FARONOTIZIE.IT  - Anno II - n° 11,  Febbraio 2007

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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi

ALI BABA’ E I 40 LADRONI

Editoriale del Direttore,  Giorgio Rinaldi

 

 

Il babà  non è di origine napoletana, come comunemente si crede, bensì polacca.

Ali si scrive e si pronuncia senza l’accento sulla “i”, come  diversamente il retaggio del colonialismo suggerisce.

I ladroni non sono 40, ma molti, molti di più.

Tra queste moltitudini ne troviamo d’ogni tipo.

Ci i sono quelli che rubano così e semplicemente.

Poi, ci sono quelli che rubano con tutte le autorizzazioni del caso, alla stessa maniera dei corsari di una volta: pirati che i reali inglesi munivano della patente di corsa e quindi potevano derubare, depredare, uccidere, con addirittura il conforto di onori e titoli nobiliari.

Smascherare questi ultimi è l’impresa più gravosa.

 

Qualche settimana fa l’Italia intera è stata scossa da una notizia per importanza pari, forse, solo alla scoperta dell’acqua calda: i nostri governanti, verosimilmente informati dai servizi segreti, hanno comunicato al mondo intero che le compagnie telefoniche italiane, fuori da ogni concorrenza, applicano l’iniqua tassa, inversamente proporzionale al valore del traffico telefonico acquistato, di ricarica del telefonino, e di far scadere l’uso degli scatti acquistati dopo un certo dato periodo, come le mozzarelle.

Compiaciuti di averlo denunciato dopo solo 10 anni di immani quanto illegittimi profitti, e senza che gli altri 1000 fra parlamentari e deputati regionali se ne fosse mai accorto, ci hanno assicurato, baldanzosi, che in breve sarebbe stata eliminata questa ennesima ruberia e che ne sarebbe stata informata, nientepopodimenoche, le Authority  delle comunicazioni e  dell’antitrust.

Tutti sanno, infatti,  che  la sede di queste istituzioni è al Polo Nord e, quindi, i Garanti, nello svolgere la loro gravosa attività di garantirsi lo stipendio, non hanno avuto modo e tempo di conoscere delle cose della telefonia e della concorrenza..

Pensate, i Garanti avrebbero dovuto recarsi in una tabaccheria per scoprire che una ricarica telefonica di 2 euro di telefonate bisogna pagarla 3 euro, che tale traffico inutilizzato “scade” dopo un anno, e che tutte le compagnie adottano il medesimo criterio…

Speriamo solo che i nostri Garanti non vengano sollecitati tra altri 10 anni a porre fine ad un altro scandalo che coinvolge non solo i corsari della telefonia: i call center.

 

Oramai non è più possibile parlare con nessun responsabile di una compagnia telefonica o di qualche altro ente o società pubblica o parapubblica.

Devi per forza comporre il numero X e poi digitare K se vuoi il servizio Y, e così via, come se fossero tutti esperti di informatica….

 

Se non vuoi o non puoi seguire le astruse sequenze dettate dalla vocina metallica pre-registrata, o vuoi un servizio non previsto, o parlare di un problema non codificato, cominciano i guai.

Dopo che, forse, avrai beccato la sequenza numerica giusta, e dopo almeno una decina di tentativi, se prima non sarai stato interrotto

 

improvvisamente dalla inumana vocina con un “grazie per aver chiamato”, ti risponderà Genoveffa, o Nicoletta, o Pasquale, che ti diranno ciascuno una cosa diversa per la soluzione del tuo problema, quando –invece- non ti risponderanno addirittura dall’India, tenendoti in linea il tempo (“per non perdere la priorità acquisita”) che basta perché la telefonata improvvisamente si interrompa lasciandoti con un pugno di mosche in mano!

 

In questa situazione di vera e propria farsa, a cui gli italiani, da Mago Zurlì a Maga Maghella, da Maga Magò al Mago di Arcore, oramai da decenni sono stati costretti ad abituarsi, il peggio, purtroppo, non ha mai fine.

La giustizia italiana, dopo appena 26 anni (che sono nulla rispetto ai 61 impiegati per accertare la responsabilità dei carnefici nazisti della strage di Marzabotto) ha sentenziato che i generali dell’Aeronautica Militare non si sono macchiati del reato di Alto Tradimento per non avere depistato le indagini sulla strage di Ustica.

Sull’abbattimento del DC 9 Itavia ancora vige, però, il segreto di stato, e nessuno sa come sono realmente andate le cose…

Le domande sorgono spontanee: ha influito il segreto sulla sentenza? Perché le forze politiche che ieri erano all’opposizione e  reclamavano la rimozione del segreto di stato oggi tacciono?

E gli ospedali che annegano nell’immondizia e nel degrado più incredibile?

I direttori generali, gli amministratori, i responsabili che avrebbero dovuto controllare e gestire il denaro pubblico, e invece non hanno  visto quello che tutti gli altri vedevano, saranno rimossi ?

Credete che qualcuno di loro abbia fatto, o gli abbiano fatto fare, le valigie?

In un altro Paese, forse, non in quello di Bengodi.

Si, perché dalle nostre parti, la furbizia, anziché suscitare deploro, viene scambiata per intelligenza.

E, allora, trovi –per esempio- un barista al Passo del Pordoi (TN) che ti fa andare al cesso del locale solo a pagamento, e se tu denunci la cosa alle locali istituzioni, comincia lo scaricabarile delle responsabilità degno della migliore tradizione italiota, da quegli indigeni solo a parole aborrita.

 

Oppure, i prezzi degli affitti e delle case che schizzano alle stelle:  in una città come Bologna gli affitti sono mediamente di 800 – 1000 euro al mese, cioè quanto un intero stipendio medio (!) e il prezzo di un appartamento periferico di 80 mq è di circa 300.000,00 euro.

Cosa si è fatto per bloccare questa speculazione selvaggia?

N U L L A.

Anzi, l’ex Presidente del Consiglio ha dichiarato, incredibilmente quando era ancora in carica, che gli italiani proprietari della loro abitazione 

dovevano considerarsi, grazie al suo governo che non aveva frenato la speculazione, più ricchi perché la loro casa valeva di più.

Come se gli italiani proprietari della casa in cui vivono, col prezzo triplicato in 2-3 anni, potessero vendersela per poi acquistarne un’altra a prezzo….vecchio!!!!

O, magari, trasferirsi nelle foreste del Borneo e costruirsi una capanna di palme di banano!

 

Il guaio è che ancora c’è qualcuno che dà retta e credito a questi vecchi arnesi della peggiore italietta, contribuendo –così- a far muovere al rallentatore un Paese dalle grandi potenzialità.

 

 

 

FRANCO DANIELI : “NON C'E' CONTINUITA' CON LA POLITICA ESTERA DI BERLUSCONI”

di Silvia Garnero

in collaborazione con http://www.italianosenamerica.com/

 


L' attuale rapporto con gli Stati Uniti,  i progetti con il governo argentino e le misure di sicurezza per gli italiani in Venezuela, sono parte di un colloquio telefonico con il Vice Ministro,  che ha parlato  delle nuove risorse per gli italiani nel mondo, del ruolo dei Comites e dei diritti umani in Sudamerica

18-1-2007 - Buenos Aires-Roma

L'attività politica non è mai statica e per misurarla c'è bisogno di tempi e risultati  concreti. Si può dire che il nuovo Vice Ministro per gli italiani all' estero, Franco Danieli ha molte cose positive anche quando i risultati della sua gestione appena cominciano a vedersi  ed è molto il lavoro che si aspetta, all'estero, da parte sua.

Il primo risultato da evidenziare  è l'incremento dei fondi destinati agli gli italiani nel mondo. Tra altri aspetti positivi, Danieli ha una grande predisposizione al dialogo, anche con quelli che non la pensano come lui, un'agenda intensa per visitare paesi e ascoltare i reali bisogni dei connazionali,  e una determinazione chiara per fare capire  che ora le cose si faranno con il controllo dal suo Ministero. Effettivamente, il controllo della spesa che la  nuova e prima finanziaria del governo di Prodi ha approvato per gli italiani all'estero verrá strettamente seguito da vicino da parte del suo ministero.

Ci sono quelli che pensano che i Comites e Patronati sono strutture che dovrebbero essere ripensati dal punto di vista dalla loro utilità e funzionamento…

Franco Danieli: Prima di tutto,  i Patronati  in tanto non sono organismi  rappresentativi, sono organizzazioni di servizio che hanno  natura sindacale e non c'entrano nulla con i Comites .Questi si sono organi elettivi della comunità e dipendono dalle scelte che la comunità ha fatto, e quindi io nulla posso dire rispetto alle scelte che ha fatto la gente. Posso invece dire che ci sono Comites che non funzionano e quello che io ho fatto nella Finanziaria del 2007 è mettere a disposizione dei Comites più risorse che saranno distribuite fra quelli che hanno dimostrato di funzionare. Non sarà una distribuzione "a pioggia". Poi avremo risorse  aggiuntive per tutti Comites, di modo che , a questo punto non si potrà più dire al governo: “non funzioniamo perchè non ci date le risorse”. Le risorse saranno date e a quel punto poi vedremo se era un problema di soldi o d' incapacità.

Nell' immaginario collettivo delle persone che poco sanno delle strutture di potere italiane all'estero , esiste l'idea della  poca trasparenza o a volte della discrezionalità nella utilizzazione delle risorse, proprio perchè la informazione è poca o chiusa …non dico che questo succeda in tutti casi ma esistono proteste in queste senso…che sono prorpi  anche parte degli argomenti di quelli che vogliono abolire queste istituzioni…. Casi simili occorrono anche nelle relazioni fra  le Regioni e le associazioni locali . Che pochi lo dicano, non significa che non esista "il sottovoce"….

F.D: Scusi, intanto io non  mi occupo di Regione pero , cercando di ragionare, probabilmente  le Regioni  italiane mandano  dei soldi   alle associazioni regionali in vari paesi…allora non c'e la prendiamo con le Regioni , perchè sempre c'è una abitudine a dire “non c'è  trasparenza”, “non c'è questo, non c'è l'altro”, ma scusate, forse in questo caso non c'è controllo su come sono utilizzati questi soldi . Non è un problema della polìtica italiana perchè in questo caso dà molti soldi  anche se poi bisogna vedere come sono utilizzati.

Nel caso delle Regioni italiane, come lei sa, hanno autonomia costituzionale ed   io, come  governo, non ho il controllo sul bilancio della Regione  per ciò che riguarda il modo di spendere i fondi per gli italiani nel mondo.

Esiste un' iniziativa o idea di mettere in funzione piccole  rappresentanze attive del suo Ministero all'estero?

F.D: La iniziativa sulla quale io sto lavorando è quella di fare un coordinamento stretto tra governo e Regione per evitare che ognuno vada all'estero per conto proprio. Tanto le Regioni, ma anche i sindaci, gli assessori , i comuni , le province, i quartieri, le  parrocchie…ognuno parte all'estero a incontrare i concittadini i corregionali, ecc, con un dispendio di risorse enorme in viaggi, pernottamenti, iniziative, etc che potrebbero essere molto più efficacemente utilizzate attraverso una concertazione col governo, cioè dovremo coordinare le iniziative con tutti questi soggetti , così da utilizzare meglio i soldi e potremo ottenere migliori risultati.

Dopo le sue visite per diversi paesi, per esempio in Argentina , ¿lei sente che ha potuto avere un contatto diretto con i cittadini italiani, nel senso di sentire gente che non sia parte della rappresentazione politica e diplomatica locale?

F.D: Non è che da solo possa incontrare  600 mila italiani che vivono solo in Argentina, le strutture sono strutture che servono  allo Stato italiano e che forniscono servizi per gli italiani…. le informazioni su quello che succede c'e l`ho e poi penso di ritornare in Argentina presto. Il tema  è che io devo fare il Ministro, anche se  quello che lei dice sui connazionali è vero, bisogna sempre in giusta dose parlare con loro in maniera diretta e poi riuscire a fare il lavoro istituzionale.

Quale è la "fotografia" che si è portata vìa dall' Argentina, quest'ultima volta?

F.D: Argentina è una realtà che conosco molto bene da tempo. E' una comunità molto interessante che ha vissuto una situazione di crisi economica , e soprattutto di prospettiva di paese e mi pare che  in questi tempi sia in fase di soluzione , di uscita da questa crisi, quindi ho visto una comunità un po’ più fiduciosa nel futuro rispetto a quella  che ho conosciuto alcuni anni fa.

A livello politico io mi sono incontrato con la Senatrice Cristina Kirchner, anche con il Vicepresidente dal Senato , Daniel Scioli e tanti senatori e deputati argentini. Anche il Ministro degli Esteri, e tante personalità istituzionali con le quali  abbiamo affrontato nei diversi settori di competenza la possibilità di  sviluppare la relazione italo-argentina in maniera intensa e in termini molto concreti. C'e un impegno dal governo italiano di utilizzare una consistente quantità di soldi in iniziative di cooperazione bilaterale ed il governo argentino ci ha detto che è pronto e stiamo lavorando per orientare queste risorse d'alcune decine di milioni  di euro soprattutto nel settore sanitario. Anche si può dire che c'è un grande interesse da parte d'imprenditori italiani a lavorare in Argentina nel campo energetico e delle nuove energie. Il Ministero di Lavoro italiano sta lavorando in iniziative che riguardano alla formazione professionale degli italiani all' estero (e non solo in Argentina).

Lei pensa che con quest' importante avvicinamento al potere argentino, il Presidente Kirchner tornerà indietro rispetto alla sua decisione di non riaprire il  dialogo con i "bond people" italiani?

F.D : La questione dei bondsti è una questione che ha responsabilità  dei precedenti governi argentini, del Fondo monetario internazionale, anche dal sistema bancario italiano. Quindi sono responsabilità diverse e condivise. Comunque io non sono nella testa del Presidente Kirchner. Certamente gli investimenti in bond argentini erano investimenti che hanno interessato un gran numero di cittadini non solo italiani anche tedeschi e di altri nazionalità perchè c'erano tasse di interesse straordinario, dal 15%. Allora, se qualcuno mi prospetta un tasso d' interesse straordinario forse qualcosa rispetto al mercato generale , dovrebbe darmi da pensare…

Ma il campo degli investimenti di natura industriali e produttiva è un campo diverso a quello dei bond, di natura finanziaria. In questo settore  d'investimenti industriali quello che serve è un sistema di regole , di norme che garantiscono l' investimento.

Le propongo un altro tema, che preoccupa al governo italiano ed è quello della situazione degli italiani rapiti in Nigeria, cosa si sa di questo caso

F.D: La Unità di Crisi del Ministero degli Esteri segue con attenzione queste caso come altri che sono successi e riguardano a i nostri connazionali sequestrati o diverse vicende che riguardano loro in ogni parte dal mondo. Non posso dire nulla  se non che stiamo lavorando con grande determinazione per portare una soluzione positiva a questa triste vicenda. (Al momento di rispondere questa domanda, non era ancora stato liberato uno dei tre italiani rapiti in Nigeria)

Anche il Venezuela è un paese dove reiteratamente spariscono italiani che sono sequestrati..¿C'è una iniziativa specifica per combattere queste situazioni?

F.D: Ci sono molte iniziative ed   io sono stato in Venezuela poco tempo fa, dove ho  incontrato la comunità italiana, le autorità venezuelane , i parenti dei connazionali sequestrati e anche di quelli che sono stati uccisi. Personalmente ho fatto una missione apposita . Abbiamo in Venezuela alcune unità della polizia italiana, esperti in pratiche contro il sequestro di persona che lavorano in collaborazione con la polizia venezuelana e abbiamo assunto l'impegno di addestrare a Roma da parte dal Ministero dell' Interno italiano , 20 funzionari di polizia venezuelana in materia di sequestro di persona. Abbiamo poi espresso la disponibilità di procedere nell' addestramento in Venezuela in modo da coinvolgere un modo ancora più amplio di polizia venezuelana addestrata. Distribuiremo fra non molto un CD ai nostri connazionali con misure di prevenzione da adottare per evitare queste situazioni, che riguarda i cittadini italiani ma anche tedeschi , cinesi,..etc.

Sembra però che c'è un interesse particolare da parti dei delinquenti verso gli italiani …

F.D: Non c'è un interesse particolare sugli italiani, le posso garantire che l'interesse è su tutti coloro verso i quale si può chiedere qualcosa in termini di riscatto. Questo vale per gli italiani, cinesi , tedeschi e per gli stessi venezuelani. E' chiaro che noi abbiamo il dato degli italiani perchè appena c'è un sequestro de un italiano nel mondo, tutti i giornali italiani e la televisione ne parlano. Invece  quando ci sono sequestri di cinesi, o americani o dei venezuelani, cosa che avvieni più o meno  ogni giorno , i giornali italiani, la televisione italiana non parlano di questo, mi pare evidente.

Come uomo impegnato con i diritti umani violati nelle dittature militari,¿ cosa ne pensa del caso mondialmente noto dalla situazione dell' ex Presidente argentina Isabel Perón, nel passato legata anche alla  P2 italiana…?

F.D: La magistratura deve fare il suo lavoro , quindi se ci sono elementi che portano i magistrati a e mettere un ordine di cattura o iniziare un procedimento penale che vada avanti, questo è parte dal suo principio d' indipendenza  e autonomia di potere. Sul piano più generale ovviamente  la politica deve mettere in condizione la magistratura   e la società  civile e gli organi d'informazione di riconoscere anche in maniera retrospettiva che è stato un periodo di dittatura , cosa ha significato la scomparsa di decine di migliaia di giovani sopra tutto, quali sono stati  gli interessi occulti tra P2 e il potere istituzionale, quindi alla  politica spetta il compito di dare risposta in termini di leggi, strumenti però anche di memoria storica.

Il giudizio sui genocidi argentini che si dà in Italia è un processo interessante però  dopo bisogna riuscire ad ottenere la estradizione dei condannati, una situazione che poche volte si dà…

F.D: E' evidente , questo è un problema che conosciamo bene. In questo nuovo processo, sempre qui a Roma ,denominato ELMA cercando la giustizia sulla scomparsa di cittadini  italiani , noi chiediamo al governo argentino l'estradizione poi , in base alle legge che disciplinano  il caso o i casi, L'Argentina deciderà se adottare le decisioni necessarie. E'  importate fare l'accertamento giudiziale,  l' accertamento della verità e l'erogazione di sanzioni penali.

In questi giorni in Italia , si sta parlando di anti-americanismo, questione che il governo nega però, mi piacerebbe sapere una sua opinione come Vice Ministro degli italiani all' estero..

F.D: Vero che non c'è una continuità con la politica estera di Berlusconi, c'è una profonda discontinuità nel senso che noi abbiamo una visione diversa sulla politica estera rispetto a quella manifestata per  Berlusconi. Noi siamo per il multilateralismo, per le Nazioni Unite e invece non siamo per le iniziative unilaterali, questi sono evidenti elementi di discontinuità della politica di Berlusconi. Abbiamo ottimi rapporti con gli Stati Uniti d'America sulla base di un concetto di parità di rapporti. Come ha detto Prodi questi giorni, rispetto agli attacchi di Berlusconi, “noi abbiamo dignità nazionale".

