, le confidenze, i problemi,  la descrizione di piccoli e grandi accadimenti, in cui trovano posto fatti di interesse pubblico o di eventi, come l’eruzione del Vesuvio del 1872.

“Un viaggio nella meravigliosa terra di Basilicata ed in particolare nell’area del Pollino attraverso la storia di un blasonato casato” – è questo l’incipit della presentazione della storica Rosanna Vano, che insieme alla giornalista Rita Pensa ed all’esperto di sviluppo locale nonché animatore Paolo Continanza, hanno presentato il lavoro dell’eclettica Celeste Pansardi e del giornalista Salvatore Lovoi.

E Celeste Pansardi, discendente diretta della famiglia, ha sottolineato il carattere scientifico del volume, concepito per il grande desiderio di recuperare le proprie radici e la propria identità, stando bene in guardia dal pericolo di autoreferenzialità.

Importante il contributo del co-autore Salvatore Lovoi nel narrare le vicende umane, politiche, sociali dei tanti personaggi che popolavano nell’800 Palazzo Filizzola.

Approfondito il lavoro di ricerca storico-documentale di entrambi alla base del romanzo, che partendo da un piccolo comune del Regno delle Due Sicilie, narra di fatti ed avvenimenti comuni a gran parte dei paesi del Mezzogiorno, negli anni  pre-unitari.

Proprio Salvatore Lovoi, nella seconda parte del libro parla del palazzo dei “Signori” con un misto di rispetto e di mestizia, degli eventi che l’hanno attraversato, dopo che la famiglia Filizzola è andata a vivere altrove, del furto dello stemma e del bambinello, dei tentativi fatti dalle Istituzioni per non lasciarlo nel dimenticatoio. Il Palazzo Filizzola “per varie vicissitudini, tra alterne fortune, ha vissuto una parabola discendente, ma non ha mai perduto il suo fascino”. Ha assunto, negli anni, il ruolo di centro di potere, quale sede di municipio, di esattoria, fungendo da scuola, sede di associazioni, sezioni di partito, negozi.

Alcune pagine del volume lette da Rita Penza hanno incantato la platea, trasportando gli oltre centoventi ospiti nelle stanze dell'antica dimora della Valle del Noce e negli amori e passioni del tempo.

Dopo i "saperi", i sapori della gastronomia.

Gli chef del ristorante Tipico dell’Appennino Meridionale nel cuore della Capitale, hanno confermato la proverbiale capacità di accoglienza dei lucani, già decantata dagli antichi Eraclide ed Elanio.  E la degustazione di Canestrato di Moliterno abbinato al Grottino di Roccanova, accompagnata dalla musica di Don Pablo Continanza, ha concluso un bel pomeriggio di “invito alla buona lettura”.

Grazie a questo lavoro, che aveva già avuto una vetrina lucana il 7dicembre scorso proprio a Nemoli, stanno aumentando i sostenitori del progetto proposto dall’Amministrazione Comunale di recupero del seicentesco Palazzo Filizzola, per adibirlo a contenitore culturale e di servizi turistici per i novelli magellano che hanno voglia di scoprire i piccoli paesi ricchi di storia, cultura e tradizioni del Parco Nazionale più grande d’Europa.

VILLA DE LEYVA

di Angela Vanegas

Le sue strade in pietra, tutte le case piccole e di colore chiaro, d'architettura spagnola, fatte di mattoni con i tetti in mattonelle spagnolo.

Un paese in mezzo alla natura, un paese senza palazzi, un paese dove fa freddo, perché al di sopra della savana di Bogotà, che è una grande pianura a più di 2000 metri sopra il livello dal mare, ma molto accogliente.

E' "Villa de Leyva".

Un paese diverso qui in Colombia, dove una volta all'anno fanno la festa delle comete, in agosto, che è il periodo dove spirano grandi venti, e molte persone vi si recano apposta per festeggiare e lanciare le comete per il cielo. Per le feste di fine d'anno e di natale tutto il paese è illuminato, sembra un presepe, molto bello, e la gente gira per strada la sera guardando le luminarie.

La gente dalla città va a Villa de Leyva, a 3 ore in macchina da Bogotà, verso nord, a caricarsi di energia, perchè è un paese  che sprigiona una energia diversa, una energia di pace, tranquillità, dove la gente di campagna è molto gentile. Ci trasporta ai vecchi tempi, quando sono arrivati gli spagnoli in queste terre. Un paese in mezzo a una natura che si vede  che ha molti anni.

Alberi molto grandi con le barbe, delle cascate d'acqua chiara, i funghi magici, le 7 montagne innevate di "Iguaque" a più di 3000 metri, che per arrivarci ci vogliono più o meno 6 ore di cammino.

Questo era un posto degli indios, come molti qui, dove si sente quella energia dalla natura in armonia con quella dall'uomo.

Intorno a quel paese c'è il deserto della Candelaria, un gran deserto dove da poco  hanno trovato dei fossili di animali strani, un posto con dei segni preistorici.

Ma, d'altra parte, c'è la natura un po’ selvaggia, con le sue piante strane.

LISBONA ALLA CONQUISTA
DI STUDENTI STRANIERI

di Sandra Peluso

Scordatevi delle stagioni, che sia Marzo o Agosto. Quando la brezza atlantica soffia tra le sue colline,spazzando via la calda cortina grigia di nebbia, sembra che non esista al mondo città più fredda di Lisbona.

Il sole splende in un azzurro nitido che ferisce gli occhi, e il vento gelido accarezza i capelli e le ossa. E allora pensi che anche le vicende  climatiche facciano parte dell’idea generale che Lisbona sia contraddittoria.

Economica e contraddittoria. In due parole la rappresentazione mentale più diffusa della capitale dell’estremo occidente europeo. Lisbona attira per questo. E lo studente che voglia trascorrere un periodo all’estero la sceglie senza pensarci troppo, le aspettative sembrano allettanti se pur a misura di stereotipo.

In effetti non è facile staccarsi da certi saperi precostituiti se si riesce a trovare una casa nel cuore del Chiado lisboeta, rientrando miracolosamente nel contributo economico non certo incoraggiante dell’unione europea.

E ci si ritrova anche a domandarsi che cosa ci faccio io, con addosso lo stesso odore di gatto che aleggia nella mia via, seduta davanti a un computer in un vero e proprio posto di lavoro, in un paese dove il referendum sulla depenalizzazione dell’aborto ha avuto luogo il mese scorso, con esiti che mostrano la marcata caratterizzazione politica dell’espressione del voto.

Ma nella via dei gatti, che troneggiano indisturbati sulla carrozzeria tiepida delle auto appena parcheggiate, nessuno sembra ammorbarsi la mente con questioni di occupazione, opinione pubblica e ideologia. Bastano tre passi per misurarne la larghezza e 30 intensi secondi per attraversare in lunghezza un incredibile laboratorio sensoriale, che ti mette alla prova giorno dopo giorno,mese dopo mese.

Perchè ci vogliono mesi prima di riuscire a comprendere le singole sfumature verbali delle signore in grembiule che conversano davanti agli usci alti un metro e mezzo, mentre sei intento a

schivare le gocce d’acqua dei panni stesi, il materiale elettrico e le antenne televisive che pendono minacciosamente ad altezza uomo.

Una volta usciti dal viottolo dal sapore paesano,ti accorgi che il traffico esiste anche a Lisbona, caotico come a Roma,ma a tratti surreale,spoglio di motorini. I ragazzetti che fanno slalom tra le automobili sono una rarità. I più impavidi zompano sul gradino dell’entrata posteriore del tram in corsa ascendente, tra lo stridore delle rotaie che si snodano su per le vie tortuose della Graça per poi ridiscendere a ridosso del Tago.

Gli altri si muovono in metropolitana. Si congedano dai negozietti urban style del Bairro Alto e  si immergono nel sottosuolo, auricolari e passo hip-hop andante, piacevole elemento di contrasto con le gallerie dalle tinte pastello tappezzate di azulejos. Dodici minuti di corsa e sono pronti a riemergere da una stazione futuristica della periferia,aspirati dal moto sincronizzato degli ascensori trasparenti e delle scale mobili, nel grande vuoto sferico illuminato a neon.

In testa la poesia sovversiva dei muri marcati a vernice spray in qualche notte umida, sui gomiti i lividi dello skateboarding azzardato sul pavimento marmoreo dell’ingresso principale della chiesa del Carmo.Un vero e proprio spazio scenico,lo stesso che in certe sere poco ventose reinterpreta il sacro e presta le sue luci ad una improvvisata di tango,gli alberi chini a proteggere la musica debole del mini hi-fi.

Lisbona ti mostra i suoi spettacoli, da osservare sorseggiando una birra. Appena un euro in più in tasca e te ne concedi un’altra al miraduro Santa Catarina, percussioni afro e birilli volteggianti, sullo sfondo l’estuario più grande d’Europa.

Interculturalità, immancabile e fortemente ricercata dai giovani studenti in terra straniera. Nelle relazioni interpersonali,nel cibo, nella musica,nella lettura. Ma nel mosaico culturale incontri anche i pezzi dell’Italia che hanno fatto la storia,compresa quella del cinema.

Un’escursione tematica tra film rigorosamente in lingua originale, ottima usanza portoghese che non intacca minimamente il neorealismo rosselliniano.

Un caffé a discutere di “Roma città aperta” ci sta anche a mezzanotte. Di sicuro si incontra una tasca aperta da qualche parte nel Chiado, una di quelle con la luce azzurrina,fievole come la voce dall’anziana signora che vive nel retro

Poi c’è anche l’università. Pensi alle lezioni di semiotica perse per andare alla ricerca dei corrispondenti paesaggistici dei versi di Pessoa. Ma con Pessoa in testa e Lisbona intorno, sull’onda del senso di colpa ti ripeti: “non sono niente,non sarò mai niente,non posso volere d’essere niente. A parte questo,ho in me tutti i sogni del mondo…”.

POVERI TRENTENNI

di Nicola Perrelli

Grazie alle normative vigenti, che offrono incentivi e sgravi fiscali alle imprese, le offerte di lavoro per i giovani  non mancano. Sono infatti molti i gruppi industriali e creditizi che di questi tempi assumono con un contratto di apprendistato professionalizzante della durata da 3 a 5 anni che dovrebbe poi trasformarsi , di norma, in uno a tempo indeterminato. Tutto allora rosa e fiori per i giovani? Non proprio. A ben vedere le spine ci sono,eccome.

Per la presentazione di una domanda di assunzione non basta avere una laurea , un diploma, conoscere l’inglese, il pacchetto Office e via dicendo, bisogna anche non aver superato i 29 anni d’età. Si è quindi idonei a 29 anni , non lo si è più a 30 . Strano ma vero. A trent’anni, per il mondo del lavoro, almeno per certi settori, si è già vecchi. Anche con in mano un titolo di studio conseguito con brillanti risultati, più che adeguato a soddisfare le richieste professionali dell’azienda, e magari in possesso delle migliori referenze, al di sopra di questa soglia d’età non si è più idonei, addirittura non “selezionabili”. Eppure è noto che i giovani prima di trovare un lavoro stabile e duraturo devono accettare di buon grado lavori saltuari, scarsamente retribuiti e spesso poco qualificati. E di saltuario in saltuario gli anni passano e quando finalmente si presenta l’occasione di un posto migliore o perlomeno più attinente alle proprie aspettative e conoscenze, ecco che ci si trova “fuori mercato” perché raggiunti o superati i trent’anni. Una situazione a dir poco paradossale, incredibile in una società che da tempo si trova a dover fare, per diversa fortuna, i conti con i problemi determinati dall’aumento dell’età media.

E’ aumentata l’età per andare in pensione, quella della permanenza in famiglia dei giovani, fino ai 34 anni dice l’Istat,  e via dicendo, mentre l’età per le assunzioni si abbassa…..ma la Legge 30, più conosciuta come Legge Biagi, non doveva favorire un più agevole ingresso nel mondo del lavoro, specie per i giovani? Forse che la condizione di precario, cosi diffusa tra i giovani lavoratori, ferma lo scorrere del tempo?

La verità è che le nuove generazioni fanno fatica ad affermarsi nel mondo del lavoro. Il dinamismo sperimentato nel passato non appare per ora replicabile. Il mercato è ingessato, a più di tre anni  dall’entrata in vigore della Legge 30 i risultati languono.  Nel nostro Paese abbiamo da un lato una classe dirigente  vecchia e dall’altro una elevata disoccupazione giovanile. E quando parliamo di disoccupazione giovanile ci  riferiamo ormai  a quella generazione tra i venti e i quaranta anni. .

Oggi per via  del “trascinamento giovanile”, cosi è stato definito il fenomeno, si arriva alle soglie dei quarant’anni senza avere un lavoro stabile, come invece l’età imporrebbe.  Si può allora essere esclusi dalle selezioni a  trent’anni?

A questo, come agli altri interrogativi, bisogna dare una risposta, necessariamente. Non dimentichiamo che al lavoro e alla stabilità dell’impiego sono collegati fattori demografici di grande importanza, come la possibilità di farsi una famiglia, di poter mettere al mondo dei figli e cosi via. E altrettanti fattori economici: i consumi in primis. Si spende se si ha un reddito. E il reddito, tranne i pochi fortunati che possono vivere di rendita e che comunque non sono in grado  di poter assorbire all’intera offerta del mercato, nasce dal lavoro. Che  di questi tempi, arriva dopo i trent’anni. Un’età in cui si dispone ancora  di tutte le potenzialità per poter dare il massimo in ogni ordine di attività.  

DIVERSITA’

di Anna Tartarini

Il cratere magmatico dell’esistenza

Crea, crea, crea.

E ancora

Crea, crea, crea.

Scoppia, la bolla

E i lapilli la fanno vita.

Ogni bolla, unica, speciale

DIVERSA

Dal creatore e dai creati.

Scoppiate dallo stesso fuoco

Esistenti per lo stesso scopo

UGUALI

Nell’essenza e nel potere.

13.02.04

TAMALES

di Shane Osante

I tamales messicani (tamal è l'uso "singolare" messicano della parola) sono pacchetti di pasta di mais guarniti con con dolce o salato e chiusi tipicamente nelle foglie del cereale (Mais) o foglie di banana.  I pacchetti sono cotti a vapore e mangiati caldi, serviti tradizionalmente con Atole (bevanda di mais).   Nella maggior parte dei ristoranti che servono specialità “American-Messicano”, la gran parte dei tamales non è servita con una salsa, ma piuttosto in modo semplice e normale.

E’ certamente utile ripercorrere la storia dei tamales.

Dei Tamales vi è traccia sin dall’epoca del  Messico pre-Colombiano (prima della scoperta dell’America da parte di Colombo), ma è probabile anche prima.

Risulta ben documentato da Friar Bernardino de Shaagun nel 1550 che agli spagnoli sono stati serviti i tamales dagli Aztechi durante i loro primi arrivi Messico (cfr. Cuisine dell'America - Sophie D. Coe). 

I Tamales erano mescolati con i fagioli, carni e chiles, ed era cucinato su fuochi all’aperto.

Varietà

Come per la maggior parte degli alimenti messicani, ogni regione del Messico ne vanta una specialità.  Le diverse specialità abbondano, e qui di seguito se ne riportano alcune elencate per regione.

Culiacan, Sinaloa:- Le varietà giornaliere includono i tamals preparati piccoli, con fagioli, ananas e mais, marroni dolci.   Le versioni speciali per le occasione sono più grandi e fatte sia con carne, sia con le verdure.   

Veracruz :- Tamales fatti di mais fresco e di porco, conditi con il “hoja Santa”.  Altri stili includono il masa in foglia di banana con il pollo ed il “hoja Santa”.

Oaxaca: - Grandi tamales in foglia di banana aromatizzati con la loro specialità regionale "talpa di nero".  Inoltre, fanno una varietà di foglia di banana con altre “talpe”  verde o giallo, con i piccoli fagioli neri e chepil (un'erba).

Monterrey :- Questa regione preferisce un piccolo tamal che usi in genere pasta e che include la carne tagliuzzata  peperoncini rossi rossi.

