FARONOTIZIE.IT  - Anno II - n° 12,  Marzo 2007

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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi

TARTUFI, TERFEZIE E DON CHISCIOTTE

Editoriale del Direttore,  Giorgio Rinaldi

La politica italiana è troppo complicata”, mi confessava un conoscente diplomatico straniero.

E’ generalmente vero, specialmente per chi non ha conoscenza di tartufi e terfezie, e non ha letto il Don Chisciotte di Cervantes.

Tartufo non solo è il fungo ipogeo più costoso del mondo, ma è anche il nome per indicare un ipocrita, una persona che trama nell’ombra.

Le terfezie sono lontane parenti dei tartufi, delle naturali imitazioni, e alcune volte vengono spacciate in luogo di questi da commercianti disonesti.


La vita politica italiana è costellata e trabocca di personaggi-tartufo e comparse-terfezie.

La recente crisi governativa ne è la prova più lampante.

Veniamo ai fatti.

Sulla scena si affaccia un governo con una maggioranza claudicante che deve affidarsi a qualche donchisciotte delle frange estreme, qualche terfezia che,  miracolata dalla legge elettorale Calderoli & Co., è entrata nelle sacre stanze parlamentari e, infine, dal premio nobel dei tartufi: l’inossidabile Andreotti.

Il Governo è cosciente di essersi messo in bocca ai lupi, ma continuamente forza la mano, consapevole che  prima o poi il banco salterà, comunque.

E il banco, alla fine, salta e il Governo, con inusuale velocità, si dimette!

All’opposizione, da tempo, si sono preparati gli orfani della Democrazia Cristiana per tentare il riavvicinamento con gli spezzoni della defunta Balena Bianca attualmente parcheggiati nel centro-sinistra.

L’altra pattuglia democristiana emigrata da anni in Forza Italia annusa, insieme agli altri tartufi di destra (AN e compagnia cantando), la buona occasione per togliersi di torno l’oramai ingombrante milionario.

I demo-forzisti bramano per ritornare sotto le insegne scudocrociate, gli ex fascisti per conquistare definitivamente la leadership della destra italiana: invocano insieme le elezioni anticipate, ma senza fretta, festina lente, affrettarsi  lentamente, come recita l’antico brocardo.

I leghisti scalpitano, sanno che se non ci saranno le elezioni subito resteranno schiacciati tra Fini e Casini, ma il loro Leader non si pronuncia e la formazione valpadana non sa che pesci pigliare.

I donchisciotte e le terfezie non capiscono la trappola e si muovono ambendo ad essere immortalati nei libri di Storia all’assalto del Palazzo d’Inverno, pardon: Madama.

Vogliono che tutti rendano omaggio alla loro Dulcinea e non capiscono ragioni, neanche quando i loro stessi elettori  fanno sapere che la pulzella del Toboso è solo un’idea stravagante e non ha nulla di reale.

Ma, i donchisciotte sono fatti così, e i nostri marpioni della politica lo sanno bene.

Era tutto previsto, era ed è tutto prevedibile.

Follini, segretario dell’88^ partito italiano (L’Italia di Mezzo), da mesi ha iniziato la “traversata del Mar Rosso”, con la benedizione di Casini, le strizzatine d’occhi di Mastella e la frenesia dei tanti democristiani della diaspora.

Ora, tutti i partiti dell’Ulivo hanno sottoscritto le tavole del 12 comandamenti di Mosè-Prodi, ma non mancherà occasione che qualche terfezia, qualche tartufone, o più semplicemente qualche donchisciotte straziato dal pensiero dell’avanzata desertificazione della parte occidentale della Mauritania, provocherà una nuova crisi, incurante delle sorti del Paese ma facendo la felicità dei redivivi democristiani, Prodi in testa, e per il piacere di qualche osservatore straniero, a cui non parrà vero dire, al modo dei cugini francesi: Ah, les italiens !


LA RICETTA DI ZÌ PEPPO

di Gerardo De Pieri

Vorreste raggiungere i 90 anni in buona forma fisica e con una discreta lucidità mentale? Secondo Giuseppe Giffone (classe 1916) è possibile e dipende soprattutto dalla nostra alimentazione. Lui c’è riuscito e inoltre può anche vantarsi di non avere mai sofferto né di mal di denti né di mal di testa. Se qualcuno gli chiede il suo segreto Giuseppe Giffone (detto Zì Peppo) estrae dal suo portafoglio la sua “Ricetta per una Salute Sana”.

Zì Peppo, in base alla sua esperienza, ha scritto di suo pugno quali sono i cibi e le bevande da utilizzare e quelli da evitare.

Vediamo qualche esempio.

Al mattino si può bere il caffè (anche corretto con amari, anice, …) ma solo uno al mattino e non più altri nella giornata.

Possono essere utilizzati tutti i condimenti: olio extra vergine di oliva, sugna di maiale, aromi di cucina, cipolla, aglio, basilico, prezzemolo.

A tavola non deve mancare il peperoncino amaro e deve essere consumato “a facoltà”.

Secondo Zì Peppo bisogna nutrirsi con pasta asciutta (specialmente se è di casa), carne (vaccina, maiale, agnello, castrato, polli casalinghi, conigli), baccalà, pesce, uova, salami, formaggi e latticini freschi.

Invece sono da evitare i Polli di mangime allevati da terzi.

Vanno bene la verdura e gli ortaggi prodotti all’aria aperta, i legumi, le patate, ecc.

Bisogna tenersi lontano da tutti i prodotti ed ortaggi coltivati sotto le serre (perché non sono maturati al sole).

La frutta fresca (secondo stagione) e anche quella conservata vanno bene purché non siano prodotte nelle serre.

Per quanto riguarda le bevande è preferibile bere l’acqua naturale (di fontana, pozzo e anche dal rubinetto di casa), il vino “a facoltàsenza limiti, e i liquori moderatamente.

Invece, sono da evitare l’acqua confezionata, la birra, la coca-cola, le confezioni di succhi di frutta e tutte le bevande confezionate.

Sarebbero da evitare anche le Pizze (con la mozzarella) provenienti da Pizzerie e Ristoranti.

Per il settore dolciumi bisogna distinguere. Non va bene nessun tipo di dolce di pasticceria, né caramelle, né gelati.

Invece i pasticciotti casalinghi, pizze piene pasquali, nocche, zeppole e altri dolci preparati in casa possono essere consumati tranquillamente.

Secondo Zì Peppo chi usa questa ricetta vive di salute sana.

La ricetta si chiude con una annotazione: questi erano i cibi che si mangiavano fino agli anni ’50, dopo, tutto è cambiato e la salute se ne è andata.

La ricetta è semplice: occorre alimentarsi con cibi genuini e pasti preparati in casa abbondando con vino e peperoncino amaro. Allo stesso tempo, tale ricetta è difficile da applicare in quanto non sempre riusciamo a risalire all’origine dei cibi di cui ci nutriamo.

Se volete una copia originale della “Ricetta per una Salute Sana” cercate di rintracciare Zì Peppo magari in giro con la sua Fiat Panda Blu e dopo che vi dimostrerà di possedere ancora una mente molto lucida (ricorda tutti gli avvenimenti principali capitati a San Pietro a partire dal 1920) sicuramente verrà anche a voi la voglia di provare la sua Ricetta della Salute.

OBIETTIVO MANCATO

di Nicola Perrelli

E’ sconcertante per noi meridionali  ri-scoprire ogni volta, e sempre dopo molti anni, che le Agenzie di Sviluppo, istituite per favorire la nostra crescita economica e non solo, servono a poco o a niente. Ma questa è la realtà, purtroppo. Il loro bilancio complessivo è negativo.

Scarsità di risultati e cronica inefficienza delle strutture stesse lo confermano inequivocabilmente. Eppure, nella sola Calabria,  sono attive, si fa per dire,  ben 24 agenzie di sviluppo regionali. Nate per dare vigore alle politiche di sviluppo locale, favorire la coesione sociale, promuovere le capacità professionali e organizzative delle aziende nascenti. Patti territoriali, contratti d’area e interventi comunitari, ovvero quell’insieme di azioni ricadenti nella c.d. programmazione negoziata, per quanto articolati e annunciati con enfasi dal politico di turno, non hanno ancora prodotto quella crescita e occupazione sperate. Incerta dotazione di risorse, che troppo spesso comporta ritardi se non addirittura  rinvii per il completamento dei programmi, insufficiente preparazione  delle figure manageriali, che per le modalità di selezione, politiche più che meritocratiche, non assicurano l’indispensabile assistenza professionale, limitata presentazione  di progetti e iniziative, che in Calabria è mediamente più bassa rispetto alle altre zone del Mezzogiorno e  regolamenti che inspiegabilmente  il più delle volte costituiscono più un ostacolo che un sostegno ai progetti imprenditoriali del luogo, sono  i punti di debolezza messi in evidenza da chi ne ha la responsabilità politica per giustificare l’empasse dei risultati. Mentre altri aspetti, di sicuro più strettamente legati allo sviluppo dell’economia locale, non vengono denunciati.

Non sarà il caso , dopo cinquant’anni  e più di aiuti “a pioggia” di pensare che questo sistema non mirato  è un modello di sviluppo “insostenibile” per il Sud?  Che non è possibile e ne  verosimile poter esportare in un’area storicamente depressa come quella calabrese lo sviluppo economico e sociale delle zone più ricche del Paese?

 In una realtà a scarsissima vocazione imprenditoriale come la nostra, promuovere, sostenere e finanziare in via preferenziale i grandi investimenti è fondamentalmente sbagliato. Alzare di continuo la soglia di accesso al credito agevolato anche a poche centinaia di migliaia di euro significa escludere a priori molti possibili aspiranti piccoli imprenditori, in primis i giovani. Senza contare che la nostra è una realtà economica ancora impregnata dei tempi e della parsimonia proprie della civiltà contadina. E’ illusorio pensare che un aiuto finanziario, per quanto corposo, possa cambiare  la mentalità di una comunità, trasformare i suoi appartenenti da eterni assistiti a spavaldi imprenditori, da persone isolate, per la mancanza di adeguate infrastrutture, a cittadini del mondo. Un sistema imprenditoriale capace di fare, di produrre, di competere e di funzionare non si inventa, non si crea elargendo fondi o costruendo qualche cattedrale nel deserto come è stato fatto e ancora si fa, scioccamente. Coloro che scommettono sul proprio futuro, investendo tempo e risparmi in una nuova attività produttiva, hanno bisogno prima di tutto di interloquire con consulenti specializzati  capaci di aiutarli a diventare imprenditori di se stessi e poi di finanziamenti “su misura”, cioè congrui al progetto e agli obiettivi dell’iniziativa. E’ dalla combinazione di questi elementi che dipende  il successo di un progetto imprenditoriale e non solo dai contributi a fondo perduto o dal rispetto di parametri standardizzati su altre realtà economiche. La prova: la maggior parte delle imprese finanziate fallisce prima di aver raggiunto i 5 anni di vita.

La promozione economica  in un tessuto sociale dove è poco diffuso lo spirito imprenditoriale non ha solo bisogno  di risorse finanziarie ma di iniziative e servizi che supportino sia i piccoli che gli aspiranti imprenditori. Negli USA esiste ad esempio la Small Business administration , un’agenzia federale con oltre 90 uffici in tutto il paese che offre servizi e finanziamenti a tutti coloro  chi hanno il “grande sogno” di avviare un’impresa. Università e altre istituzioni pubbliche fanno il resto con corsi di imprenditorialità e di formazione, seriamente.

Per aumentare le proprie chance occorre allora  prepararsi. Come nello sport, anche per affrontare il mercato è necessario imparare tecniche, studiare il campo e gli avversari, mettere a punto strategie. Avere un valido allenatore è necessario per crescere e competere. Questo è il ruolo che i calabresi si aspettano dalle Agenzie di sviluppo, non altri.

Un osservatore,  per certi versi al di sopra delle parti, ma per istituzione fortemente interessato a tutto quanto ruota intorno allo sviluppo  economico, parlo della Confindustria,  nel rapporto  di pochi giorni fa’ sulla situazione del Meridione, ha messo in risalto che “ il divario tra Nord e Sud è rimasto come 50 anni fa”. Il gap insomma non è stato recuperato, il Mezzogiorno è sempre quel malato cronico  resistente alle cure.

Tanto che il prodotto pro-capite di noi meridionali dagli anni ’50 ad oggi è cresciuto rispetto a quello dei settentrionali di soli 6 punti percentuali, vale a dire dal 54% al 60%. Veramente poco rispetto ai fiumi di denaro pubblico che si spendono (leggi sprecano)  per questo obiettivo. L’emergenza Sud è quindi tutt’altro che superata. Per il Mezzogiorno ha dichiarato ancora  il vice presidente della suddetta associazione “ basta incentivi a pioggia, servono aiuti selettivi per chi vuole innovare e crescere”. Il messaggio è chiaro: basta con gli aiuti diretti che generano  assistenzialismo e frenano la  già poca voglia di fare e innovare.  Spendere non basta.

Restand o in tema di aiuti economici , voglio infine  ricordare come sia molto più difficile trovare  una buona idea  che i soldi per finanziarla.

VIVO IN CONGO

di Nicoletta Confalone

L’orrore, la guerra, la violenza, la paura preoccupano e rendono tristi per qualche secondo chiunque.. dopodichè ci si dimentica ..il posto, i nomi, gli avvenimenti ..e si passa alla prossima storia…solo quando si tratta di un luogo vicino …basta che un solo proiettile o un attimo di violenza ci entrino per 30 secondi e l’orrore, la guerra, la violenza e la paura non ti fanno più dormire….un proiettile diventa la guerra…si perde la prospettiva…

Vivo in Congo…in una regione dimenticata dalle notizie….sicuramente inesistente per il mondo… eppure qua l’orrore, la guerra, la violenza, la paura sono state per anni delle compagne di vita….non c’era alternativa.

Nemmeno per me esisteva…era uno delle tante guerre, uno dei tanti orrori…

Ora ci vivo, non nella guerra per fortuna….ma nella paura e nello spettro della violenza si…ma soprattutto non capisco se ci sia ancora la speranza…non so se le ferite della coscienza collettiva si potranno rimarginare…

Vado tutti i giorni ufficio con la speranza e l’entusiasmo di poter dare un contributo…mi perdo nei meandri della burocrazia e della politica dell’aiuto allo sviluppo ma poi ritrovo il senso di quello che faccio quando parlo con l persone che lavorano con noi, quando visito sul terreno i progetti, quando parlo con i beneficiari, bambini, bambine, donne, uomini….che mi sorridono…

Già, il sorriso….

Il sorriso africano mi ha cambiato la vita…..

Non si resiste a questo regalo…non si riesce a non sentirne la mancanza quando non c’è e ad assorbirlo quando ci viene regalato…

Il sorriso africano esce da qualsiasi giustificazione razionale….scatena emozioni contraddittorie per tanti….non per me… per me sono emozioni che ogni giorno mi aiutano a  dare un senso a tutto…

Spesso non capisco il sorriso africano, mi lascia perplessa, stupita…nella sua sincerità sembra una manifestazione “sbagliata” per me occidentale cresciuta in un mondo dove tutte le emozioni sono razionalizzate dentro manifestazioni secondo uno schema piuttosto rigido…il sorriso è la manifestazione dell’allegria, il pianto della tristezza….qua gli stessi schemi sono scombussolati….perchè è il sorriso che prevale su tutto…

Provo a capire cosa c’è dietro i sorrisi…..forse accettazione della vita, giorno per giorno….. sono vivo oggi…sorrido….grazie… sparano tutta la notte, violentano donne e saccheggiano case, torturano, rapiscono bambini per trasformarli in macchine di guerra fino al punto che se ne escono vivi ci vogliono anni e tanto supporto specializzato per non far più vedere sangue nella minestra e ovunque intorno durante i tanti incubi a occhi aperti…ma oggi sono vivo, grazie…sorrido…

Ma il sorriso non è speranza…..no, non credo…la parola futuro non credo esista in molte lingue africane, non in swahili se non sbaglio…esiste oggi, domani….ed esiste la certezza che dietro a tutto ci sia un piano voluta da entità superiori…gli spiriti, dio, la vita oltre la morte…l’unico futuro è forse questo?La speranza che la vita migliori? No, non c’è…non come popolo, non come “progresso” e “sviluppo” di una nazione…

Speranza poi su quali basi? La lezione appresa in più di 4-5 generazioni credo sia sempre stata che bisogna cavarsela da soli, mai fidarsi di nessuno, nemmeno del tuo vicino, figuriamoci di quelli che mangiano al banchetto di questo grande paese definito uno “scandalo geologico” per le immense e incredibili ricchezze naturali!