 

 

 

BALLETS RUSSES

di Alessia Della Casa

 

 

 

La mia esperienza segue la strada che ha tracciato la Danza molti anni fa, partendo dall’Europa Occidentale con estro artistico e passione, per arrivare fino in Russia, dove trova conferma e rinnovo, rigore accademico e tecnica impeccabile. Qui, più di un secolo, fa ha inizio il grande mito del balletto russo, che dai centri più importanti quali Mosca e San Pietroburgo si diffonde in tutta l’ex Unione Sovietica lasciando tutt’ora, anche nelle repubbliche diventate indipendenti, un notevole talento facilmente riconducibile allo stile accademico tanto rinomato.

 

Attualmente ho la grande fortuna di essere immersa in questo affascinante e intramontabile mito potendo proprio studiare balletto in Lettonia, a Riga. Quante volte mi è stato chiesto “dove studi ora?” e alla risposta “A Riga, Lettonia” è seguita spontanea l’esclamazione “E che ci fai lassù!?!”, comprensibile! Infatti oggi è il percorso inverso ad essere molto trafficato, dall’est verso l’Italia, ma avventurieri volti a est, pochi!!  Tuttavia si tratta di un’esperienza estremamente interessante, e sotto l’aspetto artistico che mi riguarda, e sotto l’aspetto puramente umano, sociale. A questo proposito sono dell’opinione che a molti farebbe bene un’esperienza di questo tipo!

Senza nulla togliere alle accademie e ai grandi teatri del resto del mondo, vorrei porre l’accento sull’idealizzazione del balletto russo, dopo aver trovato personalmente conferma del notevole talento presente.

 

Non saprei dire con precisione cosa agevolò all’interno dell’unione sovietica un tale sviluppo della tecnica del balletto, ma certo è che vivendo qui ci si rende conto di come la predisposizione artistica sia fortemente radicata nella tradizione e nella cultura. Chissà se proprio il disagio, le difficoltà che la storia ha portato in questa terra, sono all’origine di un bisogno di comunicazione, di espressione di sé, di libertà.

 

Tutto questo, unito ad una estrema devozione per la tecnica, a una precisione e a un rigore nel seguire le “leggi” che essa impone, sembra quasi far parte della mentalità quotidiana locale.

 

Uno dei principi sui quali la Danza classica è fondata è senza dubbio la disciplina.

Parliamo di un’arte tanto incantevole quanto difficile, proprio perché basata su schemi molto rigidi, dunque il lavoro del corpo deve essere intransigente e costante.

 

 

Il talento sta sia nella costituzione fisica, che deve essere adattata fin dalla giovane età alle posizioni basilari, dalle quali poi si svilupperanno tutti i passi più difficili, il corpo infatti deve crescere con la tecnica, nella tecnica; sia nella personalità, che deve essere disposta a sacrifici e rinunce, e deve saper guidare il corpo in armonia.

Nel complesso il movimento deve venir assimilato tramite un istinto, “un’intelligenza motoria” per così dire, che crea la Danza, imitando ciò che l’insegnante o il danzatore più esperto mostra. 

Tanto complesse e irremovibili sono le regole di quest’Arte, che il lavoro sembra quasi vertere ad un’utopia alla quale non si deve smettere di aspirare, per poter raggiungere un titolo sublime. 

 

L’affermazione di un metodo eccellente nella scuola russa, ha comportato una profonda dedizione da parte delle compagnie per i grandi classici del balletto, che – richiedendo grande tecnica – danno voce e onore all’innato talento. Dunque si può ritenere che tale precisione e pulizia, in performance come “Il Lago dei Cigni” e “La Bayadère”, siano un’esclusiva dei teatri dell’est europeo. Ciò nonostante questo va a scapito di un’apertura verso nuovi movimenti artistici, che conducono la Danza a forme espressive moderne. La tradizione russa, infatti, stenta un po’ a seguire l’onda innovativa della Danza contemporanea, continuando a offrirci numerosi spettacoli esclusivamente classici.

 

Non posso che consigliare a chiunque si trovi, o si troverà in Russia, Lettonia o in qualsiasi paese dell’est europeo, di non perdere l’occasione di andare a teatro, a toccare con mano - o a sentire col cuore - quello che io in queste righe ho cercato di far emergere, ma che non sarà mai possibile spiegare in modo esaustivo, se non con la forza e con la voce della Danza stessa!

 

 

“LA MORRA” TORNA DI MODA.

In Basilicata attivissima l’Associazione sportiva dilettantistica “Giochiamo insieme la morra”

di Paola Saraceno

 

L’antico e colorito gioco della morra sembra proprio essere tornato di moda in Basilicata.

Forte del successo registrato la scorsa estate in occasione del I° torneo regionale Gioco Sportivo della Morra, la neonata associazione sportiva dilettantistica lucana “Giochiamo Insieme la Morra”, affiliata  CONI-FIGeST (Federazione Italiana Giochi e Sport Tradizionali), continua ad riscuotere consensi.

“La morra, oggi disciplina sportiva, è un gioco popolare, ben noto già nell’antichità a Romani, Greci, Egiziani, che richiede grande abilità, doti di psicologia ed analisi rapida degli errori o delle ripetitività dell’avversario, per riuscire a colpirlo nei punti deboli – ci spiega Vincenzo Carriero, presidente dell’Associazione. Giocare alla morra può sembrare una cosa facile ed invece riuscire ad aprire il numero di dita che si sta pensando e chiamare il numero corretto non è per niente semplice.  Ci vuole molta concentrazione e soprattutto molto allenamento”.

 

Così stanno tornando a fronteggiarsi nei bar e nelle case del Vulture, del senisese, del materano, del lagongrese-pollino, della valle dell’Agri, giocatori agguerriti, circondati da tanti curiosi ed appassionati che supportano i propri beniamini con un tifo “da osteria”.  Ci si allena per riuscire a battere i campioni in carica: Raffaele Azzato e Michele Varallo di Marsico Nuovo, Donato Zaccagnino (Sant’Ilario di Atella) e Carmine Pace (Torino), Vito Vaccaro di Monticchio ed Antonio Colangelo di Atella.

Poche regole ma chiare. La Morra, vede il confronto tra due giocatori: ciascuno di essi mostra all’avversario il pugno, una o più dita della mano, dichiarando contemporaneamente un numero non superiore al 10 (la cosiddetta chiamata). Chi ha dichiarato il numero corrispondente alla somma delle dita stese da entrambi i contendenti, guadagna un punto.

 

Le mani devono essere ben visibili sia ai giocatori che agli arbitri, e non è possibile cambiare il punteggio una volta che la mano è stata stesa. Vince la partita chi per primo totalizza il numero dei punti stabilito prima di dare inizio alla gara (in genere 16 o 21 punti).

L'incontro prevede una partita, la rivincita e l’eventuale “bella” (cioè uno spareggio in caso di parità).

Per vincere l'incontro bisogna aggiudicarsi due partite su tre. Possono essere giocate partite tra due soli contendenti oppure tra due squadre, ciascuna formata da due giocatori: i primi due danno inizio alla partita; chi guadagna il punto sfida il secondo avversario, fino a quando è in grado di tenere la mano.  

 

Mano sinistra dietro la schiena a segnare il numero dei punti conquistati.

Per giocare alla morra occorrono esperienza e grande concentrazione, soprattutto se ci si vuole misurare nei tornei.

 

Provare per credere, soprattutto per riscoprire un antico gioco che fa parte della nostra cultura e delle nostre tradizioni.

 

 

NELLA CUCINA DEL MONDO

Raffaele Miraglia

 

In vita mia ho fatto solo una volta un viaggio organizzato.

 

Avevamo a disposizione otto giorni ed erano pochi per muoversi in modo indipendente nel Mali. Scegliemmo un tour operator che sembrava affidabile e io e Rosella ci trovammo con altre cinque persone, tutti intruppati in due jeep che da Bamako sarebbero giunte fino alla falesia dei Dogon prima di far ritorno (non senza il classico giorno di navigazione lungo il Niger).

Il Mali è meraviglioso, ma ...

 

Del perché non sono adatto al viaggio nonfaidate e del perché, però, amo quelli organizzati di un giorno o due in paesi “esotici”, purché costruiti a uso e consumo dei turisti locali, magari scriverò un’altra volta.

Qui vi dico solo che ho imparato e scoperto sulla cucina cinese cose che mai avrei creduto durante un viaggio organizzato di una giornata “Datong – grotte buddhiste di Yungang – tempio di Hanging – Datong” rigorosamente destinato a turisti cinesi, che trovarono in me e Rosella un’ulteriore attrazione fuori programma e catalogo.

 

Ma, torniamo nel Mali e a quel viaggio organizzato.

La terza sera due nostre intraprendenti compagne di viaggio corruppero il cuoco dell’albergo, che portò personalmente a tavola una zuppa di miglio dal buon sapore tipico locale (vi dirò che la trovammo superiore alle aspettative). La nostra guida (un maliano) guardò esterrefatto il piatto e chiese al cuoco se era diventato matto. Il cuoco spiegò che la colpa era nostra e la guida indagò. Non poteva credere che preferivamo mangiare quella zuppa piuttosto che la solita minestra da “cucina internazionale”.

 

Questo episodio e i racconti di chi (compreso il direttore di questo mensile) usa viaggi organizzati mi hanno convinto che sono molto fortunato ad avere scelto il fai da te. E’ così che ho scoperto piatti e cucine meravigliosi.

 

Non posso dire di aver girato il mondo, ma una serie di paesi li ho visitati. Quando mi è venuta l’idea di scrivere queste righe, ho ripassato mentalmente i paesi non europei nei quali ho messo piede una o più volte e ho scoperto che ammontano al numero di ventitre. Se poi considerate che ci sono paesi come la Cina, l’India o l’Indonesia, che sono enormi e che hanno cucine così differenti al loro interno da farvi pensare che non c’è poi tutta questa differenza fra una polenta e un cous cous (ma non ditelo a Bossi!), capirete che ho avuto la grande fortuna di mangiare veramente cose insolite e di gustare sapori imprevedibili.

 

Ho mangiato la carne di cane ad Hanoi, uno spiedino di scarafaggi a Bangkok (durante il capodanno cinese), il tepezquintle in Guatemala, la zuppa di nidi di rondine. Non sono riuscito a mangiare il pipistrello nel Borneo.

 

Sinceramente, non sono questi i piatti che fanno la differenza, anche se la zuppa di nidi di rondine merita una menzione.

 

La differenza la fanno gli ingredienti, la capacità di combinarli, la capacità di cucinarli in modo vario. La differenza la fa il fatto che in Cina o in India potete mangiare con soddisfazione per mesi senza mai replicare lo stesso piatto. Se è vero (ed è vero) che i

portoghesi hanno 365 ricette diverse per il baccalà e noi italiani ne abbiamo molte di più per condire la pasta, provate a pensare ad un cinese che mangia una volta all’anno gli involtini primavera (quelli buoni) e che negli altri 364 giorni mangia un antipasto diverso.

 

Se devo fare una classifica personale della cucina non europea che ho gustato, in testa ce ne metto una che considero da boutique. E’ quella vietnamita. Evitate quella imperiale di Hue, tutta apparenza decadente, e immergetevi nel resto. Dal cha ca di Hanoi, al cau lao e le rose bianche di Hoi An, al pho bo di Ho Chi Min City, passando per gli onnipresenti chao tom (pasta piccante di gamberetti che viene avvolta attorno alla canna da zucchero e cucinata alla griglia). Se solo potessi passare una volta al mese il sabato sera in quel ristorante che dico io a Ho Chi Min City!

I vietnamiti sono anche unici nell’aver adottato un cibo dei colonizzatori (la baguette) e averlo riempito di splendori.

 

Poi, non c’è dubbio, vengono le cucine cinesi e indiane.

L’anatra laccata mangiata in un buon ristorante di Pechino è un’esperienza indimenticabile, come  un vero tandoori mangiato nell’India del nord ovest. E, soprattutto, è la varietà che colpisce. Ho lasciato il cuore da Niros, ristorante di Jaipur, dove sono tornato almeno tre volte anche se non servivano alcolici, i piatti di Gaylord di New Delhi per il mio quarantesimo compleanno difficilmente me li posso dimenticare e un thali come si deve nel Gujarat ve lo portate con voi nella memoria . Persino quel pesce alla griglia del Santana (già il nome indica il tipo di turista seduto al tavolo) sulla spiaggia di Kovalam Beach non era poi da disprezzare.

 

Non vi tedierò con la cucina cinese (quella vera, non quella del 99,9% dei ristoranti cinesi in Italia), ma vi dirò che anche in cucine che reputo “non alla stessa altezza” si trovano piatti decisamente indimenticabili.

 

Provate a mettere sotto i denti quei minuscoli pezzettini di carne di pollo che stanno galleggiando nel latte di cocco in un buon ristorante di Bangkok e poi mi direte. Oppure, sempre lì, provate dei gamberoni nei glass noodles e chiedevi cosa saranno quelle erbette che, con ogni evidenza, rendono il tutto così unico.  Di sicuro non le stesse che trasformano l’impepata di cozze in un’esperienza afrodisiaca (qui, lo si vede, giocano un ruolo sostanziale le alghe).

 

Oppure andate in Indonesia. Dimenticate il triste Nasi Goreng e dedicatevi a quella ventina di ciottoline che vi dispongono sul tavolo nella zona di Padang. Sono sicuro che troverete, tra l’altro, quelle piccolissime anguille di risaia, quasi bruciate, una leccornia.

 

Ché dire dei piatti Shan della Birmania? Che persino nel più famoso dei fast food Shan di Yangoon - dove servono esclusivamente tagliolini a studenti e impiegati e dove, non dico un menù in inglese, ma persino un tovagliolo di carta è un miraggio - vi sembrerà di essere al San Domenico di Imola (se non badate al servizio). Se poi arrivate tra gli Shan, allora ...

 

Se non fosse una evidente forzatura, mi spingerei a dire che si mangia bene persino nei ristoranti gestiti da mussulmani nel Tibet, uno dei paesi, insieme al Nepal e al Perù, meno gradevoli per un gourmet (amo gli eufemismi). Ma, mentre scrivo questa considerazione, mi viene in mente che a Shigatse abbiamo mangiato una salsiccia di pecora e riso che ci ha lasciato stupefatti. E che il the al burro di yak, se dimenticate la fuorviante parola the e le allarmanti descrizioni contenute nelle guide turistiche (C’è una sola cosa peggiore del the al burro di yak caldo, il the al burro di yak freddo!”), non è poi così male. Lo yak, invece, lasciatelo vivere!

 

Ci sono poi piatti inaspettati.

In ordine di apparizione, i primi due nella mia classifica personale.

 

Aden (Yemen).

Il nostro driver è la prima volta che ci va (hanno appena riunificato il nord e il sud dello Yemen), ma il driver di una coppia francese non solo parla italiano, non solo conosce Aden, ma è anche libero, perché i suoi clienti vogliono rimanere in albergo. Noi vorremmo andare in un ristorante libanese, ma lui ci convince. Andiamo al porto. Le signore rimangono fuori e noi entriamo nelle cucine dei “ristorantini”. Lui apre i frigoriferi e guarda il pesce. Al quarto decide che sì, quello è quello giusto. Sul tavolo, in onore di noi occidentali, vengono posizionati dei fogli di giornale. Poi arrivano degli enormi pesci (tipo San Pietro), cotti nel tipico forno yemenita e cosparsi di chissà quali spezie .... e ora adagiati su quei fogli di giornale. Peccato che la birra l’abbiamo potuta bere solo più tardi in albergo, servita in bottiglie rigorosamente prive di etichette (ipocrisia mussulmana o contenimento del rischio da parte dell’albergatore laico e interessato al dollaro?).

 

Badami (India).

Per la sistemazione alberghiera non esistono alternative praticabili. Tra il materasso e il sottofondo di legno piccoli animaletti neri si aggirano. Fatta

pulizia, convinco Rosella che non si trattava di scarafaggi. E’ sera, la guida non indica ristoranti degni di nota e così ci fermiamo in quello dell’albergo. Nel menù ci attira un nome sconosciuto Chicken Maraja.  Proviamo? Proviamo! Quando mettiamo in bocca il primo boccone non crediamo alle nostre papille gustative.

 

Se queste righe hanno stuzzicato in voi un pò di curiosità, vi consiglio di continuare più piacevolmente la lettura passando al libro Il viaggio di un cuoco di Anthony Bourdain (Feltrinelli editore), un viaggio intercontinentale - molto spesso esilarante – alla ricerca del cibo eccelso, perfetto, o quasi.

 

Se leggendo di cani, scarafaggi o pipistrelli, avete avuto un moto di ripulsa e vi è scattata la tipica sindrome da tabù alimentare, cercate di superarla leggendo Nel giardino del diavolo – Storia lussuriosa dei cibi proibiti di Stewart Lee Allen (Feltrinelli Editore) oppure divertitevi a leggere le ricette pubblicate in http://www.bertc.com/recipes.htm

 

Agli intrepidi, con l’acquolina in bocca, che vorranno sfidare il destino, evitando però le fantasmagoriche ricette di Cucinare con il Fernet Branca di James Hamilton-Paterson (edizioni E/O), un inglese che prende in giro i suoi compatrioti persi per la Toscana e il cibo italiano, affido un piatto che ho sperimentato e che è diventato un mio classico invernale.

 

Un avvertimento: spesso si possono adattare o cambiare alcuni ingredienti (per esempio, in questo caso, la coda e lo stinco di bue possono essere sostituiti da normale carne da brodo), ma se provate a cucinare un pho bo senza usare l’anice stellato, è come se tentaste di fare un il pesto senza usare il basilico.

 

Tratto e tradotto da Homestyle Vietnamese Cooking di Nongkran Daks e Alexandra Greeley ecco il mio ...

 

PHO BO

 

Ingredienti:

a)      due cipolle non sbucciate, tagliate a metà, con otto chiodi di garofano insertati;

b)     tre scalogni non sbucciati;

c)      cinque cm di zenzero non sbucciato;

d)     tre litri di acqua;

e)      due chili di coda di bue;

f)       un chilo di stinco di bue;

g)      due pezzi di stelle di anice;

h)     tre cm di cannella;

i)        un cucchiaino di pepe in grani schiacciati;

j)        un cucchiaio da tavola di sale;

k)      450 gr di vermicelli di riso;

l)        60 ml di salsa di pesce;

m)    450 gr di controfiletto o di lombata di manzo;

n)     due grandi cipolle affettate;

o)      450 gr di germogli di soia;

p)     due lime o limoni,

q)     quattro peperoncini;

r)       sei rametti di coriandolo fresco;

s)      settanta gr. di foglie di basilico thai.