Yucatan: – “Achiote” è uno dei condimenti favoriti.  Molti tamales di questa regione sono abbastanza grandi e vengono cucinati in una buca o nel forno.  La pasta è lavorata e include insieme o in via alternata pollo e porco.  Un'altra versione è denominata  “vaporcitos”: uno strato sottile semplice di pasta di mais su una foglia di banana, cotto a vapore.  “Colada di Tamales” è una pasta sottile guarnita con  pollo, pomodoro ed “achiote”.

Il Messico occidentale del nord, Tamaulipas (la mia regione)-:  Tamales di lunghezza enorme denominati zacahuiles, fatti con il mais rudemente macinato, con i condimenti del Chile rosso, porco, il tutto avvolto in foglie di banana.  Questi tamales enormi sono cotti in forni a legna nei ristoranti tipici,  normalmente il fine settimana. Può essere fatto di porco, viande, fromaggio, frutti di mare, e pollo.

Le foglie di banana:

Le foglie di banana sono abbastanza grandi e creano involucri molto efficienti per i più grandi tamales.  È meglio selezionarle fresche e giovani se avete una pianta disponibile. Altrimenti sono disponibili congelati in molti mercati latini.  Per prepararli si devono tagliare le foglie lungo la nervatura centrale e poi rimuovere la nervatura.  Le foglie devono essere riscaldate e la parte superiore essiccata con fiamma aperta per renderle flessibili..

La pasta:

Per ogni stile e uso del tamal è necessario un tipo molto specifico di masa (pasta di mais). La migliore  masa è la masa spugnosa.

Aggiunte alla pasta

Grassi: - Il grasso utilizzato era tradizionalmente lardo fresco.  Ma varia con la ricetta: alcuni usano il lardo, altri un certo grasso vegetale o del burro, o una combinazione di due o più di questi. Se usate il lardo, usate soltanto il lardo fresco e, se possibile, chiedete  il lardo di un maiale macellato da poco.

Lievito: -  Alcune delle ricette della pasta richiederanno il lievito per una pasta tamal più chiara del cereale.

Liquidi: - il cereale è comunemente cobinato con l’acqua, il brodo di pollo e perfino il latte.  La ricetta specifica detterà il liquido adeguato.  

Condimenti: - il sale è aggiunto quasi sempre alla pasta per aumentare il sapore del cereale.

Materiali da guarnizione:

Il materiale da guarnizione per il tamal può essere qualche pezzetto di zucca o i fagioli, pesce, pollo, porco, coniglio, etc., etc.. Altri ingredienti più esotici sono anche ben accetti,  come il coccodrillo, funghi allucinogeni ed il canavis.

Diffusione della masa:

Utilizzare comunemente appena la parte posteriore di un cucchiaio per spandere la pasta.  Sul foglio di mais o di banana.

SALVATE IL DETENUTO HOWARD

di Mirella Santamato

runa, magra, sempre in movimento, con il viso dolce e forte delle donne della sua Romagna, Arianna Ballotta è una delle persone speciali che ognuno si augura di incontrare nella vita. Il fuoco che brilla nel suo cuore ha un solo nome: salvare più gente possibile dalla pena di morte. La pena di morte è una piaga che, in tutto il mondo, miete migliaia di vittime ogni anno. Molte nazioni si stanno accorgendo che questa inutile barbarie, che aggiunge solo violenza a violenza, è deleteria per l’avanzamento della civiltà.

L’Unione Europea ha finalmente ratificato ufficialmente l’abolizione della Pena Capitale come requisito indispensabile per gli aspiranti membri. La “civilissima” Europa, in questo senso, fa da faro luminoso per le altre nazioni del mondo.

Arianna si occupa dei detenuti rinchiusi nel Braccio della Morte da molti anni, ben da prima di fondare, nel 1997, l’associazione COALIT (Coalizione italiana contro la Pena di Morte), senza scopo di lucro e retta completamente da volontari che si autofinanziano per ogni iniziativa che decidono di intraprendere.

COALIT si oppone incondizionatamente alla pena di morte, che va ritenuta una vergogna dell’umanità, come lo sono già la schiavitù e i genocidi, e collabora con molte associazioni abolizioniste nel mondo, ivi comprese le associazioni di famigliari delle vittime che sono contrari alla vendetta di Stato.

Nel 2000 Arianna ha organizzato un viaggio in Texas, toccando le quattro principali città di quello Stato, e tenendo conferenze ovunque per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo scottante tema. La delegazione italiana ha incontrato 800 studenti delle varie università americane, ha incontrato i Consoli di diversi paesi europei, ha parlato con tutte le redazioni dei Giornali texani, è intervenuta in molte trasmissioni televisive e radiofoniche locali e nazionali e ha mosso così tanto interesse e stupore tra i vari ascoltatori e partecipanti da potere arrivare a consegnare un documento COALIT nelle stesse mani dell’allora Governatore del Texas, George W. Bush.

Questo per dare una piccola idea dell’enorme movimento creato negli Stati Uniti da questa piccola, intrepida e coraggiosissima romagnola.

L’attività che però ripaga Arianna di tutte queste fatiche sia fisiche che economiche, è il fatto di poter conoscere personalmente tanti detenuti e intrattenere con loro una fitta corrispondenza.

Di queste lettere bellissime e commoventi è pieno il suo appartamento ed ogni scaffale libero della sua casa.

Ogni detenuto è un caso umano particolare, una persona da consolare e da confortare nei momenti bui e da sostenere nel momento più triste della sua esistenza: quello dell’esecuzione.

Arianna ha partecipato di persona a molte esecuzioni, ma l’efferatezza di quei momenti l’ha segnata profondamente. Ogni volta è come se un amico, un fratello venisse portato a morte e lo strazio è indicibile.

Inutile che i magistrati si affannino a dire che le esecuzioni sono “indolori”, con i più moderni sistemi, come l’iniezione letale o la sedia elettrica.  Questo non è vero e ben lo sa Arianna e tutti volontari della Coalit che hanno visto le facce gonfie e tumefatte dei condannati tremare per pochi, terribili, attimi, prima di fermarsi per sempre.

Questo scempio non deve più avvenire.

Eppure ogni volta, per migliaia di volte, questo strazio avviene in tutto il mondo: nel 2005 si sono compiute 5.494 esecuzioni, di cui la maggioranza in Asia (Cina in testa), ma non si possono avere dati certi, visto la continua negazione dei fatti portata avanti dai governi di quei popoli.

Dati affidabili ci vengono, invece, dagli USA, unica democrazia occidentale a praticare ancora la Pena Capitale.

E’ proprio negli Stati Uniti, quindi, che si concentrano maggiormente gli sforzi di Arianna e di tutti i suoi volontari. I viaggi da e per gli Stati Uniti che queste persone compiono con discreta frequenza sono tutti pagati di tasca propria e questo testimonia quanta sincerità e bellezza ci sia in queste persone.

Uno dei casi più eclatanti che Arianna Ballotta ha seguito di persona è stato quello di Richard W. Jones, condannato a morte a 26 anni per un delitto che probabilmente non aveva commesso e comunque giustiziato nell’agosto del 2000, dopo aver scontato tanti anni di ingiusta detenzione nel durissimo carcere di Huntsville, Texas.

Questo caso è diventato uno dei grandi avvenimenti  nella vita di Arianna, che ha voluto con tutte le sue forze trovare una persona in grado di mettere nero su bianco la storia di Richard. Dal racconto e dalle meravigliose lettere scritte da Richard prima di morire ne è nato un  libro intitolato “  Texas Death Row Hotel”, dal modo drammaticamente ironico con cui lo stesso Richard definiva il Braccio della Morte, appunto come un “Hotel di Lusso”, già alla seconda edizione, tanto l’argomento ha appassionato il pubblico.

Richard era una persona speciale, che ha perdonato i suoi carcerieri e i suoi accusatori prima di morire. Le sue ultime parole sono state per Arianna, Biagio e tutti gli amici italiani e con i loro visi negli occhi, si è addormentato per sempre.

Il romanzo tratto dalla sua storia  è piaciuto talmente che una Compagnia Teatrale partenopea ha deciso di trarne una pièce teatrale, che ha avuto un grande successo di pubblico.

Nessuno ha percepito  pagamenti di sorta per il lavoro svolto, ma ogni provento derivante dalla vendita del libro va a finire nella cassa comune della Coalit per promuovere nuove iniziative.

Una delle ultime iniziative riguarda un altro detenuto americano,  che si chiama Howard Guidry. Howard è un giovane uomo allegro e sempre sorridente, che ha fiducia nella vita e nella giustizia, nonostante sia stato incarcerato quando era appena maggiorenne e sia stato “ingannato” più di una volta dalla terribile “macchina” della giustizia americana.

La sua storia è emblematica: arrestato appena diciottenne per un delitto del quale lui  non sapeva nulla, fu talmente spaventato da ciò che dicevano i vari poliziotti, che cedette alle minacce, senza riuscire prima a parlare con un avvocato difensore.

Il piccolo, ignaro Howard firmò una “ confessione spontanea” sotto le pressioni dei poliziotti che lo avevano  arrestato,  che continuavano a dirgli che sarebbe stato scarcerato “presto” se avesse confessato spontaneamente. Nonostante nessuna vera prova fosse poi stata realmente trovata a suo carico, questa stessa “confessione” lo spedì di filato, dopo un processo sommario, nel Braccio della Morte, dove langue da oltre 10 anni.

Gli sforzi della Coalit per fare riesaminare il caso hanno avuto esito positivo: il 19 di febbraio di quest’anno è previsto un nuovo processo, avvenimento  davvero inusuale per la procedura americana. In questi giorni si stanno cercando dei nuovi giurati che andranno a formare la Commisione giudicatrice, che avrà l’ultima parola per decidere della sua vita o della sua morte. La Coalit ha cercato disperatamente  di trovare i soldi sufficienti per assicurargli una difesa privata, ma purtroppo non sono stati reperiti i fondi. Howard si dovrà accontentare di un difensore di ufficio, ma questa volta sarà scelto tra i migliori disponibili.

Howard è di colore, come la maggioranza dei detenuti USA. Nelle carceri  più che in ogni altro luogo, il razzismo è vivo negli Stati Uniti. Riuscirà Howard a cambiare il corso degli eventi e a dimostrare che esiste una speranza di giustizia?

Chiunque può almeno pregare per questo.

ALEX

di Francesco M. T. Tarantino *

                                     

Fu prima la tua voce ad invadere l’onde

Accorciare distanze percorsi e spazi lontani

Con messaggi d’altrove che l’aria diffonde

Come segnali di fumo dai villaggi indiani

Parlavi di tutto di momenti e speranze

Di angeli biondi e di impegno sociale

Con canzoni diverse con musiche e danze

Ti ostinavi a parlare di quello che vale

Davi spazio a chi aveva qualcosa da dire

A me ai miei amici agli ultimi nati

In un gioco di confronti per cercar di capire

I senza-terra gli oppressi e gli emarginati

Era il tuo mondo la tua radio indipendente

Immaginata e sognata nelle nostre illusioni

Era l’esperimento di una forza trasmittente

Senza premi desolanti di insulse televisioni

Angelo buono che con i tuoi soli vent’anni

Sei andato via col tuo simpatico sorriso

Non era per te questo mondo di affanni

Qualcuno ti ha voluto nel suo paradiso

Ed ora raggiungi con linguaggio diverso

Il silenzio dei cuori che non san camminare

E raccogli i lamenti di un mondo sommerso

Che sulle tue onde vorrebbe ancora volare

Ciao FOX che vivi fra le stelle ed il cielo

Trasfondici lo spirito delle tue energie

Con i ritmi ed i suoni di un mondo parallelo

E in inverno perdona le nostre nostalgie

* Francesco M. T. Tarantino ha di recente pubblicato una raccolta di poesie dal titolo “Cose Mie”, MEF - L’Autore Libri Firenze.


RAVIOLE A S. GIUSEPPE

di Antonio Penzo

La Quaresima è un periodo lungo di privazione alimentare, che seppure legata alle celebrazione cristiane, si sposa perfettamente con la stagione. L’arrivo dell’inverno è stato salutato con gioia e con la festa del maiale, la nascita di Gesù Cristo Redentore, il Capodanno, l’Epifania e il carnevale: ora la natura silenziosamente si sta approntando alla gran stagione della fioritura e dei frutti. Tutto sembra fermo, se non fosse che, ogni tanto, qualche fiorellino ci avverte che qualcosa sta succedendo. Anche l’uomo avverte ciò e nonostante il periodo penitenziale, con gioia festeggia l’arrivo del giorno dedicato a colui che ha dedicato la sua vita al Redentore, San Giuseppe, il falegname. La festa è caratterizzata da un dolce tipico: la raviola.

Si preparano un setaccio, un coltello grosso, un tagliere o spianatoia per impastare, un cucchiaio ed una forchetta, mezz’etto di farina, povera di glutine, due etti di zucchero ed altrettanti di burro conservato al freddo, due uova, un pizzico di sale ed una scorza grattugiata di limone. A parte il mattarello e un bicchiere dal bordo sottile, avente diametro di circa cm 12.

Setacciata la farina, fare la fontana, con il coltello si taglia piccoli pezzi il burro freddo, si rompono le uova e rapidamente si impasta il tutto aiutandosi con la forchetta ed il cucchiaio, fino ad amalgamare il tutto. Se durante la lavorazione, la pasta tende a sbriciolarsi, si aggiunga un po’ di acqua fredda o di albume. Poi si lascia riposare per un po’ di tempo, onde permettere al grasso di risolidificarsi ed alla farina di perdere la sua elasticità.

Si stende la pasta con il mattarello fino a raggiungere uno spessore uniforme di circa cm 0,3.o 0,4 Con il bicchiere si taglia la pasta a disco, riutilizzando i ritagli, dopo averli amalgamati e stesi di nuovo.

Su una metà del disco di pasta, si pone della mostarda bolognese, si piega facendo aderire le labbra aiutandosi con le dita e si dispone le raviole su di una lastra leggermente imburrata e infarinata (essere leggerissimi perché con la cottura tenderebbero a bruciare dando un cattivo sapore di retrogusto alla raviola; è meglio utilizzare carta da forno).

Si spennella la superficie delle mezzelune con un rosso d’uovo, si spolvera di zucchero semolato e si inforna a 180° per circa 10 minuti. La raviola è pronta quando il bordo inizia a divenire rosa.

IL CONVITO DI SAN GIUSEPPE

di Nicola Perrelli

Devozione e folclore, con la gastronomia tradizionale, rappresentano la più genuina e radicata espressione della popolazione di Mormanno.

Il paese    è  infatti tenacemente attaccato a consuetudini le cui origini si perdono nel tempo. La sua gente  ancora oggi conserva usi, costumi e feste altrove ormai caduti in dimenticanza sotto l’incalzare del progresso socioeconomico. Le feste mormannesi sono numerose, una miriade di appuntamenti che vanno ben oltre le ricorrenze principali di Pasqua, Ferragosto e Natale. Sicuramente da segnalare  la festa dedicata a San Giuseppe.  Il Santo consegnato alla storia ed ai suoi devoti come Nume tutelare della famiglia, il Vecchio che da conforto e protezione, il patriarca per eccellenza . Protettore dei falegnami e ancor  di più dei poveri e dei derelitti. Forse perché i più deboli hanno diritto al Santo più  autorevole. A caratterizzare la ricorrenza festiva di San Giuseppe  è “u cummito” il convito o banchetto che dir si voglia, la cui origine va ricercata senz’altro nelle tradizioni  della civiltà contadina. Allora i nobili e i proprietari terrieri, spesso per sciogliere qualche “ex-voto”, per propiziarsi un raccolto abbondante e per la sicurezza della famiglia e della casa preparavano una tavolata, detta u cummito, alla quale venivano chiamati a partecipare tutti i poveri e gli indigenti del paese. E poiché la stragrande maggioranza della gente era povera e bisognosa accorrevano numerosi. La festa era quindi attesa da tanti,  non solo per riempirsi la pancia ma anche  per l’illusoria speranza di poter almeno per un giorno accorciare le distanze tra padroni e coloni , tra signori e pezzenti. E u cummito a tanto assolveva. Liberava per un giorno  dalla fame e  alleviava  per un po’ di tempo  anche lo spirito, se è vero come è vero che cibi e rituali da sempre hanno una fortissima valenza simbolica in termini di valori e di relazioni sociali.