Fidarsi dei “portatori di pace e democrazia”?....mah…. Le buone intenzioni del basso nascono sempre le cattive intenzioni dei grandi…..

Noi stiamo qua per un po’…in (quasi sempre) sicurezza, ben nutriti e tutelati..molti anche ben pagati….con i nostri computer, il fantastico internet… e diamo il nostro sincero contributo…..

Ma ci scontriamo con dei titani…..il gap di fronte a noi è disperatamente mostruoso….un buco nero che continua a ingrandirsi…..

Mi trovo qua a scrivere con un computer, domani invierò queste parole attraverso internet…fantastico…in tempo reale qualcuno le leggerà a migliaia di chilometri da qui…mentre in una famiglia qualsiasi da queste parti una donna starà morendo perché non ha soldi per andare a partorire nell’ospedale che si trova a 10 chilometri, bambini moriranno per diarrea, donne saranno violentate da ragazzini senza speranza che hanno trovato cosa  nell’esercito o nelle milizie?…forse un senso di appartenenza, di utilità….violenza e orrore… vita quotidiana…

Due sere fa hanno sparato tantissimo, tutta la notte e fino al mattino…il giorno dopo tutto lo staff era in ufficio attrezzati con i soliti sorrisi e buon umore….difficile trovare qualcuno di cattivo umore qua…. A un paio avevano saccheggiato la casa….stesso sorriso e rassegnazione priva di alcun vittimismo e tristezza…sono vivo….c’è sempre qualche cosa di positivo…

E se invece di cercare sempre di insegnare qualche cosa provassimo ad imparare per una volta?

Io voglio imparare a sorridere ogni giorno, a cancellare il cattivo umore dalla mia vita, voglio capire …. E voglio cancellare l’orrore da queste vite lo voglio con tutte le mie forze…..Se solo lo capissero e lo volessero tutti…..

Molti mi definiscono buonista, idealista, ingenua…. Tutti termini che chissà perché a me suonano così positivi…ma che in realtà sono usati con un accento negativo….perchè….per fare comodo probabilmente alle coscienze delle occidentali pance piene… “non puoi mica salvare il mondo”…. “ma devi pensare al tuo futuro” .. “poverini…che brava che coraggio che hai a stare laggiù”….

Io voglio imparare a sorridere ogni giorno perché sono viva… ma anche perché la mia panza piena e la mia coscienza non sono in conflitto perenne…


SEVERINO DI GIOVANNI :  
L'ITALIANO CHE AMÒ L'AMERICA

di Silvia Garnero

in collaborazione con http://www.italianosenamerica.com/

Buenos Aires  14 -2- 2007

Non voglio ingannare i lettori. Non voglio scrivere ne invitare a letture su “cuori ardenti” e “balconi fioriti”, su quelli che spesso sono usati per appendere lenzuola lavate di recente con lacrime di tradimento. Tanto meno, però, possono passare inosservate le storie che dimostrano che l'amore esiste, eccome, sebbene in questi giorni tutto si riduce a spargere e consumare un amore dolciastro e borghese, espresso sotto forma di regali materiali.

Se a molti sarà discutibile ricordare le vicende di un anarchico italiano, è però indubitabile che la sua storia d'amore ha trasceso il tempo e le frontiere, poiché si è diffusa, come anche la sua vita, in Italia e in tutta l'America Latina con grande interesse da parte del giornalismo e la letteratura.

Torno all'amore e senz'altro credo che non sempre questo è compreso al di sopra delle convenzioni, i momenti, le collocazioni geografiche o le diversità di qualunque tipo. Comunque in questa storia ho una gran passione in comune: la lotta per la giustizia attraverso l'Anarchia, che tra la fine del IXX secolo e l'inizio del XX si diffuse in Argentina tramite alcuni Europei esiliati dalle loro dittature, come nel caso di Severino che giunse, fuggendo dall'Italia di Mussolini.

Di Giovanni era arrivato in America, sposato con la prima moglie, Teresa Mascullo, e tre figli. A forza di calpestare terra Argentina, però, e con appena 24 anni, s'innamorò perdutamente d'América Scarfò, di 15 anni, che apparteneva ad una famiglia cattolica della locale classe media, il che non gli impedì di innamorarsi dell'italiano e delle sue idee rivoluzionarie.

Le lettere dell'Italiano, nato a Chieti, una cittadina della regione Abruzzo, furono scritte dapprima per nascondere il suo amore, al tempo in cui era comunque rimasto con sua moglie, cui, dopo tre anni diede il “benservito”, secondo gli storici, per dedicarsi liberamente alla sua amata argentina.

Recentemente, nel 1999, il governo Argentino ha divulgato le lettere dell'Italiano, confiscate dalla polizia e le ha dedicate ad America Scarfò nel Museo di quest'Istituzione, in un atto che tutti i media considerarono come una rivendicazione e su cui ella stessa si espresse con emozione.

Storici, curiosi, politici e confiscatori hanno conosciuto questi testi prima della loro stessa destinataria.

Secondo Osvaldo Bayer, autore del libro “Severino Di Giovanni, l'idealista della violenza”, ”le lettere parlavano di un amore che potremo qualificare puro, profondo, senza quasi alcun riferimento di tipo carnale o sensuale, però, dati che per le sue idee, sentiva un profondo rispetto per il genere femminile.

In un altro libro, scritto dalla giornalista Maria Luisa Magagnoli “Un caffè molto dolce”, che narra la vita della Scarfò, il primo dialogo tra il rivoluzionario e il suo amore adolescente avvenne nel giardini della sua casa; “ Come stanno le begonie?”, chiese Di Giovanni. “sono tristi” rispose lei.

Come già si sa, e non è nello spirito di questa nota rimarcarlo, Di Giovanni fu fucilato per ordine dell'allora Presidente (di fatto) José Felix Uriburu in un penitenziario politico che funzionava dove oggi si trova l'attuale Plaza de Las Heras il 1° Febbraio del 1931, accusato per le sue attività anarchiche svolte in Argentina, tra le quali risultano alcuni attentati come quello eseguito alla Citibank, al Consolato Italiano e alla Cattedrale di Buenos Aires.

Dal repertorio di lettere d'amore che è stato pubblicato attraverso diversi media e nello stesso libro di Bayer, noialtri abbiamo estratto due frasi che a nostro parere sintetizzano la profondità di quell'amore ribelle:

“Ti dissi, In quel caloroso abbraccio, quanto ti amavo, e ora voglio dirti quanto ti amerò”

“ Conosco L'angelo celeste che mi accompagna in ogni ora allegra o trite di questa mia vita d'intruso e di ribelle ."

Prima di giustiziarlo, i militari gli permisero di vederla (era anche lei detenuta) e di scriverle quella che sarebbe stata quindi la sua ultima lettera d'amore:

Carissima, Più che attraverso la penna, il mio testamento ideale è germogliato dal cuore oggi, quando conversavo con Te : le mie cose, i miei ideali. Bacia mio figlio e le mie figlie. Sii felice. Addio unica dolcezza della mia povera vita. Molti baci.Pensami sempre, Tuo Severino

Scegliamo questa storia d'amore per celebrare o ricordare la festa in cui coloro che sono innamorati (e non solo), si regalano l'illusione dell'amore, che a volte è reale e dura tutta la vita, come in questo caso.

“Prima di morire, voglio tenere le lettere d'amore e stringerle al mio petto”disse a Bayer America Scarfò, prima di riceverle, con i suoi 86 anni ben portati. Sicuramente le lesse fino l'anno scorso, quando nel mese d'agosto morì a 93 anni.

Parafrasando Severino Di Giovanni, mi chiedo in occasione di questa festa…. Come stanno le begonie, lettori?

GLI INGREDIENTI MESSICANI DELL'ALIMENTO ED IL LORO SVILUPPO.

di Shane Osante

La maggior parte della storia degli ingredienti messicani dell'alimento, come li conosciamo, risalgono al secolo XVI con l'arrivo dell'esploratore spagnolo Hernando Cortes nel Messico, che poi ha dato inizio alla conquista del Paese nel 1521.

L'arrivo di Cortes segna uno scontro delle colture che hanno provocato la combinazione dei sapori spagnoli ed aztec e degli ingredienti che, finalmente, hanno condotto alla creazione degli alimenti di cui abbiamo oggi conoscenza.

Le influenze spagnole sugli ingredienti messicani dell'alimentazione includono le carni, gli agrumi, l'aglio, il formaggio, il latte ed il vino. Gli ingredienti messicani dell'alimentazione che provenivano dagli Aztecs, includono i fagioli, il mais e la zucca.

Con i secoli, l'alimentazione messicana ha continuato ad evolversi come conseguenza delle influenze di altri paesi. Questi cambiamenti includono l'emersione dell'alimento di Tex-Mex, che è fatto di sapori e di stili mescolati del Messico del Nord e del sud-ovest degli Stati Uniti.

Molti Americani credono che tutto il cibo messicano sia piccante, ma ciò non è vero. L'alimento messicano può essere dolce, saporito e anche piccante.

Diamo un'occhiata più vicina agli ingredienti ed alle spezie contenuti in piatti messicani.

Il cereale, un ingrediente messicano chiave dell'alimentazione e dell'influenza  azteca sui cibi messicani, è forse l'ingrediente più importante nell’ alimentazione messicana. Il cereale era l'ingrediente principale della dieta aztec. Di conseguenza, l’ Azteco dipendeva molto da una raccolta riuscita del cereale, che attribuiva alla benevolenza di Cinteátl, il dio del cereale e da Chicomencáatl, la dea del cereale. Oggi, l'uso principale di cereali nei cibi messicani è nel fare delle tortiglie (tortillas). Le tortiglie sono il pane della cucina messicana. Tomatigi, un altro ingrediente di base dell’ alimentazione messicana, è comunemente conosciuto come pomodoro. Tomatillos spesso è usato in salse con frutta o cili (chiles). Diversi dai pomodori, i tomatillos , sono usati al meglio quando sono verdi e non maturi. Tomatillos, pronunciato (to-ma-ti-gios), sono verdi, più piccoli di un pomodoro normale, ma di forma lunga. Oltre che usati nelle salse, i tomatigi, a volte, sono arrostiti alla griglia e sono aggiunti alle minestre o ad altri piatti.

Frijol, (pronuncia Fri-gio-les), o i fagioli, sono considerati un alimento base nella cucina messicana. I fagioli sono non soltanto una scelta economica, ma anche nutrizionale. I fagioli sono serviti con quasi ogni pasto nel Messico. Possono essere inclusi in minestre, essere mangiati

emplicemente, essere mescolati con le tortiglie, o essere serviti come fagioli fritti. Contrariamente a quanto comunemente si pensa, friggere i fagioli non è friggerli due volte, ma è sufficiente una volta sola. Che cosa è l'alimento messicano senza un piccolo,  o grande, pezzo di formaggio? Possiamo ringraziare gli Spagnoli per la aggiunta del formaggio all'alimentazione messicana tradizionale. Il formaggio messicano è fatto in molti modi, per esempio i più conosciuti: Chihuahua, Asadero, Cotija e Panela. Il formaggio di Chihuahua a volte è identificato come formaggio di Menonita, a causa delle relative origini di Mennonite. Con un sapore descritto come simile a gouda, questo formaggio, di colore bianco, è molto delicato. Se amate il piatto messicano, dovete sapere che richiede formaggio fuso, il Chihuahua può essere una scelta eccellente, poichè è considerato come quello che fonde meglio.

Nachos (na-cios) ed i quesadillas (che-sa-di-gias) contengono spesso questa varietà di formaggio. Il formaggio di Cotija, a volte è chiamato anche “Añejado” (a-gne-ja-do) che significa "il formaggio invecchiato". Diverso dal Chihuahua, Cotija è salato e forte. Cotija è usato spesso come guarnizione per le insalate, il taco ed i fagioli. Cojita può essere fatto dal latte di capra, o dal latte di mucca. Il formaggio di Cotija è conosciuto perchè è aggiunto agli alimenti come la pasta. Il formaggio di Asadero o  di Oaxaca è un formaggio messicano che  a volte è usato sui nachos. Il formaggio di Oaxaca è solo quello che che ha certificata l'origine della zona di Oaxaca. Questo formaggio è conosciuto come formaggio semidolce, e una parte del processo di produzione è data da un passaggio in  salamoia. Il formaggio di Oaxaca inoltre si scioglie bene. Il formaggio di Panela è usato molto nella cucina messicana. Ha una struttura friabile e mantiene la relativa figura quando è riscaldato. Il formaggio di Panela è caratterizzato per il suo sapore di latte appena munto. Non si trova il formaggio di  Panela dove vivete? Provate con la ricotta per averne un’idea.

Tempo per un po’ di calore? Punta sui chiles! Chiles è un sostegno nell’economia messicana. Molte varietà di chiles si sviluppano nel Messico. Alcuni tipi comuni di chiles sono chipotles, habaneros, jalapenos e poblanos. Chipotles e i jalapenos rossi vengono  essicati e affumicati. Chipotles sono conosciuti per il loro sapore dolce e fumoso e sono usati nei condimenti dell'insalata, in salsa ed in altri piatti. Ancora non avete abbastanza caldo? Ecco alloa l’habanero, Chile più caldo del mondo, può essere verde, rosso, o arancio a colori. L’habaneros si pensa che provenga da Cuba, visto che habanero  significa "da Avana". Gli habaneros sono usati per fare le salse calde estremamente piccanti ed altri piatti che richiedono la spezia estrema.

Molta cura dovrebbe essere usata nel maneggiare gli habaneros, perchè il contatto con la pelle o con gli occhi può essere doloroso. I chiles di Poblano sono peperoni verde scuro che sono serviti in molti piatti, comprese le minestre. Molti cuochi messicani arrostiscono i poblanos gettandoli su una griglia calda.

L'alimentazione messicana non sarebbe completa senza le erbe ed i condimenti che comunemente conosciamo. Alcuni dei più usati sono:  cilantro (zi-lan-tro), epazote, origano, cumino e cannella.

Cilantro: si può realmente sentire l'odore forte, di prezzemolo,come le foglie della pianta del coriandolo. Un nome comune per epazote è tè messicano. Questo tè messicano può essere addirittura un tè mortale, è utilizzato anche come vermifugo; l’ epazote è tossico se consumato in grandi quantità. Mama-Mia-Mia! Probabilmente non indovinereste che una delle erbe usate nella salsa della pizza è anche una delle più amate nella cucina messicana. Tuttavia, l'origano, un'erba associata comunemente alla cucina italiana è usata spesso anche nella cucina messicana. L'origano può essere comprato essiccato o fresco. L'origano messicano è della stessa famiglia della pianta della verbena del limone, ed ha un sapore più forte dell'origano mediterraneo usato in piatti Italiano-Americani. Il cumino, che dà un sapore terroso agli alimenti messicani come lo conosciamo, può essere comprato come piantina o in semi interi. Il cumino proviene dai paesi mediterranei, ma è usato nel Messico ed in molte altre parti del mondo. La cannella, o il canela in spagnolo, anche se è un'erba che molti americani associano con i piatti dolci, come la torta di mela ed i rulli di cannella, è aggiunta ai piatti messicani che sono saporiti e dolci. La cannella messicana è una varietà differente dalla cannella comune usata negli Stati Uniti, anche se l'una può sostituirsi all'altra.