 

e) e f) possono essere sostituti da carne da brodo

 

 

 

IL MOMENTO DELL’INFLUENZA DEI FARNESE: UN BREVE E MENO NOTO PERIODO NEL PERCORSO DELLA PITTURA BOLOGNESE DEL ‘500

di Camillo Tarozzi

 

Indagine sulla grande pittura di maniera e sui precedenti della pittura di controriforma: il respiro europeo di Bologna

 

Può essere interessante per la storia della pittura a Bologna fare un sia pur breve cenno ad alcune testimonianze della nostra città che, risalenti ad  un periodo complesso (e forse un poco ingrato per gli studenti che si avventurano in un ginepraio), costituiscono espressione di un momento artistico ancora oggi non molto analizzato, anche perché contemporaneamente accompagnato dalla massiccia occupazione di terreno da parte della figura imperiosa di Pellegrino Tibaldi e di lì a poco dalle imposizioni codificate della controriforma.

La stilizzazione estrema dei modelli del vecchio Michelangelo e gli influssi inarrestabili della genialità del Parmigianino fecero  vivere anche a Bologna un breve momento di quella cultura romana che nel giro di pochi anni aveva invaso l’Europa intera.

 

La particolare situazione bolognese di questo breve intermezzo viene caratterizzata dalla compresenza di due anime riconoscibili: esse si nutrono di forme tradotte nelle opere di palazzi e chiese dall’impatto con quella cultura di provenienza  romana che doveva creare sorpresa nei centri periferici dello Stato della Chiesa, di cui ‘Felsina’ era la ‘capitale’ più settentrionale.

Castel Sant’Angelo, Caprarola, i saloni dei Farnese sono esempi che in tempo (quasi) reale trasmettono valori estetici che di lì a poco avranno più ampia diffusione.

Il manierismo ‘di eccesso’, quel disegno tirato e ritorto che solo un Rosso, un Primaticcio o un Niccolò dell’Abate avevano potuto inventare, diventò padrone del campo a Bologna solo per quel breve momento in cui Pellegrino Tibaldi andò a dipingere in Spagna e l’influenza vasariana sul fare di Prospero Fontana non aveva ancora tolto al maestro bolognese quei segni di stile giocati sui suoi primi studi nel cantiere romano di Castel Sant’Angelo.

Appare quindi nel centro della più importante sede legatizia dello Stato della Chiesa un miracolo di pittura straordinario per precocità: un felice momento che unisce pochi capolavori sopravvissuti. Restano a testimoniarne la grandezza almeno due dipinti murali quasi ignorati, anche se conosciuti dalla critica più attenta: due complessi in cui anche la scelta tecnica degli artisti, volta ad ottenere effetti certamente voluti ma di difficile conservazione, ha portato nel tempo, accanto all’abbandono e all’azione degli agenti atmosferici, a gravi effetti negativi, che hanno portato a rendere difficilmente decifrabili molte figure. Situazione non certo aiutata dai passati interventi di restauro. La prima delle due testimonianze è una grande lunetta affrescata nella cappella cosiddetta delle Confessioni sulla sinistra della navata di San Domenico in Bologna, che Diane de Grazia attribuirà direttamente alla mano di Francesco Mirola collaboratore ed emulo di Jacopo Zanguidi detto il Bertoja, estroso ed affilato  maestro parmense al seguito dei Farnese. Egli era documentato  a Bologna in questa chiesa, ove fra l’altro sembra abbia lasciato anche dipinti recentemente riscoperti nei vani del sottotetto ora racchiusi dalle modifiche architettoniche portate dal Dotti alla Basilica.

 

La  seconda è costituita dal ciclo che decora le vele della cappella Gozzadini in Santa Maria dei Servi con una serie di figure in cui va notata la straordinaria contorsione, resa con un’abilità di disegno che a quei tempi- i primi anni cinquanta del ‘500- mancava persino ai più rigorosi seguaci del Parmigianino nella stessa Parma. Questo ciclo, sia pur con qualche riserva, viene attribuito allo stesso Francesco Mirola, figura di artista tutto sommato poco nota, che invece si rivela come una delle personalità emergenti nel più alto panorama figurativo del secolo XVI in Emilia. Documentato come maestro bolognese a Parma,  egli gode a Bologna di una gloriosa attribuzione, il Ratto delle Sabine (con una strepitosa battaglia di cavalli) che si conserva  oggi nelle Collezioni Comunali d’Arte in Palazzo d’Accursio: un dipinto ad olio su tela che manifesta i caratteri della pittura ispirata a Nicolò dell’Abate con accenti di squisita modernità. L’intuizione che viene dalla conoscenza dei disegni del periodo ha consentito l’accostamento al nome di Francesco Mirola non solo come riferimento  di comodo ma per la manifesta somiglianza di un gran numero di particolari  in pitture murali appartenente al gruppo di artisti bolognesi ( Ercole e Paganino Pio, ecc.) al servizio dei Farnese in San Giovanni e nei palazzi di corte a Parma.

 

Breve il periodo, perché le novità in sviluppo  a Bologna sono in crescita nelle botteghe  dei già affermati maestri che da lì a breve contenderanno il primato nel campo della pittura ai Carracci.

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BREVE STORIA DI MORMANNO               (prima parte)

di Luigi Paternostro

 

 

La storia di Mormanno non ha fatti d’armi o rivoluzioni culturali tali da aver determinato un percorso di vita originale.

L’etnia, pur antica, si è trovata inserita in un contesto la cui evoluzione è stata lentissima per il suo isolamento. 

 

Non si ha notizia fino a tutto il 1600 di presenza di uomini di azione. I più rappresentativi, dati i tempi, erano legati al potere dominante o ne facevano parte. Si ignorano pure studiosi o letterati di questo periodo.

Bisogna arrivare al 1700 per trovarne qualcuno[1], e al 1800 per  incontrarne altri[2].

Tutti hanno prodotto comunque opere poco significative. Sono  brevi studi di reminiscenza classica, appena divulgati in cerchie strettissime, scritti per lo più per personale diletto o per omaggiare i potenti del tempo.

Sono invece apprezzabili alcune ricerche più approfondite che anche oggi meritano attenzione[3].

Solo la presenza operativa della chiesa e di tanti sacerdoti mormannesi[4] ha contribuito ad elevare il tono culturale della cittadina. 

 

Nella seconda metà del XIX secolo la caduta del Regno di Napoli e l’avvento di quello d’Italia cambiò completamente il corso degli eventi  ma non quello della vita del popolo.

Alla sua rinascita opponeva resistenza quella classe politica detronizzata e destinata a scomparire non rassegnata dalla perdita dei privilegi. Anche la chiesa locale, che avrebbe potuto trarre dalla Rerum Novarum  motivi per sollecitare il popolo alla partecipazione della vita sociale, qui, a Mormanno, si trovò meno preparata che altrove.

 

Per quanto riguarda la storia di Mormanno nel periodo che va dal 1850 al 1900 pochi sono gli atti che attestano cosa avvenne nei vari settori del progresso civile che andava riorganizzandosi alla luce della nuova legislazione a carattere nazionale. Si ha solo la documentata fondazione di un’Accademia culturale La Società Filomatica[5] e l’avvio ad una industrializzazione[6].  A frenare lo sviluppo pensò prima la grande guerra, poi il ventennio fascista.

 

Molte sono state le difficoltà e difficile il cammino per superarle.

Per quanto riguarda le fonti della presente ricerca mi sono avvalso solo di quelle che ho potuto documentare e  soprattutto dei fatti legati alla mia esperienza.

 

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La nascita di Mormanno, non sicuramente documentabile[7], risalirebbe secondo molti studiosi locali, alla venuta dei longobardi, e cioè alla fine del IX secolo[8]. 

Il nome potrebbe aver avuto origine dal personale germanico Marimannus o Merimannus[9].   

Potrebbe anche riferirsi alla presenza di militari germanici, gli arimanni, prima aggregati all’esercito longobardo e poi usati come mercenari ai quali il Principe di Salerno e Capua avrebbe concesso un territorio compreso tra il gastaldato di Laino e la rocca di Papasidero detto appunto mons aimannorum[10].      

Il toponimo Muromannas, Muromannas, figura in un testo redatto in lingua greca dell’anno 1092[11]. 

In un documento datato 3 dicembre 1101  appare per la prima volta il nome di terram Miromanum. Trattasi  di una  donazione fatta da tale Ugo o Ugone di Chiaromonte, feudatario d’origine francese dell’omonimo paese lucano[12] e vassallo del ricordato Principato di Salerno e Capua, al vescovo Sasso o Sassone, di Cassano allo Jonio[13] nella cui giurisdizione ricadeva appunto il centro abitato.

Nel 1108 in una nota dotale si parla di beni posseduti a Muromana da tale Trotta figlia di Altruda. L’atto è compilato dal papas Costantino, prete di Muromanas.

Nel 1186 in un documento in latino appare Muromanna[14] .

Nel 1195 un certo Pietro chiede ad Ilario, archimandrita del monastero di Carbone, di ornare la chiesa di S. Caterina di Muromannas[15].

Nel 1274 in un documento diretto al vescovo di Cassano allo Jonio, appare: “Miromagna in quo sunt fucularia hominum ultra ducentum et tres et valet annuatim auri unciae XXXVI” [16].

In uno scritto della cancelleria Angioina[17] datato 27 luglio 1304 si parla di “terra Miromagne”. Tale dizione si ritrova pure  in una petizione rivolta al vescovo di Cassano allo Jonio per riottenere il diritto di pascolo da parte de “li homini di Miromagne” sul territorio di Layno[18].

In un atto della stessa cancelleria, volume 328, 16 marzo 1344, è menzionato ancora il nome della cittadina alla quale si concedevano privilegi di natura giudiziaria. “Pro universitate castri Miromagne ex Johanna ac regentibus Curiam Viarie Regni Sicilie”[19].

 Nel 1443, 13 marzo, la donazione di Ugo di Chiaromonte fu confermata da Alfonso I d’Aragona che assegnava  la giurisdizione civile al Vescovo di Cassano e la criminale al Principe Sanseverino.

Nel 1443 e del 1465 in altri documenti rispettivamente di Alfonso I d’Aragona e di Ferdinando I d’Aragona diretti al vescovo di Cassano[20] si legge terrae Miromanni nel primo e Mormanno nel secondo.

Su di una pergamena che conteneva un contratto di compra vendita redatto da tale notaio Francesco De Leone nell’anno 1555  ancora in possesso nel 1800 del signor Alberto Genovesi, sottoscrivono sei testimoni che dichiarano di essere di Miromagno[21].

In questo stesso secolo si segnala, tra i documenti storici più significativi, un verbale della consacrazione della chiesa parrocchiale in onore di Maria Vergine Assunta fatta dal Vescovo pro tempore Giovan Battista Serbelloni, mercoldì 15 settembre 1568[22].   

Questa chiesa è pervenuta fino a noi  ricca di opere[23].     

La città fu governata poi dagli Orsini. Passò quindi, 1612, ai Sanseverino che ne furono baroni .

Nel 1624 il feudo passa a tale Muzio Guaragna. 

Francesco Guaragna, suo erede, il 16 marzo del 1635, vende la baronia,  per 16.000  ducati dell’epoca a Persio Tufarelli.

Il 4 aprile 1795 Filippo Tufarelli,  suo discendente, dopo 160 anni di gestione la cede al potere sovrano in cambio di una pensione annua di 136 ducati.

 

Da allora Mormanno seguì politicamente la storia del Regno di Napoli fino all’avvento garibaldino per passare poi a far parte del Regno D’Italia. 

 

 

 

 

1. continua


 

 

BIELORUSSIA, MON AMOUR

di Elena Bebeshina

 

In questo articolo parleremo della gastronomia bielorussa, cercando di confrontare due modi di mangiare, quello dei Bielorussi e degli Italiani. E’ interessante sapere, che storicamente i prodotti piu’ preferiti e usati dal popolo bielorusso erano le verdure differenti (patate, cavolo, cipolla, carote, barbabietola e piselli), la carne (la carne di pollo, di oca, di maiale, particolarmente, il lardo), il pane nero (scuro, fatto dalla segale), numerosi latticini, funghi e bacche di sottobosco. La gastronomia moderna ha conservato quelle tradizioni, ma e’ anche diventata piu’ diversa. Proviamo di descriverla dettagliatamente.

 

E’ opinione dei Bielorussi che la base del cibo italiano e’ la pasta. Per noi sono le patate e il pane nero. Mangiamo il pane nero quasi con tutti i piatti, sia i primi che i secondi, e molta gente veramente non puo’ farne a meno. Ma, le patate hanno l’importanza anzi piu’ grande. Da noi si dice che le patate sono il secondo pane. Le nostre patate sono buonissime e formano la maggior parte dei piatti nazionali. Si cucinano in modi differenti. Si possono friggere sia da sole con un po’ di sale, sia con una cipolla e delle carote, si possono lessare e usarle come un contorno, si possono stufarle con la carne e cosi avere un piatto completo. Si possono fare i pasticcini ripieni di carne, uova, funghi o cavolo, e cosi via. E le patate cotte nel falò sono una parte integrante e attesissima di qualsiasi gita turistica a piedi.  Ci sono veramente tantissime ricette del modo di cucinare le patate, elaborate dai bielorussi nel corso della storia. Proprio non possiamo fare a meno delle patate! Sono il nostro amore.

 

Un altro prodotto importante per i bielorussi e’ la zuppa (“sup” come si dice in russo). Per noi e’ sempre il primo piatto, e questo e’ la differenza maggiore tra i nostri popoli. “La zuppa” da noi e’ una cosa assolutamente differente dalla vostra zuppa e anche dalla minestra. Noi chiamiamo “la zuppa” il piatto che si compone di un brodo, fatto di solito di pollo oppure carne di maiale o bovina. Dopo esser preparato, si aggiungono  pezzetti di verdura (patate,

carote) e poi quello che uno vuole – un po’ la pasta, o il riso, o i piselli e cosi via - dipende dal tipo particolare di zuppa.

 

La zuppa può anche essere con i crauti e in questo caso sarà acida. Facciamo anche la zuppa particolare che si chiama “borshch”. E’ la zuppa rossa con una barbabietola e pasta di pomodoro. I Bielorussi mangiano la zuppa ogni giorno di solito a pranzo come primo piatto. E’ interessante notare, che l’assenza della zuppa e abbondanza di cibo solido creano un po’ di problemi per la digestione dei nostri bimbi quando vengono in Italia, specialmente per la prima volta.

 

Anche la nostra colazione e’ diversa. La maggior parte della gente preferisce averla abbastanza nutriente e per questo motivo al mattino si mangia bene. Si pensa in Bielorussia che la colazione deve essere il secondo cibo nutriente dopo il pranzo. Il cibo più leggero deve essere la cena. A differenza agli italiani, la nostra colazione tipica include non solo il latte caldo o il te’ con dei biscotti o biscotti e marmellata, ma il piatto pieno. Può essere, per esempio, la verdura con la carne, oppure uova all'ostrica con il bacon, oppure la zuppa. Poiché  siamo abituati a mangiare bene al mattino, è un po’ difficile abituarci a mangiare poco quando veniamo in Italia.

 

Per gli Italiani i primi piatti possono essere la pasta cucinata in modi differenti, ed  e’ la cosa piu’ buona che abbia mangiato nella mia vita! Ma, noi bielorussi, non sappiamo cucinare la pasta in modo giusto ed appropriato e, per questo motivo, la usiamo come un contorno senza i sughi, al massimo il ketchup, con, per esempio, la carne o il pollo, preparato diversamente. In generale, la carne può essere  fritta, stufata con le patate o cavolo, infilata a cavolo, lessa, ma sempre saporita e buona.

 

E’ molto popolare anche il pollo fritto o fatto al forno. Nella nostra cucina ci sono anche  polpette e costolette.

Quando sono venuta in Italia per la prima volta, per me e’ stata una sorpresa scoprire che gli Italiani bevono tanto vino. Vi siete abituati a berlo durante il pasto. Noi beviamo il vino o la vodka solo quando abbiamo una festa, per esempio, il compleanno o Il capodanno. Questa occasioni non accadono spesso durante l’anno. Per questo motivo bere  bibite alcoliche per noi è qualcosa di normale in una festa. Ma, anche il nostro vino non e’ di una qualità buona. Il vino italiano e’ buonissimo! Ma molta gente beve abbastanza birra, specialmente d’estate. Durante il pasto beviamo un succo di frutta, l’acqua, oppure accompagniamo con della frutta cotta, che da noi si chiama “campot”. Ma solo una piccola parte della gente preferisce bere solo l’acqua, come fanno gli Italiani.

 

Per quanto riguarda il caffé, lo beviamo non forte e solubile, in una tazza abbastanza grande, anche se dipende dal gusto e dalla persona. Molte persone non bevono il caffè affatto, preferendo il te’.

In Bielorussia si mangiano tanto i latticini e altri derivati dal latte (il burro, lo yogurt, il formaggio, panna acida e moltissimi prodotti dal latte cagliato). Spesso si prepara il piatto che si chiama “bliny” (frittella, come si dice in Italia), quando una pasta in stato liquido si frigge in padella. Si possono mangiare con panna acida, oppure infarcirli con le uova e la carne tagliata a pezzetti, o anche con caviale nero o rosso (ma questo possono farlo solo le persone ricche).

Abbiamo anche molti piatti che si preparano spesso per le feste ma non solo, e che  chiamiamo con una parola simile della vostra “insalata”: “salat”, che significa una mescolanza di pezzetti di verdura, carne, uova e così via, con maionese oppure l’olio. Per noi è molto gustosa, e tutte le casalinghe hanno le loro ricette preferite. D’estate quasi tutti fanno il “salat” con i pomodori, cetrioli, la cipolla e un po’ di aneto o prezzemolo con sale e l’olio di girasole (o panna acida, dipende dal gusto).

 

Si puo’ anche aggiungere pezzetti di peperone, o cavolo cappuccio.

In Bielorussia anche oggi molti prodotti si fanno in casa, conservandoli per l’inverno. Anzi, in citta’  quasi tutti mettono i cetrioli e pomodori sott'aceto, fanno la frutta cotta, d’inverno molti preparano i crauti. Nei paesini la gente secca i funghi, li mettono sott’aceto, preparano le marmellate e le confetture.

 

Per quanto riguarda la frutta, da noi  costa molto, e la gente cerca di comprarla per i bambini piccoli;  gli adulti la comprano non spesso, e solitamente per le feste. Nella maggior parte delle case, la gente non  può vantarsi di avere la frutta ogni giorno in quantità sufficiente, fatta eccezione per le mele, che abbondano, specialmente nei piccoli centri.