Per gli invitati la famiglia che organizzava u cummito imbandiva una grande  tavola e preparava un abbondante  pranzo a base fagioli, tagliolini con ceci e baccalà fritto. Ultimato il pranzo, gli ospiti sazi e soddisfatti, tornavano velocemente alle proprie occupazioni lavorative. Perché , è bene ricordarlo, allora il giorno della festa si differenziava dagli altri giorni ordinari non per il maggior tempo dedicato al riposo e alla cura di se stessi, ma per la qualità e la quantità delle portate che arrivavano in tavola. Era festa, insomma,  perché almeno per un giorno non si soffriva, non si pativa la fame.

Altri tempi, oggi la possibilità di andare a rimpinzarsi a lu cummito ce la offre il “Centro anziani di Mormanno” che ha preso il testimone dal locale Liceo scientifico. La scuola  che, grazie alla caparbietà di alcuni suoi professori e all’impegno profuso dagli alunni, anni fa organizzò nel suo stesso edificio  un cummito  che fece la gioia di tutti i mormannesi. Al Liceo di Mormanno va quindi riconosciuto tutto il merito  per aver rilanciato alla grande nel paese un’usanza da troppo tempo inspiegabilmente tralasciata.

Pertanto, da qualche anno a questa parte, nei giorni precedenti il 19 marzo,  il vicolo che porta al Centro anziani è trafficato. L’andirivieni di persone, anziane per lo più, che  lentamente, perché appesantite dai cesti e dalle cassettine colmi di farina, uova, ceci, fagioli, bottiglie d’olio e baccalà,  vanno o tornano dalla sede, da vita a tutto il rione.  Fervono insomma i preparativi. In cucina le donne sono all’opera. Le sfoglie  ricche di uova e di farina,  elastiche e sottilissime, sono ormai pronte per essere trasformate, dalle massaie più abili, in lagani, quei tagliolini larghi, si fa per dire, 2 o 3 millimetri,  simbolo stesso della festa: si va al cummito per mangiare lagani cu ciciari. E se in cucina  lavorano  nelle stanze accanto non dormono. Qui le addette, a tu per tu con il caldo dei fornelli, cuociono a fuoco lento i ceci e i fagioli e preparano con perizia la pastella per friggere in grandi tegami chili e chili di ottimo baccalà.

Il  momento culminante della giornata dedicata a San Giuseppe è il pranzo che inizia dopo che il sacerdote ha benedetto i cibi. Nei due grandi saloni a pianterreno dove sono state allestite le tavolate,  agli invitati viene quindi offerto prima lo stufato di fagioli , poi viene servito il piatto forte, i tagliolini con ceci, provenienti da un enorme pentolone sbuffante nuvole di vapore. E per finire una bella porzione di baccalà indorato. Il tutto innaffiato dal vinello paesano che i “devoti” non scordano mai di portare.

U cummito è dunque la celebrazione del sacro sentimento dell’ospitalità e dell’amore verso il prossimo. Ma  senza nulla togliere alla straordinaria carica simbolica del rito, i devoti restano, dopotutto, in attesa di una zeppola. 

QUI E LA’

di Mirella Santamato

QUI è l’Italia, paese in cui vivo e il LA’ è l’Afganistan, dove molti dei nostri stanno vivendo esperienze particolari, a volte pericolose, a volte commoventi.

Guardando le foto degli occhi di quei bambini che tendono la mano per ricever un pezzo di cioccolata o un pezzo di pane, mi sono accorta che l’unica differenza tra noi e loro consiste solo in un velo di inganni.

Apparentemente gli occhi dei nostri bambini, ben nutriti a merendine e Plasmon, sembrano non riflettere quella fame atavica che è stampata in modo evidente sugli smunti faccini di quei lontani fratelli, ma non è vero.

La fame è solo “velata”, ovvero nascosta e resa INVISIBILE da una coltre di ipocrisia e di falsità.

Si tratta in realtà di una fame diversa.

Quella Afgana, come quella di ogni paese povero, è una fame reale, vera, tangibile, violenta e crudele. Lo stomaco fa male e brontola per mancanza di cibo.

Quella dei paesi cosiddetti “ricchi” è una fame altrattanto violenta e crudele, ma riguarda l’interno delle persone, non i corpi, ma l’anima.

Quando l’anima fa male non ci sono rimedi. Neanche si ipotizza che possa esistere un male  del genere.

I nostri bamabini, che hanno FAME di anima,  non trovano nessun soldato gentile che allunghi la mano con un pezzo di verità in mano.

L’anima si nutre di verità e noi ne siamo così privi da non potere sfamare né noi stessi né i nostri bambini.

Questa Fame di verità è stampata negli occhi dei nostri figli in modo altrettano crudele di quella Afgana, ma nessuno può vederla e quindi nessuno può intervenire per curarla.

Il velo degli inganni è talmente spesso che raramente si passa attraverso e si riesce a nutrire questo tipo di affamati.

Chi avrà il coraggio di spedire delle truppe di angeli che allunghino un pezzo di pane anche a noi?

LE ERBETTE DI PRIMAVERA

di Antonio Penzo

Con il disgelo e l’arrivo della primavera, si vedono i prati cambiare colore, dal marrone e grigio scuro tendono a divenire verdi. E’ un germogliare di tante erbette e di foglioline gustose: è il risveglio della natura – che si evince anche dalla guance delle ragazze – che si celebra con la gran festa del plenilunio, la Pasqua di Resurrezione.

Era tradizione che le donne ed i bambini percorressero, campi, viottoli, boschi e siepi alla raccolta di tenere foglioline e virgulti, da utilizzare per la preparazione di frittate d’uova profumate con i teneri virgulti di asparagi e luppolo e per sapide insalate composte da acetosella, borraggine, cicoria, melissa o limoncina, gallinella, lattughina, tarassaco, santoreggia, ruchetta, pimpinella, nepitella e radicchi rossi e verdi.

L’insalata veniva condita con un poco di grasso derivante dallo scioglimento di dadini di pancetta di maiale.

Insalate che ripulivano la bocca, dopo avere mangiato una grassa braciola di maiale, conservata nello strutto e cotta ben bene al fuoco.


LA SETTIMANA SANTA

di Luigi Paternostro

Quando arrivava la Settimana Santa si viveva un periodo di intensa attività il cui punto di riferimento era essenzialmente la chiesa.

Non so quanto noi ragazzi fossimo consapevoli della spiritualità degli avvenimenti anche se, ricordo, facevamo scrupolosamente la nota dei peccati da riferire al confessore per la comunione del Giovedì Santo.

“Peccati mai più, peccati mai più, se compi peccati uccidi Gesù” si cantava ripetendo un motivo che il missionario Padre Samuele ci aveva insegnato durante la Quaresima.

Come schiere di Brigades Conrado Benites, così avrebbe fatto più tardi Fidel Castro inviando in tutta Cuba squadre di persone preposte ad insegnare, partivamo dalla chiesa in manipoli  diretti ai vari rioni del paese per vendere rosari, santini e medaglie in una distribuzione capillare e porta a porta. Facevo parte di una squadra composta da Luigi Leone, Tommaso Donnici, Franco Sergio, Giovanni Fortunato e altri.

In ricordo di tale evangelizzazione rimane un cippo sormontato da una croce sul viale che dalla statale sale verso il monastero, proprio di fronte la casa di Lullu.

La chiesa quindi, nella sua fisicità, era il posto che ci attraeva per quel che vi avveniva.

Aspettavamo con ansia il Giovedì Santo perché  si annunciava come  una giornata memoranda.

Al mattino la chiesa era spoglia.

Gli altari erano stati coperti da panni che oscuravano statue e quadri. Coperti erano pure i Crocifissi.

Il paliotto dell’altare maggiore era nascosto da un quadro che rappresentava Cristo piagato e morto.

Nel transetto destro addobbato con panni e drappeggi di color rosso e blu scuro, era stato allestito il Sepolcro ove facevano bella mostra di sé, ornate da fiori di carta, decine e decine di ceste di quel grano germogliato all’oscuro durante tutta la quaresima.

Il pomeriggio cominciava la preparazione dell’ambiente.

Ai ragazzi veniva affidato il compito di portare in chiesa la sedia. “Mettila vicina a quella di comare Filomena e non lasciarla dietro la colonna come è il tuo solito, nessuno ti sgrida, nemmeno ‘u mutarèddru!

Le sedie.

In chiesa ce n’erano poche e tutte mal ridotte, piene di pulci e quasi spagliate. Quelle poche stoppie che vi rimanevano, pendevano quasi a spazzolare il pavimento di calce cosparso di buche e dislivelli. Erano le sedie con le culère, simili a quelle appendici che caratterizzavano l’abbigliamento maschile costituite da lembi delle camicie trasbordanti sul pantalone nella sua parte posteriore dette culère perché  la stoffa era a contatto con il culo.

Una volta sistemate le sedie tra cui vi erano pure quelle in legno fatte ad inginocchiatoio, si aspettava l’inizio della Passione. 

Nel transetto di sinistra, ai piedi della lapide che ricorda la vita e l’opera del sac. don Gaetano Rossi, veniva collocato un tronetto e tra l’altare dell’Assunta e le colonne che delimitano il presbiterio eran poste le sedie per gli Apostoli.

Questa parte era sostenuta generalmente da poveri.

Erano vestiti con tuniche bianche modellate su corpi tormentati, rette da cordoni colorati terminanti con fiocchi.

In mezzo a tale schiera si collocava l’Arciprete che procedeva alla lavanda dei piedi in un commovente ricordo dell’umiltà e dell’umanità di Cristo. Alla fine, in ricordo dell’Ultima Cena, si  benediceva e distribuiva ai dodici il pane rappresentato dalle cuzzòle fatte appositamente per loro.

Dopo cominciava il rito delle trènari.

Nel coro vi erano i sacerdoti.

Nei pressi dell’altare maggiore  era situato una candelabro a sette braccia con le candele accese.

Sui gradini dell’altare dell’ Assunta una schiera di ragazzi armata da zicàli [1] e tòcca tòcca [2] .

I primi, salmodiando, eseguivano un rituale di preghiere in sette tempi ognuno dei quali coincideva con lo spegnimento di una candela. 

I ragazzi erano, figurativamente, il popolo che assisteva alla Passione.

Dai loro strumenti che dovevano suonare alla fine del rito ogni  tanto si sentiva qualche schiocco.

 Queste trasgressioni venivano notate e punite con un colpo di canna sulla testa da un guardiano, ricordo tale Sciddrapèrta, che guardava il silenzio e, burbero benefico, sottecchi se la rideva.

 Appena veniva spenta l’ultima candela scoppiava la bagarre.

Il rumoreggiare della massa era ben rappresentato non solo dall’agitare di tali congegni  quanto dal rumore che proveniva e dalle pedane di legno dei quattro altari della navata sinistra calpestate con forza, e dal fracasso che le scarpe chiodate facevano lungo l’accidentato percorso attraverso il

quale correva  precipitosamente la schiera vociante spinta all’esterno, nuova cacciata dal tempio, dalla  vigile sentinella e dai sacrestani.

Una volta guadagnato il sacrato i ragazzi si disponevano sui suoi gradini continuando a tumultuare e gareggiando sulla potenza ed efficacia degli strumenti dal suono martellante e gracidante.

Dopo cena si ritornava per la Passione. 

La chiesa era gremita. Gremite le navate laterali e i due transetti.  

In sacrestia mentre si vestivano i giudei, (chissà perché così chiamati!),  sparuti resti di quel popolo della Congregazione della Buona Morte che tra il 1700  il 1800, insieme a quella del Sacramento e del Purgatorio avevano avuto un peso non irrilevante nella riedificazione della chiesa [3] , altri compaesani, rappresentanti di procedevano all’incanto della statua della Madonna, cioè gareggiavano al migliore offerente, per avere il privilegio di portare in processione la Madre ad accogliere il Figlio morto.

Sul pulpito era già salito il predicatore. Sull’organo era pronto il suonatore e il corista. Ad essi spettava l’inizio della cerimonia.

Le strofi del Salve o Croce suonate in tonalità in minore e sostenute da toccanti parole, creavano un’atmosfera di commozione irrefrenabile. All’assolo del primo cantore faceva seguito il coro del popolo. Si avvertiva l’ incombere di una tragedia che si sarebbe tramutata, a differenza di quella classica ove le colpe erano punite dal Fato con dure espiazioni, con la resurrezione di Dio fatto uomo,  con il  suo trionfo e  con la salvezza del genere umano.

La  Passione aveva  più parti. Il processo, la condanna, ed infine la morte in croce. Appena Cristo spirava, dalla sacrestia usciva la processione. I fratelli si flagellavano con rumorose catene e la Madonna vestita di nero, portata a spalla dai membri dell’associazione che si era aggiudicata tale privilegio, dopo aver fatto mezzo giro del tempio si presentava sotto il pulpito. L’oratore le poneva, tra la commozione generale, il Crocifisso sulle braccia distese. Organo e popolo intona vano anche uno  stabat.   

“Stava Maria Dolente senza respiro e voce, mentre pendeva in croce del mondo il Salvator”. Seguivano altre strofe del Salve o Croce che accompagnavano la processione al Sepolcro ove Maria veniva posta a vegliare il Figlio. Ormai era tardi. La gente ritornava a casa. Molti devoti però restavano in chiesa per tutta la nottata per fare compagnia alla Vergine recitando preghiere e rosari.

Quest’anno mi sono veramente commosso, diceva Luigi…

A me è piaciuta la predica, specialmente quando….

Che voce Vurpareddra!... [4]   

Allo scalpiccio dei passi si accompagnava il chiarore della luna avviata all’ultimo quarto  che stendeva i suoi raggi sul selciato.

Il Venerdì Santo si visitava il Santo Sepolcro.

Era allestito nella navata destra nello spazio compreso tra la porta d’ingresso, non utilizzabile come accesso, e l’altare del Carmine.

Si assisteva pure alla mìssa strazzàta cioè ad una messa incompleta perchè non veniva distribuita la comunione.

I fedeli, compunti ed in fila, baciavano Cristo morto.

Il Sabato Santo il programma era diverso.

In mattinata si benedicevano il  fuoco e l’acqua.

Sul sacrato, radunata legna da ardere mista a tavole vecchie recuperate da depositi della stessa chiesa, si accendeva un bel falò.

I ragazzi aspettavano il placar delle fiamme per recuperare un tizzo che prontamente portavano a casa facendolo riardere con la legna domestica. Si sentivano tutti compagni di Prometeo!

Poco dopo si benediceva l’acqua. Ne avevano una bottiglietta piena e circondavano il fonte battesimale, dal quale si officiava il rito.

Affinché la benedizione potesse entrare proprio dentro, le stappavano.

E’ qui che dalle tasche comparivano ceci, fagioli e sassolini prontamente infilati nella boccetta del vicino, soprattutto se distratto o di bassa statura.  I più alti alzavano il braccio ad evitare che l’acqua contaminata da quel legume non si fosse benedetta. 

La ressa era incredibile e gioiosa.

Dopo si celebrava la Messa.

Sull’altare maggiore pendeva un drappo.

Al momento del Gloria, in un rapido movimento di allentamento dei capi che lo sostenevano, precipitosamente cadeva. Appariva, come per incanto, la statua di Gesù Risorto che teneva con la mano sinistra un’asta su cui sventolava una bandiera bianca con in mezzo una croce rossa.

L’organo riprendeva a suonare con timbri più alti e squillavano pure i campanelli.

Dall’altar si mosse un grido: godi, o Donna alma del Cielo; godi; il Dio cui fosti nido a vestirsi il nostro velo, è risorto, come disse: per noi prega: Egli prescrisse, che sia legge il tuo pregar. O fratelli il santo rito sol di gaudio oggi ragiona; oggi è giorno di convito; oggi esulta ogni persona. Sia frugal del ricco il pasto; ogni mensa abbia i suoi doni e il tesor negato al fasto di superbe libagioni, scorra amico all’umil tetto, faccia il desco poveretto più ridente oggi apparir”. Così cantava Don Alessandro, socio onorario dell’Accademia Filomatica di Mormanno. (Manzoni, Inni Sacri, La Resurrezione, vv.78 e segg.)