L'alimento messicano è uno scontro delle colture e degli ingredienti che si è evoluto ed è stato influenzato da tante generazioni. Gli ingredienti messicani di cui abbiamo accennato sin qui, sono soltanto alcuni dei molti che compongono l'alimentazione messicana come la conosciamo oggi.

Quella volta che starete gustando un taco, un burrito, o i quesadillas, ricordatevi che ogni ingrediente è un contributo unico e storico della cucina messicana.

W  PINOCCHIO !
(LA PERICOLOSITÀ DELLE FIABE)…

di Luigi Paternostro

Storditi da una  editoria incontrollata i moderni genitori si trovano di fronte a fatti imprevedibili come quello di dover prima raccontare e poi spiegare una serie di episodi violenti e anche cruenti.

E’ giusto presentarli ai bambini di oggi?  Vediamone alcuni.

Il cacciatore uccide il lupo. Il lupo è cattivo. La Regina ordina al servo di uccidere Biancaneve perché è più bella. La Matrigna lascia Giannino e Rita nel bosco alla mercè della Strega. E la sequenza si fa lunga e sempre più complicata specialmente se ci si imbatte in fantasiosi racconti moderni, culture d’oltralpe, fatti oltre tutto, a pessima imitazione dei “classici”..

Veramente il lupo è cattivo? Cos’è per un bambino la cattiveria? Come si insegna? Si deve insegnare?

La  Regina. Chi è costei, direbbe Don Addondio? Perché è brutta e invidiosa? Cos’è il brutto? L’invidia è un sentimento prevalente delle Regine e perciò di tutte le donne?

La Matrigna è  maligna, empia, egoista perché non è la vera madre. Che mamma pensano sia la loro tanti bambini adottati? 

Chi sono le Streghe che hanno come soluzione definitiva sentimenti di odio e di vendetta?

Una divisione così netta del mondo tra BENE e MALE non è ancora sostenibile, oggi che, finalmente, pur se timidamente e con difficoltà, l’uomo sta scoprendo che la DIFESA DELLA VITA, la SOLIDARIETA’, l’AMICIZIA, la COMPRENSIONE, la LIBERTA’ rispettosa delle altrui LIBERTA’, sono i valori basilari di tutte le filosofie, di tutte le etiche, di tutto il pensiero dell’umanità, somma di quelle aspirazioni che centinaia di migliaia di guerre, non ultime quelle recenti, non sono riuscite a realizzare per il bene dell’intera umanità.

E allora? Insegniamo ai nostri bambini che il mondo è unico, irripetibile, godibile in ogni sua manifestazione, bello. Che di esso fanno parte cose, animali e persone legate da vincoli di interdipendenza funzionale e da equilibri il cui stravolgimento può causarne la distruzione.

Precise  e razionali devono essere le conoscenze, Su tale cammino va guidato l’uomo a cominciare da quella età quando la curiosità sostituisce la scienza, alla quale ogni essere dovrà tendere.

Ma non vi sono pure le emozioni, la fantasia, direbbe il mio povero Renzo?

Certo che si. Per questo vi sono i Collodi!

La creatività ha alla base non i flatus vocis; le chiacchiere hanno fatto il loro tempo: avviliscono e mortificano.  Creatività è operatività è fare, sperimentare. Scienza ed esperienza sono pilastri basilari della vita.

Di questo ha bisogno l’uomo, domani più che mai.

Il bamboleggiare ha fatto il suo tempo. Non si mortifichi più chi è irripetibile perciò insostituibile. Viva il lupo, viva Pinocchio, abbasso la Strega e l’arrogante cacciatore!.

A GERARDO

di Francesco M. T. Tarantino *

Fuori dalla mischia anche per morire

Come angelo di sera in compagnia di Dio

Meditando la tua cronologia del patire

Il tuo esilio voluto per non pagare il fio

A un partito svenduto a giovani rampanti

Senza orizzonti né sogni senza alcun ideale

Ti allontanasti triste dai modi arroganti

Di chi gestisce il potere con legge feudale

Eri un intellettuale senza mode né tempi

Viaggiasti l’America in odore di libertà

E tornasti impaurito per i cattivi esempi

Che una democrazia nasconde per omertà

Ti rifugiasti nei libri poi nel jazz e il teatro

E senza legami e con la tua inquietudine

Seguendo il solco che tracciava l’aratro

Approdasti su sponde di mare e solitudine

E librasti il pensiero oltre il mare e le vele

Cogliendo il vento che ridisegna le nuvole

E ripercorre dei silenzi e dei sogni le sequele

Finché si poggia calmo in un campo di bugole

Erano i fiori che amavi forse perché incolti

Azzurri come la tua anima vestita di cielo

Svelata soltanto ai tuoi pochi amici stravolti

Per il tuo lento andare incontro al disgelo

Non hai voluto compagnia e neanche carezze

Hai inseguito un sogno che finisce nel sole

Ti sei liberato delle nostre quotidiane tristezze

E se non fiori almeno un canto senza parole

Mentre vai in un mondo parallelo ma diverso

Sospeso nell’aria senza contrasti di vento

E prima di oltrepassare questo cielo così terso

Regalaci il tuo sorriso ancora un momento

* Francesco M. T. Tarantino ha di recente pubblicato una raccolta di poesie dal titolo “Cose Mie”, MEF - L’Autore Libri Firenze.


ITINERARI DELLO SPIRITO:

S. FRANCESCO DI PAOLA ED IL SUO SANTUARIO

di Francesco Aronne

Sarà per il nome che porto, regalo di mio padre fervente devoto del Santo paolano, sarà perché il lontano 28 giugno del 1962, a neanche 3 anni, vi feci il mio primo giro turistico (a quei tempi un “viaggio”), ma da sempre mi sento legato a questo lembo di terra calabrese su cui sorge un luogo mistico di pace e preghiera tra i più conosciuti al mondo.

Tutto ruota intorno alla figura di un personaggio straordinario che nacque a Paola il 27 marzo del 1416 e battezzato con il nome di Francesco, per voto fatto dalla madre a San Francesco d'Assisi.

A 13 anni viene accompagnato dai genitori al convento dei Frati Minori Conventuali di S. Marco Argentano (CS) e qui manifesta segni di santità ed opera i primi miracoli.

Successivamente in un pellegrinaggio passa per Roma, Assisi, il romitorio di Monte Luco ed il Santuario di Loreto. La visita di Roma lo turbò profondamente: secondo il suo primo anonimo biografo, Francesco redarguì lo sfarzo di un cardinale con le parole: "Nostro Signore non andava così".

Probabilmente è qui che prende forma l’idea di una radicale riforma della vita ecclesiale basata sulla povertà che lo accompagnerà nel suo lungo cammino terreno.

A 15 anni si ritira in una grotta presso Paola (nota come grotta della penitenza), dove, consolida la sua esperienza mistica attraverso estasi, visioni, preghiere e penitenza. Nel 1435, a 19 anni, accoglie i primi discepoli ed inizia a fabbricare il nucleo originario del convento.

Si deve ad una apparizione di San Michele Arcangelo, l’adozione del "Charitas" come emblema del Santo e sintesi estrema del suo pensiero e del suo insegnamento. Nasce la "Congregazione eremitica paolana di S. Francesco d’Assisi" fondata sulla povertà, castità penitenza, obbedienza ed umiltà.

Nel 1474 il Papa Sisto IV riconosce l'Ordine degli Eremiti poi divenuto Ordine dei Minimi.

Tra il 1498 e il 1506 prende forma la Regola che introduce il voto solenne di vita quaresimale quotidiana e perpetua, con la proibizione assoluta di cibarsi di carne e di tutto ciò che ne deriva, uova, latte, formaggi e latticini. Una Regola così rigida trova difficoltà ad essere approvata, ma prima il Pontefice Alessandro VI e poi definitivamente Giulio II, il 28 Luglio 1506, ne suggellano la validità. Ancora oggi la Regola é osservata e i Minimi continuano ad attingere le proteine animali esclusivamente dal pesce.

San Francesco muore il Venerdì Santo. Era il 2 aprile di cinque secoli fa, correva l’anno 1507, in suolo di Francia, a Tours. Qui era giunto 67enne dopo la notevole insistenza di Luigi XVI che indusse il Papa Sisto IV a vincere la resistenza di San Francesco con l’imposizione di questa emigrazione da cui scaturì quello che viene considerato il “capitolo diplomatico” della sua vita.

Riportato dalle cronache dell’epoca il commovente commiato dalla sua amata terra di Calabria, quando proprio sulle nostra montagne lasciò le orme dei suoi piedi nella viva roccia.

La sua vita di taumaturgo fu costellata da innumerevoli episodi di manifestazioni soprannaturali.

Nel 1464 l’episodio che segnerà la sua iconografia nei secoli futuri: dopo il rifiuto di un traghettatore di portarlo dall’altro lato dello stretto di Messina per elemosina, attraversa il mare sul suo mantello. In Sicilia opererà altri miracoli; tra i quali la restituzione alla vita di un ragazzo che penzolava da un capestro da tre giorni.

Il miracolo del passaggio dello stretto lo consacra Patrono della gente di mare. A mio avviso, in conseguenza ed a ragion veduta, potrebbe essere considerato anche il “Santo Patrono dei naviganti di Internet”. Altri suoi miracoli lasciano un segno profondo che accosta alla sua devozione una moltitudine di devoti in ogni angolo del pianeta.

Nel 1481 davanti al Re di Napoli spezza in due una moneta d'oro proveniente da esosi tributi imposti al popolo partenopeo, facendo uscire dalla stessa sangue alle parole "Sire questo denaro è pieno di sangue".

Il Santuario offre al visitatore il ricordo di alcuni miracoli che si sono svolti in quei luoghi e non solo. La fornace dal cui rogo fu resuscitato l’agnellino Martinello che era stato stoltamente mangiato dagli operai addetti ai lavori del convento che ne buttarono il mantello e le ossa nella fornace ardente. La fonte della Cucchiarella creata per dissetare gli stessi con un colpo di bastone sulla roccia, il ponte soprannominato del diavolo sul quale è possibile guardare l’orma del demonio buggerato da San Francesco che di questi vinse la sfida, il ricordo del miracolo della risurrezione della trota Antonella che su pur preferita dal Santo era stata catturata ed uccisa da un suo seguace. Altri pesci risuscitati. Macigni e gravi minacciosi alleggeriti all’inverosimile o ridotti all’innocuità. Fiamme e braci ridotte all’impotenza o trattate e domate a mani e piedi nudi. Morti ed infermi risuscitati e riportati in salute. Pani moltiplicati. E per finire un episodio avvenuto nella a noi vicina Castelluccio durante la sua

migrazione in Francia: i ferri del suo asinello (pare anche questo di nome Martinello) restituiti all’avaro maniscalco che negò l’elemosina ai poveri fraticelli che vivevano della carità con cui si accompagnava l’azione divina della provvidenza.

Al Santuario, che rimane in una felice posizione, sopra il centro abitato si accede dalla statale 18. L’indice teso di una statua bronzea del santo ne indica la strada di accesso.

Il silenzio che di solito pervade il luogo induce alla meditazione ed alla riflessione. Colpisce l’imponenza e la modernità della chiesa nuova. Un grande edificio che risponde ad esigenze di tipo pastorale ma che stride e mal si amalgama, a mio avviso, con l’antica bellezza del posto e con i supremi insegnamenti del Santo.

L’antico complesso, la chiesa vecchia dove si trovano le reliquie del santo, è caratterizzato da un’armonia con il messaggio cosmico di cui San Francesco si è fatto portavoce. A noi sono oscuri i criteri con cui un tempo venivano scelti i siti per i luoghi di culto. Sta di fatto che è possibile percepire in questi posti la pace, il silenzio e la quiete  che hanno solo luoghi di impenetrabile bellezza dove le energie della terra si ricongiungono a quelle del cosmo e del creato.

Le tracce lasciate nel mondo dalla venerazione di quanti si sono messi sotto la protezione del suo mantello sono innumerevoli ed è impensabile citare tutti i luoghi dove ci sia un luogo di culto, una strada, una memoria dedicata a San Francesco di Paola.

Voglio qui ricordare solo un episodio, riconducibile ad i suoi seguaci,  per la sua particolarità: nel 1634 alcuni monaci italiani dell'ordine di San Francesco da Paola furono ospitati nel monastero di Neudeck, sul fiume Au, dove iniziarono a produrre una birra scura e forte, che secondo le loro intenzioni doveva essere "il pane" per sostenersi durante il periodo quaresimale. Ma il risultato raggiunto fu così eccellente che nel 1780 la Corte di Baviera concesse ai monaci di vendere la birra, avviando una vera e propria attività. Nacque così la Paulaner Brauerei. Oggi la più grande birreria di Monaco.

La santità cristallina, luminosa e sfolgorante nel sole della sua Charitas, la sua lunga vita, l’incredibile attualità e giovinezza dei suoi esempi e insegnamenti fanno di S. Francesco di Paola un faro nella notte, non solo di chi va per mare, ma di tutti coloro che si cimentano con le perigliose acque dell’esistere. L’appuntamento che possiamo darci, calabresi e non solo è a Paola per le prossime celebrazioni del cinquecentenario della sua morte.

RIGENERAZIONE: NON È TUTTO OLIO QUELLO CHE LUCCICA…

di Nedo Biancani

L'olio lubrificante usato serve a produrre nuovo olio lubrificante minerale rigenerato di ottima qualità. Da un chilo e mezzo di olio esausto si ottiene un chilo di ottima base lubrificante, il che costituisce una importante risorsa di contenimento delle importazioni di idrocarburi.

Da una punto di vista ecologico, la rigenerazione degli oli usati fornisce un contributo estremamente positivo: alleggerisce il peso ambientale della produzione di lubrificanti di prima raffinazione e, assicurando una raccolta appropriata degli oli usati rispetto all’incenerimento, che favorisce la miscela indiscriminata di rifiuti, rappresenta l’opzione di recupero più vantaggiosa. Altri benefici ambientali sono costituiti dal fatto che i moderni prodotti rigenerati soddisfano le esigenze delle case automobilistiche, che necessitano di prodotti di alta qualità a basso tenore di zolfo, aromatici e fosforo, al fine di ottemperare al Protocollo di Kyoto. La rigenerazione degli oli usati genera quindi una significativa riduzione nell’impatto ambientale rispetto alla produzione di lubrificanti di prima raffinazione, in particolare in relazione all’impoverimento della risorsa fossile e al rischio cancerogeno. Gli oli usati sono infatti classificati come “Rifiuto pericoloso”, e sono considerati cancerogeni, in quanto possono produrre il cancro della pelle per la presenza dei polinucleari aromatici. Inoltre, con l’evoluzione verso un uso crescente dei composti sintetici nei lubrificanti, l’impatto ambientale tende a diminuire sempre più quando gli oli usati sono rigenerati.

Ma non è tutto oro –  olio, verrebbe da dire nel nostro caso – ciò che luccica.