Purtroppo, non abbiamo frutti di mare e il pesce, che vanno importati, e perciò costano. Per questo motivo non lo mangiamo spesso. Ma, dopo il disastro di Chernobyl, dobbiamo mangiare i prodotti ricchi di iodio, e l’unico di tali prodotti accessibile a tutti e’ la lattuga di mare. Certo è che alla maggior parte dei bambini non piace la lattuga di mare da sola. E, per questo, le mamme hanno inventato differenti “salat” di lattuga di mare (significa che alla lattuga si aggiungono dei pezzetti di qualcosa con abbondante maionese o olio per farla sentire meno).

Vorrei anche menzionare ancora qualche differenza tra le nostre gastronomie.

I dolci più delicati sono in Italia: il gelato italiano e’ buonissimo! Non posso ricordarlo senza che mi venga la voglia di mangiarne uno! Anche il formaggio italiano e’ molto piu’ saporito e diverso. E’ molto piu’ buono dei nostri. Noi spesso lo usiamo per cuocere qualcosa al forno, per esempio, la carne, i panini e cosi via.

In generale, si può dire che la gastronomia italiana è il modo di mangiare mi sembra siano migliori, anche perchè avete molta frutta, verdura, erbe, il pesce e i frutti di mare nelle quantità che preferite e in piatti separati.

Certamente, e’ difficile descrivere la gastronomia di un altro popolo. Bisogna proprio provarla! Venite da noi in Bielorussia: la nostra gente ospitale vi offrirà tutti i nostri piatti tipici!

 

Per concludere, vorrei proporre una ricetta molto semplice di un nostro piatto nazionale, molto amato da tutti. Si chiama “dranichi”, e il nome deriva dal verbo “grattugiare”: per voi sarebbero “gratuggi”. Abbiamo bisogno di 8 – 10 patate grandi, una presa di sale, 2- 3 cucchiai di farina e l’olio di girasole. Le patate vanno sbucciate, poi grattugiate minutamente, si aggiunge sale e farina, tutto va mescolato bene e immediatamente dobbiamo friggere con la padella ben riscaldata, perchè altrimenti le patate diventano scure. Prendiamo la massa con un cucchiaio e mettiamo nella padella facendo delle frittelle piccole, un cucchiaio: una frittella, che tostiamo dai due lati. Gustiamo il tutto con la panna acida.

Buon appetito!

 

 

L’INCONOSCIBILE SIGNOR GURDJIEFF

di Francesco Aronne

 

 

Girovagando su internet ho trovato un film del 1979, di Peter Brook che, credo, non è mai uscito in Italia: “Meetings with Remarkable Men”. Sono riuscito a vederlo (purtroppo in inglese) e la visione del film mi ha riportato indietro a molti anni fa, quando mi imbattei per la prima volta nell’inconoscibile signor Gurdjieff, autore del libro “Incontri con uomini straordinari” da cui il film è tratto.

A metà degli anni 80 giravo per le strade di Cosenza con due amici alla ricerca di alcuni libri di botanica. Dopo le infruttuose ricerche uno dei due disse di conoscere una libreria dove forse potevamo trovare i testi. Finimmo in un posto che era proprio l’ultimo in cui cercare volumi di botanica. Fui comunque attratto da un libro solitario su una mensola, illuminato da un raggio di sole che tagliava con la sua lama di luce il buio tetro della stanza: “La nostra vita con il signor Gurdjieff” dei coniugi De Hartmann.

Colsi il segno, lo comprai e non fui pentito dell’acquisto, anzi la lettura del libro mi appassionò; trovavo interessanti alcuni risvolti della rivoluzione di ottobre non appartenenti alla storiografia ufficiale bolscevica o dei sostenitori del deposto zar, ma raccontati dai protagonisti in un contesto di vicende private in cui l’aspetto storico risultava marginale, tuttavia molto efficaci alla comprensione di quanto accadde in quel tormentato periodo della storia russa. Risvolti che ritrovai molto più tardi anche  in “Bestie,uomini e dei” di Ossendowski.

Poco dopo ho letto il libro da cui è tratto il film. Incredibile resoconto di viaggi affascinanti e forse anche inverosimili, di sicura e stimolante suggestione. Emozioni che prorompono dal ricordo della figura paterna di umile ma dotto falegname e dei suoi insegnamenti.

 

Il personaggio Georges Ivanovič Gurdjieff, misterioso ed inquietante, per molti maestro spirituale dalla personalità multiforme e sconcertante, per altri filosofo, mistico, scrittore e maestro greco-armeno, mi incuriosì e da allora ho continuato ad approfondire la sua storia ed il suo percorso.

Gurdjieff nacque intorno al 1870 ad Alessandropoli, ai confini tra l’Armenia e la Turchia, in una regione del Caucaso crocevia di numerose etnie e trascorse gli anni della giovinezza a Kars.

Con un gruppo di amici (i cercatori di Verità), partecipa a varie spedizioni in Asia e nella penisola Arabica alla ricerca di conoscenze e tradizioni di origine remota (la Fratellanza Sarmoung di cui è emissario, fonti ed insegnamenti delle antiche scuole iniziatiche etc.). Visitò alcune confraternite religiose che vivevano in monasteri inaccessibili e noti a pochi, approfondì le sue conoscenze sulla natura umana, i significati più profondi dell’arte sacra e delle danze rituali, centrando la sua attenzione sulla tradizione esoterica di religioni quali il Cristianesimo ortodosso greco, il Buddismo tantrico, l’Islamismo, l’Induismo, il Sufismo.

Dalla narrazione dei suoi viaggi si scoprono mondi lontanissimi ed echi di civiltà per noi sepolte. Si possono con lui incontrare gli Yazidi (detti anche adoratori del diavolo) che se chiusi in un cerchio tracciato sulla sabbia

non riescono a liberarsi, monasteri dove viene custodita l’antica sapienza in amene ed inaccessibili valli del Tibet o della Mongolia o di chissà quale altro Oriente possibile o impossibile. 

Vent’anni dopo, nel 1912, Gurdjieff ritorna a Mosca presentando un nuovo insegnamento, una via non religiosa verso l’evoluzione interiore dell’uomo. Intorno alla sua scuola, grazie al  magnetismo della sua forte personalità ed alla energia contenuta dalle sue idee si aggregarono diverse generazioni di discepoli. Il suo pensiero trovò una profonda eco nella vita e nelle opere di Aldous Huxley, René Daumal, Alexander de Salzmann e sua moglie Jeanne, Gorge Bernard Shaw, Frank Lloyd Wright, Pierre Schaeffer, T. De Hartmann e sua moglie Olga, per citarne solo alcuni.

Tra i suoi allievi importanza ebbe Peter Demianovich Ouspensky che raccolse i suoi insegnamenti e parte delle sue conferenze in due testi che restano la difficile ma fondamentale porta di accesso al suo pensiero: si tratta di “Frammenti di un insegnamento sconosciuto” e di “La quarta via”. Interessante anche “L’evoluzione interiore dell’uomo” e gli altri suoi scritti.

 

La lettura di questi libri porta ad un sostanziale stravolgimento dei principi e delle convinzioni che sono il motore per il divenire della vita di moltitudini di esseri umani. L’impressione che assale il lettore autodidatta (distratto ma difeso abbastanza per non lasciarsi ammaliare dalla nutrite schiere di sedicenti maestri e guide spirituali, spesso fai da te, di cui pullula ogni contrada del pianeta) è quella di percepire uno squarcio verticale che apre la conoscenza verso orizzonti impensabili che invitano ad un viaggio al centro dell’uomo.

Insegnamenti di certo antichi, transitati per la piana di Gizah, nei templi di Heliopolis, tra gli astronomi Caldei o tra i Sumèri che viaggiando per millenni sono giunti fino a noi e trasformati ed adattati per l’uomo scaltro o meglio per l’uomo moderno che attraverso la quarta via e la conoscenza e lo studio del sé  cura la sua evoluzione spirituale. Qualcuno ha scritto che lo scopo di questo insegnamento è seminare una nuova civiltà planetaria per l’ormai avviato terzo millennio, che sia sintesi dell’incontro tra Oriente e Occidente e che poggia sulla consapevolezza che il pianeta terra rischia la catastrofe e così l’uomo che ne sfrutta le risorse.

Sulle scia di quelle letture, a metà degli anni 80, nel corso di un viaggio in Francia, andai nei pressi di  Fontainbleau a visitare il castello del Prieuré di Avòn dove Gurdjieff aveva stabilito il suo quartier generale fondandovi l’Istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo. Le suggestioni di quel luogo mi riportarono indietro nel tempo, sentii forte il ricordo della triste vicenda di Katherine Mansfield che morì di tubercolosi nell’ultima tappa del suo tragico peregrinare: era il gennaio del 1923 ed erano trascorsi appena tre mesi dal suo arrivo al Prieuré.

Qui si svolgevano gli esercizi dei suoi allievi per la rappresentazione delle “Danze sacre”. Il suo studio parigino era al Cafè de la Paix dove tra un tè ed un caffè si intratteneva con i suoi ospiti, e fu proprio in questa nazione, nel 1924, che ebbe un terribile (e pare previsto) incidente di auto. Morì in Francia nel 1949.

 

Vi fu anche una parentesi americana che partì da New York (1924) e dalle quale si sviluppò una significativa corrente di suoi seguaci.

Pochi i suoi libri: La trilogia All and Everithing composta da “I racconti di Belzebù al suo piccolo nipote”, “Incontri con uomini straordinari”, “La vita è reale solo quando ‘Io sono’ - Vedute sul mondo reale”. A questi si aggiunga qualcuno scritto dai suoi allievi, consiglio agli interessati la lettura del delizioso “la mia fanciullezza con Gurdjieff” di Fritz Peters.

La sintesi della Quarta via non è altro che un sistema antico di idee ancora attuali, per portare al risveglio della coscienza di ogni uomo. Passa per alcuni punti cardine: Conosci te stesso, Osserva quello che non sei, Essere te stesso (consapevolezza). L’uscita dal sonno attraverso la consapevolezza del ricordo di sé. Sono idee e principi complessi che non possono essere semplificati, ci perdonino gli estimatori, ma qui si è voluto dare solo una sintesi estrema per consentire il lettore ignaro di avere una idea del personaggio e fornire uno stimolo all’approfondimento dei suoi insegnamenti.

 

L’infaticabile viaggiatore Gurdjieff, ci ha condotto con i suoi cammini nel mondo reale, in mondi fantastici, in mondi interiori. Ci ha fornito, sia pur ben occultate fra le sue righe, le chiavi con cui ogni uomo che vuole scandagliare nelle profondità della sua coscienza e “non sprecare il tempo che gli rimane” può aprire la porta che sbarra la strada alla sua evoluzione. Dice il maestro Franco Battiato in una sua canzone che “degna è la vita di colui che è Sveglio, ma ancor di più di chi diventa Saggio…” e certo il percorso di ricerca di un “Centro di gravità permanente”, afflizione di gran parte dell’umanità, non può prescindere dalla conoscenza del sentiero tracciato dall’inconoscibile e straordinario signor Gurdjieff.

 

 

LA COMPARSA DI UN POETA

di Nicola Perrelli

 

Sarebbe  troppo banale fare semplicemente un elogio,a chi, come Francesco M.T. Tarantino, ha scritto una gran quantità di poesie in diverse occasioni di tempo,di luogo e di stato d’animo, ha  pubblicato una raccolta  e di recente è risultato 1° classificato, a livello nazionale, del concorso poetico “Filippo Lo Giudice”, II edizione, con la poesia inedita – Memoria altra -.

 

E’ vero la poesia vive per sé e vale per sé, ma quella di Tarantino è la voce delle angosce e delle paure che sono in ognuno di noi.

Le sue poesie vengono dall’anima, sono un giacimento di emozioni capaci di richiamarne sempre altre. Alcune sono genuine e semplici,  portatrici di sensazioni e pensieri diretti perché partono dal vissuto e rivelano con immediatezza le tante delusioni che inevitabilmente all’avventura umana si accompagnano. Altre invece sono inafferrabili, talvolta imperscrutabili, tormentate come la sua vita, come egli stesso sembra suggerire nei versi “ Vorrei piangere stasera con lacrime nuove/In questa notte scura di sconcerto dell’io/Ripercorrer le anime spente in ogni dove/Attraversarne il silenzio il morire e l’oblio”-.

 

Le rime dolcissime e toccanti della sua opera prima dal titolo “Cose mie”  scoprono un uomo tormentano dalla sofferenza, che  in certi momenti gli appare insopportabile, perché come priva di senso.  Solitudine ,  tristezza e angoscia aleggiano ovunque, ma  soprattutto nelle liriche dove questi sentimenti  per un avvenimento ostile e importante come può essere la fine tragica di un amore, il suo unico amore, diventano  quasi disperazione, una  malattia inguaribile.  In molte poesie c’è il riflesso di questi sentimenti , e il lettore l’avverte,ma è un riflesso ingannevole,  perchè, per forza di cose, sempre lontano dal dolore veramente provato. Che l’autore ha deposto  , come solo il dolore più profondo si adagia, dentro l’ anima, impenetrabile.

 

Il ricordo d’amore,di cui si è nutrito anche in assenza della persona reale, riempie pagine e pagine e diviene elegia - E voglio che nessun’altra donna più mi tocchi/E giammai alcun labbro sfiori il mio/Possa il buio spegnere presto anche i miei occhi/Per ri-posarmi accanto a te nel silenzio di Dio -.     

 

La sua poesia è un viaggio nell’anima. Un racconto in versi degli affetti e dell’insostituibilità della persona amata. Un esempio di sensazioni profonde e di inquietudini esistenziali che si accompagnano allo scorrere dei giorni. E’ una poesia carica di suggestioni  di grande effetto e  di trascinante potenza immaginativa. Attraversata da una grande sensibilità lirica. A volte estremista e provocatoria.  Pensiamo ai versi: Vita vissuta in cinquant’anni /Tra il fato avverso e un’altra poesia/Nonostante i rantoli,il fumo e gli affanni/Brindo al mio vivere ed al morire, brindo all’anarchia/.

 

Sono  poesie da leggere molto attentamente. Solo cosi è possibile  scoprire nei testi, spesso rivelanti episodi e momenti del mondo soggettivo dell’artista, i grandi tesori che essi racchiudono. E coglierne   il messaggio  sui dubbi e problemi esistenziali. 

“ Il mondo non è amico, è solo un porto, una sosta, uno spazio casuale. La poesia ne è l’unico sollievo”. E il Nostro  ce l’ha trovato.

 

 

 

 

 

 

LA SFOGLIA

di Antonio Penzo

 

L’iniziazione femminile avviene con l’insegnamento pratico delle mansioni che la donna assume nella casa. Insegnamento che inizia fin dall’infanzia, lentamente, in quanto le attività devono essere un fatto di vita comune - quasi naturali - e non straordinario; ciò consente alla donna d’essere la vera padrona della casa.

Anche la preparazione della sfoglia, che dopo il pane costituisce uno dei fattori alimentari della famiglia, si sviluppa lentamente quasi impercettibilmente.

 

Sulla madia è il tagliere, che viene grattato e spazzolato, al fine di eliminare qualsiasi resto di precedente lavorazione o di sporcizia. Posto al centro di esso un setaccio, si versa la farina di frumento, conservata nel sacco in apposito mobile, e la si passa fino a formare una fontana della quantità voluta e calcolando circa gr 100 di farina per ogni uovo. Aperto un buco al centro della fontana, si rompono le uova, sgusciandole nel modo consueto – si batte leggermente l’uovo, nel punto centrale, su di uno spigolo in modo di provocare una rottura lineare del guscio e prendendolo in mano si mettono le unghie dei pollici nella fessura e si apre l’uovo facendo cadere il contenuto nel buco della farina. Con una forchetta si rompono le uova e lentamente si mescola l’uovo alla farina, facendo attenzione a non rompere l’argine della farina, evitando così di disperdere l’albume o il tuorlo sul tagliere. Operando piano piano si amalgama la farina alle uova e l’impasto si raddensa. La mano esperta si accorge se la densità è quella giusta, correggendo aggiungendo un albume o un uovo se duro o aggiungendo farina se tenero.

 

Così lavorando e solamente a mano, in quanto il calore delle mani e il movimento delle dita permette di assorbire aria. Il movimento della mano - le dita che si alzano e il palmo che spinge in avanti, senza schiacciare – deve essere armonico, come armonico deve essere il giramento della pasta ogni volta.  Ciò consente alla pasta di essere morbida ed elastica e di non attaccarsi al tagliere. Le dita avvertono la morbidezza e l’elasticità della pagnotta che si va formando, cosiccome si avvertono le bollicine di aria che si formano nella lavorazione e la cui presenza, denotata anche da scoppiettii, avverte che la pasta è ormai pronta.

 

Dopo circa  quindici-venti minuti di lavorazione, l’impasto si presenta liscio, elastico, poroso e senza grumi e va lasciato riposare per altrettanto tempo, coperto da un panno o sotto un piatto. Questo periodo di riposo permette all’impasto di migliorare la sua morbidezza e di conseguenza la sua stendibilità.

A questo punto si controlla la durezza dell’impasto, procedendo alle eventuali operazioni di correzione – l’umidità ambientale può avere ammollito l’impasto, come una eccessiva secchezza averlo reso duro. Usando farina nel primo caso o impastando un uovo con altra farina nel secondo caso e unendolo all’impasto originario, si apportano le rettifiche che solo l’esperienza insegna.

 

Ora si divide l’impasto in più parti, che si compattano a forma di palla. Si pone poi una palla al centro del tagliere, e utilizzando il tagliere, si inizia ad abbassare l’impasto, dopo averlo spolverato di farina. Le due mani poste parallele sul mattarello, lo tirano dal centro verso l’esterno, lasciandolo scivolare e premendo con i palmi. Ciò si ripete due volte, poi si gira la pasta e così via di seguito, sempre però mantenendo lo stesso verso. La farina va spolverata leggermente quasi un velo.

Anche le mani cambiano posizione, da quella centrale all’inizio, vanno spostandosi verso l’esterno, così come i gomiti che prima erano uniti ai fianchi ora si vanno distanziando. E’ una danza.

Quando la sfoglia avrà raggiunto uno spessore di circa mezzo centimetro, la si prende e si lascia cadere una metà fuori dal tagliere, mentre l’altra metà viene lavorata spingendola verso il lato opposto. Si opera così anche con l’altra metà, così che la sfoglia va ad assumere una forma allungata e non più tonda. Ciò consente alla sfoglia di divenire sempre più sottile, Per girarla la si avvolge sul mattarello, continuando così a tirarla ed evitando di toccarla troppo con le mani, altrimenti si secca. Divenendo sempre più grande, si lascia di lavorarla al centro, che ormai ha raggiunto lo spessore desiderato, ma si opera sui lati, rendendola omogenea nello spessore ed utilizzando un po’ di farina per correggere imperfezioni. Il lavoro del mattarello deve essere comunque sempre nello stesso senso.

 

La pasta è pronta quando ha raggiunto lo spessore desiderato.  

Per le paste ripiene occorre una soglia più spessa, salvo che per i tortellini che richiedono una pasta sottile, in quanto l’impasto non rilascia umidità e quindi la sfoglia non rischia di rompersi durante la cottura.