All’esterno le campane sbaràvano ‘a Gloria.

Auguri, auguri, buona Pasqua! Anche a te, caro. Un abbraccio!

A quei rintocchi si correva subito a casa ove in bella mostra  erano le cuzzòle e i pizzàtuli cu l’òva ‘mmucca [5] e  staccandone un tozzo e accompagnandolo con po’ di salsiccia si metteva in pratica  quel detto che così recitava: Gloria sbarànnu, sauzìzza mangiànnu.!

Zà Coraìsima, scheletrita e claudicante, si allontanava bofonchiando.

IL DOLCE PANE DI PASQUA

di Nicola Perrelli

I vicoli sono nuovamente  animati, la piazza è affollata da gente tranquilla e sorridente, le finestre e i balconi sono  spalancati per accogliere lo zefiro e il primo tiepido sole di primavera, le  tovaglie di lino lavorate a mano, quelle delle grandi occasioni, sono stese all’ aperto a ventilare. Il grano seminato nei piccoli contenitori pieni di terreno  è ormai germogliato. Nell’aria, un denso profumo di cuzzole... E’ Pasqua.

Ancora oggi, come un tempo, a Mormanno il periodo pasquale si inaugura con la preparazione delle cuzzole. I pani votivi  che gli antichi greci chiamavano “coulloura” offerti nei riti pagani in cambio di favori e benevolenze e che il cristianesimo, stravolgendo queste antiche usanze,  ha introdotto nei rituali cattolici legati al culto della Quaresima, il periodo di astinenza e penitenza che precede la festività della Santa Pasqua. Il giorno in cui si ritorna a mangiare ogni ben di dio che la cucina tradizionale offre. E a tavola non può certo mancare  la cuzzola, il pane dolce  che a Mormanno   viene considerato il simbolo stesso della Pasqua. Del resto, questo prodotto da generazioni  accompagna le massaie mormannesi nella settimana  pasquale, richiamando non solo l’antica ritualità della Resurrezione, ma  anche la cerimonia della sua preparazione. Sono quindi le donne le vere protagoniste. A loro e solo a loro spetta la preparazione di questo pane profumatissimo. Povero per materie prime ma ricco di gusto e di valore simbolico.  La ricerca e l’approntamento  degli ingredienti, la lavorazione e la fase della lievitazione, la preparazione del forno a legna e la sapiente dosatura del calore sono  momenti e  emozioni che riaffermano tutto il carattere femminile del focolare domestico  e riavvicinano la famiglia ad uno stile di vita che si va perdendo. Nelle cucine, di quelle magari con i muri di pietra a vista, con il fuoco che crepita nel camino e l’antico forno riacceso forse a distanza di un anno, tutte, tra giovani e meno giovani,  sono dedite alla preparazione della gustosa ricetta con i prodotti tipici del  paese. Dal grano portato a macinare al mulino della vicina Rotonda, alla cerca delle uova fresche nei cortili delle campagne della Carrosa e di Procitta. Il risultato :  cuzzole che si riconoscono ad occhi chiusi per la fragranza degli ingredienti e per  gli aromi che si sprigionano durante e dopo la cottura.  E quando si aprono gli occhi, anche  la loro bellezza conquista.  Specialità insomma che si fanno apprezzare sia per il soave sapore che per le forme ed i colori. Semplici e raffinate, ricche di uova nostrane   e di aromi mediterranei, di un bel giallo oro e con quel leggero sentore di agrumi, le cuzzole, come scrigni, a Pasqua fanno bella mostra in tutte le case dei mormannesi.

Il Sabato Santo, quando suonano le campane per annunziare la Resurrezione, le donne, quasi in sfilata, si recano in chiesa per la benedizione delle cuzzole, sistemate per il trasporto in cesti stracolmi  dai quali però  affiorano   rilasciando una  scia di inebriante fragranza  per tutto il paese. E solo ora, benedette, si scambiano, quale bene augurale, tra famiglie e amici. Mentre ai più piccini, zie,comari e donne del vicinato, donano  il  pizzatulo, la variante a forma di treccia, anch’esso adornato dell’uovo, simbolo della vita.   

Una cosa è certa, la Pasqua non è solo il giorno che invita tutti alla pace, alla serenità e alla contentezza, è anche il giorno che invita tutti quanti alla tavola per degustare  il ricco pranzo, dall’agnello alla cuzzola con la soppressata. Non per nulla a Mormanno si dice: “si cuntentu cuma ‘na Pasca”.

L’ OMBRA DELLA NOTTE

di Marilena Rodica Chiretu

La mattina sfiora dolcemente

il velluto caldo della pelle sonnacchiosa,

umida come un sonno innamorato,

fremono le dita chiamando un ricordo,

il buio si spegne nel sogno d’ amore,

lo sguardo sveglia  l’ alba degli occhi,

il sole aspetta soleggiare la mattina.

Intanto, mi riscaldo all’ ombra della notte

mentre si alza leggermente il sipario

della nebbia che piange nel fremito del corpo,

come un filo d’ erba sotto il peso della rugiada.

Io sono sempre qui, al riparo  della tua ombra,

stanca come una notte,

fresca come un’ aurora,

ardente come la pelle,

sognatrice come il sole,

soleggiata come una speranza.

Il tempo non invecchia,

passa soltanto sul corpo della notte,

sfiorando la guancia della mattina,

come un sogno che trafigge

l’ ombra della notte

2 marzo 2007

Umbra noptii

Dimineata atinge bland

catifeaua calda a pielii somnoroase,

umeda ca somnul indragostit,

freamata degetele chemand o amintire,

intunericul se stinge in visul de iubire,

privirea trezeste dimineata ochilor,

soarele asteapta sa insoreasca zorile.

Ma incalzesc timid, la umbra noptii,

in timp ce se ridica cortina cetei

ce plange in freamatul corpului,

ca un fir de iarba

sub greutatea stropilor de roua.

Eu sunt tot aici,

la adapostul umbrei tale,

obosita ca o noapte,

proaspata ca  zorile,

arzatoare ca pielea,

visatoare ca soarele,

insorita ca o speranta.

Timpul nu imbatraneste,

trece doar peste corpul noptii,

atingand usor obrazul diminetii,

ca un vis ce stapunge

umbra noptii.  

2 martie 2007


IO SONO DIVERSA

di Nicoletta Confalone

Viste le prestazioni scolastiche e universitarie, i miei si sono lasciati andare a sogni di un futuro di normalità medio-borghese per me...una brava professoressa di matematica, in forma aerobica, taillerino come seconda pelle, scarpetta col tacco, sposata ad avvocato, 2-3 adorabili marmocchietti a carico, residenza possibilemente non oltre bologna grazie ai risparmi di gioventù, con casetta estiva nella ridente cittadina turistico-popolare della nostra infanzia, fondo pensione garantito e una buona serie di comode idee e opinioni preconfezionate diligentemente assorbite dalla magica scatoletta televisiva.

Tutto ok nei sogni parentali.. niente da eccepire o da criticare....lo so che mi adorano...

Ma io sono diversa.. non so se per principio, per necessità, o per provocazione.. ma lo sono..

E così i miei poveri genitori si sono ritrovati con una pazza giramondo, mentalmente incerta e confusa, sempre insoddisfatta e alla ricerca di quelle esperienze ancora non fatte, innamorata del diverso, provocatoria per natura, fiera oppositrice del pacchetto-opinione-regalo e della standardizzazione del pensiero, sono un’estremista della libertà di parola originale, curiosa di scoprire che c’è al di là di tutti i confini, decisamente out of fashion, divora-spaghetti, con simil-fidanzatino africano, amante delle taglie extralarge e del look finto-casual-vero-confort, priva di corredo maritale + marmocchietti adorabili (neanche colorati ahimè), scarsissima in financial planning, senza fissa dimora ma con un sacco di cianfrusaglie raccolte per il mondo e distribuite per il mondo, tutte adorabilmente inutili e insopportabilmente pesanti da trasportare.. come anime in pena in attesa di sistemazione in casetta amorevole.. “sei l’unica persona che conosco che ha di tutto per riempire una casa senza nemmeno avere un’idea di dove prenderne una!”...saggezza parentale inconfutabile..ma impossibilità finanziaria e decisionale di venire a patti con l’anagrafe e decidere di piantare nuove radici....già...ma dove, in quale dei milioni di angoli di mondo adorabili dovrei o potrei metterle queste radici!!

Amo l’africa sub sahariana, mi sono sognata “angelo della pace” e dell’aiuto in africa per almeno 25 anni prima di potermi dare dei pizzicotti quando finalmente sono riuscita ad arrivare in questo magico, brutale e misterioso continente nella veste di cooperante idealista (quasi quasi ci credevo alla storiella dell’angelo della pace !!)...tutto il resto non mi serviva, mi dava impiccio...Ma anche l’africa è grande.. e metter su casa una decisione un po’ troppo definitiva, limitativa della libertà di poter continuare a ficcare il mio nasone in altre culture, in altre vite, in altre storie..

Sono ancora affascinata.. ho la testa piena di storie, leggende tradizioni, culture, lingue dai suoni buffi per le mie orecchie europee, contraddizioni, orrori, ingiustizie, amore, sorrisi...

E ce ne sono ancora tante che voglio ascoltare, vivere, imparare, odiare e amare. Voglio scoprire altri diversi, altri pazzi scappati come me da chi ha paura del diverso e si rifugia nella stabilità.. voglio poter ascoltare le opinioni di tutti e considerarle tutte possibili anche quando opposte.. voglio riuscire a distruggere tutte le barriere sociali che mi trovo intorno dall’infanzia e che spesso mi fanno sentire inadeguata, sbagliata, triste, sola..e lo voglio fare a forza di altre storie, di altri sorrisi, di altri pazzi..

Voglio sentirmi felice anche se non rientro in nessuna categoria accettabile, anche se non sono riuscita a costruirmi un futuro certo.. voglio essere contenta di avere un presente vivo, speciale, come quello che vivo ora.. in questo paesino che sembra un far west senza cavalli, senza asfalto, senza sicurezza, senza stabilità. In ogni caso dietro il confine ci sono altre storie, altri diversi.

Spesso mi chiedo che cosa faccia paura nel diverso... non lo so, ho tante possibili risposte nella mia testa, ma tutte mi risultano banali e certamente non abbastanza fondate da giustificare la rabbia e la paura che si ha spesso del diverso... a tal punto da spingere all’omologazione universale di comportamenti, abbigliamento, idee, opinioni ma anche incredibilmente bisogni e fobie.

Ogni volta che torno in Italia dopo qualche esperienza in paesi a volte nemmeno mai sentiti nominare, mi sento chiedere, com’é, come si mangia...raramente mi sento porre domande sulla diversità che ho scoperto, sulle differenze affascinanti di approccio alla vita.. e se prendo l’iniziativa di farlo, mi scontro spesso con inaffrontabili sbadigli e terrificante mancanza d’interesse...

Sono un’arrogante diversa, un’estremista della curiosità, una rompiballe saccente...perché in fondo degli sbadigli ho imparato a fregarmene...ho smesso di cercare comprensione...voglio solo continuare a riempirmi di diverso per me sola.. testardamente voglio continuare a essere una insopportabile e spaventevole diversa.

Mamma e papà, sorry...niente taillerino, niente scarpe col tacco, niente lauto conto in banca e posizione sociale di buon livello, niente casetta al mare, niente fisico da patita dell’aerobica, niente trucco e sedute in cliniche di bellezza...

Io preferisco continuare a emozionarmi con le storie della signora che produce cesti con foglie di banana, di amici maasai sui riti e le cerimonie di iniziazione, di bambini che giocano con camioncini costruiti con le lattine di coca cola e bastoncini di legno e che non conosceranno mai nella loro vita una play station,  di beneficiarie dei nostri progetti costrette a diventare soldato a 8 anni e spose a 10, di soldati talmente crudeli che a guardarli negli occhi non trovi niente di umano, di vecchietti adorabili e pazzi che vivono da 20 anni nel bush, ammalati e soli, ma che non riescono nemmeno a concepire un rientro in Italia, di Baraka, il bambino più adorabile, sveglio, sdentato, curioso e intelligente che ho conosciuto negli ultimi anni e che è guarito dalla malnutrizione, della suorina che assiste 80 bambini raccolti acconto a cadaveri durante la guerra e che in qualche modo riesce ad assisterli attraverso aiuti sporadici di qualche buon anima...di tanti e tanti ancora che non posso ricordare ma che hanno lasciato una traccia nella mia anima e di altri che la lasceranno.. altri diversi.

È STATO LUI

di Mirella Santamato

Una delle frasi che impariamo per prima da bambini è questa: “Io non sono stato, è stato lui!”, provvedendo in modo semplice ed efficace a scaricare le colpe delle nostre malefatte sul fratello, sulla sorella, sull’amico o su chiunque, in quel momento, avesse la malaugurata avventura di passare da quelle parti. Non importa contro chi si puntava il nostro tenero dito grassoccio, l’importante è che ci fosse qualche malcapitato contro cui puntarlo. In questo modo, fin dalla più tenera infanzia, abbiamo imparato a scaricare le nostre colpe sugli altri, dando origine ad un balletto di perversioni di cui la nostra tenera mente infantile era (ed è) totalmente ignara. L’umanità per secoli e millenni non ha fatto altro che questo: scaricare le colpe delle proprie malefatte sugli altri, per i motivi più svariati, come il colore della pelle, l’appartenenza a tribù avversarie, a religioni diverse o a sessi diversi. Un bambino non cerca la verità o la giustizia, perché non sa che cosa siano. Il bambino cerca solo di evitare la punizione e per questo è disposto a tutto, a giurare il falso, a modificare i fatti e le circostanze pur di attenuare le proprie colpe. Anzi vuole coprirle proprio, a tutti i costi.

Questo processo di rimozione è durato millenni e millenni, sedimentandosi nelle menti degli umani in un modo così radicale e granitico, da non essere più visibile al giorno d’oggi. La nostra mente paleolitica sembra non esistere più, coperta come è dalla nuova cultura liberale e lungimirante e non ci accorgiamo che essa è ancora attiva e perfettamente funzionante se non quando le circostanze della vita ci mettono, brutalmente, di fronte a qualcosa che non rientra nei nostri parametri razionali. Solo allora il bambino paleolitico si sveglia e punta il dito: non sentirsi colpevoli, questo è tutto. E allora si scatena la caccia all’untore, la pulizia etnica, la shoah e la guerra santa. L’uomo rozzo e infantile cercherà sempre colpevoli fuori da sé, mentre l’uomo nobile e maturo sa che l’errore è da ricercare dentro di sé, là dove può essere risanato. Le società sono fatte dagli uomini e quindi, essendoci pochi uomini evoluti, è vero che ci sono poche società evolute. Ci sono voluti migliaia e migliaia di anni per mettere in dubbio l’efficacia della pena di morte, per esempio. Quando nell’antichità si fondava una città, si scavavano i solchi della piazza principale e nel centro si poneva, in bella vista, la forca.

Le due cose andavano talmente insieme da sembrare una il proseguimento dell’altra e nessuno veniva sfiorato dal dubbio che le cose non dovessero andare così. La piazza con la forca era sempre antistante una chiesa. Le chiese cristiane e non, pur professando a parole, una lotta ad oltranza a favore di qualsiasi forma di vita, da quella non ancora nata (lotta contro l’aborto) a quella quasi spenta (lotta contro l’eutanasia), stranamente manifestano una latitanza sospetta nei confronti della soppressione della vita dei criminali. Molto spesso i cittadini comuni neanche capiscono che le tre cose, cioè aborto, eutanaisia e pena di morte dovrebbero appartenere ad una medesima scelta di posizione. In modo incongruo e spesso ambiguo, la pena di morte viene vista come “giusta”, pur colpendo sempre persone nel fiore degli anni e in piene facoltà mentali. Il fenomeno sarebbe inspiegabile se non si ricorresse a quella famosa “mente infantile paleolitica” di cui abbiamo parlato all’inizio.