Nella produzione di oli nuovi i composti aromatici vengono estratti mediante l’impiego di solventi (Furfurolo o Dimetilperidone). Il successivo trattamento di idrogenazione completa la saturazione e l’eliminazione delle molecole ancora presenti di polinucleari aromatici, riportandoli ai valori previsti dalla delibera del Comitato di ISPRA della Comunità Europea.

Nel normale l’uso degli oli lubrificanti nei motori a scoppio o a ciclo diesel, i polinucleari aromatici (che comprendono tutta una serie di composti cancerogeni, dal Benzoalfapirene all’Antracene), si formano in quantità elevatissima. Nel processo di rigenerazione degli oli esausti, questi pericolosi composti chimici possono essere eliminati solo con trattamenti al solvente o mediante processo di idrogenazione. Questi processi conferiscono all’olio rigenerato caratteristiche di ecotossicità e ecocompatibilità che test analitici eseguiti da Istituti scientifici internazionali hanno dimostrato essere del tutto uguali a quelle degli oli vergini. I processi vecchi e ormai tecnologicamente obsoleti (che prevedono trattamenti alla terra, acido, idrossido di potassio o altre sostanze chimiche) non eliminano invece i polinucleari aromatici, e pertanto l’olio ottenuto con questi sistemi deve considerarsi cancerogeno e deve essere opportunamente etichettato con i simboli di pericolosità previsti per legge.

In Italia, la situazione della rigenerazione degli oli è la seguente: solo un’Azienda, presente con i suoi impianti nel Nord e Centro Italia, dispone di impianti di idrofinissaggio.  Tutte le altre Aziende concorrenti, nonostante i successivi interventi di ristrutturazione eseguiti presso alcuni di questi impianti, operano ancora con l’impiego di vecchie tecnologie, eseguendo trattamenti di deasfaltazione seguiti da trattamenti acido/terra o idrossido di potassio.

Se risulta difficile – ma, nonostante tutto, pur sempre auspicabile – ristrutturare i processi produttivi di impianti industriali già esistenti e autorizzati all’esercizio, risulta però inconcepibile e contrario ad ogni logica consentire che un impianto di rigenerazione di nuova realizzazione venga ancora realizzato con tecnologie antiquate che, per quanto migliorate nel tempo, hanno pur sempre quarant’anni di vita; anni nei quali il progresso tecnologico e la conoscenza sulle conseguenze ambientali e sulla salute dell’uomo delle sostanze chimiche introdotte nell’ambiente hanno fatto passi da gigante. È inammissibile che, in presenza di tecnologie migliori da un punto di vista ambientale, venga ancora permesso ad alcuni di utilizzare tecnologie obsolete e inquinanti, basate su trattamenti chimici che a loro volta generano altri rifiuti pericolosi e difficili da smaltire.

Questa situazione, purtroppo già in essere per alcuni impianti di nuova realizzazione, si sta ora ripresentando in Sardegna. Nella zona industriale di Porto Torres sarà quasi completamente ricostruito un impianto di rigenerazione oli cha ha subito quattro anni di fermata, un sequestro giudiziario ed uno stato di degrado e abbandono tali da suscitare le reazioni sdegnate della Commissione Bicamerale d’Indagine sul Ciclo dei Rifiuti.

A questo impianto, come ad altri in via di realizzazione, non dovrebbe essere consentito di impiegare tecnologie ormai superate e inquinanti. Come dovrebbe risultare chiaro a tutti gli operatori che attualmente impiegano queste vecchie tecnologie che i loro prodotti devono essere etichettati come cancerogeni e contrassegnati dal teschio con le tibie incrociate, che contraddistingue le sostanze pericolose, specificandone la pericolosità nelle norme d’uso. Se nel settore degli oli rigenerati venissero rispettate le norme di etichettatura dei prodotti pericolosi, le Aziende che utilizzano tecnologie inquinanti sarebbero automaticamente fuori mercato: come lubrificanti dei motori per autotrazione gli oli rigenerati con tecnologie inquinanti sono scadenti e privi di tutte le necessarie omologazioni; impiegati per usi industriali in ambienti di lavoro che prevedono il rischio di esposizione dei lavoratori addetti, nessuna ASL ne consentirebbe l’utilizzo.

Non dovrebbe esserci allora più spazio se non per tecnologie d’avanguardia ed ecologicamente sicure. Nel nostro paese assistiamo invece ad un assurdo: imprese che utilizzano processi inquinanti e producono prodotti di qualità scadente ricevono un vantaggio competitivo, non solo in barba alle norme antitrust, ma grazie a comportamenti della cui correttezza si può certamente dubitare…

Gli impianti che trattano chimicamente gli oli usati andrebbero proibiti e fermati, i loro prodotti andrebbero etichettati come pericolosi e ai cittadini dovrebbe essere fornita un’informazione trasparente da parte del Ministero della Sanità, dell’Istituto Superiore di Sanità, degli Enti locali e delle Associazioni Industriali.

È chiedere troppo?

UN PENSIERO FOLLE…

di Marilena Rodica Chiretu

Un pensiero folle non vuole stare chiuso,

ha penetrato gli occhi correndo sulle onde,

un fiore di sospiri disperde i petali,

il tuo amore ancora lo crede un bambino.

Ribelli pensieri non vogliono dormire,

hanno svegliato il sonno d’un altra primavera,

la mente fa fiorire un prato di ricordi,

freme il tuo amore in acque di fontane.

Si bagnano gli sguardi in suoni e colori,

il cuore inebriato accende i desideri,

ti amo, amore mio, radice della terra,

rimango qui, con te, sul folle pensiero...

12 febbraio 2007

UN GAND NEBUN...

Un gand nebun nu vrea sa stea inchis,

si ochii i- a strapuns pe unde alergand,

o floare de suspine imprastie petale,

iubirea ta il vede si azi doar un copil.

Rebele ganduri nu vor inca s- adoarma,

caci au trezit din somn o noua primavara,

iar mintea infloreste pajisti de amintiri,

iubirea ta mai fierbe in susur de izvoare.

Privirile se scalda in sunet si culoare,

iar inima imbatata dorintele aprinde,

eu te iubesc, iubire, caci radacina esti,

raman aici, cu tine, pe gandul cel nebun...

12 februarie 2007

ATTENTI AL LUPO

di Nicola Perrelli

La metafora è inquietante, ma rende bene l’idea. E’ già da un po’ di tempo, esattamente dal 1° gennaio 2006, che per il Fisco le operazioni finanziarie non hanno più segreti. Nelle sue fauci aperte  ci finisce ormai ogni nostra transazione. Banche, Poste, società fiduciarie e ogni altro operatore finanziario hanno infatti l’onere di tenere in evidenza i dati identificativi, compreso il codice fiscale, di tutti i soggetti che intrattengono qualsiasi rapporto o effettuano qualsiasi operazione di natura finanziaria.

Grazie alla tecnologia i dati vengono ora acquisiti dall’amministrazione tramite sistemi informatizzati di comunicazione, semplici e tempestivi, e in modo economico e proficuo. Non solo quindi maggiori informazioni e tempi ristretti rispetto al passato, quanto facilità di gestione e di interpretazione delle informazioni stesse. Insomma uno strumento strategico  per l’amministrazione finanziaria nello svolgimento dell’attività di accertamento.

Questo perché i dati acquisiti non sono più limitati alle sole copie degli estratti conto e ai rapporti intrattenuti dal contribuente (un indifeso cappuccetto rosso) ma fanno riferimento a qualsiasi rapporto e operazione , diretta o indiretta,effettuata presso un intermediario finanziario (banca,posta,ecc). Nulla quindi sfuggirà più  agli occhi  degli agenti investigativi del Fisco. La nuova disciplina considera infatti passibili di indagini finanziarie non solo le persone fisiche e giuridiche destinatarie del controllo fiscale ma anche  soggetti terzi allorquando si configuri una possibile interposizione.

Come abbiamo detto prima , con la nuova disciplina gli Uffici possono richiedere dati e informazioni su qualsiasi tipo di operazione di natura finanziaria effettuata su un conto o anche “extra-conto”. In breve, escluse poche operazioni , quali ad esempio l’accredito delle pensioni, il pagamento di utenze, di canoni, di imposte e tasse, tutto il resto sarà accertabile. Dall’incasso di assegni ai bonifici, dagli investimenti presso fiduciarie alle cassette di sicurezza. Operazioni un tempo escluse, in quanto non movimentano nessun conto, come i certificati di deposito, i titoli,  la negoziazione di assegni allo sportello e i pagamenti per cassa, sono ora invece legittimamente verificabili. Guardia di Finanza e Agenzie delle Entrate  possono acquisire , senza dover richiedere autorizzazioni, qualsiasi informazione bancaria e finanziaria per i rapporti ancora in essere al 1° gennaio 2005.

Per avere un’idea della portata del provvedimento basta pensare che all’Anagrafe dei rapporti, cosi è stata chiamata la banca-dati delle operazioni finanziarie, possono richiedere informazioni di tipo finanziario anche le società di riscossione tributi per valutare  l’opportunità o  meno  di attivare eventuali azioni di recupero nei confronti di contribuenti morosi.

Contro questo imponente  dispiegamento di forze il contribuente ha un solo alleato: il Garante. Il quale dopo gli scandali per gli indebiti accessi negli archivi del Ced del Viminale  e della Telecom  e l’illecito utilizzo dei dati, ha frenato con un secco: “No alla moltiplicazione degli archivi, nei limiti del possibile saremo severissimi”. E come dargli torto se per carenza di organizzazione molti archivi sono stati utilizzati per  finalità di controllo , di spionaggio e addirittura di ricatto? 

Che  la privacy nel nostro Paese sia ancora un optional lo dimostrano questi fatti. Il problema della sicurezza dei dati e del loro uso è per il Garante un’emergenza, da affrontare con severità anche nei confronti della pubblica amministrazione.

Da cittadini, prima ancora che da contribuenti, ci aspettiamo che il Fisco questa volta sfrutti con criterio l’enorme flusso di informazioni finanziarie di cui ora dispone e  consegua finalmente  quei risultati che non ha purtroppo realizzato nella lotta all’evasione fiscale con lo strumento dell’accertamento sintetico. Quello, per capirci , che doveva ricostruire la capacità contributiva sulla base di elementi inoppugnabili , quali ad esempio il possesso di imbarcazioni e auto di lusso, di immobili di pregio e di altri asset non comuni. Come pure ci aspettiamo  di non essere, d’ora in avanti, noi  contribuenti “abituali” , i facili bocconi del lupo cattivo.

A cappuccetto rosso diciamo comunque di non fidarsi: contribuente avvisato mezzo salvato.

AMAZZONIA, IL MISTERO DI EL YAJE

di Angela Vanegas

Viaggiando per più di 18 ore in autobus da Bogota, verso sud, arriviamo ai margini del " polmone del mondo": un aria pura, umida, da foresta,

comincia a respirarsi.

Ci troviamo immersi in una vegetazione strana,  rumori di animali e uccelli che non si lasciano vedere... questa è la  foresta amazzonica.

Arriviamo in un piccolo paese chiamato Mocoa. Poi andiamo verso l'interno della foresta,  camminando per più di 7 ore, fra gli alberi e fiumi di acqua pura e trasparente.

Alla fine eccoci  in un  bel posto, accanto  a un piccolo fiume, dove c'era una cassetta costruita a 2 metri dal suolo.

Qui siamo stati 8 giorni preparandoci per bere la "bevanda" degli  indios; In quella foresta vergine, dove sentivi solo il rumore degli animali, e di quella piccola pioggia che non finisce mai, dove forse nessun altro uomo ha mai messo piede, siamo rimasti per purificarci un po’ da tutto quello che ha la civiltà, pulendo e preparando il nostro corpo sia fisicamente, sia spiritualmente e mentalmente.

Poi siamo tornati alla mezza civiltà dal paese, per prendere strada   che ci avrebbe portato dal popolo indios. Indios puri, che ancora non hanno lasciato la foresta,  che ancora credono nel potere dalla natura, con la sua bevanda "El  Yaje", bibita indiana, che secondo loro ti toglie qualunque malattia,  un rito per loro...

Per loro "El Yaje" non è solo  una pianta, è un essere che entra nel corpo e porta via le cose  negative.

Il rito comincia a mezzanotte, l'indio si mette i suoi vestiti speciali, poi accende il fuoco in mezzo al luogo, e protegge il posto dalle cattive energie dicendo alcune cose nel suo dialetto.

Noi, uno ad uno andiamo avanti, accanto al fuoco di fronte all' indio.

Lui  chiede permesso a "El Yaje" per essere bevuto.

Poi ce lo porge.

Noi  lo prendiamo.

Quella bevanda un po' amara, con anche un po' di sabbia, entra  nel corpo, e dopo circa un ora "El Yaje" deve uscire dal corpo, portandose con se le cose cattive.

Quella sera... non si dorme... prima dall'alba l'indio ti punge nella schiena con una pianta chiamata "Hortiga", molto buona per la  circolazione.

Comincia a comparire la luce dal giorno, invece di essere stanchi, ci sentiamo come nuovi, abbiamo tutti una rinnovata energia,  ci sentiamo come se fossimo nati altra volta, senza malattie, nuovi!!!!

E' il misterioso "El Yaje", bevanda magica!!!!!

GIRA…SOLE D’INVERNO

di Alessia Della Casa

Partendo per un paese a me totalmente sconosciuto ero pronta a scoprire e a trovare mille peculiarità nella tradizione e nella cultura di un popolo diverso. Non avrei mai pensato però di constatare, a queste latitudini, un’usanza così “estiva”, incompatibile col rigido clima presente. Sono rimasta stupita, incuriosita, affascinata e coinvolta. I fiori!... In Lettonia siamo pieni di fiori!

Ogni occasione è buona per porgerli in dono: compleanni, onomastici, anniversari, arrivi all’aeroporto…persino per l’inizio della scuola non possono mancare colori e profumi, composizioni d’ogni tipo, dalla più semplice e meravigliosa rosa singola al più colorato e sfolgorante accostamento di fiori. Proprio in quell’occasione, il primo giorno di scuola, ho scoperto questa usanza tanto inaspettata quanto apprezzabile. Ogni allievo teneva in mano almeno un fiore, per sé, per un buon inizio; così, dopo l’attimo di stupore, non ho tardato a procurarmi anch’io il mio mazzetto portafortuna, di buon auspicio per l’anno ricco e colorato che mi stava aspettando.

Col tempo ho potuto notare quanto la tradizione che tanto mi aveva colpito quel primo giorno, fosse diffusa, a breve infatti mi sono trovata al mercato dei fiori, una vera meraviglia! E capita spesso di incontrare la gente per la strada, anche ragazzi giovani, con dei fiori che portano in dono.

Certo in Italia è abbastanza comune regalare fiori, per le occasioni particolari, ma, credetemi, qui questo rito ha tutto un altro sapore!

Il fiore, semplice e naturale, accompagna davvero ogni momento in cui le persone si scambiano un augurio, un ringraziamento, o una dimostrazione d’affetto; d’estate, ma anche d’inverno, ben chiuso nella carta da pacco, quando il vento si fa tagliente. Con la bella stagione ogni angolo della città è colorato da una bancarella fiorita, all’arrivare del rigido freddo invece, rimangono i numerosi negozi e il mercato, costruito al chiuso lungo una via.

Un altro momento sorprendente in cui i fiori diventano veri protagonisti, è il giorno della commemorazione dell’indipendenza. L’usanza vuole che ognuno porti dei fiori davanti al monumento della libertà. In quel giorno una lunga striscia colorata si dispone,  attraversando tutta la grande piazza intorno.

Inutile dire quanto il prezzo dei fiori sia modesto qui, e permetta quindi a chiunque di porgere un semplice, meraviglioso e sempre gradito regalo!