Per la tagliatella, i garganelli e gli stricchetti ed altro la pasta deve essere sottile. La tagliatella chiede una sfoglia non troppo liscia e quindi è meglio non lasciare riposare l’impasto, procedendo subito a stendere la soglia.

Per tagliare la soglia, occorre stenderla bene sul tagliere, con le mani ed aiutandosi con il mattarello. Così facendo l’aria contenuta esce e la sfoglia si mantiene uniforme e non si restringerebbe dopo essere stata tagliata. Il taglio si esegue con la punta di una coltella rettangolare, salvo che per la tagliatella in cui la punta non si deve mai sollevare, ma deve scorrere in avanti permettendo così il taglio a striscioline.

 

 

 

VIVERE “LOW COST”

di Nicola Perrelli

 

Oggi è una realtà sotto gli occhi di tutti, ma nessuno anni fa ci avrebbe scommesso un soldo. Parliamo del successo commerciale delle compagnie aeree “a basso costo” e di come hanno influito con tale iniziativa a modificare il concetto stesso di mobilità. Chi, oggi, prima di partire non verifica se c’è un volo low cost per raggiungere la propria destinazione? O non approfitta di una delle tante offerte a buon prezzo per visitare,magari con un fuori programma, un Paese?

E’ aumentata cosi la voglia di risparmio ed il mercato si è dato da fare e non solo nel settore aereo.  Anche negli altri settori le possibilità per fare  buoni affari non mancano. Dai saldi non più solo stagionali  ai viaggi, dagli alimentari alle assicurazioni, dai servizi bancari alle auto, le offerte e le opportunità per risparmiare davvero sono tante. Bisogna però darsi da fare per trovarle.

 

Dopo le spese per le festività natalizie e gli acquisti straordinari fatti in occasione dei saldi invernali, una maggiore attenzione nella ricerca di beni e servizi scontati certamente non guasta. Applicata alla vita quotidiana e durante tutto l’anno, la  “caccia” agli sconti e alle offerte comporta sicuramente consistenti e reali risparmi   sulle spese. Tagli veri, tangibili che contribuiscono a rimettere in sesto il bilancio personale o familiare e non come quelli che ogni governo, con enfasi, puntualmente annuncia nella finanziaria e  mai mette in pratica.

 

Dunque, è possibile vivere “low cost”? Ovvero spendere con attenzione per non rinunciare quasi a nulla? La risposta è affermativa, a patto che si accettino i compromessi che una “vita low cost” richiede. Anche il risparmio ha ovviamente il suo prezzo. Per chi vuole tutto e subito, come i mass media suggeriscono, il vivere low cost non è indicato, qui bisogna armarsi di pazienza e aspettare il momento più propizio. Spesso per fruire degli sconti migliori è opportuno attendere la fine dei saldi stessi per acquistare addirittura sottocosto, cercare i punti vendita che offrono il paghi 1 e pigli 3, prenotare con largo anticipo biglietti, vacanze e hotel. Altre volte bisogna resistere alla tentazione di comprare un prodotto appena uscito e aspettare il suo naturale deprezzamento, sapendo comunque che si può anche non più trovarlo.

 

Spacci, hard discount e gruppi di acquisto sono i luoghi che il consumatore avveduto deve preferire. I prezzi convenienti dei prodotti di largo consumo e le

confezioni offerte in genere in formato famiglia abbassano sensibilmente il costo medio della spesa giornaliera. L’assenza poi di fronzoli, quali le accattivanti confezioni, i premi e i concorsi, gli eleganti arredi, le campagne pubblicitarie e l’offerta di prodotti non marcati o poco noti perché non reclamizzati, ma non per questo meno buoni, fa il resto.

 

Contro il caro-spesa, già da molti anni, operano anche i c.d. Gruppi di acquisto. Strutture commerciali , create da associazioni di consumatori,  gruppi di dipendenti di grandi aziende o da altre simili organizzazioni, che consentono di risparmiare, su generi alimentari e prodotti per la casa, tra il 20 ed il 30%. Unica condizione per entrare a far parte del  “gruppo” è il pagamento di una quota annuale di 10/20 €. Ma ne vale la pena.  Esemplare l’iniziativa del Ga –Lattemiele- che da circa tre anni ritira direttamente dell’estero il latte in polvere per neonati dribblando il mercato italiano: il più caro d’Europa.

 

Per l’abbigliamento, ma non solo, sono sempre validi i grandi outlet. I villaggi fiabeschi che offrono prodotti con qualche stagione sulle spalle o qualche imperfezione  a prezzi vantaggiosi, con sconti che  possono arrivare fino al 70%.

 

Per le vacanze le occasioni sono tante e per tutte le tasche. Avendo le idee chiare sulla meta  lo sconto sul listino prezzi sarà di sicuro a due cifre. Diversamente , a ridosso della partenza, magari cambiando meta, con i last-minute si può partire con ribassi che non di rado arrivano al 50%. Stesso discorso per il settore aereo, prima si prenota meno si paga, i biglietti per certe rotte partono da 0,99 € (vedi  faronotizie di giugno 2006), per i traghetti non esiste ancora il low cost, è però possibile traghettare l’auto, da e per la Sardegna e Corsica, con  1 € ,contro i 150/250 € della tariffa ordinaria, accettando di partire in determinati orari e giorni. Anche in questo caso è bene muoversi con anticipo, i posti a 1 € sono limitati.

 

Pure  per le auto esiste sul mercato un modello low cost. E’ una Dacia di media cilindrata, 1300/1500 cc per intenderci, offerta a poco più di 8.000 €, e…funziona. Ma non è la sola proposta. Tempo un anno e dalla Cina arriverà addirittura il clone   della Panda a 4.000 € . Da non sottovalutare poi i contributi statali per le rottamazioni e gli incentivi che le Case automobilistiche di tanto in tanto propongono.

Sempre in tema di auto è inoltre possibile trovare su internet le stazioni di servizio dove il carburante costa meno. Un ribasso di 10 centesimi vale circa 5 € ogni pieno, e non è poco.

 

Strano ma vero, si può risparmiare anche in banca. Utilizzando internet è possibile ridurre il costo delle  spese e commissioni bancarie e ottenere persino una remunerazione sui depositi. A parità di conto corrente , quello gestito on line – tramite il c.d. sportello virtuale - , è assoggettato a condizioni economiche molto più vantaggiose. Non vengono infatti addebitate spese di tenuta conto, le operazioni sono gratuite, le commissioni per disporre bonifici sono ridotte a pochi centesimi rispetto ai 3/5 € di un conto ordinario, le spese di intermediazione titoli sono inferiori e cosi via, fino ad incassare interessi sulle giacenze. Stesso discorso per le assicurazioni. On line i premi possono risultare, a seconda del profilo, molto meno salati di quelli che si pagano in agenzia.

 

E se stiamo male?  Scegliendo i farmaci generici, che hanno lo stesso principio attivo di quelli pubblicizzati, si spende tra il 20 ed il 40% in meno. Che dire: ogni occasione è buona per risparmiare.

 

 

 

 

Indirizzi utili:

www.soldinsalvo.it

www.lastminute.it

www.pattichiari.it

www.prezzibenzina.it

www.6sicuro.it

 

 

 

L’ELBRUS E LA ZONA: INVERNO

di Maria Romanova

 


Ci sono stata alla fine di gennaio – inizio di febbraio del 2006. Per la prima volta nella mia vita. Andarci fu sempre il mio gran desiderio. Libri, film, racconti mi facevano sognare questo posto. Lo sogno anche ora: i giorni passati lì sono stati sufficienti per innamorarmi di questa zona del Caucaso. La voglia di ritornarci, ce l’ho sempre.

 

L’Elbrus è il monte più alto d’Europa. Non tutti sono d’accordo con questa affermazione (va ricordato anche il Monte Bianco), ma dal punto di vista strettamente geografico l’Elbrus fa parte dell’Europa. E’ un vulcano spento (l’ultima eruzione avvenne circa 2 mila anni fa) di due sommità: più alta, occidentale, di 5642 m e quella più bassa, orientale, di 5621 m – separate con una sella (5325 m). L’Elbrus è coperto da un cappello di firn e di ghiaccio, con la superficie totale di glaciazione di 134,5 kmq (lo spessore del ghiaccio raggiunge 400 metri).

 

L’Elbrus si trova in Kabardìno-Balkària (una regione della Federazione Russa), a qualche chilometro dalla frontiera con la Georgia. Ai piedi dell’Elbrus, dal lato sud si trova il paesino di Terskòl, ad un’altitudine di circa 2000 m. Un’altezza proprio splendida per la salute: si respira ancora facilmente, e ogni esercizio fisico, anche il semplice cammino, giova tanto.

Come si arriva a Terskol dall’Italia? E’ meglio prima venire a Mosca (bisogna avere il visto russo), passarci una serata e partire per il Caucaso il giorno seguente. Si può prendere l’aereo o il treno per arrivare a Mineràlnye Vòdy (200 km da Terskol) o a Nàlcik (130 km da Terskol; Nalcik è la capitale di Kabarino-Balkaria), poi prendere il pullman, taxi di linea o una macchina. I taxi normali esistono, ma non ne ho visto nessuno  arrivare a Terskol: ci vanno solo le macchine private. Facendo parte di un gruppo organizzato, non vale la pena di preoccuparsi: gli alberghi ed i tour operator mandano un pullmino per recuperare i propri turisti. A partire sia da Mineralnye Vody, sia da Nalcik, la strada passa prima sulla pianura, e gli ultimi 100 km di essa sono una serpentina nella gola, lungo il fiume di Baksàn.

 

Fino a pochi anni fa Terskol era stato un centro abitato tipico sovietico. Per i turisti c’erano alcune grandi case di villeggiatura, poco belle, poco comode. Ma negli ultimi anni qui appaiono alberghi nuovi,

moderni, non troppo grandi, costruiti secondo gli standard europei. Ora non voglio soffermarmi su questo tema, soprattutto perché in montagna è più importante la montagna, e gli alberghi, bar, negozi, in fin dei conti, importano poco.

 

L’Elbrus, dominando tutti gli altri monti nella zona, attraeva sempre gli alpinisti. La sommità occidentale fu scalata per la prima volta nel 1874, e da quel tempo l’interesse per il monte è sempre in crescendo. Non so il preciso numero  totale delle ascensioni riuscite, ma ce ne sono migliaia. Oggi parecchi operatori turistici organizzano ascensioni sull’Elbrus, dando così la possibilità di passarci alcuni minuti di estasi ai comuni mortali, non solo agli alpinisti provetti. Evidentemente, tale ascensione richiede una certa preparazione fisica, l’importante è acclimatarsi bene. Ma, dal punto di vista tecnico, l’Elbrus non è tanto difficile: avere con sé una piccozza e saperla usare va già bene (per essere più sicuri), ma non è obbligatorio. I ramponi però, e anche uno zaino ben pesante, sono assolutamente inevitabili.

 

La maggior parte delle ascensioni sull’Elbrus sono effettuate in estate. Comunque, ogni periodo dell’anno è conveniente (per esempio, ogni anno alcuni romantici vanno all’ascensione al Capodanno). E’ importante solo che il tempo sia buono: poco vento, buona visibilità etc. Ma, “il nonno” Elbrus è un monte severo che vuole essere rispettato. Il maltempo qui è duro: è l’Elbrus  che si incollerisce, e diventa inospitale per l’uomo. Ma, ai fortunati cha saranno riusciti a scalarlo, si aprirà dalla sommità un panorama magnifico ed indimenticabile.

 

 

 

Continua...

 

 

 

VOGLIO L’ ADSL !

di Ferdinando Paternostro

 

Si,  sono un escluso dalla banda larga, un cittadino di serie B che  per navigare su internet e per spedire e ricevere la posta elettronica deve accontentarsi dei 56k del modem analogico.

La “colpa”  sta nel fatto che la mia telefonica  domestica  è collegata ad una delle tante  centrali  telefoniche obsolete di Telecom (sembra che siano circa  6.000 sulle 10.400 diffuse sul territorio italiano).

 

Vivo a due chilometri dal Duomo di Firenze, a  Novoli , la zona più popolosa della città,  separato da  trenta  metri di strada dall’omonima  via di Novoli, che è l’asse viario e logistico portante del  quartiere.

Faccio il ricercatore universitario e il lavoro mi segue anche a casa. Una connessione internet “normalmente veloce” è, per me, indispensabile.

 

Già da qualche anno chiedo a Telecom l’attivazione di questo servizio: mi venne  risposto, in una delle prime telefonate al call center, che l’ammodernamento della centrale cui mi collego era in programma dal 1999 e che sicuramente  nel giro di pochi mesi mi avrebbero attivato l’ADSL… era il 2003 !

 

I mesi sono diventati anni, durante i quali sono stato costantemente (sempre all’ora di cena !) contattato dagli altri operatori di telefonia che volevano vendermi i loro servizi: purtroppo  con la ma “obsoleta” linea telefonica non solo  sono disabilitato  per tutte le “marche ” di ADSL (tutti gli altri operatori fondamentalmente rivendono servizi che acquistano da Telecom, proprietaria del cosiddetto “ultimo miglio”, cioè del cavo che va dalla centrale di zona fino a casa) ma non posso neanche decidere di staccarmi  da Telecom  per usufruire di una delle tante altre e vantaggiose combinazioni tariffarie.

 

I  contatti con il call center Telecom si sono intensificati da quando ho saputo che il mio vicino di pianerottolo ha attivato l’ADSL . Allora ci siamo… finalmente…, mi sono detto…  macchè, neanche per idea: il “digital divide” colpisce anche all’interno dello stesso condominio!

 

 “Io pago lo stesso canone del mio dirimpettaio”, spiego con forzata calma all’operatore del 187 ,   “come è possibile che i servizi siano così dissimili ?”

“Guardi – mi risponde Paolo - l’ADSL è un servizio  in più che offre Telecom, chi c’è l’ha bene, chi no… si arrangia”. Qualche sera dopo ci riprovo: ecco Giuseppe, in vena di confidenze, che confessa  di trovarsi nella mia stessa identica condizione e conclude sottovoce“Telecom non ci guadagna niente con la telefonia domestica, anzi ci perde”. 

Se è vero voglio indietro i 180 euro di canone annuo… tanto perderci per perderci…

 

Stamane Giusy ha preso a cuore il mio caso “Senta, l’unica cosa che posso fare è provare a cambiarle numero telefonico” . Accetto volentieri, il  mio numero non è sull’elenco, lo conoscono pochi amici e i miei familiari, faccio presto a ridarlo a tutti.. “ Allora è pronto ?” “Certo, a che cosa?”  “Provvedo adesso all’estrazione di nuovo numero, ma non posso garantire che questo sia uno di quelli buoni…”. “Proviamo…” “Peccato, signor Paternostro, lo 055- 456…..appena sorteggiato è di quelli vecchi… finché non viene assegnato a qualcun altro resta la sua .. seconda scelta, abbinato al numero che ha già”.

 

Non sono mai stato fortunato… d’altra parte pensavo di aver diritto ad un servizio,  non di partecipare ad una lotteria !

 

 

NON PIANGERE, FORESTA…

di Marilena Rodica Chiretu

 

 

Il giorno chiude le palpebre della stanca notte,

dorme tra le ciglia nere del passato volto,

lo sguardo si svegliò per accogliere l’ aurora

sciogliendo il Levante nel rosso del tramonto

 

I monti alzano le braccia verso le nuove cime,

i colli chiamano le valli nel dolce girotondo,

il mare tace ascoltando il fremito del tempo

e lasciano il dolore al suono di zampogna

 

Cercavo gli alberi, adesso salgo le montagne,

non piangere, foresta, se sono forestiera,

ti porterò il profumo degli abeti ebbri di resina

e il canto di buccina che non ha nessuno

 

 

 

 

NU PLANGE, PADURE...

 

Ziua inchide pleoapele obositei noptii,

doarme intre genele negre ale trecutului chip,

privirea s- a trezit ca sa intampine zorile

topind Rasaritul in rosul apusului

 

Muntii inalta bratele spre noile culmi,

dealurile chiama vaile in dulcea hora,

marea tace ascultand freamatul timpului

si lasa durerea sa curga in sunetul fluierului

 

Cautam copacii acum urc muntii,

nu plange padure, de sunt padureata,

iti voi aduce pafumul brazilor imbatati in rasina

si cantul buciumului cum nimeni nu- l are

 

 

27 dicembre 2006

 

 

A RIDOSSO DEL CASTRUM:
CAPALBI – FERRIOLO - FAZIO.

di Francesco Regina

 

           

Dopo aver trattato per sommi capi la genesi dei casati mormannesi fornendo notizie a riguardo delle prime famiglie Perrone e Regina, cercheremo di capire, al fine di fornire un quadro più globale ed armonico della situazione storico – etnografica del paese a partire dal duecento, come si sia effettivamente enucleato e sviluppato il territorio circostante il castrum.

 

Nel maggio 1239 Federico II scriveva a Rainaldo de Castrocucco e lo incaricava della custodia della difesa di Brahalla (Altomonte) e di altre difese adiacenti. All’imperatore piaceva moltissimo il divertimento della caccia ed Altomonte, come pure Mormanno, era ricca di selvaggina. Di qui la custodia delle rispettive contrade ed il restauro del castello di Mormanno voluto dall’imperatore, contemporaneo alla costruzione del castello di Rocca Imperiale. (In epoca angioina si parla del castello di Laino, per la sua importanza strategica e militare)[24]

 

Nel 1308 giunsero a Mormanno tre famiglie nobili, delle quali una era quella del Sig. Alfonso Capalbi, il quale vi si fermò stabilmente ordinando la costruzione dell’omonimo Palazzo[25].

S’ignora la provenienza precisa ( forse Montalto Uffugo) nonché i motivi che indussero il capostipite di acclarati nobili natali ad abbandonare il proprio paese d’origine per trasferirsi nell’allora romito luogo.

Sottostante il palazzo Capalbi è visibile ancor oggi un enorme arco tufaceo sormontato da due logge, trattavasi della porta d’ingresso al castrum con relativo corpo di guardia.

Dai primi atti di battesimo si evince come ancora nel cinquecento i membri della famiglia godessero del titolo di nobile.

Nel ‘700  risultava come juspatronato di famiglia una cappella intitolata a San Giovanni Battista fatta costruire, vicino la sua casa, dal sacerdote D. Ottavio Capalbi negli anni anteriori al 1721.[26]

 

Ma in realtà la cappella, le cui fondamenta erano adibite secondo l’usanza dei tempi a sepoltura gentilizia della famiglia, era preesistente sotto diversa intitolazione.

 

Con testamento del 1696,[27] dopo un retorico preambolo intriso di richiami alla caducità della condizione umana, il sacerdote Don Onorato Ferriolo[28], discendente per linea materna dalla famiglia Capalbi, così dispose: “…istituisco, creo e faccio mio erede la Cappella di S. Honorato Abbate, quale l’ho fabbricata ed eretta con mie spese…”.