Quella nostra sacca di pensiero non rielaborato e non illuminato dal salutare dubbio razionale, ci fa istintivamente scaricare le colpe sui presunti colpevoli mettendo in moto una perversa macchina di annientamento fisico delle persone. La scelta del “capro espiatorio”, ovvero del “colpevole ad oltranza” ci rende miopi e sordi alle richieste di vera giustizia sociale e politica che giungono da più parti del mondo e della nostra stessa società. Credo che sia venuto il momento di crescere come individui e come popolo, scegliendo di essere sempre a fianco della vita, in qualunque forma si mostri.

A TAVOLA CON CHEN CAO

Raffaele Miraglia

E’ ormai un classico trovare nei libri gialli la figura dell’investigatore buongustaio.

Persino il tenente Mario Conde cerca nell’austerità cubana di ritagliarsi qualche buon pasto grazie alla mamma di Carlos il Magro, quel suo amico che una pallottola in Angola ha inchiodato alla sedia a rotelle.

Non c’è, dunque, da stupirsi se nella Shanghai degli anni novanta l’ispettore Chen Cao sia un gourmet.

I gialli di Qiu Xiaolong – sono tre quelli finora editi da Marsilio – meritano di essere letti per vari motivi.

La nuova Cina e i cinesi nel dopo Mao, tra i quali si destreggia l’ispettore Chen Cao, la fanno da protagonisti. Le trame dei gialli sono abbastanza ben congegnate e costruiscono un continuo andare e venire dall’epoca di Mao a quella da Deng Xiaoping ai giorni nostri. L’ispettore non è solo un gourmet, ma anche un poeta, e questo consente ripetute citazioni dei classici di un’arte che fu importantissima per i cinesi (persino Mao scrisse poesie) e, soprattutto, permette a Qiu Xiaolong di spiegarci in maniera comprensibile l’essenza di un’arte altrimenti così estranea al nostro sentire.

E in mezzo a tutto questo c’è il cibo.

Il cibo cinese, ma non solo.

Ci sono i manicaretti che Peiqin, la moglie del poliziotto Yu, prepara nelle occasioni in cui l’ispettore Chen Cao viene invitato a casa. Casa, per la verità, è una parola grossa, ma non voglio togliervi il gusto di scoprire quale ancora oggi sia “La questione delle abitazioni” in Cina, per parafrasare Engels.

Peiqin deve fare i conti con una cucina non propriamente attrezzata, con il poco tempo a disposizione e con forti restrizioni nel budget di spesa.

Quando Chen Cao porta con sé l’ispettrice Catherine Rohn, del Marshal Service degli Stati Uniti, che vuole conoscere la vera Cina, Yu suggerisce alla moglie “Una normale cena cinese andrà benissimo ... Cosa ne dici di una cena di ravioli?”. Peiqin accetta il suggerimento: “Buona idea. E’ la stagione dei germogli di bambù. Facciamo ravioli con tre ripieni freschi: germogli di bambù, carne e gamberetti. Ne faccio alcuni fritti, altri al vapore, e servirò gli altri in una zuppa d’anatra con orecchie di albero nere.” Ovviamente in tavola non mancheranno “piatti di salsa al pepe rosso con aglio pelato”.

Peiqin lavora come contabile in un ristorante e così può portare a casa anche uno strano piatto, che stupirà l’ispettrice Rohn. Si tratta della “Testa di Budda”.”Era una zucca bianca intagliata con le sembianze di una testa di Budda, cotta a vapore su setacci di bambù, e coperta da una grande foglia di loto. Yu tagliò sapientemente un pezzo del “cranio” con un coltello di bambù, infilò le bacchette nel “cervello” e ne estrasse un passero fritto – dentro a una quaglia alla griglia – dentro a un piccione brasato.” Il segreto, spiegherà l’ispettore gourmet Chen Cao, sta nella cottura finale a vapore che permette sì di fondere i sapori di tutti i diversi uccelli, ma in modo tale che “in un solo boccone si possono gustare i tre i differenti sapori”. Ovviamente si pasteggia a the verde, ma c’è anche “il liquore di riso di Shaoxing”.

Al lettore italiano Testa di Budda sembrerà un piatto inverosimile, ma Qiu Xiaolong è un cinese che da molti anni vive negli States e al suo lettore americano questo piatto ricorda il Turducken, un tacchino (turkey) ripieno di un’anatra (duck) ripiena di un pollo (chicken).

Anche il lettore americano, però, converrà che la tipica colazione cinese ordinata da Chen Cao per l’investigatrice Rohn al Mercato Centrale è ben diversa dal pur abbondante breakfast a cui lui è abituato. Questa volta si mangiano “minipanini fritti ripieni di maiale tritato, ravioli trasparenti di gamberi, bastoncini di tofu fermentato, pappa di riso con uova millenarie, zucchine bianche sott’aceto, anatra salata, tofu di Guilin con bocconi di scalogno verde”.

E l’investigatrice Rohn apprezzerà il pranzo offertole poi al ristorante. Si beve del “the verde con pezzettini di erbe gialle e rosse” (quelle rosse sono “bacche di spina santa cinese”) e si mangia “zuppa di nidi di rondine con orecchie d’albero, ostriche fritte in pastella di uovo strapazzato, anatra ripiena di riso, datteri e semi di loto, pesce vivo al vapore con zenzero fresco, cipolle verdi e pepe secco, tartaruga dal guscio molle e chiocciole di fiume”.

Più ordinari, invece, i cibi annunciati dall’altoparlante del treno che porta il poliziotto Yu nel Fujian: nel vagone ristorante “Questa sera torta di riso fritto con maiale, ravioli ripieni di qicai, spaghetti con funghi. Serviamo anche birra e vino”. Yu, però, deve risparmiare e ha portato con sé una confezione di spaghetti istantanei e una testa di carpa affumicata.

E visto che stiamo viaggiando verso il Fujian, dobbiamo ricordare che la cucina cinese ha moltissime varianti regionali. Yu mangerà spaghetti con polpette di pesce, mentre Chen Cao nel ristorante che serve cibo del Fujian a Shanghai ordinerà “zuppa di ravioli yanpi”, un cibo evidentemente non ben conosciuto dagli altri cinesi. “A una parete c’era un cartello rosso che spiegava l’origine degli yanpi, i ravioli con l’involucro fatto di farina, uova e polpa di pesce. Chen ne ordinò una ciotola, che si dimostrò squisita, benché avesse uno strano odore. Diventò accettabile dopo aver aggiunto al brodo aceto e cipollotto tritato. Si domandò a quale altro cliente che non fosse del Fujian sarebbe venuto in mente di farlo.”

Quando si troverà a Suzhou, Chen Cao ordinerà “ravioli alla Suzhou, gamberetti sgusciati con foglie di the, zuppa di sangue di pollo e di anatra” e suggerirà all’autista Zhou di andare al mercato, acquistare e portare a Shanghai “gamberetti vivi di fiume e brasato di tofu”, specialità alimentari della cittadina.

Non può mancare l’ostentazione di ricchezza nel cibo della nuova Cina. Si mischiano tradizioni ad ardite sperimentazioni nella cucina del Dynasty Club. Così, per ingraziarsi l’ispettore, il proprietario offre una ciotola di sangue di serpente (cibo yang) insieme a una ciotola con cistifellea di serpente (cibo yin). E a casa gli farà recapitare “ghiottonerie mai viste prima ... interiora fritte di passero, dorate e croccanti ... teste d’anatra senza cranio, di modo che fosse possibile raggiungere facilmente la lingua, o succhiare fuori il cervello.” Ma il vero colpo di teatro è “la sauna di gamberi”: “in una zuppiera di vetro c’erano dei gamberi di fiume vivi che saltavano e si contorcevano. La ragazza posò sulla tavola un piccolo secchiello di legno con il fondo ricoperto di pietre rosse infuocate; versò del vino nella zuppiera, poi tirò fuori i crostacei, intontiti, e li mise nel secchio. Ci fu un sibilo acuto e dopo due o tre minuti completò sul piatto la sauna di gamberi”.

Del resto i cinesi ricchi danno l’assalto anche ai ristoranti stranieri, dal costoso Sobborgo di Mosca alla popolare catena  KFC, che “è forte, pulitissima e ha l’aria condizionata”.

La descrizione di cibi, mercati, colazioni, pranzi, cene, ristoranti, case del the e chioschetti all’angolo di una strada potrebbe continuare a lungo, ripercorrendo i romanzi di Qiu Xiaolong, ma qui voglio finire con il “Vecchio Ristorantino”, dove il poliziotto Yu porta la famiglia. Gliene ha parlato bene il signor Rhen, un anziano ex ricco, che si considera un “buongustaio frugale”. Non è un caso se la specialità consigliata da Rhen siano “gli spaghetti preparati di prima mattina”, la stessa che amava il sig. Zhu Ziye, un rentier sopravissuto alla rivoluzione, protagonista, insieme al quadro comunista Gao Xiaoting, del piacevolissimo romanzo satirico “Vita e passione di un gastronomo cinese” di Lu Wenfu (edizioni Guanda, ma ormai – temo – introvabile). Anche Zhu Ziye si alzava presto per andare in una famosa spaghetteria di Suzhou. Ci andava presto perché nei ristoranti per cucinare gli spaghetti si usa sempre la stessa acqua e solo di prima mattina gli spaghetti sono fragranti, poi diventano scivolosi.

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I tre gialli di Qiu Xiaolong pubblicati da Marsilio sono La misteriosa morte della compagna Guan - Visto per Shanghai - Quando il rosso è nero.

Il tenente Mario Conde è l’investigatore nei gialli del cubano Leonardo Padura Fuentes, pubblicati da Tropea.

UN’INOPINATA ASCESA POLITICA…

di Aldo Maturano

Quella parte di storia europea riguardante la Pianura Russa e dintorni che possiamo tranquillamente chiamare Medioevo Russo in pratica non è altro che la storia della dinastia dei Rjurikidi che qui dominò per ben oltre sette secoli. In questo nostro racconto ci occuperemo di un ramo cadetto, quello che in pratica discende da Alessandro Nevskii e raggiunge il massimo della gloria con Giovanni IV detto il Terribile.

L’origine della dinastia è avvolta nelle nebbie delle favole. Si racconta infatti che essa originasse dalla leggendaria chiamata dalla Svezia di un certo Variago a nome Rjurik nel IX sec. d.C. “allo scopo di sedare i litigi fra Slavi dell’estremo nord e gli altri popoli vicini” (così ci riportano le antiche Cronache Russe, più o meno concordemente). La versione è certamente adattata alle esigenze ideologiche della parte “di famiglia rjurikide” che dominava a Mosca al tempo in cui furono redatte quelle Cronache, ma malgrado tutto questo non ci meraviglia più di tanto poiché non esiste casa regnante che non abbia rimaneggiato le proprie tradizioni di famiglia per vantare un antenato leggendario e fantastico quando non divino…

Già abbiamo tracciato gli eventi sulle origini della Rus’ di Kiev (cioè convenzionalmente il primo stato “russo” apparso qui) e del ruolo di questo Rjurik e dei suoi primi discendenti in altri nostri lavori e quindi ad essi rimandiamo il lettore curioso che volesse risalire a quei tempi remoti quando il centro politico delle terre Russe era ancora la bellissima capitale ucraina (v. bibliogr.). E’ doveroso aggiungere però che la storia delle molte entità nazionali che oggi sono ancora presenti nella Pianura Russa e che oggigiorno si guardano in cagnesco, in fin dei conti derivano anch’esse dagli atti e dalle imprese di questi Rjurikidi e per questo motivo diciamo che, se fino all’arrivo dei Tatari (i cosiddetti Mongoli) la Rus’ di Kiev è ancora possibile vederla come una creazione “slavo-orientale comune”, dopo il 1300 emergeranno un po’ alla volta solo i Grandi Russi ossia proprio i Moscoviti quali eredi di Kiev,  escludendo Bielorussi e Ucraini dalla storia medievale russa e includendo invece i Tatari di Kazan’. Né si può negare che questi lunghi secoli siano disseminati di avvenimenti sconvolgenti che interessarono finanche l’Europa Occidentale, se si pensa che le Terre Russe diventarono e restarono per lungo tempo l’unica sorgente di materie prime e di articoli di lusso per le corti europee e del vicino Oriente!

Abbiamo scelto qui di partire da un evento (forse inventato dai cronisti di parte o addirittura, se fosse vero, artificialmente gonfiato per le sue implicazioni ideologiche e religiose a favore della dinastia moscovita) il quale, secondo la storiografia tradizionale, dovrebbe aver preparato, o almeno presagito in positivo, il ruolo di Mosca a trasformarsi in una Terza Roma (vedremo meglio questo punto più oltre) ossia nella futura capitale di un nuovo Impero Universale che, erede (forse a ragione, in fin dei conti!) dell’Impero Romano e persino di quello di Cinghiz Khan, si estenderà crescendo negli anni fino alle sponde del Pacifico!

Diamo allora un’occhiata alla situazione geografica e politica della regione nella quale ci muoveremo.

Ci riferiremo soprattutto allo storico N. S. Trubezkòi e alla geografia delineata nel suo saggio Sguardo alla Storia Russa non da Occidente, ma da Oriente. Qui si dice che il complicato sistema fluviale esistente nella Pianura Russa offre tutte le possibilità di comunicazioni possibili, sia seguendo le correnti sia navigando controcorrente, lungo due assi nord-sud e cioè l’asse Dnepr-Mar Nero e quello lungo il Volga e il Don. L’altra parte di territorio, la fascia meridionale steppica, offre invece un’unica via di comunicazione da est ad ovest, ma sulla terra. Con tale situazione dal punto di vista del compito storico di unire in una sola realtà statale tutte le Terre Russe ne consegue che qualsiasi popolo o élite che controlli un sistema o l’altro delle comunicazioni fluviali può fondare uno stato solamente sulla parte di territorio dove si trova l’asse fluviale rispettivo, mentre quel popolo o élite che controlla il sistema steppico ha un vantaggio in più: Non solo controlla la steppa, ma anche tutti gli sbocchi dei fiumi che provengono dal nord! Per queste ragioni solo un’unione stabile dei popoli o delle élites steppiche con l’uno o l’altro popolo o élite che governa i fiumi può aspirare a diventare uno stato che domini sull’intero territorio. Questa dunque è la realtà in prospettiva e, accettatala e sempre rammentandocela, possiamo procedere nel nostro racconto.

La maggior parte degli eventi da noi contemplati si svolgono nei confini dell’enorme bacino del Volga la cui parte inferiore a partire dalle alture del Valdai fino all’attuale città di Kazan’ è nota meglio col nome “la Bassa (Nizovie in russo)” ed è disseminata di città fortificate (in russo gorod), normalmente distribuite non proprio sulle rive del fiume e dei suoi maggiori affluenti, ma neanche molto lontano da essi… per ragioni di sicurezza! Nel tratto superiore queste città sono, ognuna, capitali di un udel (territorio assegnato dalla famiglia rjurikide a ciascuno dei suoi componenti) governato da un knjaz (tradotto convenzionalmente con “principe”). Proseguendo verso sud, il bacino passa da una zona che possiamo chiamare “slava” ad un’altra sotto il controllo militare e fiscale dell’Orda dei Tatari kipciaki nota genericamente con il nome di “Orda d’Oro” con capitale e sede del khan (dignità corrispondente a quella di knjaz) nella città di Sarai, situata non molto lontano dal delta del grande fiume. Dal khan, secondo un sistema (ricordato con amarezza dalle Cronache come il “giogo tataro”) costruito con fatica e concordato con l’allora Batu Khan dal sopracitato Alessandro Nevskii nella seconda metà del XIII sec., viene concessa la dignità massima di Gran Principe (in russo Velikii Knjaz) ad uno dei Rjurikidi che è così autorizzato a tenere sotto controllo tutti gli altri principi parenti e a raccogliere da questi le tasse dovute a Sarai.

La concessione è nota col nome di jarlyk (yarligh, secondo la traslitterazione del turcologo M. Bernardini) ed è un documento scritto in lingua turco-uigura (usata per gli atti ufficiali alla corte dell’Orda) in cui tutto – nei limiti e nei doveri – dovrebbe essere puntigliosamente definito. Purtroppo, sebbene non ce ne sia giunto neppure uno intero di questi documenti, quello che sappiamo di sicuro è che il “titolo” comunque si acquisiva “a pagamento” ossia tramite doni personalmente portati al khan dal knjaz candidato alla carica!