Ecco che la multiculturalità si fa oggetto di un incontro interessantissimo, mi coinvolge valorizzando aspetti della mia stessa cultura, dando un valore diverso – un tocco di novità – pur richiamando la familiarità delle mie usanze.

Quante sfumature si creano al mescolarsi delle culture!!

Aspetti che pensavamo molto diversi dai nostri usi comuni, sanno stupirci con incredibile somiglianza; tradizioni forti e vive fanno da traino a deboli o dimenticate usanze; e ancora, modi assolutamente universali dal nostro punto di vista, si rivelano mutevoli agli occhi di un’altra cultura. Così s’impara che è il punto di vista a dar forma alle cose, e che forse proprio girando il mondo ci si allena all’elasticità delle opinioni, e a vedere ogni situazione almeno in parte positiva e piacevole.

Spesso si rischia di restare troppo inchiodati alle tradizioni e a quelle che sembrano leggi irrevocabili del proprio stile di vita, trasmesse dalla famiglia e proprie delle origini; senza pensare che non per forza quello che è sconosciuto – diverso – debba essere ignorato e trascurato. Al contrario, osservando con occhio attento culture estranee, ci appaiono aspetti che, essendo nati in ambienti diversi e per necessità diverse, sono per noi frutto di novità e interesse.

E allora vien da sé la conclusione: quanta immane stoltezza nel razzismo! a svantaggio dell’umanità, che per natura si distribuisce e si differenzia sui territori, acquisendo modi di vita compatibili alle condizioni del luogo in cui si trova, sviluppando le funzioni adatte alle necessità presenti, e lasciando latenti potenzialità scoperte e utilizzate in altre situazioni; così come avviene nelle diverse specie animali. 

L’apertura e la curiosità verso le diverse culture, dunque, non può che farci più ricchi e più maturi, più degnamente parte del nostro pianeta.

Patriottici saggi sempre inclini a cogliere un fiore.

BREVE STORIA DI MORMANNO

(seconda ed ultima parte)

di Luigi Paternostro

Che cosa aveva lasciato tanto asservimento?

Nei nobili [1] un’accentuata miseria dovuta alla progressiva perdita del potere politico ed economico.

Già alla fine del 1800 essi avevano venduto tutto, fondi agricoli e  palazzi e case in paese [2] .    

Oggi nessuno ricorda più il loro casato [3] .      

Nel clero, che aveva dato alla Chiesa un Cardinale, Niccolò Sala, e quattro Vescovi, Paolino Pace, Pietro Fedele Grisolia, Giuseppe Rossi e Vincenzo Maria Armentano, tutti provenienti da ceti medio alti, confluì pure una presenza più popolare [4] che, in un contesto povero, vi cercò rifugio pur consapevole di avviarsi ad una vita fatta di sacrifici e di stenti [5] .      

Pur vestendo la talare continuavano ad essere contadini e operai. A tanti numerosi preti restavano come uniche occasioni per racimolare scarse e povere elemosine, la benedizione pasquale delle case, i funerali e le messe in suffragio dei defunti.

Si spostavano anche fuori paese per celebrare novene in santuari campestri, come quello della Madonna della Catena, o presso famiglie di contadini [6]

Se si pensa poi che tra tanti bisognosi vi erano anche picòzzi, frati cercatori, e custodi delle varie chiese e cappelle,’nfèrti , cioè offerti ai vari servizi [7] , ci si accorge come fosse veramente difficile sbarcare il lunario.

Solo l’Arciprete aveva un appannaggio più consistente che difficilmente divideva con i confratelli.

La Parrocchia riscuoteva, anche se man mano sempre più ridotti, censi, interessi per lasciti o per enfiteusi.

Il popolo, non limitato nella sua prolificità dall’ignoranza, dal bisogno (più ci sono braccia più è assicurato il pane per la vecchiaia), dagli obblighi imposti dall’etica religiosa (crescete e moltiplicate) [8] , costretto a vivere in un posto isolato e avaro di risorse naturali, indifeso, costretto ad essere ignorante, pativa i disagi più impensati derivanti  dall’ ineguaglianza delle condizioni di vita, dal pesante carico delle carestie, delle guerre e delle epidemie 

A lungo andare le frustrazioni avevano prodotto una rassegnazione quasi fatalistica ad un destino fatto di soprusi ed angherie.

Non si ha notizie di sollevazioni popolari. La miseria soffocava anche gli ardori. Il portarsi la mano alla bocca significava comprimere la rabbia ed evitare così azioni incontrollabili.

Monotono, continuo e asfissiante fu il vassallaggio.

Nessuno aveva visto i Ferdinando, i Carlo o le Caroline.

Se ne avvertiva però la presenza attraverso tutta una serie di obblighi e di carichi. Sempre presenti erano i Signùri Patrùni, i Signùri Cumpàri, i rappresentanti del Re e del governo che con astuzie e cavilli sfruttavano i poveri [9]    

Nonostante tutto, questo era stato il popolo che aveva costruito, per ben tre volte, la sua chiesa, che era diventato esperto ed industrioso pastore (produttore di lane, pelli e formaggi), creatore di piccole industrie come le gualchiere, capace ed esperto nell’arte di trattare il legno [10]  

Nel 1866 vi fu un accenno di rivolta popolare fomentata da frange borboniche che sognavano un’impossibile restaurazione [11]       

Tra il 1860 ed il 1900 il passaggio al Regno d’Italia non risolse alcun problema, fu lento [12] . Il tanto sognato Regno d’Italia era ancora distante.      

In questo periodo, alla lenta e progressiva scomparsa delle sciammeriche [13] e del loro peso politico, non seguì una pensosa proposta del clero che avrebbe potuto rivolgersi con più attenzione ai problemi della povera gente [14] che, abbandonata dai vari governi, sperò solo nell’emigrazione, interna ed esterna, come unica e vera alternativa alla sua sopravvivenza.

La prima, temporanea e stagionale, fu rivolta, come da consuetudine secolare, a paesi compresi per lo più nell’area meridionale. La seconda, quasi sempre definitiva, avveniva tra nazione e nazione con riguardo soprattutto all’America del sud ove l’accesso era libero.    

Difficile era recarsi negli Stati Uniti occorrendo o un visto speciale o una richiesta di lavoro o la chiamata di un parente mallevadore. Pochissimi ebbero i requisiti per tale espatrio. Tali gite [15] furono una vera delusione perché l’insicurezza politica di quelle terre e l’aumentato afflusso migratorio  europeo, non assicurarono lavoro e dignità.

Moltissimi dovettero adattarsi a svolgere attività precarie, umilissime, generiche e saltuarie.

Altri, scoraggiati per il fallimento, ritornarono più poveri di quando erano partiti.

Alcuni, più orgogliosi, fecero perdere le loro tracce, e morirono in estrema miseria.

Nonostante la mancanza di infrastrutture e di incentivi a Mormanno non vi fu una renitenza delle iniziative locali   Laboriosi e solerti concittadini di estrazione medio borghese che in alternativa agli esodi e a quella economia agricola che non aveva prodotto ricchezza, crearono una Mormanno industriosa [16] .

Alle vecchie imprese di sapore medievale quali le concerie, i caseifici, le fabbriche della cera, le tessiture al telaio si affiancò la produzione dell’energia idroelettrica (1895).

Sorsero nuovi mulini che presero il posto di quelli ad acqua, lanifici, segherie. Alcune di tali attività proseguirono fino agli anni cinquanta del secolo scorso.

Un altro fattore di sviluppo culturale fu la presenza, a partire dalla seconda metà dell’800, della scuola elementare obbligatoria limitata al solo centro abitato [17]   anche  se condizionata dalla mancanza di risorse che né lo Stato né la comunità, in verità molto povera, misero a sua disposizione [18]      

Fu pure poco incisivo e a volte nullo l’apporto dato al paese dai suoi rappresentanti politici locali della fine dell’800 [19] e della prima metà del 1900 [20]      

La campagna per la conquista della Libia, la prima guerra mondiale che causò la morte di ben 108 concittadini tra cui il tenente Gaetano Alberti insignito di medaglia d’oro, l’epidemia della spagnola diffusasi nel 1918, produssero un ulteriore scoramento.

Il lungo viaggio attraverso il fascismo [21] fu un cammino faticoso e penoso.

Il dopoguerra fu difficile [22] .     

Tra il 1947 e il 1952 vi fu un consistente movimento migratorio verso il sud America, speranza di quanti, in tempi ancora incerti [23]      non credettero in una rapida ripresa.

In patria intanto la politica liberista tracciata da Einaudi, affidò ai privati la ricostruzione e attraverso un contenimento dei salari e soprattutto in virtù degli ingenti aiuti americani riuscì a far raggiungere all’industria, già nel 1949/50, i livelli dell’anteguerra.

Più tardi il boom economico portò benessere e il lavoro diventò una vera conquista sociale.

A Mormanno, tra la fine del 1950 e il 1970, il Pastificio D’Alessandro, primo  esempio di industria moderna, allontanò  fame e miseria.

Quanto è accaduto, a partire dagli anni ‘60 ad oggi, non è trattato nel presente schema storico perché merita una disamina attenta che sarà oggetto di un apposito lavoro.

Solo per fare qualche cenno voglio sottolineare che un’accesa politicizzazione ha caratterizzato gli anni 1970-2000 durante i quali pur se si sono costituite alcune realtà come il Consorzio di Bonifica e l’Ospedale [24]   non si sono create quelle condizioni atte ad offrire lavoro a tutti i giovani che continuano ancora a cercarlo altrove impoverendo sempre più il paese di opere e di idee [25] .

GEORGIA

di Nino Garsenishvili

Salve dal quel piccolo, bello e attraente paese del mondo che è la Georgia.

Sono una ragazza georgiana e mi chiamo Nino.

Posso immaginare che tu sorrida leggendo Nino-ragazza ... ma anche a me fa sorridere pensare che l’attore italiano favorito di mio padre si chiama Nino Manfredi e uno dei musicisti e compositori miei preferiti è Nino Rota. Nino è un nome di donna di Georgia!

Questo nome lo debbo a Santa Nino, che predicò qui nel quarto secolo dopo che l’Ortodossia fu dichiarata religione di Stato. Prima di lei, la Vergine doveva convertire la Georgia, ma fu Andrea, il primo fra gli Apostoli scelti da Gesù, a venire qui a predicare nel primo secolo.

Io ho 22 anni e sono interprete (con laurea e, fra poco, un master). La lingua principale all’Università è stata l’inglese, quella secondaria l’italiano. E l’italiano l’ho scelto perchè da bambina ascoltavo le favole italiane di Cipollino e di Giovannino e Pulcerosa. E poi ci sono stati Celentano, Bocelli, Ramazzotti, Morricone e Rota, e ancora De Niro, Leone, Al Pacino, Tarantino e Coppola. Durate gli studi Dante Alighieri, ma anche Alessandro Baricco. ... e ovviamente il calcio. Maldini, Del Piero, Nesta ... e il nostro Khaladze che gioca da voi.

E ora, su suggerimento del direttore, sono qui per introdurvi alla mia Georgia, anche perchè molta gente nel mondo sa ben poco di questo paese.

Non sapendo realmente da che parte cominciare, ho deciso di raccontarvi una nostra leggenda. Quando Dio distribuì i territorio della terra fra i vari popoli, si formò una lunga coda. I georgiani decisero di non stare in coda, andarono in un campo e fecero una festa. Quando poi si presentarono davanti a Dio, per loro non era rimasto nulla. Dio chiese loro la ragione del ritardo e loro si giustificarono: “C’era una lunghissima fila e siamo andati a fare una festa per non disturbarti e abbiamo brindato in tuo onore.”  Allora Dio decise di dare loro la sua residenza, il Paradiso in terra, il Caucaso, il posto più attraente fra due mari, poi andò nel Paradiso in cielo.

Abbiamo, dunque, una storia e una cultura antica e abbiamo nei secoli dovuto difendere il nostro territorio, il nostro linguaggio e la nostra religione dai nemici. Ed è per questo che vi devo raccontare della più importante battaglia, nella quale il Re David il Costruttore ottenne una miracolosa vittoria. Questo re fece molte opere per il suo paese e per questo lo chiamarono “Il Costruttore”. Fu forte, coraggioso e cristiano. E dopo la sua morte fu dichiarato santo. Guidò 56.000 georgiani nella battaglia di Didgori contro 400.000 turchi.

La tattica e la strategia che adottò sono state insegnate nelle scuole militari europee e americane per lungo tempo.

La storia più recente ci ha visto parte dell’Unione Sovietica, sotto il governo russo, ma ora siamo indipendenti e liberi. Molti credono ancora che il russo sia la nostra lingua, perchè lo parliamo bene, ma noi abbiamo una lingua nostra e siamo orgogliosi di ciò. Abbiamo un alfabeto nostro. E siamo fieri dei nostri scrittori e della nostra opera letteraria più importante, “Il cavaliere con la pelle di pantera” di Shota Rustaveli, opera conosciuta come “La vetta della letteratura del mondo”. Per noi è come la Divina  Commedia di Dante Alighieri per gli italiani. Noi la mettiamo accanto alla Bibbia!

E non posso dimenticare di dirvi che la nostra musica tradizionale, la nostra canzone polifonica nazionale è unica e bella. “Ciacrulo” è la canzone di cui andiamo più orgogliosi.

Né posso tacere di Nico Pirosmani, il più importante pittore georgiano. Lui è di Kakheti, Mirzaani, uno dei luoghi della parte più bella dell’est della Georgia, il luogo da cui viene anche un eroe italo-georgiano, Pore Mosulishvili.

Pore, a 23 anni, durante la seconda guerra mondiale, scappò dai fascisti e divenne un membro della resistenza italiana. I tedeschi catturarono la cellula partigiana di cui faceva parte e dissero che avrebbero giustiziato il loro capo e lasciato vivi gli altri. Pore si dichiarò il comandante, anche se non lo era, e fu giustiziato. La madre di Pore vive in Italia e spesso riceve delegazioni georgiane. Così abbiamo noi georgiani e voi italiani un eroe in comune.

E per il momento è tutto dalla Georgia,

Arrivederci ai miei speciali e preferiti Italiani!

IL PESCE NEL MONDO RUSSO

DEL MIR MEDIEVALE

di Aldo Maturano

Il pesce invece era il cibo più frequente! Ne abbiamo già accennato in qualche altra parte di questo lavoro, ma qui vogliamo mettere a fuoco alcuni aspetti magici di questo animale acquatico che frequentava gli innumerevoli corsi d’acqua e i moltissimi laghi e paludi della foresta russa. Se lo consideriamo dal punto di vista nutrizionale come fonte di proteine animali, certamente il pesce era un cibo quasi necessario per lo smierd per una sana ed equilibrata alimentazione, se, invece, pensiamo alla sua importanza culturale allora possiamo dire che, mentre per il nobile variago che viveva a Kiev nell’XI-XII sec. il pesce era un cibo di basso rango poiché non richiedeva alcuna impresa di forza per farsi catturare, al contrario per lo smierd era un cibo sopraffino. La Chiesa Ortodossa teneva il pesce in gran considerazione proprio perché San Pietro era stato pescatore e Cristo stesso era rappresentato da un pesce (in greco derivato da un acronimo). Addirittura quando Cristo, essendo risorto, si rivolge ai suoi apostoli, chiede (Vangelo di S. Luca, cap. 24, 41-42): “Avete della carne? E gli diedero un pezzo di pesce arrostito e del miele.” Ecco qui è condensata tutta la posizione ufficiale della Chiesa rispetto ai due tipi di alimenti! Malgrado ciò nella cultura russa dell’élite il pesce continuò ad esser ritenuto un cibo inferiore destinato agli smierdy! Per quanto riguarda invece la posizione religiosa degli antichi Slavi verso il pesce la faccenda è più complicata.