Seguono le disposizioni circa il diritto di prelazione spettante ai Cappellani discendenti dal qm [29] Antonio, Felice, Pietro e Giuseppe Ferriolo.

Questa notizia scritta conferma quella orale tramandata dal sacerdote Don Giovanni Armentano, il quale narrava in proposito, che per volere di una gentildonna appartenente alla famiglia Capalbi – per la quale Sant’Onorato avrebbe intercesso operando una miracolosa guarigione – fu eretta una cappella intitolata inizialmente al santo di Arles e  solo successivamente a San Giovanni Battista, onde il nome attribuito alla zona antistante Rotondo di Sant’Onorato, dicitura questa riportata in numerosi atti di compravendita settecenteschi[30].

 

Nonostante l’affinità stretta con la famiglia Capalbi, si ha ragione di ritenere parimenti cospicuo il patrimonio della famiglia Ferriolo, visto che nel citato testamento si menzionano proprietà pervenute al donante per precedente donazione di un suo zio, tale Dezio  o Decio Ferriolo.

 

Di questo antichissimo casato, per i più senz’altro incognito, che nel seguito variò il cognome in Ferraiolo, non rimane oggi alcuna traccia.[31]

Non essendoci stati eredi ascesi al sacerdozio, trovò applicazione una clausola secondaria per la quale il beneficio di Cappellano sarebbe spettato al pronipote Alessio Fazio, qualora questi fosse chiaramente stato ordinato sacerdote.  Ad esso pronipote aveva già lasciato la sua casa di abitazione, con diritto di usufrutto riservato ai coniugi Maurizio Fazio e Desideria di Paola. 

 

E’ quindi molto probabile, considerata peraltro la ristrettezza del dominio territoriale riferito a quel particolare periodo, che Don Onorato Ferriolo, o comunque un suo avo, abbia rilevato l’ex Palazzo Episcopale[32], attivo sicuramente fino al 1428, anno in cui Monsignor Febo Sanseverino in una sommossa popolare venne precipitato nei dirupi retrostanti il Castello.[33]

Poca favilla gran fiamma seconda[34], ecco quindi che da una prodigiosa esistenza vissuta nella carità e conclusasi nel silenzio, s’ingenerò il sorgere e l’affermarsi di una nuova e potente famiglia, in precedenza di differente estrazione sociale: la famiglia da cui discese il benemerito Barone Francesco Fazio iunior.       

A partire da Luzio Fazio giungendo alle generazioni a noi più prossime, si trova un’ininterrotta sfilza di Notai e Sacerdoti che non stiamo qui ad enumerare.

E’ bene precisare però, come il titolo baronale non sia provenuto dalla famiglia Fazio, bensì dalla famiglia Villani: donna Caterina Villani, figlia di D. Gaetano – Barone di Castronuovo[35] – sposò il Sig. Francesco Maria Fazio senior, già Deputato Liberale al Parlamento Napoletano del 1820.[36]

Dal loro matrimonio, tra gli altri, nacquero donna Maddalena, don Luigi e don Giovanni, avvocato e padre dei signori Franz e Luisa Fazio in Campisani, fulgidi ed imperituri esempi di benefattori.

 

Il ciclo della gloria della famiglia si conclude esattamente nella medesima maniera con la quale era stato aperto: il Barone Franz Fazio, che aveva già provveduto ad elargire la gran parte del suo vasto patrimonio, morì miseramente in una stanza d’albergo di un quartiere di Roma solo e derubato, quasi come monito circa l’infallibilità di una giustizia superiore che ci governa prescindendo dalla finitezza e dagli schemi temporali.

La sua morte senza eredi legittimi decretò l’estinzione di un’altra illustre ed antichissima  famiglia mormannese.

 

 

GLI OLI LUBRIFICANTI E GLI ADEMPIMENTI PER LA RIGENERAZIONE   (seconda ed ultima parte)

di Nedo Biancani

 

 

Tralasciando di analizzare quanto previsto dalla normativa riguardo alle fasi antecedenti all’arrivo presso la destinazione finale ovvero al sito dove viene, di fatto, realizzata l’attività di recupero, preme soffermarsi sugli obblighi autorizzativi e gestionali ai quali deve sottoporsi il gestore di un impianto di rigenerazione  di oli minerali usati.

Il tutto partendo dall’ipotesi che il soggetto intenda attivare “ex novo” tale attività, a partire dalla costruzione degli impianti di processo.

 

Innanzitutto, l’articolo 5, comma 3, del D.Lgs 95/1992 stabilisce che “la costruzione e la gestione degli stabilimenti per la rigenerazione di oli usati resta disciplinata dalla Legge 9 Gennaio 1991, n. 9 (Piano energetico nazionale) e dalle altre disposizioni in materia di oli minerali”.

Ne consegue che l’Autorità competente in materia risulta, inequivocabilmente, essere il Ministero delle attività produttive.

Non avendo il Decreto Ronchi, al proposito, introdotto differenti previsioni, ne consegue che gli impianti per la rigenerazione degli oli lubrificanti usati non sono assoggettabili ad autorizzazioni ai sensi del D.Lgs 22/1997.

Inoltre, l’autorizzazione ministeriale rilasciata ai sensi della citata legge 9/1991 deve considerarsi valida ai fini dell’importazione degli oli usati secondo quanto previsto dall’articolo 6 del regolamento (CEE)  259/1993 in materia di transiti transfrontalieri di rifiuti.

 

Nell’ambito della istruttoria relativa al rilascio dell’autorizzazione alla costruzione e gestione del nuovo impianto, essendo questo necessariamente costituito da unità di processo (distillazioni, deasfaltazioni, finissaggi termo-catalitici) che realizzano la rigenerazione avvalendosi di tecnologie di provenienza “petrolifera” , ne deriva che l’Autorità ministeriale competente ha la necessità di valutare tutti gli aspetti ambientali riguardanti la tutela dell’aria, delle acque superficiali e sotterranee e del suolo.

 

Ne consegue che di fatto, considerata la complessità del nuovo insediamento produttivo e ricadendo lo stesso nell’ambito delle disposizioni di cui alla normativa I.P.P.C.  di cui al D.Lgs 18 Febbraio 2005, n. 59 (“Attuazione integrale della direttiva 96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento”), l’istruttoria per il rilascio dell’Autorizzazione Integrata Ambientale debba essere valutata, conformemente a quanto stabilito dall’art. 5, comma 9, del citato Decreto, da parte di una Commissione pubblica qualificata.

In aggiunta a quanto sopra, nel ribadire il presupposto della  competenza statale dell’istruttoria, così  come previsto al successivo comma 12 del medesimo articolo 5, “ l’Autorizzazione Integrata Ambientale non può essere

comunque rilasciata prima della conclusione del procedimento di valutazione di impatto ambientale”.

 

Parallelamente agli enunciati  aspetti autorizzativi connessi alla realizzazione del nuovo insediamento produttivo, va evidenziata la necessità di istituire un adeguato stoccaggio di materia prima annesso alla rigenerazione per produzione di nuove basi lubrificanti.

Tale stoccaggio deve, a sua volta, essere autorizzato ai sensi degli articoli 27 e 28 , D.Lgs 22/1997, trattandosi di  messa in riserva in attesa di attività di recupero di materia (punto R9, allegato C, “Rigenerazione ed altri reimpieghi degli oli”).

Il provvedimento ricade sotto la giurisdizione della Provincia di competenza, fatto salvo quanto disposto anche dal già citato D.M. 392/1996.

 

In ultima istanza ed alla luce della recente evoluzione delle norme in materia di attività a rischio di incidenti rilevanti derivanti dall’entrata in vigore della direttiva 2003/105/CE (c.d. “Seveso III) recentemente recepita dall’ordinamento nazionale mediante il Decreto Legislativo 21 Settembre 2005, n° 238, va evidenziato che gli oli minerali usati, in quanto rifiuti pericolosi, presentano caratteristiche chimiche tali da fare ricadere il nuovo insediamento anche in tale contesto autorizzativo.

In particolare,  nel caso che i quantitativi delle sostanze pericolose stoccate rendano il nuovo insediamento ricadente nell’ambito di applicazione ex art. 8, D.Lgs 334/99, il gestore, prima di dare inizio alla costruzione degli impianti, deve ottenere preventivo nulla osta di fattibilità facendo pervenire alle autorità competenti un rapporto preliminare di sicurezza.

La concessione edilizia non può infatti essere rilasciata in mancanza del nulla osta di fattibilità.

Infine, prima di dare inizio all’attività, il gestore deve ottenere il parere tecnico conclusivo, a sua volta subordinato alla presentazione all’Autorità competente (la Regione) del rapporto di sicurezza definitivo.

 

Relativamente all'applicazione dei disposti normativi di cui al D.Lgs 18/02/2005, n° 59 va, inoltre, rimarcato quanto segue:

 

1.   La Comunità Europea ha inequivocabilmente inserito la rigenerazione nel contesto delle attività del “Waste treatments Industries” (Trattamento dei rifiuti) ed ha individuato le così dette “MTD” (Migliori tecnologie disponibili) indicandole nel contesto del documento ufficiale denominato: “Final Reference Document (BREF) on Best Available Techniques for the Waste Treatments Industries”,European Commission, Directorate General JRC, Joint Research Centre, Institute for Prospective Technological Studies (Seville), Technologies for Sustainable Development, European IPPC Bureau (Agosto 2005).

 

2.   L'emissione finale del precedentemente menzionato BREF europeo riporta sia le Best available techniques (BAT) generiche applicabili all’intero settore WTI (Waste Treatments Industries) sia le BAT specifiche per l’attività di rigenerazione degli oli lubrificanti usati. In tale contesto risultano dettagliatamente descritte le migliori tecnologie     per la rigenerazione degli oli usati che individuano l'ideale ciclo produttivo costituito dalle sezioni di preflash, di deasfaltazione termica e di idrofinissaggio catalitico finale (hydrofinishing).

 

3.   Inoltre, ad integrazione e compendio alle  suddette BREF europee di settore e nell’attesa dell’emanazione del previsto decreto interministeriale recante le linee guida nazionali per le attività IPPC di cui al punto 6.4 dell’Allegato I al D.Lgs 59/2005,  è stato da tempo predisposto , a cura del sottogruppo “Impianti di rigenerazione degli oli usati”  del Gruppo Tecnico Ristretto (GTR) sulla gestione dei rifiuti istituito dalla Commissione Nazionale ex art. 3, comma 2, del D.Lgs 372/99, uno “Schema di Rapporto finale”  relativo alla proposta di  Linee guida per l’individuazione e l’utilizzazione delle migliori tecniche disponibili per la rigenerazione degli oli usati”. Tale gruppo di lavoro, di cui  Viscolube S.p.A. è stata parte attiva, ha a sua volta ulteriormente e dettagliatamente illustrato le BAT della rigenerazione degli oli usati che risultano sostanzialmente speculari agli attuali assetti produttivi dei siti di Pieve Fissiraga e Ceccano.

 

4.   Le ultime informazione pervenute, in data 14 settembre 2006 dalla Regione Lombardia, danno per imminente l'approvazione finale, da parte della Conferenza permanente sui rifiuti Stato/Regioni, delle linee guida di cui al precedente punto 3) con ufficializzazione delle stesse mediante l'emanazione di un apposito decreto interministeriale.

 

5.   Ne consegue, in ultima istanza, che il procedimento di rigenerazione ottimale degli oli usati, così come condiviso nelle sedi istituzionali comunitarie e nazionali, non può ad oggi prescindere dall'applicazione dei processi e dei cicli di lavorazione già adottati da Viscolube S.p.A. nei propri stabilimenti.

 

      A tale assetto devono, pertanto, tendere tutti gli operatori del settore, in particolare quelli che si dovessero nel prossimo futuro apprestare ad attivare nuovi insediamenti produttivi per la rigenerazione.

 

 

 


 

RENATO

di Francesco M. T. Tarantino *

 

 

Hai attraversato gli intervalli del tempo

E poi sei scomparso come meteora bianca

Lasciandomi una traccia come un lampo

In un’eco che scompone quello che manca

 

Sbarcasti a New York con tremila volumi

Ignaro del business delle ricchezze altrui

Ti bastava il tuo vino e ubriacarti di fumi

Bagnarti di pioggia la notte nei vicoli bui

 

Sbucavi da un’alba fra scimmie e leoni

E mille sorprese che regalavi alla gente

Sul tuo calesse dorato tirato da un pony

Eri malvisto come un malato di mente

 

Ma ogni porta si apriva al tuo passare

Come amico fratello amante sognato

Di ognuno conoscevi il suo triste belare

E la piazza temeva il tuo canto stonato

 

Ti accompagnai fra casolari e zampogne

A barattare orologi organetti e canzoni

Appoggiato ad un albero di mele cotogne

Benedicevi i luoghi delle tue illusioni

 

Ti lasciai un pomeriggio nella tua cantina

Coi tuoi occhi curiosi i pesciolini ed il vino

Non ti ho più visto fra la gente che cammina

Ma ti ho sognato giocare come un bambino

 

Dimmi: che cosa hai visto in fondo alle scale

Spiccando l’ultimo volo oltre quei gradini?

Saltare l’incerto confine tra il bene e il male

O la tua libertà oltre Milano e i suoi giardini?

 

Ora voli alto e percorri spazi in cieli diversi

Con la tua chioma la barba e le ali bianche

Ed io ti ripercorro in questi miei pochi versi

Come ultimo requiem sulle tue ossa stanche

 

 

 

 

* Francesco M. T. Tarantino ha di recente pubblicato una raccolta di poesie dal titolo “Cose Mie”, MEF - L’Autore Libri Firenze.

 

 

 

SCOPRIRE LA SLOVACCHIA (seconda parte)

di Gabriella Šolcovà

 

 

Siete interessati a passare le Vostre vacanze in Slovacchia ?

Fortezze, castelli e palazzi o Parchi nazionali e altre zone protette ? O Calcari e grotte, oppure

Terme e sorgenti di acqua minerale ? O chiese di legno ?

 

Di che cosa volete sapere  prima  ?

 

Cominciamo dalle fortezze, dai castelli e palazzi.

Perchè la Slovacchia ne viene di diritto detta la terra.

Lo documenta il fatto che vi si sono, ben conservati, 109 fortezze e castelli e 435 palazzi.

Nei tempi inquieti del medioevo l’alta nobiltà costruiva salde fortezze. Molte sono sorte sotto l’invasione dei Tartari. Venivano costruite nuove, o eventualmente ricostruite, sopratutto nel periodo delle guerre turche e delle insurrezioni di classe del 17.secolo.

Tra i castelli piubelli e meglio conservati troviamo : il castello di Bratislava, Červený Kameň, Smolenický zámok, Bojnický zámok,  Zvolenský zámok, le fortificazioni cittadine di Kremnica e Banská Štiavnica e Krásna Hôrka.

Un elemento insolito ma molto toccante del paesaggio sono le romantiche rovine dei castelli : Čachtice, Beckov, Ľubovniansky hrad, Spišský hrad, che è il più grande dell‘est Europa.

Avete  visto già le chiese di legno ?

 

Dovete sapere che tra i gioielli più  splendenti dell’eredità culturale della Slovacchia ci sono anche le chiese di legno. La maggiore concentrazione è nella regione nord – orientale del paese, specialmente nei dintorni di Svidník, Bardejov e Snina. Le chiesette, in genere, si trovano su colline circondate dal verde. Venivano più frequentamente costruite con legno di abete rosso. Hanno per lo più un‘architettura molto semplice.

 

Quelle cattoliche sono solitamente più vecchie e a un campanile, vi si scorge sopratutto l’influsso dello stile gotico.

 

Le chiese del cosiddetto rito orientale sono a tre torri campanarie con tetti scoscesi conclusi a cipolla come è tipico per i santuari della chiesa ortodossa.

All’interno si trovano rare e ricche decorazioni di icone.

 

 

ASSOCIAZIONE  CULTURALE “COMUNALIA”

Relazione del Presidente al Bilancio preventivo 2007

 

 

Amiche ed Amici buonasera;

ritengo opportuno ricordare a tutti noi gli Scopi dell'Associazione previsti dallo Statuto :

“Comunalia” ha per scopo il recupero dell’autentica cultura popolare e la diffusione di antiche tradizioni di Mormanno, di riti, di festività, di giochi popolari collettivi, l’ideazione di gare di natura culturale e di varia abilità, nonché l’organizzazione di cortei in costume atti a coinvolgere l’intera comunità dei quartieri componenti il Comune di Mormanno.

L’Associazione ha quale scopo la promozione di attività culturali in Italia e all’estero, favorendo lo sviluppo tra i soci e tra i cittadini democratici, di iniziative destinate alla loro formazione culturale, sociale, artigianale tramite l’utilizzo di tutti i mezzi didattici possibile.

 

Al centro dell’attività dell’Associazione si pongono lo studio, la ricerca, il dibattito, le iniziative editoriali, la formazione e l’aggiornamento culturale, dei problemi sociali e del tempo libero.

Omissis….

L’Associazione si propone inoltre come struttura di servizi per Enti, Associazioni, categorie e centri che perseguono finalità che coincidono, anche parzialmente, con gli scopi della stessa”

Omissis...

 

Perciò la conoscenza della storia, dell’arte, delle tradizioni ed in genere dei beni cul­turali della nostra Mormanno è lo scopo precipuo di Comunalia, che vuole contribuire a favorire la voglia  di partecipazione alle nostre iniziative soprattutto dei giovani, importante punto di forza per migliorare la qua­lità della vita in questa nostra cittadina, anche al fine di arrestarne lo spopolamento.

 

Il nostro lavoro, quindi, prevede la ricerca, conservazione e promozione del patrimonio artistico-culturale-ambientale e presup­pone una buona conoscenza e valutazione di tutte le ri­sorse.

 

Grazie a tanti che a queste idee, pur con qualche titubanza, hanno creduto: Quartiermastri, Consiglieri di Amministrazione, volontari nei Quartieri, ecc.., la mia esperienza in questi 7 anni di Comunalia è stata proficua e soddisfacente, al fine di affinare delle proposte che investono diversi aspetti della nostra cittadina.

 

Quando nel 2000 creai l’Associazione, era chiaro in me l’intento di riportare l’aspetto architettonico del Centro Storico di questo paese, ovviamente non in un giorno,  in quello di un Borgo medioevale, convinto, allora come oggi, che ciò lo avrebbe distinto dai paesi vicini, caratterizzandolo quindi come polo di attrazione turistica del comprensorio.

Oggi ribadisco la constatazione che le manifestazioni che offriva Mormanno prima di Comunalia erano comuni a tutto il circondario ed ancora adesso, tranne quelle a carattere medioevale (Rievocazione, giochi, Palio e Vecchi Vasili) sono più o meno in comune con i paesi vicini.