Chi può essere il Gran Principe? Fra i Rjurikidi sin dalle origini vigeva un sistema di successione chiamato “la scaletta” (in russo lestviza) per cui al Gran Principe morto succedeva il suo fratello più anziano in vita e così via. In mancanza di fratelli, succedeva il figlio più anziano in vita dei fratelli del morto… Era un sistema probabilmente mutuato ai nomadi della steppa asiatica o ai Cazari di religione ebraica, che per governarsi sceglievano una famiglia nobile destinata alla funzione di rappresentare gli uomini di fronte a Dio. Il territorio e le genti affidati erano quindi spartiti fra i membri della famiglia ai quali toccava quindi dirimere liti, organizzare la difesa del territorio e sopperire a qualsiasi altra necessità collettiva. I figli dei “principi” erano educati all’obbedienza dura e rigida al padre-padrone che aveva diritto di vita e di morte su di loro. Durante l’educazione (com’è sempre ancora oggi) era inculcato un modello sociale di comportamento di fronte ai problemi reali d’ogni giorno. L’insegnamento dato era un’etica divina (secondo la Torà, ma anche secondo il substrato culturale pagano centro-asiatico) che spiegava una specie di progetto di vita ispirato ed “eterno” per il conseguimento del benessere di tutti gli uomini, dominanti e dominati. Il progetto sociale (possiamo chiamarlo così) veniva discusso e adattato nel corso del tempo in assemblee ristrette e a questo punto non contava più il principe individuale come realizzatore del progetto, ma l’intera famiglia. Il concetto era che quando il più anziano moriva, gli succedeva chi già sapeva che cosa doveva fare per continuare a governare senza cambiamenti. Quest’ultimo ora lasciava il territorio (ossia l’udel) fino ad allora occupato e prendeva il posto del defunto lasciando tutto quello che aveva avuto finora a chi avrebbe preso il suo posto che ora risultava vacante. In altre parole l’udel libero veniva scambiato col fratello o parente che seguiva per età e così via.

Nelle Terre Russe i territori erano già stati ritagliati in partenza dal tempo di san Vladimiro (fine del X sec.) e se c’era un parente che non riusciva ad averne un udel tutto per sé, doveva aspettare il suo turno fuori dal giro, magari servendo presso un udel. Il sistema per le comunicazioni dell’epoca era il più conveniente per tenere insieme una nazione tanto estesa come la Rus’ di Kiev, ma allo stesso tempo era anche causa di scontri sanguinosi in caso di incomprensioni fra fratelli o di un troppo grande accrescimento del numero dei membri della famiglia “aventi diritto”. E’ facile immaginare che un knjaz che fosse vissuto a lungo in uno stesso territorio e che quindi vi avesse profuso tutti i suoi sforzi per migliorarne le condizioni non era molto propenso a lasciarlo ad un altro e perciò vi si opponeva come poteva a questo “trasferimento” forzato. Dunque con la lestviza si può immaginare quale carosello di personaggi  si metteva in moto quando moriva il Gran Principe o appena prima.

Per inciso aggiungiamo che lo stesso sistema (più o meno) in vigore anche fra i khan kipciaki fu la causa più importante della caduta dell’Orda d’Oro, come vedremo meglio più avanti…

Nella Rus’ di Kiev le liti armate perciò diventarono l’attività esclusiva dei principi, un vero e proprio lavoro! E quando Kiev fu mezzo distrutta dai Tatari di Batu Khan nel 1240 la frammentazione del primo stato russo in udel separati ormai semi-indipendenti a causa della decadenza dell’autorità del Gran Principe era pienamente in atto.

Ancor prima però Giorgio detto Lungamano successore e figlio di Vladimiro Monomaco, l’ultimo più autorevole Gran Principe di Kiev, aveva pensato bene già da tempo di “comprare per conto proprio” terreni nel “selvaggio” nordest in modo da evitare le regole della lestviza. Il sistema era piaciuto al figlio Andrea detto Bogoljubskii il quale, stanco delle battaglie per il trono di Kiev, si era trasferito nelle terre acquistate e cioè nella Bassa del Volga. Aveva ristrutturato la città di Vladimir-sulla-Kljazma (conservando come modello Kiev) e l’aveva eletta a sua sede personale e per i suoi discendenti. Aveva anche tentato di avere una sede metropolitana separata della Chiesa Russa per questi nuovi possedimenti, ma non era riuscito. L’esperimento di avere un dominio fisso da lasciare ai propri figli (in russo vòtcina) non si era però ancora affermato ed anzi  aveva trovato la contrarietà di tutti i parenti che alla fine con una congiura, lo avevano tolto di mezzo. La lestviza perciò ritornava ad aver vigore anche qui, nella Bassa in questa terra di confine comprata e ancora tutta da colonizzare!

Con i Tatari, Vladimir era ora la sede “nominale” del Gran Principe che qui veniva consacrato dal Metropolita chiamato apposta per la cerimonia da Kiev in rovina e qui gli veniva consegnato ufficialmente anche il jarlyk.

Oltre Vladimir fra le città maggiori della Bassa c’era Rostov-la-Grande sul lago Njero, Tver’ subito dopo le sorgenti del Volga, e Rjazan’ ai confini con la steppa e vicina ai Bulgari del Volga. La piccola ed insignificante Mosca invece rimaneva immersa nella foresta detta Mescera (o Mesciòra) e per questa ragione era toccata al più piccolo dei figli di Alessandro Nevskii, Daniele, non godendo di gran prestigio. Col passare del tempo però era diventata a poco a poco una delle città ricche della Bassa e si era messa subito in lizza con le altre per il jarlyk di Gran Principe. Tuttavia negli anni che stiamo percorrendo necessità economiche dei Tatari avevano cambiato le condizioni per ottenere il jarlyk ed ora quel principe che pagava di più, indipendentemente dall’anzianità o dall’esser stato scelto, lo otteneva senza problemi e la lestviza in questo caso era ormai invocata per giustificare le personali convenienze.

Da dove traiamo tutte queste informazioni? L’abbiamo detto: Dalle Cronache annotate e tramandate dal “pensatoio” di quei tempi ossia la Chiesa Russa! In questo pensatoio l’universo abitato era visto come un grande regno governato da principi scelti da Dio attraverso i suoi ministri terreni (la Chiesa), secondo disegni divini di solito incomprensibili, ma tendenti ad un ultimo ed unico fine: La ricompattazione dell’umanità peccatrice sotto lo scettro di un unico sovrano cristiano universale... prima della Fine del Mondo!

Addirittura, un grande monaco russo che incontreremo meglio più avanti, san Sergio di Radonezh, si era fatto interprete della missione universale affidata al Cristianesimo e forse per primo vide in Mosca e nella sua dinastia coloro che avrebbero condotto la lotta vincente contro il giogo tataro per ricostituire la Rus’ di Kiev, santa e cristiana.

Nella realtà però neppure una tale visione del mondo futuro evitava la litigiosità dei Rjurikidi, anzi! Riattizzava, ad esempio, le rivalità di Mosca con Tver’, il cui principe quale discendente di un fratello maggiore di Alessandro Nevskii non aveva mai accettato che il cugino moscovita, “inferiore di rango” perché discendente da un fratello minore, osasse aspirare al ruolo di Gran Principe. Inoltre Tver’ vantava una posizione geografica centrale nella regione e manteneva buoni rapporti sia con Novgorod-la-Grande sia con la Lituania e perciò rendevano i rjurikidi lì governanti molto più degni per un ruolo di leadership. E la lestviza? In realtà ormai da anni ogni principe nel proprio udel si considerava inamovibile, ora che Kiev non contava più e visto come si poteva ottenere il jarlyk, e non accettava facilmente le vecchie regole tentando invece in tutti i modi di affermare l’eredità per primogenitura! Dunque l’esperimento Bogoljubskii infine era piaciuto, ma soprattutto si andava imponendo il modello ispirato dalle Sacre Scritture della discendenza per primogenitura…

Un problema nuovo era però venuto alla luce già al tempo di Alessandro Nevskii: la Lituania! C’era sempre stata una commistione di sangue e di cultura fra principi russi e lituani (come con quelli di altre stirpi presenti  nelle Terre Russe), ma in questo caso l’evoluzione degli eventi aveva portato, già a partire da Polozk, ad un diverso peso politico  lituano che s’accresceva e si allontanava sempre più dagli interessi “russi” da quando Jogaila, uno dei figli di Giuliana di Tver’  (ricordiamola questa donna!) e del lituano Olgherd, era stato scelto come Re di Polonia col nome di Ladislao Jagellone. Possiamo quindi immaginare quali contrasti si stavano preparando… 

Ai lituani apparteneva ormai tutta la Terra dei Vjatici, la regione di Kiev con gli altopiani di Podolia, Volynia e Moldavia ricevuti in eredità di famiglia. E la Bassa? Era soltanto un “piccolo” territorio di nordest, disprezzato e tutto da colonizzare!!

E’ giusto però indicare i principi lituani come degli estranei alla dinastia rjurikide? Perché non considerarli legittimati a partecipare ad un regno russo futuro? E perché Kiev non ha più l’importanza di una volta, dopo la batosta ricevuta da Batu Khan? Queste domande hanno delle risposte solo se esaminiamo l’evoluzione della politica dei rjurikidi di Mosca a partire da Kulikovo Polje…

Kulikovo Polje è appunto l’evento dal quale iniziamo la nostra storia. Si verifica verso la fine del XIV sec. (nell’agosto del 1380 secondo la datazione convenzionale più o meno corretta del calendario gregoriano) ed è la vittoria “russa” a Pian delle Beccacce (appunto Kulikovo Polje in russo) sulle rive paludose del Don.

La Battaglia è stata in tutti i modi esaltata ed ha ispirato una grossa mole di letteratura molto toccante alla quale di solito ci si riferisce sotto il titolo cumulativo di Zadonsc’cìna. In essa il protagonista è sempre Demetrio, principe rjurikide di Mosca, il quale, dopo aver raccolto intorno a sé insieme con le loro armate quasi tutti gli altri rjurikidi parenti che governavano nei territori circostanti, passa il Don diretto a sud per scontrarsi con i Tatari di Nogai a capo dei quali c’è il khan Mamai. I Tatari attendono i russi nella detta piana vicino all’odierna Tula e la tradizione ci racconta che s’iniziò prima con un duello fra due campioni scelti nelle parti avverse, ma che alla fine, dopo vari scontri sanguinosi, Mamai e i suoi (c’era anche un grosso contingente genovese!) scapparono verso sud battuti e vinti. I russi trionfalmente raccolgono le spoglie lasciate sul campo dal nemico in rotta e ritornano verso il nord cantando vittoria, ma portando con sé il ricordo e i cadaveri dei compagni caduti. Le perdite umane da parte russa infatti furono molte, tanto che per il risarcimento alle vedove e ai genitori orbi di un figlio la cassa di Demetrio si svuotò quasi subito…

La vittoria russa tuttavia non dovette essere così rilevante come è da sempre tramandato. Lo stesso Demetrio l’aveva etichettata spontaneamente, ma con giusta prudenza, come una specie di spedizione punitiva eseguita per conto del khan di Sarai contro il sedicente khan ribelle Mamai e invece, come tradiscono le scritte commemorative sulle monete contemporanee coniate a ricordo della Battaglia, si esprimono chiare e umili lodi al khan “legittimamente in carica” Toqtamysc’, forse per aver scelto Mosca per quel compito. Insomma una specie di corvée dovuta dai principi della Bassa ed eseguita a puntino al comando di Demetrio. Ciò non toglie che aver capeggiato un’armata e conseguito una vittoria dava adito a molte invidie e timori in quei principi russi contrari alla crescita di Mosca e così da Kulikovo Polje cominciò tutta una serie di manovre politiche contro Demetrio e il suo udel.

Il primo a muoversi in questo senso fu proprio il knjaz Michele di Tver’ il quale dopo aver constatato come Mosca era stata punita dal khan di Sarai proprio per aver condotto una battaglia senza un suo vero e proprio consenso, si muove con suo figlio Alessandro per chiedere il jarlyk di Gran Principe. Demetrio naturalmente non si fa sorprendere e manda suo figlio Basilio (di solo dieci anni!) affinché si presenti al khan come il futuro erede di Demetrio nella carica di Gran Principe.  Alla fine il khan decide: Niente nuovo Gran Principe! Che Demetrio resti in carica purché Basilio rimanga a Sarai come ostaggio a garanzia contro qualsiasi altro colpo di testa nella Bassa…

A questo punto, dai documenti a disposizione e per amor della verità, non si può dire che esistesse un progetto di un nuovo stato russo che inglobasse tutta la Bassa inclusa l’Orda di Sarai o che contemplasse Mosca quale capitale, visto che Tver aspirava alla stessa funzione! Se un qualcosa in questo senso sia stato mai teorizzato in piani d’azione concreti, ciò rimase soltanto negli scritti della Chiesa Russa visto che Demetrio fu canonizzato santo e che la Battaglia di Kulikovo Polje è celebrata ogni anno come la santa vittoria d’una crociata condotta contro i pagani! In altre parole uno spirito di riscossa ”russo-moscovita” in funzione anti-tatara e l’idea della creazione di un eventuale impero erano tutte cose ancora da costruire…

E poi, ammesso che ci fosse la necessità di ricostituire un “santo” stato russo, perché la Chiesa Russa avrebbe dovuto scegliere Mosca per un progetto imperiale futuro? Qui la storia si complica e dobbiamo portarci al tempo in cui nella Chiesa ci furono dei problemi molto seri.

Come noi sappiamo, le Terre Russe erano un’unica grande e ricca Metropolia dipendente dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli e la sede metropolitana continuava ad aver base a Kiev. C’era stato un primo tentativo di dividere la Metropolia di Kiev, come abbiamo accennato prima, da parte di Andrea Bogoljubskii nel 1169. Poi i Crociati Latini avevano conquistato Costantinopoli e “latinizzato” il Patriarca costantinopolitano con grande imbarazzo della Chiesa Russa. La distruzione successiva da parte dei Tatari che avevano messo in ginocchio Kiev nel 1240 avevano messo in pericolo anche il Metropolita, ma questi era riuscito a mantenere il titolo e l’autorità su tutte le diocesi delle Terre Russe. Logicamente con l’intensificarsi della colonizzazione nelle terre di nordest in area finnica, il prelato ora viaggiava nella la Bassa più frequentemente senza incontrare grandi problemi con la politica conciliatrice di Alessandro Nevskii nei confronti dei Tatari. In quegli anni la grande tolleranza religiosa dei Tatari permise addirittura di fondare una diocesi (dipendente da Rostov) a Sarai per i russi lì presenti e per i Tatari che si convertivano! In altre parole la crescita della Bassa fece sì che il massimo prelato cominciasse a trovarsi sempre più frequentemente a Vladimir invece che a Kiev!

Gli anni poi erano passati ed era aumentata la pressione del Papa di Roma sulle Terre Russe sia attraverso i regni cattolici di Ungheria e di Polonia sia con le azioni militaresche dei Cavalieri Teutonici dalle basi del Baltico tese tutte a costringere gli ortodossi a passare nella giurisdizione romana, ora che l’autorità dell’Imperatore bizantino e del patriarca ortodosso era stata restaurata. Finalmente, dopo varie vicende,  entra in scena sul soglio metropolitano la grande figura di Alessio I, prelato legatissimo alla famiglia di Demetrio e moscovita egli stesso, che dà una svolta alla politica della Chiesa nel nordest.