Di quale pesce però parliamo? Marino o fluviale, o forse meglio di marino-fluviale come il famoso Salmone? Se non altro, ciò è importante dal punto di vista delle tecniche usate per pescare. Possiamo già dire con Maguelonne Toussaint-Samat, benché si riferisca al pesce di mare, che “…La straordinaria fecondità del pesce e la rapida rigenerazione dei banchi immediatamente suscitarono l’idea del rinascere e della perpetuità dei cicli stessi.” per capire subito come questo cibo potesse essere altamente apprezzato per la sua abbondanza nelle acque della Pianura Russa e per la sua fecondità. Se guardiamo meglio la Pianura Russa e immaginiamo di dover disegnare i confini della Rus’ di Kiev fino al XIII sec. possiamo facilmente renderci conto che i territori di questo enorme ed esteso stato che avessero confini diretti con il mare non ce ne sono! A sud la striscia che costituisce la riva settentrionale del Mar Nero era nel periodo da noi contemplato ancora sotto il dominio dei vari nomadi, salvo la piccola Tmutorakan che si affacciava sul Mar d’Azov, separata dal resto dell’antico stato russo. A nord sia Novgorod che Polozk o Pskov erano di molto arretrate rispetto alle acque del Mar Baltico… Tutto questi c’impone a credere senza alcun problema che i pesci che gli smierdy consumavano erano normalmente di acqua dolce! Inoltre è doveroso aggiungere che le varietà a causa di certi circuiti chiusi delle acque interne di pesce è enorme e non si riesce nemmeno ad elencarle tutte perché ne rimane sempre qualcuna irriconoscibile rispetto a quelle note nel resto d’Europa.

A parte ciò possiamo leggere nelle Cronache che la lotta fu veramente dura fra l’élite al potere che consumava carne a non finire e la Chiesa che cercava di introdurre il salutare (per chi già mangiava troppo) digiuno

periodico settimanale o durante la Quaresima, riferito giusto alla carne. Per questo problema a Kiev ci furono addirittura delle rivolte dei nobili

stessi riportate nelle Cronache. Il nobile si oppose sempre a chi volesse sostituire il superiore alimento carneo con l’inferiore pesce. Addirittura ci fu una minaccia di scomunica per il potente Knjaz Andrea Bogoljubskii di Vladimir-sulla-Kljazma proprio per questa questione nel XII sec. che rese inviso questo principe al clero che alla fine portò ad una congiura contro di lui e fu ucciso…

La spiegazione per questa rigidissima posizione della Chiesa nella Quaresima verso l’élite al potere (situazione abbastanza generale in tutta l’Europa, dobbiamo aggiungere) forse è riscontrabile anche nel motivo tecnico (secondo le concezioni sanitarie del tempo) che la Toussaint-Samat ci dà: “Occorreva mangiar qualcosa (al posto della carne). Perché proprio pesce? Per la sua qualità di alimento eucaristico? Sicuramente c’è dell’altro. (Sappiamo) … che la carne e il grasso erano considerati alimenti rossi, grassi e caldi capaci perciò di produrre euforia e talvolta eccitazione. Il pesce per la sua associazione con l’acqua è freddo bianco e poco grasso, triste quando non calmante!… Allo stesso tempo (rinunciare alla carne per il pesce nella Quaresima) era una mortificazione dei sensi che in teoria conduceva all’ascesi e quindi come un modo di redimersi dal peccato una volta all’anno!”

Allora, se così era, lo smierd che “si mortifica” tutto l’anno è forse più santo del Knjaz? Una posizione teoricamente inconciliabile…

E’ probabile che avremmo saputo di più su queste questioni se avessimo avuto più notizie, ma purtroppo, come giustamente ammette il grande storico russo B.A. Rybakov: “I Cronachisti (russi) che guardavano la vita dalle finestre delle celle dei monasteri o da quelle della corte principesca non amavano riportare nelle pagine delle Cronache i racconti delle rivolte e dei tumulti (dei contadini). Amavano riferirsi al loro compito come quello di raccontare solo delle battaglie e del coraggio dei (nobili) guerrieri.” E non di quello che mangiavano o non mangiavano gli smierdy, aggiungiamo noi!

Un’altra questione, anche se non sempre ben evidenziata, ma sicuramente con un suo peso ideologico-politico specialmente a Kiev, era che mangiando il pesce (senza fare troppe distinzioni fra specie e specie e tra gli altri animali delle acque) ci si distingueva, come cristiani, dagli ebrei kieviani molto numerosi ed economicamente dominanti che celebravano anche loro la Pasqua con grande ardore, ma non consumavano altro pesce se non quelle specie con le squame…

Sebbene oggi molti pesci che si pescavano una volta nelle acque russe sono estinti o sono emigrati altrove a causa dell’inquinamento, è possibile ricostruire una panoramica della loro diffusione da quanto l’archeologia ha ritrovato e da quanto è detto nelle Cronache e negli atti della Chiesa Ortodossa Russa oggi tornati in auge per la consultazione pubblica.

Vediamo meglio quali consumi di quali pesci erano più comuni.

Chi si allontanava da casa per almeno una giornata intera si forniva di pesce secco… Chi partiva per un lungo viaggio, si forniva di pesce secco…C’era però anche la domanda di pesce secco e salato che veniva dalle città che ne esportavano. Da dove veniva il pesce? Chi l’aveva pescato e quando? Una fonte interessante sulla varietà di pesce che si pescava nei tempi medievali è citata da A. Korinfskii: la Lista delle Parole concernenti l’Arte di Costruire le Imbarcazioni (il titolo in verità è un po’ più lungo in russo: Список с cуднаго дела слово в слов как был суд у Леща с Eршом) del XVIII sec. Qui si nominano non solo i pesci esistenti, ma talvolta anche come si fa per pescarli e quali sono le stagioni giuste.

La pesca di solito può aver luogo (pescare era un lavoro da uomini!) quando lo smierd non è occupato nei campi ed infatti per san Pietro e Paolo ossia il 29 giugno ecco che nel mir appaiono i mediatori/compratori del pesce ancora da pescare. Costoro si accordano per un certo quantitativo, scegliendone le specie e le dimensioni, sul prezzo da pagare allo smierd sotto forma di oggetti e strumenti utili, e ci si dà appuntamento in un giorno adatto per venire a prelevarlo dopo la salagione o l’essiccazione.

Si pesca con la lenza e con l’amo. Ci si incammina verso il fiume o il lago molto presto di mattina, quando i pesci si fanno prendere più facilmente perché il Vodjanòi (v. oltre) è più ben disposto! Il burchiello aspettava capovolto a riva di essere lanciato sull’acqua e la pesca durava naturalmente fino all’imbrunire tanto che i pescatori preferivano mangiare sul posto una parte dei pesci piccoli che avevano catturato e quindi invendibili e portare i più grossi a casa.

Un signor pesce era di solito il Salmone (losos’/лосось) che si faceva addirittura prendere con le mani nelle acque della Dvinà Settentrionale, ma il Luccio (sc’ciuka/щука) era considerato il vero re dello stagno o del lago, la cui presenza veniva subito notata dal pescatore perché, quando c’era un luccio, non si vedevano altri pesci… Era un pesce che, una volta pescato, di solito era già prenotato dal “signore locale” essendo uno dei più saporiti e più pretesi dai nobili. Soltanto la testa restava allo smierd. Un individuo di 5 o 6 anni era un bella preda e la testa era pure una ricompensa ambita perché cercando bene in essa si poteva trovare, se si aveva fortuna, un piccolo osso a forma di sole (ossia una croce) che portava la buona sorte.

Pesto di bacche di ginepro

per salmone o altro pesce simile di grossa taglia

Si prendono delle bacche di Ginepro (mozhzhevel’nik ossia Juniperus sp.) secche (quelle fresche sono puzzolenti), dell’Aglio ursino (Allium ursinum sp. in russo ceremscià) e del Rafano forte (Armoracia rusticana sp. in russo hren) si pestano insieme con del burro salato fino ad ottenere una bella mescolanza di un bel colore bruno. Questa salsa si spalma sul pesce grigliato caldo.

Anche la Scardola (lesc’c’/лещ) era un pesce di certe dimensioni e per questo era un onore per lo smierd servirlo all’ospite e le parti migliori erano la cosiddetta lingua e il cervello della grossa testa. E così il Pesce Persico (okun’/окунь), il Gado (nalim/налим) e la Perca (sudak/судак)…

            Nel Volga poi vivevano i pesci d’acqua dolce più grandi del mondo e cioè le diverse specie di Storioni (osjòtr) che potevano raggiungere l’età di ben 10 anni ed erano allora, quando giungevano al delta del grande fiume, dei bestioni di varie decine di chili, ma questi pesci erano per campagne di pesca da fare in gruppo! Il documento citato poco prima (La Lista etc.) informa che di Storioni ce n’erano in abbondanza nel lago Niero (Nero/Неро) sulle cui rive si trova Rostov-la-grande appunto nel bacino dell’Alto Volga…

Tutto questo era permesso solo se il Padrone delle Acque fosse stato avvisato in tempo. La credenza era che ciascun specchio o corrente d’acqua o palude o marcita avesse il suo proprio padrone invisibile, ma sempre attento agli intrusi. Questo spirito era chiamato Vodjanòi o Vodovìk (dalla radice *vod- acqua). Chi l’aveva visto diceva che questo spirito impuro aveva la facoltà di trasformarsi in un essere orribile con le mani a forma di remi, tutto coperto d’alghe e nudo fino alla cintola. Irritato era capace persino di saltare fuori dall’acqua sotto forma d’un mostruoso luccio che vi avrebbe divorato all’istante. Può addirittura saltare nella rete che avete lanciato e farla a pezzi liberando così tutti i “suoi” pesci impigliati fra le maglie! E la vostra barca? E’ in pericolo, con un Vodjanòi arrabbiato. Come propiziarselo? Innanzitutto il Vodjanòi si risveglia dal suo letargo invernale soltanto intorno alla metà d’aprile ed è per questo che i pesci sono abbastanza grandi da poter essere pescati. Tuttavia nel Medioevo prima di mettere le barche in acqua o di andare a pesca, il volhv del villaggio sacrificava, affogandolo, un cavallino di color nero (dopo averlo nutrito con tanta avena e avergli fatto bere molta birra o, in altre versioni, dopo averlo caricato pure di tutte le colpe possibili) e diceva con voce gentile all’indirizzo del Vodjanòi: “Eccoti un nuovo ospite, un nuovo arrivato per la tua nuova casa, nonnino, abbilo caro e sii amico della mia famiglia!” Addirittura, se ci si fa amici di questo spirito, si possono pescare persino dei tesori poiché tutta la roba di valore che il Vodjanòi trova sul fondo delle acque, la raccoglie nel suo palazzo di vetro e la regala a chi preferisce.

Dobbiamo ricordare che quando furono introdotti i primi mulini ad acqua sul Dnepr e sui suoi affluenti, la gente ebbe timore che i pesci scappassero tutti via e che il Vodjanòi non li lasciasse più ritornare nelle acque se non si fossero tolti di mezzo quegli enormi trabiccoli galleggianti. Nelle Cronache Russe i primi mulini sono menzionati intorno al XII sec.. importati naturalmente tramite i greci e si ricorda, in occasione del loro montaggio, che furono legati alcuni animali vicino al mulino affinché il Vodjanòi con un’ondata se li portasse via come offerta per il permesso di sfruttare la corrente senza danno. E’ curioso che da quel momento in poi il molinaro nella cultura russa fu associato proprio al Vodjanòi diventandone l’amico e il rappresentante visibile e quindi in principio un uomo dai poteri magici pericolosi!

Ma torniamo pure al pesce.

Col questo naturalmente si facevano zuppe, fra cui ricorderemo la seljànka/ceлянка (da non confondere con l’altra zuppa chiamata soljànka/coлянка), il borsc’c e l’uhà. L’uhà è rimasta la più popolare, ma proprio per questo è diventata una parola in generale usata per indicare dei piccoli pesci messi insieme a cuocere per qualche decina di minuti con varie spezie (inclusi sempre aglio e cipolla), nel cui guazzetto inzuppare il pane… stando attenti alle spine! Un’altra zuppa particolare era la botvin’ja/ботвинья o zuppa di pesce in birra kvas con varie verdure. Questa la si preferiva all’estate quando c’era il digiuno canonico dell’agosto prima dell’Assunzione. La si mangiava quasi fredda…

Alcuni consigli per preparare la seljànka  (da V. Belov, 2000)

I pesci scelti non devono essere di grossa taglia

Latte

Aglio e altre spezie piccanti

Foglie d’alloro secche

Mollica di pan di segala

Uova

Un pizzico di sale

I pesci eviscerati vanno cotti a fuoco molto basso e l’aglio tagliato finemente va messo verso l’ultimo momento della cottura. Uova e latte vanno sbattuti insieme e mescolati al brodetto mentre questo cuoce lentamente. Addensare con mollica di pane.

Il pesce secco invece lo si cuoceva in acqua dopo averlo maneggiato per un po’ fra le mani per farlo ammorbidire e rompere in piccoli pezzi oppure lo si masticava con dolcezza in bocca dando tempo alla saliva di ammorbidirlo prima di metterlo in pentola.

Conservare i pesci sotto sale o seccarli nel vento

(da J. Seymour, 1978)

I pesci a carne bianca e di grossa taglia si prestano bene ad essere salati. Prima di tutto si aprono sotto la pancia e si tagliano fino alla coda in modo da togliere la lisca e lasciare il pesce aperto e libero dalle interiora. In un grosso vaso di coccio vengono coperti di sale uno per uno e poi impilati nel vaso. La salamoia che si forma deve essere lasciata fluire via. Per i pesci grandi ci vogliono circa 15 giorni prima che siano pronti e invece per quelli di minor taglia anche una sola settimana.

Per seccare i pesci, chiamati in russo provesnòi, bisogna sempre pulirli come detto sopra. Poi dalle code vanno appesi nel vento e nel sole. Il vento serve a tenere lontani gli insetti e il sole a disidratarli. Per grossi pesci occorrono dai 10 ai 12 giorni, ma bisogna sempre stare attenti che non prendano la pioggia. In questo caso si deve subito tergerli e portarli al caldo in casa vicino alla pec’ka, altrimenti imputridiranno.

Per il salmone o lo storione, ricordarsi di tenere a parte il fegato che va conservato in olio di semi di lino come leccornia.

N.B. (di ACM) I russi ai visitatori dei sec. XVI-XVII sembrarono non saper conservare bene il pesce sotto sale poiché, a dire di questi stranieri, il pesce puzzava sebbene i russi poi apprezzassero molto questo odore sgradevole. De gustibus non est disputandum

Il pesce andava in varie composizioni con farina e acqua e dunque anche in focacce varie (piroga/пироги) o come ripieno in varie ricette (ad esempio i rybniki/pибники) o persino impanato e fritto come una cotoletta (tel’noe/тельное).

Né lo smierd disdegnava il caviale di storione (ikrà/икра) o la bottarga (mjataja/мятая per coloro che vivevano lontano dal Volga) di vari pesci. Anzi! Il caviale per il suo sapore salato e per le proprietà afrodisiache che gli si attribuivano veniva anche pestato e mescolato con la farina nelle bliny preparate per le feste comandate. La E. Molohovez nel suo libro, Consigli alle Donne di Casa del 1861, addirittura lo abbina con i Cavoli Acidi e afferma che: “…il caviale (di storione) darà al Sauerkraut un buon sapore…” ma non ci assicura che questo fosse un piatto russo molto antico.