 

Perciò per organizzare un’offerta turistica appetibile è su quest’aspetto medioevale che bisognerà ora soprattutto puntare, per attirare sia gli abitanti dei paesi vicini, sia i turisti provenienti da bacini regionali viciniori, senza escludere altre possibilità.

 

Quindi occorrerà proporre di valorizzare da subito nella nostra Mormanno:

  • aspetti architettonici medievali(Ripristino Corpo di Guardia annesso alla Torre campanaria – valorizzazione della sommità della Costa – attenzione ai Portali ed androni antichi – Isole medioevali in ogni Quartiere – eliminazione graduale della plastica, ecc),
  • avvenimenti storici di quel periodo,
  • l’enogastronomia,
  • i riti religiosi e le chiese o cappelle a quell’epoca riconducibili,
  • i giochi antichi,

Ciò non è, a mio avviso, un’opzione, ma una inderogabile necessità.

 

Ovviamente si parte dal Medioevo, ma in quella cornice si possono armonizzare anche eventi culturali di epoche successive, proprio per sottolineare la continuità storico-antropologica di questa particolare comunità..

 

I Beni cul­turali, testimonianze dell’i­dentità di un popolo, possono, anzi devono, divenire anche prodotti economici, quando la loro offerta turistica, at­traverso musei, iniziative culturali, itinerari religiosi, enogastronomia e Parco del Pollino, sarà gestita con una pro­gettualità che rispetti le speci­ficità del territorio e gli aspetti etici, economici, antropologi­ci ed anche etnici.

 

Comunalia dovrà proporre l’organizzazione di un secondo convegno su Giovanni Donadio, il personaggio più importante della Storia e della cultura di Mormanno, Architetto ed Organaro insigne, al fine di esaltare ancor di più le sue opere ed inserirle in un Museo multimediale insieme ad Angelo e Genesio Galtieri, pittori illustri del sec. XVII, per i quali ho già presentato alla Regione, senza ottenere risposta,  un valido progetto  di ricerca.

 

Occorrerà coinvolgere la Facoltà di Architettura di Reggio Calabria e la Presidenza della Regione , con l’intento di chiedere  l’istituzione qui a Mormanno di un Corso di Laurea o almeno di specializzazione in Architettura, per continuare quella tradizione culturale per cui Mormanno veniva denominata nel secolo XIX dal Presidente dell’Accademia cosentina “La piccola Atene della Calabria”, per farla divenire nel tempo,  “si parva licet componere magnis”, una piccola Siena.

Si potrebbe allocare la sede universitaria nel Seminario, così probabilmente ci sarebbe anche  l’appoggio della Curia Vescovile di Cassano.

Dovranno essere elaborate offerte di itinerari per il turismo religioso, anche in sinergia con i paesi limitrofi, ed un importante convegno sulla presenza dei Monaci Basiliani a Mormanno e nel Mercurion.

 

Mi auguro che questi concetti divengano sempre più patrimonio acquisito e metabolizzato da tutti gli iscritti all’Associazione e poi realizzato con l’aiuto degli Amministratori locali e territoriali e non più disquisizione filosofica perenne e sterile.

 

Musei, bi­blioteche e siti non sono luo­ghi di semplice conservazione di oggetti antichi, bensì luoghi di cultura in cui si trasmette alle nuove generazioni la co­noscenza di un mondo che ci appartiene e che rischia di essere cancellato, cercando  anche di esaltarne i valori di laboriosità, di onestà, di solidarietà.

 

I nostri Enti territoriali de­vono essere da noi stimolati ad investire in cultura, per creare sviluppo e occupazione che passano, anche e forse oggi più che mai, attraverso il turismo culturale.

 

Occorre quindi coinvolgere gli operatori del commercio perché condividano queste prospettive turistiche, fornendo idee e contributo economico alla nostra Associazione , fidando sempre più in un ritorno economico tramite un richiamo turistico sempre crescente per tutto l’anno.

 

Queste idee non sono certamente esaustive per la sopravvivenza di questo nostro amato borgo, che ha alle spalle 13 secoli di storia.

 

Che anche altri (Associazioni, Enti, Politici, Cittadini, ecc..) espongano le loro, in un serrato confronto vivificante.

 

Attraverso l’azione sinergica e condivisa di Associazioni, Enti territoriali, Operatori del Commercio, Imprenditori c’è ancora la speranza che Mormanno possa evitare, con buone possibilità, la tendenza al declino di tutti i piccoli paesi montani.

 

Mormanno  02/01/07

 

 

Domenico  Crea

 

vico I° S..Francesco – 87026 MORMANNO (CS) - C. F.  94006270782

Tel.    329 4077909  -   email  domenicoprofcrea@katamail.com  

 

 

Manifestazioni  previste  nel  2007

 

 

Febbraio/Marzo :
La  Sfinge  dei  Quartieri – Gara culturale a quiz

 

 

Giornate  Medioevali

Giugno : 22 Pomeriggio :

Corteo del Castrum  con tamburi – Attrattive varie

 

Giugno : 23  Mattino :

Visite guidate - Convegno Storico –

Mostra dell’Artigianato – Mostra fotografica

Pomeriggio :

Rievocazione storica della Donazione  del 1101

Sera :  Sagra enogastronomica

 

Giugno : 24 : Mattino : 

Arcieri   -

Pomeriggio (dalle 16) : Giochi :

Cògghj e scògghj ; Prova di forza con il paletto ;

Serratrunchetti; Carusapecura.

 

Agosto : 18    Mattino : 

Sbandieratori e tamburi –

Pomeriggio : Corteo e Palio di S. Rocco

 

Dicembre :  8 : Perciavutti

 

 

 

 

BUCHE E TURISTI

di Ferdinando Paternostro

 

Turisti a milioni ogni anno: nei musei, in piazza della Signoria, in piazza Duomo, tra i palazzi e le strade del centro. Si godono la parte bella di Firenze, mentre i fiorentini, negli uffici, nelle scuole, negli ospedali, nei supermercati, vivono un’altra,  anonima , città.

Ma tutti, turisti e cittadini, utilizzano gli stessi servizi: la città si usura e le strade mostrano il loro accelerato degrado prima e più di tutto il resto.

 

In centro lo storico selciato fatto di sampietrini e massi variamente levigati è in più punti danneggiato: dove è stato rabberciato con macchie di asfalto la situazione si è  aggravata, per la ovvia incongruità di materiali strutturalmente tanto diversi.

 

Tutte le altre strade, forse escludendo alcuni tratti dei viali di circonvallazione, sono un supplizio: tombini devastati, radici prominenti, derapate di asfalto sollevato a fresco da camion ed autobus, fosse che di allargano e si approfondano  ad ogni temporale fino a diventare trincee…

 

Se viaggiare in macchina è una continua, drammatica rumba,  va peggio a chi si sposta in bici, in ciclomotore o in autobus.

I dischi intevertebrali, sottoposti a continui, gratuiti stress, invecchiano precocemente , i mal di schiena e le sciatalgie di moltiplicano: la cura “asfalto fiorentino” è poi particolarmente indicata per le colonne vertebrali in pieno sviluppo degli adolescenti,  per quelle calcifiche degli over …anta, o per  i “pancioni”  delle future mamme.

 

Il discorso fatto fin qui per Firenze può essere trasposto per tutte nostre  città d’arte: la ricchezza apportata dal turismo non  deve essere divisa solo tra chi opera nel settore, ma ne meritano una parte (trasformata in servizi ! ) anche i tutti gli altri cittadini, che con le loro  quotidiane e magari poco appariscenti fatiche, le mantengono vive e grandi.                                           

 

 

 

 

UN PICCOLO GIOIELLO COLOMBIANO

di Angela Vanegas

 

 

In mezzo al mare, si vedono quelle piccole montagne che sorgono dall’ acqua, un mare un po’ oscuro, con una vegetazione un po’ selvaggia e un tramonto difficile da dimenticare....,  e il Pacifico....  ad  ovest dalla Colombia.

 

Dopo circa un'ora di navigazione in mare aperto, si vede quell'isoletta,  sembra disabitata. Arriviamo e ci riceve quella gente, quel popolo di gente amabile e molto gentile,  non ancora  contaminato dalla violenza colombiana.

In quell’isoletta dove c'e molta natura, c'e anche molto spazio, le spiagge molto lunghe, quel  mare riscaldato dall’Oceano Pacifico.

 

Prima troviamo un piccolo paesino, dove c'e il porto.

"Juanchaco" si chiama;famoso perchè  frequentato dalla gente di Cali che viene a passarci le vacanze, a ubriacarsi e divertirsi, e portando  soldi e la propria cultura.

La gente dal posto vive con quello di cui ha bisogno, forse anche ignorando un po’ il resto del mondo.

 

Quando se lì, puoi prendere un trattore, che in mezz'ora ti porta a "Ladrilleros", o puoi camminare a piedi per più di un ora e arrivi comunque a "Ladrilleros", un piccolo paese,  dove tutti sono pescatori, anche i bambini.

Si vedono molti bambini al lavoro, mentre altri giocano con i granchi come se fossero delle macchinine  giocattolo. Si vedono diverse razze, ci sono persone di pelle scura, di pelle bianca, anche quelle simili agli indiani, e poi i turisti colombiani che vengono dalle grandi città.

 

Un’altra ora di strada a piedi, (dove nella strada trovi delle case fatte in legno con spazio per le porte e le finestre senza, però, averle) e si arriva a "La Barra":  il posto più lontano e più solitario di tutta l'isola, dove  ci sono solo 3 casette sulla spiaggia, in una di queste cucina una donna del posto del cibo di mare molto buono e a poco prezzo.

 

Un posto dove predomina la natura, vedi i granchi sulla spiaggia che ti fanno strada quando passi, vedi gli uccelli per aria fare mille figure mentre volano, vedi tutta una foresta intorno a te. Un posto dove tutto è armonia, gli animali con la natura e con l’ uomo, E’ un altro paradiso dei tanti che ha la Colombia, un posto pieno di tranquillità.

 

 

 

VIA E-MAIL ANCHE UN INVITO
IN "GRANDE STILE"?

di Raffaella Santulli

 

 

Una serata importante richiede l'invito scritto, con un testo collaudato dal tempo e dall'uso, che può essere interamente stampato o prevedere una parte da aggiungere a mano, con il nome dell'invitato preceduto dal titolo accademico, nobiliare, ecclesiastico o militare.

 

E' in realtà la soluzione più raffinata, ma impegnativa: bisogna innanzitutto avere una bella grafia e poi è obbligatorio l'uso della penna stilografica.

 

A cavare dai guai chi proprio non se la sente, esistono dei servizi di… amanuensi. Per realizzare un cartoncino elegante è indispensabile rivolgersi ad una tipografia "tradizionale", che abbia al suo attivo la fornitura di inviti e partecipazioni a personaggi indiscutibilmente stilè.

 

La carta di un invito è bianca o avorio, patinata, opaca e soprattutto pesante; si dice che scuotendola dovrebbe schioccare come un ventaglio. Il rapporto fra testo e spazio bianco deve essere a favore di quest'ultimo, ma nella giusta proporzione e tenendo conto dei diktat del bustometro.

 

Una scelta di gran classe è il cartoncino con gli angoli stondati e il testo riquadrato a " secco", con una piccola scanalatura che crea una cornice: un invito importante necessita del carattere corsivo inglese stampato a rilievo con l'inchiostro nero o grigio fumo di Londra.

 

Per posta, gli inviti per un ricevimento importante, vanno imbucati almeno un mese prima. Purtroppo nel nostro Paese, anche in presenza della formula R.S.V.P. sul biglietto, non tutti hanno la buona creanza di rispondere all'invito.

 

E' una grave scortesia, soprattutto se il ricevimento prevede posti a tavola assegnati e  -scortesia ancora più grave-  è inviare a due conviventi un unico invito!

 

Si invieranno cartoncini separati allo stesso indirizzo.

 

 

 

SHORTBUS

di Carla Rinaldi

 

Una delle caratteristiche più profonde del cinema, è che suo malgrado, può indirizzare lo spettatore e lo può illuminare sulla linea sottile che divide il comune senso del pudore e la pornografia. “Shortbus” di John Cameron Mitchell, lo stesso regista di “Edwig”, nonostante la patina cruda e dai dettagli pornografici, può tranquillamente entrare a far parte, invece, di quelle opere d’autore che non hanno la pretesa di esserlo.

 

La vicenda, ambientata a New York, racconta e soprattutto mostra, situazioni varie di vita quotidiana che confluiscono, tutte, di sera, in un locale, appunto lo Shortbus, dove si mescolano senza nessun disturbo, sesso, amore, delusioni e speranze.

 

Con un minimo budget, e con la presenza sul set di non attori che hanno deciso di offrire i loro corpi e le loro facce, anche se all’inizio le inquadrature potrebbero ricondurre a un porno soft, man mano si dipana in un racconto delicatissimo e reale, ma quale reale che non ha nessuna sovrastruttura cinematografica, non ha marchingegni furbi per stupire, riesce invece, solo  a inchiodare alla poltrona chiunque, anche il più bigotto spettatore. Una terapista di coppia preorgasmica, una coppia omosessuale in crisi, un giovane timido voyeur, una mistresse ancora indecisa sulla sua sessualità, ma tutti accomunati dalla certezza che anche attraverso il sesso, si può arrivare alla serenità. E non sesso fine  a se stesso, ma sperimentazione e dialogo più intimo, spiattellamento di segreti problematici e curiosità che non fa male proprio a nessuno.

 

Emblematica resta la scena della gang bang tra tre uomini completamente nudi nella telecamera ma ironici e divertiti nel cantare l’inno americano nelle pieghe più nascoste dei loro corpi come fossero megafoni. Il regista inglese Winterbottom, qualche anno fa con “Nine songs”, raccontava come viveva una giovane coppia, tra nove concerti nascva e terminava la loro relazione, ma la straordinarietà era che i protagonisti non smettevano, neanche per un attimo, di fare l’amore. Non era un film vietato agli adulti, si intuiva che l’occhio del regista no era libidinoso, era asettico, non mostrava né più né meno di quello che davvero fa una giovane coppia innamorata.

 

Lo stesso discorso vale per Mitchell, chiede allo spettaotore, attraverso la sua piccola opera, se per caso non accade proprio così. Certo, il locale per molti non sarà fondamentale, New York può essere sostituita da qualsiasi altra città del mondo, non saranno gay o preorgasmici, ma nella sostanza, queste sono metafore rappresentative, il nucleo del film è aiutare lo spettatore a non provare vergogna per qualcosa che inevitabilmente gli appartiene, da un seno a un gluteo, da una storia traballante alla fine della passione.

 

Questo è uno dei rari casi in cui si può davvero dire che il nudo serve da tramite e che il nudo può essere definito artistico.  

 

 

 

RICORDI DI CARNEVALE

di Nicola Perrelli

 

Zu carnulivaro, Za coraisima, zìzza zìzza salata, sono espressioni ormai in disuso, non più appartenenti al lessico quotidiano, che rimandano alle manifestazioni carnevalesche che si svolgevano fino a qualche decennio fa per il Corso ed i vicoli di Mormanno. Una tradizione, quella del carnevale, che seppure  non particolarmente sentita nel paese, al punto che ogni memoria  si basa quasi esclusivamente sulle fonti orali poiché poca o del tutto inesistente la documentazione scritta, per  l’ entusiasmo che suscitava tra  grandi e piccini  e per il fervore che inducevano i preparativi, è rimasta impressa nel cuore di tanti, quasi rimpianta per essere andata perduta. Quale mormannese,  ormai negli …anta,  non ricorda con un pizzico di nostalgia e di emozione  le mascherate e il lieto gironzolare per i quartieri nel  periodo carnevalesco?

 

Prima di dare nuovamente un “volto” al carnevale mormannese vediamo brevemente cosa il Carnevale simboleggia. Sicuramente rappresenta il desiderio degli uomini di vivere  in un mondo diverso. Senza soprusi , povertà, ingiustizie,ecc. Dove i potenti danno retta ai deboli, gli allievi istruiscono gli insegnanti, la terra è di tutti e i governanti ascoltano i governati. Cosi come rispecchia il tentativo  di esorcizzare le difficoltà e le assurdità della vita e l’immanenza della morte  proponendo  un mondo in cui  predomina la gioia di vivere e l’appagamento, fisico e spirituale.

Carnevale è dunque sinonimo di sregolatezza.  Un periodo  che viene trascorso all’insegna della libertà più sfrenata e del capovolgimento dell’ordine sociale e morale. Dove i ruoli si sovvertono: il debole diventa potente, il povero si fa ricco. In questo eccesso di libertà e di abbandono agli istinti primitivi ognuno perde la propria identità,  inverte  il proprio ruolo e spesso anche il sesso e si abbandona ad orge gastronomiche e a danze e balli frenetici.  E’ l’illusione di poter per qualche giorno, con travestimenti ,mascheramenti , libagioni e concessioni, rovesciare l’esistente. E’ il mito ereditato dai Saturnali dell’antica Roma: il padrone che prende in tutto e per tutto il posto dello schiavo. Che concede  ai servi di sfogare le proprie frustrazioni per  riaffermare di riflesso  l’ineluttabilità delle cose.

 

Ma il carnevale è anche   la rappresentazione del passaggio dal vecchio anno,  nemico e oppressore,  al nuovo anno, liberatore e salvatore. Il trionfo dell’imminente primavera sugli spiriti maligni del vecchio anno. E il re del carnevale che in questo periodo ha regnato all’insegna del caos e del disordine  è destinato  a morire da lì a poco, il giorno  del  martedì grasso.

 

Il Carnevale che si svolgeva a Mormanno non era annunciato da particolari cerimonie. L’irrequietezza degli adolescenti, prodotta dalla
ricerca spasmodica del costume da indossare, ne decretava l’inizio. Non si poteva certo parlare di maschere, la limitatezza dei mezzi  richiedeva un forte spirito di adattamento, ma non per questo c’era avvilimento, come si dice: di necessità virtù.  Il mascheramento il più delle volte consisteva  nell’indossare vecchi capi consumati, scampoli dai colori  variopinti appuntati o cuciti direttamente addosso, cappe dei nonni, cappelli consunti dal tempo e sciarpe che, come ai beduini del deserto, coprivano l’intero viso. I più fortunati  reperivano vecchie divise militari.

Mascherati e accompagnati dal suono di tamburelli, trombette e altri strumenti rudimentali il “branco” poteva dare inizio alla rituale   questua  casa per casa con la speranza di ricevere  un tocco di salsiccia alla richiesta zizza zizza salata, che le massaie offrivano solo dopo aver “estorto” con un’ asfissiante serie di domanda – a chi sei figlio? chi è tua nonna?  chi ti ha cresimato? chi è il tuo maestro?  tuo padre dove lavora?... -  l’identità dei mendicanti.  