E’ lui l’uomo guida a corte in tutti quegli anni sin da quando Demetrio era succeduto a suo padre all’età di soli 10 anni. Incoraggia e benedice in tutti i modi la grande amicizia fra Demetrio di Mosca e il cugino orfano Vladimiro di Serpuhov (altro personaggio chiave della nostra storia) e quando sente che ormai la sua vita è alla fine decide di cercare un degno successore di sicura fede moscovita. La sua indagine comincia presso il grande monaco, san Sergio di Radonezh, addirittura proponendo che fosse proprio costui a prendere il suo posto. Ne sarebbe stato contentissimo e avrebbe proposto con calore al Sinodo e poi al Patriarca la degnissima candidatura… San Sergio però è da anni, con tutto l’appoggio possibile di Alessio e di Demetrio, che si occupa della missione di evangelizzare le parti più abbandonate della Terra Russa. Non solo! Proprio adesso gli preme rafforzare la fede cristiana specialmente nel nord minacciata dai “latini” (leggi: Cavalieri Teutonici e Cavalieri Portaspada) in quei momenti in cui lo stesso Patriarcato è minato dall’apostasia “latina” dell’Imperatore Giovanni V. Dunque rifiuta, apportando le sacrosante ragioni di voler restare semplicemente un uomo di fede e di non intendersene di conti e di amministrazioni economiche, cose che ha sempre odiato e respinto. Che Alessio cerchi altrove!

In verità Alessio stesso era in certo qual modo provvisorio nel suo ufficio in quanto nel passato era accaduto proprio quello che nessuno aveva mai desiderato: A causa di vari eventi che ora non staremo a raccontare il Patriarca aveva consacrato ben due metropoliti per le Terre Russe, uno per la Lituania e un altro per la Rus’ del Volga! In seguito a rimostranze e richieste di spiegazioni si decise con giudizio salomonico di lasciare Alessio, il più anziano, a reggere la Metropolia nominalmente ancora chiamata di Kiev e l’altro, un bulgaro a nome Cipriano, messo in attesa del suo turno (purché fosse rimasto in vita abbastanza) per il posto che ora stava per diventare vacante.

La questione era di per sé ingarbugliata, ma diventò ancor più incomprensibile per le autorità patriarcali di Costantinopoli che avevano conservato nei loro archivi come definitive le decisioni dette sopra, quando le missioni giunte da Mosca con la richiesta d’imporre le mani (era questo l’atto di consacrazione ufficiale su un nuovo Metropolita) erano… ancora altri due!

Che cosa era successo? Vediamo un po’.

Demetrio aveva una specie di precettore-confessore-confidente, il prete Mitiai, che, quando l’aveva incontrato per la prima volta, gli era subito piaciuto sia per il bell’aspetto sia per il modo di parlare sia perché sapeva scrivere bene. D’allora in poi lo aveva sempre voluto al suo fianco (lo aveva persino nominato suo guardasigilli!) e Mitiai aveva così accumulato molte ambizioni. Quando seppe delle intenzioni di Alessio, costui decise di sfruttare la sua posizione vicinissima al principe, ma non essendo monaco non poteva aspirare automaticamente alla dignità di Metropolita tanto che, quando Demetrio gli propose di prendere il posto del defunto Alessio, spiegò la propria situazione dicendo appunto di non avere la qualifica adatta. L’occasione propizia però si presentò quando l’archimandrita della Cattedrale del Salvatore a causa dell’età avanzata decise di ritirarsi e poco dopo morì. Il furbo prete, con Demetrio connivente, costrinse il successore a fargli prendere immediatamente l’abito monacale e a nominarlo archimandrita al posto del defunto. Allora si disse perfino che Mitiai era stato miracolato, stigmatizzando il suo comportamento di “arrampicatore”: La mattina era ancora un prete semplice e a mezzogiorno era già monaco e archimandrita!

Gran parte di questi eventi avvennero già sotto gli occhi di Alessio, ma questi sopportava per non mettersi in netto contrasto con Demetrio e non avendo altra persona giusta da contrapporre. Tuttavia, quando Demetrio insistette ancora una volta per Mitiai, Alessio rifiutò perché non ritenendolo una persona d’esperienza avrebbe fatto solo confusione. Concesse soltanto che potesse essere proposto purché il Sinodo, la Vergine e il Patriarca poi lo consacrassero!

Poi Alessio viene a morte! Mitiai requisisce i paramenti da Arcivescovo e si insedia arbitrariamente nella sede in attesa di poter essere riconosciuto dal Sinodo e di recarsi a Costantinopoli per la consacrazione definitiva, sicuro del fatto suo. Il Patriarca, venuto a sapere dei desideri di Demetrio e della posizione quasi consenziente di Alessio, invia una lettera al sedicente nuovo Metropolita nella quale si riconosce la sua posizione e quindi lo si invita a recarsi al più presto con i dovuti documenti comprovanti la sua elezione da parte del Sinodo nella capitale sul Bosforo per la benedizione.

Il vescovo Dionisio di Suzdal’, a Mosca dopo la morte di Alessio, non aveva però accettato (non era il solo ed aveva persino l’approvazione di san Sergio di Radonezh su questo punto!) questo atto di superbia ed aveva accuratamente evitato di omaggiare Mitiai e ciò aveva indispettito quest’ultimo. Dionisio però non si era lasciato intimidire nemmeno dall’ira di Demetrio e si era messo in contatto con il Metropolita di Kiev, Cipriano, conoscendo bene i precedenti.

Cipriano capì che poteva così finalmente riprendere le sue piene funzioni e con un gran seguito si mise in viaggio verso Mosca. Demetrio però non aveva dimenticato il trattamento inflitto dal principe lituano Olgherd al “suo” Alessio anni prima e, non appena il prelato mise piede nel territorio moscovita, si vendicò facendo arrestare il prelato e rimandandolo il giorno dopo là da dove era venuto. Il prelato oltremodo adirato mentre si allontanava riuscì a far recapitare una lettera a san Sergio a Radonezh con le sue lamentele, ma dove annunciava che sarebbe andato immediatamente a Costantinopoli a reclamare. Intanto anche sul Bosforo il Patriarca era cambiato e Mitiai, temendo di non essere più riconfermato sul suo seggio a causa di Cipriano, pensò di evitare l’imposizione delle mani (ossia la cerimonia della conferma patriarcale) e di ricorrere alla sola acclamazione del Sinodo locale presieduto… da Demetrio. A questa estrema procedura si oppose naturalmente Dionisio di Suzdal’. Demetrio cercò di evitare che quest’ultimo si recasse a perorare contro Mitiai sul Bosforo e fece in modo di trattenerlo. Di nascosto però Dionisio e i suoi riuscirono a mettersi in viaggio via fiume Volga e si diressero in fretta e furia a Costantinopoli.

Anche Mitiai e i suoi fedeli si erano messi in cammino per la stessa meta, sebbene via terra.  Quest’ultimo gruppo però era stato fermato dai Tatari che avevano chiesto i motivi di tale viaggio. Dopo varie discussioni e spiegazioni Mitiai riesce ad ottenere da Sarai persino il famoso jarlyk (ossia quella specie di riconoscimento scritto dal punto di vista di esenzione fiscale sui beni della Chiesa, in special modo) per sé quale futuro Metropolita e può riprendere il viaggio. Purtroppo la sorte è contro di lui (oppure qualcuno dette una mano alla sorte col veleno) e prima di arrivare alla sede patriarcale si ammala e muore. Al suo posto la missione, imbarazzata di arrivare a Costantinopoli senza un candidato proponibile e per paura dalle reazioni eventuali di Demetrio in caso di ritorno senza successo, trova fra i propri membri un certo Pimen’ e lo presenta al Patriarca quale candidato di Mosca, mentre Mitiai con una solenne cerimonia è sepolto in un convento a Galata.

Sembra che attraverso varie elargizioni (ottenute su un grosso credito concesso dai genovesi di Galata ai prelati russi) Pimen’ riuscisse a farsi consacrare (anche lui!) Metropolita. Insomma Cipriano restava Metropolita della Lituania e della Piccola Russia (come si chiamava allora l’Ucraina) e Pimen’ diventava Metropolita di Kiev e della Bassa di Mosca e dintorni, compresa la giurisdizione su Novgorod-la-Grande. Era il luglio del 1380! Le liti sembrano ormai concluse, ma… le due missioni non possono ripartire a causa dei preparativi militari in corso per la guerra contro Mamai (Kulikovo Polje) e sono costrette a restare per un po’ a Costantinopoli.

Non entreremo qui nei dettagli e diremo per il momento che quando Pimen’ ritornò a Mosca con la sua nomina, Demetrio aveva ancora una volta cambiato opinione sulla faccenda e, fattolo imprigionare e destituire della sua carica dal Sinodo locale, con grandi promesse invitò invece Cipriano a venire da lui. Probabilmente Kulikovo Polje e l’uccisione a Caffa da parte dei Genovesi del fuggitivo khan vinto Mamai avevano imbaldanzito Mosca e cambiato le premesse politiche precedenti. Soprattutto l’alleanza di Jogaila con Mamai contro Mosca e la sua defezione dal patto stretto precedentemente con Demetrio, lasciava capire a quest’ultimo l’importanza di avere adesso Cipriano dalla sua parte invece che lasciarlo nelle mani di Jogaila, ormai padrone di Kiev.

D’altronde la frenetica attività moscovita aveva messo in allarme anche il giovane e sospettoso khan Toqtamysc’ di Sarai. Così questi temendo un ulteriore rafforzamento di Mosca nella Bassa qualche anno dopo decise di dare a una lezione definitiva che confermasse la soggezione di Demetrio a Sarai e assediò la città, la dette alle fiamme e la saccheggiò pesantemente. La città si difese come poté, visto che il suo principe era fuggito presso Vladimiro di Serpuhov e visto che anche Cipriano – uomo però assolutamente dedito allo studio e non alla guerra – fece la figura del pusillanime rifugiandosi nella lontana Novgorod-la-Grande quando gli annunciarono l’arrivo dei Tatari. Alla fine la città nulla poté sotto l’attacco nemico e ne uscì abbastanza malconcia. Anzi! Michele di Tver’ vedendo la disastrata posizione dell’udel dell’odiato Demetrio si affrettò ad offrire parole di pace (e ricchi doni) a Sarai pur di ottenere alfine il jarlyk di Gran Principe di Vladimir. Invitò naturalmente Cipriano a Tver’ perché era questa la città che avrebbe ora preso il primo posto nella Bassa del Volga!

La presenza del Metropolita a Tver’ destò una grande preoccupazione in Demetrio anche perché il Patriarca in persona, Nilo, avendo saputo che Pimen’ era stato rinchiuso a forza in un convento era intervenuto affinché il monaco ritornasse alla sua dignità, sebbene poi questa mossa non contasse politicamente granché. Cipriano, di certo venuto a sapere anche di questo, si ritrovava in una situazione imbarazzante. Il suo titolo lo autorizzava a consolidare la posizione di Tver’ e la Rus’ del Volga nell’orbita lituana che aveva migliori relazioni con Sarai e stava già per rivolgersi a Vytàutas per averne tutto l’appoggio politico, quando Demetrio corse ai ripari. Mandò a chiamare Cipriano per mezzo del suo stretto e potente parente, il bojaro Veljaminov! Anche questa volta però era una trappola! L’intenzione non era quella di tenersi Cipriano che appariva troppo difficile da maneggiare data la sua connivenza con i lituani, ma di costringerlo a ritornare a Kiev per lasciare la politica della Bassa nelle sue sole mani! Così per la seconda volta Cipriano fu rimandato a Kiev e Pimen’ fu rimesso al posto di Metropolita a Mosca.

Nel 1389 Demetrio scompare. Pimen’ è ora in lite con Cipriano e va a Costantinopoli, ma anche per lui la sorte gli è contro perché muore proprio in quel viaggio! Al defunto Demetrio nel frattempo è succeduto il figlio Basilio.

© 2007 ALDO C. MARTURANO

ECUADOR

di Erika Scotti

Dei Paesi latinoamericani che ho conosciuto, l'Ecuador e' certamente il meno latino e piu' americano di tutti, a partire dalla moneta ufficiale, il dollaro, fino agli scaffali dei supermercati pieni di prodotti statunitensi, si trovano persino i famosi Maccaroni and Cheese.

Fin dall'arrivo all'aeroporto mi sono resa conto che questo Paese ha qualcosa di speciale. Sono rimasta senza parole di fronte ai sorrisi sinceri e alle espressioni rilassate degli ufficiali di dogana che guardandoti in faccia ti danno il benvenuto. Nessuna traccia del distacco e della severita' dei tipici “funzionari da aeroporto”

E uno si sente davvero il benvenuto.

Con il passare del tempo mi sono resa conto che non e' un trattamento riservato agli stranieri ma parte della cultura degli ecuadoriani.

Ho avuto la grande fortuna di finire a Lasso,  un paesino di trecento anime che timidamente guarda il picco del vulcano attivo piu' alto del mondo, il Cotopaxi.  Vivere qui da' l'impressione di essere la comparsa in un film degli anni cinquanta, il tempo sembra essersi fermato. Tutte le mattine i miei compaesani escono  a piedi dai cortili con mucche asini o maialini e li portano a pascolare. Ogni domenica mattina le donne si ritrovano sulla riva del rio a lavare a mano i panni sporchi di tutta la settimana discutendo  animatamente di chissa' che. Ai due lati dell'unica strada di una certa importanza ( che attraversa tutto il Paese) tutto cio' che si vede sono campi immensi di una sfumatura di verde che non conoscevo, file infinite di serre che proteggono migliaia di rose di ogni colore e qualita' oppure allevamenti di cavalli o mucche (le tipiche mucche pezzate di bianco e nero che vengono decritte nei racconti per bambini).

Il giovedi' e' una giornata speciale...c'e' mercato! Nel vicino villaggio la piazza si riempie di quadri, sculture, lavori a maglia e ricami per me preziosissimi per la cura nel dettaglio, per il gusto nella scelta dei soggetti e nell'abbinamento dei colori. E qui ci si meraviglia della grande manualita' di questa gente, non sono solo ottimi artigiani bensi' grandi artisti.

Dopo una settimana di questa vita tranquilla e piacevolmente monotona ecco che il sabato si prende la macchina e dopo un'ora circa di viaggio  da dietro una montagna comincia a intraversi la capitale, Quito. Citta' modernissima offre tutto quello che cuore umano possa desiderare. Le migliori librerie sono dotate di comodi divani dove si possono leggere libri sorseggiando un caffe' o un cappuccino, esattamente come nel salotto di casa. Tutti i centri commerciali mettono a disposizione aree Wi-Fi, dove si puo' navigare in internet gratuitamente.

Il centro storico si anima con decine di artisti che espongono ai pedoni le loro opere. Ai semafori piu' importanti non mancano mimi o giocolieri che ti intrattengono mentre aspetti il verde....e a proposito di semafori, penso che gli abitanti di Quito non sappiano il significato di ingorgo o di coda per quanto efficiente e' l'organizzazione del traffico.

Citta' pulita e ordinata si allunga educatamente  lungo la vallata ai piedi del vulcano Pichincha che presta il nome a piazze, monumenti e persino banche.

Queste le mie prime impressioni, troppo entusiasta? Probabilmente si....ma abbiate pazienza, sono appena arrivata. Vorra' dire che scopriremo l'Ecuador assieme poco a poco e poi....vedremo


PASQUA ORTODOSSA

di Elena Bebeshina

In questo mio articolo vorrei parlare della grande festa di tutti i cristiani: Pasqua. Bisogna dire, che in Bielorussia circa 80% della popolazione è ortodossa. Non è giusto affermare, che tutti sono credenti veri e propri, che eseguono tutti i canoni della chiesa ortodossa, ma la maggior parte dei bielorussi è stata educata e allevata secondo le tradizioni ortodosse (spesso senza saperlo), specialmente la generazione dei nostri nonni e bisnonni. Perfino durante gli anni “senza religione” (USSR) le nonne ricordavano come avevano festeggiato Pasqua prima, e nelle famiglie hanno fatto la festa. Oggi la fede è più viva nei paesini della nostra repubblica, dappertutto si costruiscono le chiese. Anche quelle persone che non si considerano profondamente credenti, sentono questa festa particolare e festeggiano assieme a tutti.  Quest’anno coincidono due Pasque – cattolica e ortodossa-, è una bella occasione per raccontarvi qualche tradizione e uso locale dei Bielorussi, spero che questo sia interessante per capire meglio il nostro popolo.

Per gli ortodossi Pasqua è la festa più importante dell’anno. E prima dell’arrivo della Pasqua, ci sono molte occasioni considerevoli che aiutano a prepararsi alla Pasqua e sentirla più importante e grandiosa. Per esempio, i veri credenti fanno la quaresima, che dura 48 giorni e finisce con Pasqua. Durante la quaresima la gente cerca non solo limitare il cibo, ma, il che è più importante, fare opere buone e sforzarsi di non fare niente di brutto.