Forse avrete notato però l’assenza dell’Anguilla (in russo ugor’/yгopь, Anguilla anguilla sp.) nel nostro discorso, eppure questo pesce risaliva alcuni dei grandi fiumi russi del nord ed era ben noto ai pescatori! Nel loro quarto anno di vita, i leptocefali di questo pesce si trasformavano in piccole anguille e risalivano i fiumi e i laghi russi, penetrando il più possibile all'interno e superando tutte le difficoltà di una migrazione controcorrente. In questo tragitto percorrevano vene d'acqua sotterranee o attraversavano i prati umidi arrivando persino in laghi non comunicanti direttamente con i grandi fiumi. A Novgorod addirittura si raccontava che, se per sbaglio aveste catturato un’anguilla di mattina presto mentre sta migrando e la gettaste via lasciandola guizzare per i campi lungo le rive essa si libererà di tutti i mali che porta addosso, ma… li scaricherà su chi la sta a guardare! Ebbene l’anguilla non era considerato un pesce, ma un serpente maligno che viveva nelle acque come le altre serpi d’acqua! Naturalmente era proibito mangiarne e un vecchio adagio russo diceva che ne puoi mangiare solo se, dopo aver viaggiato per sette città, non hai trovato alcun cibo! Cioè mai!

© 2006 ALDO C. MARTURANO
(da VITA DI SMIERD, CIBO E MAGIA NEL MEDIOEVO RUSSO)

ORA A FIAT DICIAMO: “BRAVO”

di Stefano Ferriani

La nuova proposta Fiat relativamente il segmento “C” si chiama Bravo.

Non si tratta di una riedizione della vecchia Bravo (vettura mal riuscita e discreto fiasco commerciale), ma di una vettura completamente nuova nei contenuti e nella sostanza.                                          

Bella e armoniosa la linea, in controtendenza rispetto il modello precedente (ora le forme sono rotondeggianti anziché spigolose), ne è uscita una vettura con un design moderno che senz’altro piacerà ad un pubblico giovane.

Completamente nuovi anche gli interni che oseremmo definire quasi “lussuosi”, visto la qualità dei materiali e la varietà degli accessori disponibili.                                                                    

Ampio e spazioso il bagagliaio, comodi e ben costruiti i sedili, si viaggia bene in 5 persone (gli spazi interni sono sfruttati al meglio).                                                                            

Poche le motorizzazioni disponibili: un 1400 benzina da 90,120 e 150 cv e un 1900 multijet         da 120 e 150 cv.                                                                                                                                

A nostro parere manca la motorizzazione 1600 cc, che sarebbe quella più consona, viste le dimensioni e il peso della vettura, nonché le motorizzazioni delle dirette concorrenti.                      

A proposito di concorrenti, Bravo dovrà fare i conti con “medie”del calibro di Golf, Audi A3, Mercedes classe A, pertanto è indispensabile che oltre che bella sia anche affidabile (Fiat ha sempre peccato in questo!).

Ma, ora la Fiat ha la presunzione con Bravo di essere competitiva con le “Tedesche”e, nell’immediato futuro, anche con le “Giapponesi” che stanno invadendo l’Europa con prodotti che fanno dell’affidabilità l’arma vincente.       

Sarà come sempre la clientela ad esprimere il giudizio finale, che decreterà o meno il successo di Bravo, noi ci limitiamo ad auspicare che ciò avvenga,  non foss’altro perché Fiat è rimasta forse l’ultima grande fabbrica Italiana in grado di tenere alto il nostro prestigio  nel mondo


LA POLENTA

di Antonio Penzo

La preparazione della polenta viene insegnata alle giovani ragazze molto attentamente.

Innanzitutto si procede con il controllo della farina gialla utilizzata, che si ricava dalla macinazione più o meno fine del granoturco e separata dal germe mediante setacciatura. La farina vitrea o semola o anche fioretto è quella macinata a grana grossa, tipica nelle nostre vallate. La farina macinata a grana sottile o finissima dà una polenta morbida.

Il granoturco migliore è quello a grana piccola, vitrea e maturato al sole agostano.

La farina deve essere di ottima qualità e fresca e non deve essere conservata a lungo, in quanto tende ad alterarsi facilmente, stante il fatto che spesso il granturco non è ben essiccato oppure la stessa non è conservata in luogo fresco ed asciutto. Se lasciata aperta per un po’ di tempo la farina tende ad agglomerarsi, con lunghi filamenti che avvertono che vi è la presenza di vermiciattoli e quindi deve essere gettata.

Sul focolare si appende alla catena il paiolo di rame non stagnato, si mette la quantità di acqua reputata necessaria, si aggiunge il sale e si fa fuoco; all’ebollizione si inizia a versare la farina con una mano, a pioggia,  mentre con l’altra si gira il bastone per mescolarla, continuamente, evitando il formarsi di grumi. Ci si aiuta a tenere fermo il paiolo con un pezzo di legno duro a forma di coppo poggiato sul paiolo e premuto con un ginocchio.

La lavorazione procede per almeno tre quarti d’ora, meglio se un’ora, perché cuocia al meglio e sempre girando il bastone nello stesso verso, affinché la polenta venga migliore. Se si notano dei grumi gli stessi vengono rapidamente eliminati schiacciandoli con il bastone contro la parete del paiolo. La polenta è era pronta quando inizia a staccarsi dalle pareti del paiolo; continuando la cottura si migliora la qualità, in quanto la polenta non scuoce. Si toglie il paiolo dal fuoco e lo si gira sul tagliere di colpo, facendo cadere la polenta sullo stesso.

La polenta va tagliata non con la lama del coltello ma con un filo di cotone bianco, passandolo sotto il cumulo ed estraendolo tenendolo teso dai due capi.

La polenta va maritata con sughi, carni, formaggi e verdure a seconda del periodo e della disponibilità.


TEMPO = OROLOGIO = LINGUAGGIO UNIVERSALE

di Raffaella Santulli

Il tempo è una dimensione: non la si vede ma se ci si pensa ci si rende conto che regola tutta la nostra vita e quella di tutto il mondo.

"Io so benissimo che cos'è il tempo, ma se qualcuno me lo chiede non glielo so spiegare" diceva
Sant' Agostino.

Ebbene si. Anche oggi il tempo mantiene tutto il suo fascino ed il suo mistero.

Guardare l'ora è un'azione automatica. Eppure, per arrivare a questo gesto naturale e spontaneo, sono occorsi molti secoli di scoperte, ricerche e lavoro a volte persino oscuro.

Fin dall'antichità,  l'uomo ha regolato la propria esistenza sul sorgere del sole: l'ombra di un bastone o anche della propria persona, poteva indicare il trascorrere del tempo durante la giornata.

Il calendario, la meridiana, la clessidra, lo svegliarino monastico e poi l'orologio.

Ma anche al di fuori dai monasteri, clessidre e meridiane ad un certo punto non bastarono più: la complessità della vita sociale aumentava ed il canto del gallo poteva essere soltanto un vago punto di riferimento, ma poi come coordinare e sincronizzare tutte le attività lavorative della giornata?

Non certo clessidre e meridiane, troppo soggette ai capricci del tempo meteorologico: era necessario un punto di riferimento uguale per tutti e visibile o udibile da tutti. E' questa forse la genesi dell'orologio, anche se diversi studiosi sostengono che in realtà l'orologio sia nato come sottoprodotto dei complessi congegni astronomici approntati per riprodurre i movimenti celesti.

I Babilonesi, i Sumeri, i Romani, gli Egizi e poi... gli Svizzeri , sicuramente!

Ma nella storia della "pendoleria", un certo rilievo lo ebbero anche gli Italiani,l'orologio "notturno" ideato dai fratelli Campani.

Su richiesta di papa Alessandro VII, il quale soffriva di insonnia e non sopportava il ticchettio degli orologi comuni, realizzarono nel 1656 un orologio "muto"  con un originale silenziatore. Ma non bastava.

Doveva anche essere visibile nell'oscurità senza disturbare il papa!

Detto fatto : i Campani risolsero il problema costruendo un quadrante traforato e fiocamente illuminato sul retro da un lume posto all'interno della cassa.

Papa Alessandro VII fu contentissimo dell' innovazione, ma non risulta con certezza se riuscì finalmente ad ottenere i favori di Morfeo.


LA CENA PER FARLI CONOSCERE

di Carla Rinaldi

Quando spesso i critici e i cinefili si chiedono cosa sia il cinema, il mio pensiero va sempre, immediato, al cinema di Pupi Avati. Ci sono tanti registi, ma quando si riesce a indovinare, anche distrattamente, un regista da una sola inquadratura, vuol dire che quel regista è riuscito creare uno stile.

Pupi Avati è uno di questi, le sue storie intrise di sensibili emozioni, di luci rarefatte e di musiche malinconiche, accompagnano da più di vent’anni gli spettatori e da più di vent’anni, continua a raccontare piccole vicende, fatte spesso di cose non dette, sfiorate. Il suo è un cinema soave, sembra prestare attenzione a quello che gli altri registi ritengono troppo sentimentale, troppo triste, a volte.

Ed è vero, il suo è un cinema triste, le sue facce da Carlo delle Piane a Gavina, fino ad Abatantuono e Santamaria, hanno espressioni sofferenti, i loro sorrisi non si allargano mai a diventare risate, ma questa discrezione dei sentimenti connatura in assoluto un cinema ingenuo, toccante, educato, che non esiste quasi più.

L’ultima opera del regista bolognese “La cena per farli conoscere”, segue il filone del caso della vita sofferta, della vita che “ormai è troppo tardi ma ci provo lo stesso”. Un attore televisivo in declino (Diego Abatantuono) riesce a riunire le sue tre figlie (Ines Sastre, Violante Placido, Vanessa Incontrada) in occasione di una degenza e di una depressione. Le tre figlie sono nate da tre mogli diverse, non hanno mai frequentato il padre che per ognuna non ha mai spesso né tempo né interesse. La sua carriera, la sua immagine, i suoi vizi venivano prima di ogni cosa. Ma quando il dolore e la consapevolezza che avrebbe potuto oltre che ad essere, fare il padre, ci prova con tutte le sue forze e con i suoi tanti limiti.

Alla fine l’happy end non c’è, o meglio non c’è come si ci aspetta che ci sia nei film, ma si sa, Avati non vuole falsare niente e ci regala un piccolo brivido di felicità quando la famiglia riesce a dirsi qualcosa di carino, poche parole di perdono e redenzione, ma niente di più. Dopo, l vita, quella vera, quella quotidiana, procederà più o meno come sempre, ognuno cercherà di continuare a guardare alla vita cercando almeno di sorridere, perché le risate, quelle con la bocca larga e il respiro che si ferma, appartiene ad attimi di vita e non ai giorni feriali di una vita intera.

A’ ZÌZZA A ZÌZZA SALÀTA!

di Luigi Paternostro

Carnevale d’altri tempi!

Quando veniva Carnevale l’aria paesana, greve, cupa, gelida per quelle invernate che sono ormai un ricordo, si riempiva di fumi, di odori, sapori, sorrisi.

Quello che era stato l’amico e la preoccupazione dell’intera famiglia per una lunga estate e un altrettanto lungo autunno, aveva reso  i favori ricevuti. Ora faceva bella mostra di sé su un tavolo operatorio circondato da tanta gente che con affilate lame lo selezionava senza nulla scartare.

Carnevale e maiale [26] erano un binomio inscindibile e indispensabile a un momento particolare dell’esistenza in  tempi di miseria.

Alla carne si univano anche le patate che acquistavano un sapore mai avuto e qualche pera sottaceto, vere gaddrarìzzi [27] , ancora dure e asprigne nonostante il bagno prolungato nel Mycoderma e nell’alcol ossidato in acido.

Chi dominava la scena era però la salsiccia, la zìzza salàta.

Il giovedì grasso, il fiorentino Berlingàccio, cominciava la festa di Carnevale che raggiungeva il suo acme il successivo martedì.

Carnulivàru fùi di pàgghja, raccontavano i nonni. Carnulivàru fui di li cuntènti, cu n’èppi tàntu e cu annènti.  Carnevale era fatto di paglia: si accendeva rapidamente lasciando solo rimpianto: uno schioppettìo, un momento, un ricordo di felicità. Carnevale fu una persona allegra e contenta: qualcuno godette tanto ma molti non ebbero nulla.

E tanti non avevano nulla. E così il giovedì, tinto un po’ il volto con carbone, vestiti con quello straccio di giacchetta rivoltata  e quelle stesse usate brache, tenendo con la mano destra uno spiedo e sulla spalla sinistra, a tracolla, una bisaccia, giravano per le vie del paese al grido di a’ zìzza, a’ zìzza salàta (che vuol dire: giriamo  chiedendo  salsiccia salata, solo un po’ di salsiccia).  

Mano a mano lo spiedo si riempiva anche di pezzi di carne, di cotenna, e quando non ne conteneva più veniva svuotato nella unta bisaccia. A costoro veniva pure offerto del vino. Dopo ore di cammino e l’effetto di quell’alcool non sostenuto da uno stomaco pieno,  sembravano tutti dei barcollanti Don Chisciotte con la spada in resta e lo scudo oscillante, alla ricerca di un equilibrio difficile da mantenere.

Carnevale  era veramente un fuoco di paglia, una felicità sfuggente ed instabile, un momento felice nella infelice miseria.

Accanto a questo Carnevale dei poveri viveva anche quello delle sciammeriche. Si allestivano dei carri su cui si collocavano personaggi ‘ntusciàti [28] , che attingendo da borse e tasche,  sfrusciàvano, buttavano, coriandoli misti a confetti, mìnnuli, cospargendoli qua e là  o anche indirizzandoli alle finestre delle case dell’angusto e breve corso che attraversa ancora il paese ove  le signorine di buona famiglia avevano tutte trovato posto in occasione della festa.

Un americano tornato da qualche anno, piacente pur se attempato, in cerca di un buon partito con cui condividere agi e vecchiezza, vero Re Carnevale per la quantità di dolciumi che distribuiva, non si rendeva conto d’essere riconosciuto benché mimetizzato da panni e drappeggi. Ahi lui! Un compagno buontempone gli aveva attaccato sulla schiena un biglietto contenente una frase che da tempo ripeteva: I tempi sono critichi, firmato F. di Co. Altra goliardia!

Ma dietro la porta incombeva Quaresima.

Coraìsima gàmmi tòrta, chi ffài arèri à pòrta ca mò vèni Pascarèddra e ti pìgghja c’à furcèddra .(O  Quaresima dalle gambe storte, cosa fai dietro la porta, quando arriverà la Pasqua ti prenderà con una forca).

Dopo l’euforica e passeggera ebbrezza si profilavano ancora tempi duri, tempi di fame, una quaresima continua nella speranza che Pasqua portasse ancora una ventata di benessere dovuto al buon cuore della gente per la povera gente. E a Pasqua poveri e ricchi, mangiavano la cuzzola [29] . Il rifiorire della natura dopo gli algori invernali dava vigore e speranza. Sarebbe venuto il momento del sole e con esso della vita.   

IL CARNEVALE DEL POLLINO

di Nicola Perrelli

Dopo un’attesa durata un anno è tornato puntuale per le strade di Castrovillari  il 49° Carnevale del Pollino, con i suoi carri allegorici  e le sue sfilate di maschere e balli.

Si, avete letto bene: 49, tante sono infatti le edizioni organizzate dalla Pro-loco dal 1959 in poi. Da quell’anno il carnevale di Castrovillari   ha perso il carattere della spontaneità e dell’iniziativa privata per trasformasi in  un evento organizzato e spettacolare.   Le maschere , i travestimenti e la sfarzosità dei carri  hanno fatto  dell’evento una delle più importanti manifestazioni regionali. Per la sua straordinaria spettacolarità è oramai  da tutti  conosciuto come il più bel carnevale della Calabria,  inserito, a giusto titolo, dal 1994 nel circuito nazionale dei carnevali d’Italia.

Un “evergreen” dunque  che non accusa minimamente il peso degli anni   e che anzi richiama nella cittadina sempre più turisti, molti dei quali  provenienti da altre regioni.

Per la  zona del Pollino il carnevale di Castrovillari  rappresenta   un evento con un forte impatto popolare, una delle poche esperienze culturali e artistiche che riesce ancora a tenere viva la tradizione e il desiderio di partecipazione. E’ un’occasione di gioia e di divertimento, di libertà e di spensieratezza. Ma  anche di riflessione, che proprio  satira e ironia, da sempre elementi cardini del carnevale, propongono.

Accompagnata del festoso frastuoni dei balli e dei canti popolari, la sfilata ha preso il via dal  Polisportivo, ha attraversato prima Corso Calabria, poi Corso Garibaldi per finire, tra l’entusiasmo generale,   in Piazza Municipio, dove si sono svolte tutte le altre manifestazioni del fitto cartellone.

E’ cominciato cosi il giorno più lungo, il martedì grasso, sotto

un’ altalenante pioggerellina  che non ha però impedito alla persone di fare da coreografico sfondo ai carri e agli sfolgoranti gruppi di maschere e di trasmettere con la loro euforia un messaggio di ottimismo,  di vitalità e di colore. Tutti insomma protagonisti di uno spettacolo fatto di maschere, coriandoli, luci, musiche,danze, fuochi d’artificio e soprattutto di tanto calore umano. Una vera e propria ricetta di buonumore, che per qualche ora, nella totale spensieratezza e allegria, ha tenuto lontano problemi e preoccupazioni.

Le larghe strade, i viali alberati e la capiente piazza sono state come sempre la cornice ideale per la manifestazione. Qui i carri hanno potuto sfilare in bella mostra, tra due cordoni di folla, sfiorando affollati balconi e signorili dimore e i gruppi folkloristici esibirsi in spettacolari danze e attrazioni.

E, dulcis in fundo, un fantastico  Ballo di Addio.

Per ulteriori notizie :

www.carnevalecastrovillari.it

ANIMALI! ANIMALI CHI?

di Francesco Aronne

Chi è di Mormanno, ormai da tempo, ha familiarizzato con Bella, Rocco e qualche altro cane che lentamente, ma inesorabilmente è finito col diventare parte del paesaggio urbano. Il mese scorso un cane nero, molto socievole ed affatto aggressivo, ha fatto la sua comparsa in piazza ma dopo qualche giorno se ne sono perse le tracce.

E’ circolata la notizia che questo cane, dopo aver bonariamente accompagnato i suoi aguzzini, è stato fatto oggetto di sevizie e quindi è stato impiccato nel campo del seminario vescovile da un gruppetto di manigoldi che pare siano avvezzi a questi triviali e barbari diletti (delitti!).

Finito il macabro spettacolo la marmaglia ha trascinato ed abbandonato il corpo dell’animale nei paraggi.

Questo turpe episodio deve far riflettere e non lasciarci come insensibili ed inebetiti struzzi. Piccoli Omar ed Erike crescono? Voglio sperare di no!

Le notizie di follia che provengono da ogni dove (che siano le prigioni irachene, gli stadi o i condomini nostrani) non possono declassare questo avvenimento a mero episodio di sia pur barbara ragazzata.

Dietro ogni violenza esiste il male ed anche la quercia più robusta è stata una fragile piantina.

L’impunità ed indifferenza per questi reati (perché di reato trattasi) che si consumano con gratuita efferatezza e sconvolgente ferocia, non aiutano certo i giovani autori a trovare la strada per un futuro degno di essere vissuto.

Domande legittime: ed i loro genitori? Gli educatori? Chi sorveglia sulla sicurezza della comunità e su quanto accade nel nostro territorio? Possibile che nessuno si sia accorto di nulla?

Una nuova campagna elettorale è alle porte e l’opportunismo pre-elettorale è purtroppo consolidata tradizione (magari riferendoci all’episodio potremo considerare che questi giovani non votano, ma le loro famiglie si…).

Ci farebbe veramente piacere leggere nel programma del sindaco che verrà qualcosa di nuovo e di diverso dal suono di retorici e stonati tromboni. Qualcosa che sappia in qualche modo arginare i preoccupanti segnali di imminenti derive di una piccola comunità e risanare lacerazioni e fratture, riportando l’attenzione sul vivere civile e sulla salvaguardia di un patrimonio di civiltà in progressivo depauperamento.

Chi sono i personaggi del francobollo (senza valore? No di valore immenso!)? Briciola (il cane) e Birillo (il gattino): nomi di fantasia per una storia vera…la foto dei due piccoli amici l’ho scattata giorni fa in una campagna che si affaccia sul Tirreno. La signora che li accudisce mi ha raccontato che un giorno Briciola vagabondando per i dintorni è arrivata a casa con Birillo in bocca. Era impaurito ed affamato, Briciola gli ha fatto subito da mamma e sono inseparabili… Mentre guardavo i due animali ho incrociato lo sguardo di Briciola… sembrava dirmi: ANIMALI NOI? Pensando alla tristezza di quanto raccontato prima non me la sono sentita di dare una risposta affermativa e mi sono reso conto, con il suo frenetico scodinzolare, che lei ha capito e perfettamente….



[1] Tutti discendenti d’antichi feudatari a servizio delle varie monarchie tra cui, da ultimo, quella borbonica

[2] Qualcuno dopo una dolce vita nella Napoli capitale che come un moloch distruggeva gioventù e ricchezze si ridusse a vivere in qualche casa di campagna alla mercè delle famiglie di contadini già vassalli.

[3]   Erano i Galizia, ex proprietari della casa Pandolfi, i Tufarelli,  ex proprietari della casa Sarubbi, i Genovese, della casa del dottor Nicola Armentano, i La Terza, casa in via S.Caterina, i Sarno, attuale casa del geometra Leone, i Minervini. Già scomparsi da oltre 100 anni i Sala proprietari di quel magnifico palazzo ormai smembrato posto come una sentinella nella discesa dello Scarnazzo, i Pace, casa Grisolia e Alberti, i Fazio, Via Alfieri, ora comunale, i Ciliberti e qualche altro. Ancora presenti eredi dei Caparbi e dei Perrone.

[4]  Le famiglie non agiate potevano far studiare i figli solo mandandoli al Seminario. Poche, in verità, erano le vere vocazioni. La chiesa continuò a rappresentare l’unica istituzione capace di venire incontro al popolo anche in questo modo. Oltre che al Seminario Diocesano ci si rivolgeva pure alle varie congregazioni quali Francescani, Domenicani, Barnabiti. Molti, prima dei voti, abbandonavano l’abito talare. Questi prèviti spugghjàti, com’erano chiamati, non erano tanto ben visti perché, secondo molti, avevano ingannato Gesù Cristo e la Santa Chiesa. Un antico proverbio così recitava: Dìu ti libbèri da lu grecu livanti e da mònaci spugghjàti di cummèntu  (Iddio ti liberi dal freddo grecale e dai falsi monaci)

[5] A proposito di vita stentata i vecchi del paese mi raccontavano di sacerdoti che non possedevano neppure l’obbligatorio abito talare, che vivevano in misere casette e che d’inverno elemosinavano finanche un pezzo di legna

[6] Il territorio comunale era lottizzato e diviso in settori ognuno dei quali comprendeva un certo numero d’abitazioni di campagna, sia case isolate di contadini che fattorie padronali gestite da mezzadri. Ricordo che volenterosi chierichetti portavano, oltre al catino dell’acqua benedetta, anche un paniere in cui venivano raccolte per lo più uova e qualche pezzo di salsiccia. Il rito della benedizione si protraeva per più giorni ognuno dei quali assicurava almeno un pasto e qualche buon bicchiere di vino generoso.

[7] Sopravvissuti fino agli anni ’60, ricordo ancora alcuni custodi. A S. Anna, Zà Brìcita, Brigida Rotondaro;  alla Madonna della Catena, prima Zu Pippinu, Giuseppe Rotondaro, e

poi Gennarino D’Alessandro. Oggi è custode della Cappella dell’Addolorata Franco Fasanella. Erano una schiera di questuanti che giravano il paese a giorni diversi. Il lunedì  camminava S. Anna, il mercoledì, San Michele, il giovedì la Madonna del Suffragio e così per il resto della settimana. Portavano in una mano un elemosiniere (una scatoletta di legno dentro cui si infilavano le monete) e su una cui faccia era incollato un santino consunto e strabaciato, e nell’altra un fiasco o bottiglia che fosse, per raccogliere l’olio che serviva per la lampada votiva che doveva restare sempre accesa in onore del Beato.  Nelle campagne il giro era stagionale e coincideva con i vari raccolti soprattutto quello del grano, delle patate, del vino e dell’olio. 

[8] Mezzo secolo dopo anche il fascismo scoprì che erano necessarie più braccia istituendo diplomi e premi per le famiglie numerose

[9] Ferdinando II, re di Napoli dal 1839 al 1859, disse un giorno al suo primo ministro Cassano che piuttosto che sottoscrivere una Costituzione avrebbe lasciato la corona e abbandonata Napoli.

[10] Rinomati erano i segantini di Mormanno che si recavano nella Sila e nel Cilento. I mestieri più comuni tramandati da padre in figlio, erano quelli del calzolaio, del lattoniere, del falegname, del segantino, del sarto e del barbiere del contadino generico e di quello specializzato ad innestare la vigna, solforarla e irrorarla

[11] Vedi: La rivolta del 6 maggio in Mormanno d’una volta di V. Minervini.  

[12] Affiorò tutta la questione meridionale, irrisolta ancora ai nostri giorni

[13] Così com’erano  stati chiamati i nobili in virtù della lunga giacca che indossavano (sp.chamberga)

[14] La Chiesa cattolica guidata da papa Leone XIII, umiliata dalla presa di Roma, impoverita con la spoliazione dei beni, dopo il Non expedit giunse faticosamente con la Rerum Novarum ad impostare una politica sociale cercando di riguadagnare la simpatia dei popoli e quella sua funzione di guida morale civile e religiosa. Questo travaglio ebbe poca eco a Mormanno. Gli arcipreti e i preti furono più attaccati alle tradizioni, più preoccupati per aver perduto privilegi che ricercatori di un compromesso moderno e in linea con i tempi che si andavano profilando. Bisognò aspettare fino agli inizi del 1900 per trovare sacercoti nuovi e vocati, ricordo Don Francesco Leone, Don Giovanni Armentano, Don Francesco Maria Sarubbi che condussero battaglie politiche a favore dei poveri abbandonando l’intransigenza leonina (non expedit) e abbozzando timidi tentativi di riconciliazione con il potere politico

[15] Vedi le mie RONDINI DI MORMANNO, www.faronotizie.it   o in STORIE E MEMORIE

[16] Vedi in Uomini illustriil capitolo Avvenimenti che hanno determinato il progresso di Mormanno e vedi, soprattutto, D. Crea Società, economia, imprenditoria a Mormanno tra l’800 e il ’900,  Ed. Il Coscile 1995.

[17] Ci volle la riforma Gentile per avere scuole rurali. Mormanno ebbe solo Procitta. Vedi L. Paternostro. La mia carriera scolastica

[18] Le classi funzionavano in locali di fortuna di proprietà privata. Il Comune forniva solo l’indispensabile. Non esistevano servizi igienici. (Vedi La mia carriera scolastica)

[19] Ricordo i deputati Fazio F. Maria, barone, Fazio Luigi, Antonio La Terza e Francesco Morelli (1837 - Castrovillari il 23.08.1890). Al Morelli si deve la deviazione per Mormanno della SS.19 delle Calabrie nel tratto Castelluccio-Campotenese. La via nova, come allora venne chiamata, consentì al paese, per secoli isolato, più rapidi collegamenti con Napoli e Cosenza che rappresentavano e rappresentarono fino agli anni cinquanta quei poli ove era rivolta tutta l’attività commerciale. Gli spostamenti più rapidi dettero così un notevole impulso alla crescita culturale e sociale del paese. Alcuni vecchi commercianti mi raccontavano dei lunghi ed avventurosi viaggi che dovevano affrontare per raggiungere Napoli e come altri prima di loro, nel periodo del brigantaggio, non partivano senza aver prima fatto testamento perché a volte alle rapine seguiva anche la morte.  

[20] L’On. Prof. Amedeo Perna, medico della Real Casa, “si prosternava davanti al regime per rendere gli onori alla Mostra della Rivoluzione Fascista, allestita nel Palazzo delle Esposizioni di Via Nazionale a Roma, partecipando, 17 ottobre 1934, con la prima  muta esterna guidata dalla medaglia d’oro Oddone Fantini, a montarvi la guardia” (Vedi R. Zangrandi Il lungo viaggio attraverso il fascismo, pag. 362,363 Ed. Feltrinelli,427-9/UE, 1963). Per Mormanno non operò significativamente. Dell’Avv. Vincenzo Minervini, Presidente della deputazione Provinciale, mi sono occupato, vedi,  in  Uomini illustri…  più volte citato. 

[21] La fascistizzazione coinvolse intellettuali e ceto medio. Dopo Giuseppe Cornacchia, colonnello in congedo,  podestà dal 1926 al 1928, ricoprì tale carica, l’avvocato Francesco Rossi, anno 1929, cui seguirono l’avvocato Gustavo La Greca, 1938, l’insegnante Angiolo Armentano, 1939, l’avvocato Armando De Callis, 1942 ed il dottor Benedetto Longo, 1943. I contadini, chiamati con la cartolina di precetto, partivano dal silenzio dei campi a combattere gente povera come loro bruciandosi sotto il sole africano o gelandosi nei freddi deserti della Russia spazzati dall’impetuoso burano.

[22] Dal 1944 al 1945 fu sindaco Giuseppe Uguzzoni, emiliano, ex confinato politico

[23] Venne chiusa la miniera del manganese posta in contrada Miliscio, quella da cui si estraevano le pètri firrìgni (pietre ferrose) e il ginestrificio, sulle cui rovine  sorgerà poi il Pastificio D’Alessandro, che durante i lunghi anni di guerra avevano assicurato lavoro. Cessato il rombo dei cannoni si pose mano a risanare l’economia.  La presenza di reduci in cerca di lavoro rese faticosa la ripresa Le campagne si ripopolarono più facilmente.  Difficile era la mobilità. I mezzi di locomozione  si muovevano su strade polverose e dal tracciato tortuoso. Si usavano traini e solo tra gli anni 39-40 camion con motori a gassogeno. La città più vicina era Napoli ma difficile era raggiungerla. La 19 delle Calabrie, unica carrozzabile, aveva delle barriere terribili rappresentate dallo Scorzo e da Campestrino (tra Polla e Contursi). La ferrovia calabro lucana Spezzano Albanese-Lagonegro, a scartamento ridotto, aveva tempi di percorrenza lentissimi. Da Lagonegro poi si raggiungeva Napoli. 

[24]   Intitolato al concittadino Vincenzo Minervini.  A Mormanno doveva esserci stato un Ospedale. Esiste il nome di una strada Violetto Ospedale certamente a ricordo del fabbricato

[25]   L’analisi  particolareggiata e documentata di tale fenomeno sarà oggetto di un mio  prossimo lavoro

[26] Vedi in www.paternostro.org MORMANNO, IL MAIALE

[27] Galle, escrescenze delle foglie e dei rami degli alberi ghiandiferi

[28] Vestiti con drappi e stoffe

[29] Tipico dolce a forma di ciambella fatto con farina, uova e zucchero.

 

FARONOTIZIE.IT  - Anno II - n° 12,  Marzo 2007

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