Il periodo della quaresima e Pasqua sono il tempo più luminoso, bello, commovente e  istruttivo nel calendario ortodosso. Questi giorni cominciano con la Domenica di perdono, quando tutti chiedono perdono ai parenti ed amici e cercano di rappacificarsi con i loro offensori e nemici. Durante la settimana prima di Pasqua tutti fanno le grandi pulizie nella casa. Nei paesini i contadini aggiustano e verniciano la casa, il cortile e la palizzata dopo l’inverno, le padrone di casa cercano di decorarla e farla festosa e sgargiante.  Per di più, venerdi e sabato sono i giorni più saturi e passano tra varie faccende.

Le donne devono cucinare i piatti speciali, che si cucinano solo a Pasqua. In Bielorussia storicamente i piatti tipici sono la “pasqua”, le pitturate uova di Pasqua e la torta speciale tipo  panettone italiano.

La “pasqua” si compone di ricotta con panna acida oppure crema, pressati in una forma speciale, con i noci e frutta secca. Le donne di solito fanno molte torte di dimensione varia – per tutti i membri della famiglia e i vicini parenti. Mentre cucinano, tutte le padrone cercano di fare il cibo di Pasqua non solo buono, ma anche il più bello possibile per dare gioia, perchè anche durante la settimana dopo la Pasqua tutti si scambiano le uova e offrono assaggi delle torte. Ai bambini piace molto colorare le uova in modi differenti.

Finalmente viene vigilia di Pasqua. Tutti i preparativi sono finiti. I credenti si mettono i vestiti chiari e belli e di sera vanno in chiesa. Lì assistono alla liturgia notturna, che è la più bella e solenne funzione dell’anno. C’e tanta gioia, scampanìo, molte candele e i preti sono in vestiti festivi. Tutti si rallegrano e hanno il cibo benedetto durante la liturgia. Solo dopo consacrazione si può mangiare il cibo di Pasqua.

In città la maggior parte dalla gente va in chiesa di mattina, per la consacrazione del cibo, e poi tutti vanno a casa per festeggiare (o vanno a trovare amici e parenti). Secondo la tradizione, a Pasqua la gente dà i regali alla gente povera, manda il cibo di Pasqua nelle prigioni e negli ospedali (oggi tramite i preti).

SATURNO CONTRO

di Carla Rinaldi

Ecco qua, ci risiamo, vado a vedere l’ultimo film di Ferzan Ozpetek “Saturno contro”, il regista turco tanto acclamato dai critici per “Le fate ignoranti” e “La finestra di fronte”,e mi trovo davanti un pessimo episodio da fiction televisiva con piccoli inserti di soap opera.

Devo ammettere che neanche i precedenti suoi lavori mi avevano fatto gridare al capolavoro, senza parlare poi del penultimo “cuore sacro”, che era tanto noioso e scontato quanto inutile e manieristico. “Saturno contro”racconta di un gruppo di amici, ognuno con i suoi problemi, chi è cornuto, chi si droga, chi è bisessuale e vive male questa condizione, chi è  povero, chi è invidioso, chi è gay e felice ma naturalmente a lui proprio succede la disgrazia. Questo è tutto.

Poi se vogliamo spiegarlo, approfondirlo, diremmo che tratta di temi importanti e spinosi come l’eutanasia, i Dico, il divorzio, la malasanità, la solitudine, le incomprensioni di questo marcio marcio mondo. In una casa romana trafficata sempre, notte e giorno, da tutti gli amici del protagonista (Luca Argentero), si svolgono le vicende quotidiane che sfociano ogni sera in una ricca e divertente cena. Ma un bel giorno il nostro protagonista, mentre sta cenando, sviene. Da quel momento si susseguono in ospedale le visite della paranza numerosa. Ma non sopravvive, cosicché arriva il padre al capezzale e scopre che il figlio era gay e per accelerare la morte gli hanno praticato l’eutanasia, suo desiderio in vita. Il padre dice al compagno innamorato (PierFrancesco Favino), che a lui non spetta niente, neanche l’ultimo commiato in obitorio. Così, il gruppo unito, finge una parentela per andare a salutare la salma. Tra gli amici c’è anche la tossica (Ambra Angiolini), fissata con l’astrologia e in fuga perenne da se stessa. Non manca la coppia in crisi (Stefano Accorsi e Margherita Buy), l’amante di Accorsi (Isabella Ferrari), un gay allegro e gentile (Ennio Fantastichino, la traduttrice turca (Serra Ylmaz, attrice feticcio del regista), e altri coprotagonisti dei quali mi sfugge il nome. Come nel più celebre “viale del tramonto”, per tutta la durata del film, parla la voce del defunto che racconta la sua vita e quella degli altri.

La casa che si vede sullo schermo è proprio quella del regista, la descrizione delle serate si rifà molto alle sue vere serate in casa con gli amici dove tutti cucinano e ridono e devono vino. Basta! Non se ne può più di autocelebrazioni e irruzioni nella vita privata persino di un regista che crede sia tanto originale raccontare la sua. E se invece di mostrare per quasi due ore il nulla per poi correre ad affrontare temi universali, Ozpetek avesse visto ad esempio “Le invasioni barbariche”, o “il declino dell’impero americano”, o “Il grande freddo”, o “La terrazza”, per citarne solo alcuni, avrebbe capito che è vero sì che basta una stanza, dieci persone, per costruire una storia, ma è anche vero che una stanza, dieci persone, spesso non servono neanche a costruire una scena.

AL MERCATO CENTRALE DI RIGA

di Alessia Della Casa

Scopriamo un altro angolo di questa affascinante città, piena di segreti. Poco lontano dal centro storico, ormai in larga parte ristrutturato, che con eleganza e stile accoglie tutto l’anno una grande affluenza di turisti, possiamo calarci in una realtà del tutto diversa, dove il tempo sembra in qualche modo ancora fermo nel primo dopoguerra. In quel periodo infatti ha origine il Mercato Centrale di Riga. Fu installato negli hangar utilizzati per la costruzione dei dirigibili Zeppelin, abbandonati dall’esercito tedesco in territorio lettone, successivamente trasferiti nel centro della città e adibiti all’uso attuale.

Questo angolo di Riga, seppur in centro, è un luogo poco turistico. Solo una strada principale e la ferrovia che esce dalla stazione lo separano dalla città vecchia, un sottopassaggio conduce direttamente all’entrata degli hangar, tuttavia il quartiere mantiene la sua riservatezza e le caratteristiche tradizionali facilmente riconducibili al periodo sovietico. Le guide non si dilungano a porre l’attenzione su questo mercato e a raccontarne la storia nei particolari, ma chi ci capita per caso o chi s’inoltra incuriosito dalle poche voci rivelatrici, non può non rimanere affascinato dal pittoresco e vastissimo allestimento.

Si tratta di 5 padiglioni, 4 dei quali paralleli e comunicanti  tra loro, che occupano un’area complessiva di 16000 m². Il mercato è organizzato in modo da attribuire a ogni padiglione un genere alimentare, dunque troviamo nel primo i latticini, nel secondo frutta e verdura, nel terzo carne e nel quarto pesce; certo non mancano gli altri alimenti, come il pane di segale, prodotto tipico, ma anche miele, biscotti, semi e spezie venduti sciolti proprio come, molti ricordano, si faceva una volta anche in Italia. Le caratteristiche che più colpiscono sono proprio le grandi quantità di prodotti disposte su immensi banchi, e il “vecchio stile” che crea un’atmosfera molto particolare, del tutto diversa da quella che può offrire il resto della città, ormai europea e per molti aspetti rinnovata.

Le strutture sono immense e proporzionali sono le quantità di prodotti in vendita. Nel padiglione dei latticini prevalgono formaggi tipici, dai gusti forti e aromatizzati; frutta e verdura a volontà riempiono i banchi del secondo padiglione; nel terzo si rimane impressionati dalle quantità di carne, prevalentemente di maiale, ma anche manzo, pollo e diversi tipi di salsicce, disposte in tutta la lunghezza dell’hangar. Nel passaggio comunicante col quarto e ultimo stabile già si avverte il forte odore del pesce, anch’esso abbondantemente distribuito in tutta l’estensione dell’edificio; si trovano salmoni, trote, anguille e altri pesci freschi, e come vuole la tradizione pesci affumicati e essiccati disposti a “mazzi” in secchi di plastica.

Tutto sembra essere naturale e genuino, come se fosse di produzione casalinga.

Ma l’estensione del mercato non si limita agli enormi spazi interni agli hangar, bensì con la bella stagione, l’area utilizzata si espande all’esterno occupando un territorio totale di 72'300 m².

Coi primi segnali della primavera, infatti, molti altri banchi non tardano a esporre i propri prodotti nell’area intorno agli stabilimenti, aggiungendo profumi e colori splendenti, con un’infinità di fiori e di frutti in aggiunta alla smisurata scelta già presente all’interno degli stabili.

Riga è una città che si presenta con una vita rinnovata e benestante, addirittura lussuosa per certi aspetti, tuttavia, soprattutto nell’immediata periferia, nasconde ancora tanta povertà.

Il Mercato Centrale mostra chiaramente come la vita della gente comune non raggiunga ancora lo sviluppo e il benessere che si percepiscono

visitando il resto del centro città; possiede però un’atmosfera singolare che traspone sulle persone la semplicità e la genuinità dei prodotti venduti.

Si può così apprezzare la naturalezza in vecchio stile di un popolo semplice.

I PESCI D’APRILE

di Francesco Aronne

Aprile: dolce dormire gli uccelli a cantare e gli alberi a fiorire… recitava una strofetta che mi riporta all’infanzia ormai lontana. La sonnolenza primaverile pare ovattare con  bambagia lo stridio della ferraglia che si udiva in altri tempi all’avvicinarsi della campagna elettorale.

Una volta campagna elettorale tuonava quasi come campagna di Russia o di Crimea…luoghi mitici e lontani di combattimenti all’arma bianca tra stenti, atti eroici e patimenti che incutevano timore solo a pronunciarli e malcelata gioia nel saperli abbastanza distanti, salvo ad avere malcapitati parenti tra le file dei belligeranti. A Mormanno nei tempi andati, per dirla alla Luigi Settembrini tra “il fumo gli spari e le scintille” che si preparavano alla campagna elettorale eran “più di mille”. La piramide (poco importa se di partito o di coalizione) alla cui base vi erano i portatori di palco e quelli di bandiere, saliva fino al vertice attraverso i candidati, i candidati oratori e quindi il leader maximo, il papabile, il sindaco portato, quello dell’ultimo comizio dell’ultima sera. I terremoti ondulatori e sussultori che hanno frantumato gli schieramenti tradizionali a cui ci eravamo un po’ tutti abituati hanno stravolto il rapporto tra cittadini e politici. La casta dei secondi, sempre più distante dal mondo reale, ingrassa e starnazza al coperto del palazzo (palazzotto o palazzino) . Tutti sanno tutto e possono dire ogni cosa su qualsiasi cosa.

Coalizioni che nel giro di qualche mese si trasformano in accozzaglie, anche il più negletto ed insulso tra gli eletti (messo in lista al momento giusto e al posto giusto per inevitabile intercessione di qualche spirito santo giusto) si presenta con la sua lista della spesa per onorare un programma elettofamiliare che prevede una collocazione parentale che dal coniuge, ai germani, arriva (se non vanno prima tutti a casa) ai lontani pronipoti di una dimenticata prozia affondata col Titanic. L’ingenuo si chiede: e gli elettori? Monnezza! Direbbero a Roma. Dopo il lauto pasto e l’ebbrezza degli ipocriti brindisi di ringraziamento, scaricati nella pattumiera dell’oblio, fatto salvo il ripescaggio della prossima tornata elettorale.

Per tornare nelle nostre lande, i candidati a sindaco pare abbondino (tanto che con una riformuccia elettorale si potrebbe prospettare una lista intera di sindaci). A cotanta abbondanza si contrappone la penuria di giannizzeri, scudieri, vassalli e sciarmutte. S’ode l’eco di Roma o morte! Che ai nostri giorni tuona come O sindaco o nulla! Conseguenza forse del consolidato malcostume che vuole che i candidati si scannino nell’arena a pugni di voti e poi gli scaldapoltrone vengono scelti altrove (magari tra gli ex concorrenti) tra compari, procaci ed avvenenti pin-up, garzoni, delfini e lustrascarpe. Con l’ecoscandaglio e l’entuasismo i consumati fungaroli della politica, passano al setaccio l’intera urbe alla ricerca del fantomatico e bramato volto nuovo per imbiancare i sepolcri di vetusti schieramenti.

Cambiano le cifre del calendario ma da anni la scena è sempre squallidamente e sostanzialmente la stessa. I pescecani sguazzano nella piazza, i sorrisi durbans abbondano, così come abbracci e baci, promesse di ricchi premi e cotillons. Ed è in questi momenti che ritorna in me una consapevolezza antica di anni e che vuole il mio pensiero di esigua minoranza, ma che non mi impedisce, per questo,  di esprimere ciò che penso. Ritorna alla mente il fragile paradosso della democrazia indicato da Popper su cui rimbombano le parole di Allende ai suoi assassini: coloro che hanno la forza ma non la ragione… Le sirene della politica chiamano tutti a raccolta: i mea culpa si sprecano salvo a fare come prima e peggio di prima un attimo dopo. E di questi tempi non riesco a fare a meno di ripassare con la lettura le pagine di un pamphlet ormai consumato dal tempo, ma sempre caro. Eloquente il titolo Dell’indifferenza in materia di società del Prof. Manlio Sgalambro. Inevitabile ed irresistibile qualche citazione:

“Che io debba essere governato: ecco da dove inizia lo scandalo della politica. Solo per canaglie e miserabili, incapaci di autogovernarsi e decidere, c’è la politica come unica via di scampo.”…. “La politica resta dunque quel minimo indispensabile a cui una banda di canaglie e di miserabili, incapaci di autogovernarsi e decidere, delega la propria salvezza.” E pare che il problema non sia solo dei nostri giorni. Leggiamo cheLa prima Assemblea legislativa eletta nel 1791 in Francia viene così descritta da  Hippolyte Taine: “Sono un’accozzaglia di menti limitate, labili, impulsive enfatiche e deboli; ad ogni seduta, venti macchinette parlanti si mettono a girare a vuoto, ed immediatamente il principale potere pubblico diventa una fabbrica di stupidità, una scuola di stravaganze ed un teatro di declamazioni…”” ed ancora “A compensare il potere che gli diamo, sulla testa del politico incombe il nostro disprezzo, come se questo dovesse pareggiare i conti.” Citazioni forti che restano estrapolazioni e non sintesi del libello la cui lettura integrale si consiglia ad ogni aspirante sindaco (e ad ogni suo elettore).

Forse quando queste mie considerazioni saranno pubblicate i giochi saranno fatti. Speriamo che la pasta che verrà somministrata ai mormannesi non sia qualche pasticcio o ancor peggio pastone, seppur gli ingredienti ci sono già tutti. Ognuno è chiamato a scegliere la Mormanno che vorrà (o che potrà). Spero solo che i candidati sappiano meritare il rispetto degli elettori e sappiano rispettarli sia nel ruolo di sostenitori che di antagonisti. Auspico che nessuna delega in bianco venga consegnata agli eletti. Ogni botte da il vino che ha, il vino buono può diventar cattivo, ma non viceversa…

E dopo la strofetta d’inizio il ritornello finale, di Battiato, ripreso dal protagonista di Palombella rossa: “In quest’epoca di parassiti senza dignità non posso che essere migliore!” … per ognuno incitamento e augurio ed auspicio per la Mormanno che verrà



[1]   Raganelle, crepitacoli

[2]   Tavola o battola sulla quale urtano martelletti di legno mossi da un congegno dentato

[3] Vedi il mio Mormanno un paese …nel mondo

[4] Il signor Antonio Cersosimo

[5]   Pei termini dialettali vedi www.paternostro.org  Guida e Vocabolario dialettale

 

FARONOTIZIE.IT  - Anno II - n° 13,  Aprile 2007

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