 

Il momento più spettacolare era la sfilata delle maschere appresso il carro che trasportava  zu carnulivaro (re carnevale) , l’allegoria  del vecchio anno che muore e porta con sé  le colpe ed i peccati del passato. Il corteo funebre piangeva quindi la morte di Zu carnulivaro scoppiato per aver troppo mangiato e bevuto ed ecceduto nel resto. Appiccicata alla cassa da morto, quasi trascinata dall’incedere del carro,  Za coraisima (la Quaresima) che sconvolta per la perdita dell’amato congiunto, non perdeva occasione per gridarne il nome ed esaltarne le virtù. Con lo stesso strazio gli altri figuranti tra scoppi di pianto e teatrali gesti di disperazione invocavano il defunto declamandone anche loro le qualità.

Memorabile fu un Carnevale degli anni ‘70 che vide l’istrionico  Renato, detto di “coppula ianca”, protagonista della manifestazione. Dopo una pantagruelica bevuta non ci pensò due volte ad impersonare Zu carnulivaro , balzò quindi  sul carro funebre e supino si sdraiò nella cassa da morto, passandovi l’intero pomeriggio.  E non deve meravigliare, il personaggio di cui parliamo era noto in paese per le sue trovate e stravaganze. Per dirne una, portò in quegli anni a Mormanno una scimmia, che con disinvoltura portava sulle spalle quando passeggiava per il Corso, ed un leone, che fu rinchiuso per diverso tempo nell’uccelliera del Faro votivo.

 

Questo era il Carnevale per le strade , ma anche nelle case le tentazioni non mancavano. Il periodo era quello buono, il maiale era stato da poco ucciso e le dispense erano piene. E allora ,in previsione  dell’astinenza quaresimale, tutti a tavola a godere di  sughi di carne, pasta di casa, polpette, salsicce, formaggi, noci,vino e dolci tipici. 

Oggi è tutto diverso,  viviamo il Carnevale con gli occhi degli altri: quelli della televisione in particolare. Rincorriamo  le immagini sfavillanti del Carnevale di Venezia piuttosto che di Viareggio o di Putignano. E il nostro? 

 

E’ una festa perduta.

 

 

LE AUTO INTELLIGENTI

di Stefano Ferriani

 

Le case automobilistiche fanno a gara per immettere sul mercato automobili di nuova concezione, che si differenziano in modo enorme dalle auto del passato, anche recente.

I nuovi modelli, specialmente Mercedes, BMW, Volvo , sono dotate di sistemi di sicurezza che mettono gli automobilisti al riparo da tutta una serie di incidenti.

 

I tamponamenti, per esempio, avvengono il più delle volte per banali distrazioni ed alle basse velocità.

Le moderne autovetture sono dotate di particolari sensori che non solo avvertono il guidatore dalle pericolose presenze di ostacoli, ma il computer di bordo provvede, autonomamente, a rallentare e bloccare l’auto –se necessario-  qualora abbia elaborato come minaccioso ciò che ha appena individuato.

Micro telecamere a raggi infrarossi “avvistano” per tempo ogni sorta di pericolo che i normali proiettori illuminerebbero solo parzialmente e dopo tempo prezioso: si pensi ad una bicicletta che procede senza luci…

 

Per quanto alla sicurezza “passiva” poi, si può dire che si sono fatti passi da gigante.

La ricerca in Formula 1 ha dato un contributo notevole in questo senso.

Il pesante metallo, dal quale erano interamente ricoperte le auto, ha ceduto il passo a speciali leghe leggerissime, che assorbono progressivamente gli urti.

Gli airbag circondano integralmente l’abitacolo, dal quale sono stati eliminati legni ed altri materiali particolarmente insidiosi in caso d’urto.

Si può quasi parlare di una vera e propria cellula di sicurezza che protegge i passeggeri dell’auto, come le vetture che corrono i Gran Premi.

 

Purtroppo, però, accanto a tanti investimenti in sicurezza, non si investe sugli autisti, che sono e restano poco capaci e molto ignoranti in fatto di conoscenze meccaniche e di guida più in generale.

Non bisogna mai dimenticare, infatti, che il “pilota automatico” non è stato ancora inventato e le autovetture non camminano da sole.


 

 

LO SBALLO CHE INGRASSA LA MAFIA

di Martin Aiello

 

Il mese scorso il Ministro della Salute Livia Turco ha proposto al Parlamento un Decreto-Legge (i più volenterosi possono consultarlo sul sito internet www.ministerosalute.it) che innalza fino a 1000 mg il quantitativo di hashish detenibile dal singolo senza incorrere in conseguenze di tipo penale (raddoppiando la quantità limite imposta dalla commissione Storace al governo precedente). Sicuramente degne di una profonda riflessione le critiche che da più parti vennero opposte a tale decisione. Non per gli orizzonti che esse aprono - poche, infatti, si distanziano da un mero e fazioso qualunquismo - ma per l’ottusità ed il moralismo che le accomuna. Partiamo da alcuni presupposti apparentemente alieni l’uno all’altro. Primo: il carcere non è uno scantinato in cui nascondere la merce difettata, né tanto meno la punizione che la società-bene impone a quella degenere, bensì un luogo in cui individui che assumono comportamenti incompatibili con la convivenza civile vengono “ospitati” perché accettino in essi i valori comuni e condivisi dalla società di cui fanno parte. Secondo presupposto: chi fa uso di droghe non è un individuo insano, né stupido, minorato o colpevole, ma scandalosamente solo ed indifferente.

 

Posti questi presupposti gli effetti della Fini – Giovanardi (la legge che disponeva il carcere ai detentori di almeno 500mg di hashish - e che accomunava questa sostanza all’eroina - promulgata nel 2005 e finora in vigore) si commentano da sé. Sono infatti aumentati del 75,1% gli arresti per possesso di marijuana (ovvero 1.699 individui, perlopiù ragazzi), dello 0,5% (ovvero 5.237 persone) quelli per possesso di hashish, del 14,9% (ovvero 416 persone) per possesso di piante di Cannabis  (i dati si riferiscono alla differenza tra il periodo 1gennaio2006 – 1ottobre 2006 e lo stesso periodo del 2005, e sono forniti dal Ministero dell’Interno sul sito su citato). Quanto hanno influito tali carcerazioni sul mercato della droga?

Quanti ragazzi crediamo abbiano smesso di farne uso?

 

Se si pensa di sconfiggere l’uso della droga solo con la violenza del carcere, si è ben lontani dalla meta. È assolutamente necessario porre l’attenzione su ciò che determina il fascino degli stupefacenti che trova terreno fertile negli adolescenti. Si mettano da parte per un solo istante le realtà disagiate del nostro Paese, considerando quelle “normali”, di adolescenti che vivono nelle famiglie “bene”. Si è detto che il tossico dipendente è solo ed indifferente. Questa solitudine crea uno stato cronico di noia che non si riesce a superare. Un sabato sera al pub, una festa tra amici è noiosa se non viene impegnata con un qualche diversivo.

 

L’uso smodato di super-alcolici, tabacchi e droghe sopiscono questa noia, disinibiscono a tal punto che ci si diverte solo se se ne fa uso. Dopo un po’ si crea una “dipendenza psicologica”. In altre parole anche l’elemento alcool, droga e tabacco divengono una pratica codificata e “condicio” nell’organico della determinata situazione. Come si può pensare di punire una gioventù tale? Vittima di un assoluto vuoto che l’avvolge come in un vortice. Ma colpevole di non aver maturato un’autocoscienza tale da accorgersi del vuoto nella quale giace. Colpevole di non riuscire a maturare la speranza di risollevarsi. Colpevole come la società stessa, rea di non creare i presupposti perché una speranza abbia ragion d’essere. Ritenere un ragazzo degno del carcere perché fa uso di droghe equivale a giudicare degna del carcere la società stessa.

 

La soluzione, in parte, sta già nelle parole del Ministro Turco che nel decreto si propone di supportare seriamente gli Istituti di Recupero per tossicodipendenti. Positiva la scelta di congelare l’aumento insulso di arresti per possesso di droghe. Ma non basta. Non si può correre il rischio di legittimare alcuno all’uso degli stupefacenti. Uno Stato etico deve farsi carico di riempire quel vuoto di cui si parlava. Se davvero lo Stato è la più alta  sintesi tra individualismo e collettivismo, esso non può permettere che alcuni degli organi che lo compongono si abbandonino alla cancrena che li strangola giorno per giorno. Che si salvino quelle menti, nel rispetto, però, delle libertà d’ognuno.

 

*      *      *

 

C’è ancora un altro aspetto. Quando si pronunciano i termini marijuana, cocaina, eroina, ecstasi vengono subito in mente immagini di siringhe, pasticche o nuvole di fumo che ci sembrano volteggiare davanti agli occhi. In realtà dietro tutto ciò si celano montagne di danaro che impinguano in maniera smodata le casse delle mafie. Ed ecco che l’ “innocente” spinello diventa danaro. E come tale si muove. Passa di mano in mano. Di progetto in progetto. Con i pochi euro necessari per assicurasi qualche minuto di “sballo” si finanziano i progetti della mafia. È con quei soldi che uno spinello diventa il proiettile con cui è stato ucciso Fortugno. Con quei soldi viene comprata la benzina per incendiare le industrie e le attività che rifiutano l’usura. Con quel danaro ci si è procurati la dinamite che ha annichilato i corpi di Peppino Impastato, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tanti altri, delle cui parole ci fregiamo così volentieri la bocca. 

Proprio la nostra cara mafia che, in barba a chi la vorrebbe impegnata a premere formaggi ed impastoiare capretti, stringe accordi con il Sud America, la Germania, l’Afganistan, arruolando non più pastori a sequestrare figli di imprenditori del Settentrione d’Italia, ma laureati che parlano più lingue e usano il computer per spostare capitali di banca in banca. Di “paradiso fiscale” in “paradiso fiscale”.

Il problema della droga deve essere risolto ora. Non si può più aspettare.

 

 

Si tenga sempre a mente, però, che non sarà la repressione a sconfiggere le mafie.

Chissà se “Il Papa e la strega” di Dario Fo potrà venire in aiuto di quei potenti che sono eletti a risolvere tale drammatica soluzione:

 

[Dario Fo, nelle vesti del PAPA, si trova in un capannone dimesso in cui la GUARITRICE –Franca Rame- dispensa eroina gratuitamente a dei ragazzi che non possono far più a meno della loro dose, garantendo condizioni igieniche umane. Due ARROGANTI -mafiosi estranei alla “struttura” della guaritrice- non avendo riconosciuto in Fo il Papa, lo interrogano (drogandolo) sulla  provenienza di una bustina di eroina.

S’intende che è tutto un equivoco, dal quale emerge il comico e la denuncia]

 

PRIMO ARROGANTE       

Prova a pompargli un altro schizzo [una dose di eroina,   n.d.r.]. Forse gli manca il carburante.

 

PROFESSORE               

Ma glien’ho fatta una siringa intera…guardate che è         

molto pericoloso…poi rischia che si ammutolisca del tutto…

 

PRIMO ARROGANTE     

Pompa, pompa!

La guaritrice esegue

 

PAPA (riprende col tono di uno speaker)

Lo stesso responsabile della C.I.A., Norton

Cate, ha dichiarato che è impensabile sconfiggere militarmente l’organizzazione dei narco-trafficanti e della mafia internazionale.

 

PRIMO ARROGANTE       

Visto, adesso viaggia come un treno!

 

PAPA                                        

L’unica possibilità di abbattere questo mercato è quella     

di liberalizzare l’intero mercato delle droghe, sotto il                              

controllo dello Stato.

 

SECONDO ARROGANTE 

Ma che c.. di drizzone va prendendo?

 

PAPA                            

Anche Bush [senior, n.d.r]nel suo ultimo intervento al                              

popolo americano, ha ammesso che la repressione                              

determina uno sviluppo del mercato della droga ed un                              

incremento della mortalità.

 

SECONDO ARROGANTE 

Ehi, frena! Gli sono partiti i relè.

 

PRIMO ARROGANTE    

Buono ! Ascolta santone, mi senti? Pronto, sei in linea?

 

PAPA                                 

Sì, sento…qui è santone che parla…pronto…pronto…se

volete continuare il dialogo mettete altre due monete,  grazie!

 

[“Il Papa e la Strega”, Atto Secondo, Dario Fo e Franca Rame, Fabbri Editori, 1989-’90. ]

 

Dopo alterne ed “oniriche” vicende il Papa viene ucciso, dopo aver rivelato al mondo di essersi drogato e di credere che si possa <<smantellare la mafia…con tutti gli interessi che coinvolge…gli equilibri che determina>>. <<Bisogna essere comprensivi verso questi nostri figlioli – dirà Dario Fo/Papa – travolti dentro un gorgo di alienazione terrificante, di cui noi abbiamo qualche responsabilità>>. È Franca Rame a concludere l’opera avanzando in un proscenio ormai allucinato, macchiato dal corpo esanime del papa: <<Come diceva sant’Agostino: “Guai all’uomo di potere che si mette dalla parte di chi potere non ha”>>


 

ZONA FRANCOBOLLO
FRESCHI DI STAMPA: UNA STAGIONE A MORMANNO

di Francesco Aronne

 

 

Con un certo stupore, prima di Natale ho acquistato un volume dal titolo “Una stagione a Mormanno” di Mario Bevilacqua. Non conosco l’autore, scomparso nel 2004, ma la sua pur breve biografia contenuta nel libro evidenzia che trattasi di persona abituata allo scrivere.

           

Il testo si offre ad una lettura disinvolta che scorre piacevole e che porta chi legge ad ultimarla in due o tre riprese.

Credo che il lettore mormannese, soprattutto se, come me, non ancora nato all’epoca dei fatti narrati, a differenza degli altri che leggeranno questo libro, cerca in ogni riga qualche elemento che lo ricongiunga con la storia passata.

           

Le vicende raccontate sono ambientate nell’ottobre del 1943, in una fase delicata della storia d’Italia. Sullo sfondo l’effervescenza e le vibrazioni ideali, sociali, militari e politiche da cui è scaturita la repubblica.

Il racconto: una storia d’amore… sofferta, impossibile, improbabile, difficile, segreta, esagerata, tenera… al lettore la finale sentenza.

           

Queste brevi considerazioni a margine, non vogliono in alcun modo privare il lettore, del piacere proprio  ed unico della lettura, anzi dare ulteriori stimoli e spunti.

 

Alla fine non si svela l’arcano: quale Mormanno? Di quale Mormanno si tratta? Il dilemma rimane: Mormanno come puntino qualsiasi di un universo infinito?…

 

La foto di copertina (dei giorni nostri e non da una cartolina d’epoca) è quell’elemento che manca in tutto il libro e che inequivocabilmente dice che trattasi proprio della nostra Mormanno.

Alla “Casa del Passeggero” avrei preferito una ambientazione nel mitico “Albergo Gilda” anche se all’epoca dei fatti forse non esisteva ancora.

Mi ha colpito la frase “della via che conduceva al centro di quel tetro e deserto paese…” ed ancora qualche improbabile pianta di arancio, le invisibili (da Mormanno) cime del Pollino…

Ma si sa, lo scrittore libra la sua fantasia e spesso vola alto, più alto ed al di là delle speranze nascoste del suo lettore. La lettura del libro alla fine ripaga comunque chi legge e farebbe certamente piacere, un giorno, vedere una rappresentazione teatrale della “Compagnia del Cucco” di “Una stagione a Mormanno”.

 

Rimane l’enigma del perché l’autore abbia scelto proprio Mormanno per l’ambientazione della sua storia ma è poco importante la risposta… si sa, lo scrittore libra la sua fantasia e spesso vola alto, più alto ed al di là delle speranze nascoste del suo lettore.

 

 

 



[1] Gaetano Ambrogio Rossi 1664-1767; Grisolia Michelangelo 1754-1794; Vedi: E. Pandolfi Catalogo degli Scrittori di Mormanno Tipografia dello Sparviere, Mormanno 1900, pag.46 e 12

[2] Antonio D’Alessandro, Domenico Anzelmi, Carlo Capalbi, Filomena dott. Francesco Maria, Grisolia Michelangelo, Perrone Fedele, Sala Beniamino, Guaragna Galluppi Tommaso. Vedi: E.Pandolci op.cit. pag.5 e segg.

[3] Francesco Filomena  scrive un Breve saggio sull’operazione dell’oppio e dell’aria fissa ed infiammabile negli animali secondo il sistema dell’elettricità, Napoli 1781 ed ha corrispondenza epistolare con il fisico Luigi Galvani. Vedi ristampa curata dal dott. Giuseppe Leone, Pompei, dicembre 1986; Francesco Saverio Bloise, autore di una grammatica latina e di un Vocabolario Latino-Italiano e Italiano-Latino E. Pandolfi pag 8;  Perrone abate Nicola, autore di un vocabolario fatto in collaborazione con il Bloise, E. Pandolfi pag. 16. Su  Niccolò Perrone vedi mio studio su Mormanno un paese…nel mondo, edizione aggiornata sul web al sito www.paternostro.org oppure su www.faronotizie.it  

[4] Vedremo chi erano nel citato Mormanno un paese

[5] Eduardo Pandolfi, Società Filomatica e Biblioteca popolare circolante, Cosenza tip. Municipale, 1871

[6] D. Crea  Società, economia, imprenditoria in Mormanno tra l’800 e il ‘900, Ed. Coscile  1995

[7] Pieno medio evo bizantino. Vedi mie note in Mormanno un paese…

[8] Vedi pagine 8, 9 e seguenti in Vicende storiche e uomini illustri di Mormanno di Attilio Cavaliere. Vedi pure Biagio Cappelli in Note e documenti per la storia di Mormanno  in A,S.C.L. anno XII – 1941 – pagine 161, 181, 235, 245, e anno XII – 1942 – pagine  27 - 42

[9] Alessio, Dizionario di Toponomastica, UTET, 1990

[10] Vedi pag. 18 de Il Paese Grigio di Napolitano-Grisolia, ed. Maganò Bordighera 1990.

[11] Biagio Cappelli, ibidem pagina 41. A proposito di lingua greca, voglio ricordare che a Mormanno si officiò in greco fino al 1324. A Laino  l’uso si protrasse  fino alla metà del 1500.

[12] Chiaromonte, cittadina della confinante Lucania in provincia di Potenza. E’ parte del Parco del Pollino. Ha 1171 abitanti ed è posta a m. 650 s.l.m. Interessanti sono il centro storico, la Chiesa di S. Luca, la Chiesa di S. Maria degli Angeli, i ruderi del Monastero basiliano, i siti archeologici in località “Agro di Coccaro” e “Temponi”. Produce: dolci al sanguinaccio, funghi, miele, castagne, oggettistica in legno e ferro.

[13] Vedi  il testo in  Mormanno un paese…. Per la verità alcuni studiosi dubitano sulla autenticità dell’atto che tuttavia viene riportato da Padre Francesco Russo in Storia della diocesi di Cassano allo Jonio, Napoli 1964. Vedi pure: Domenico Crea e Francesco regina  in “Mormanno. La Cattedrale di Santa Maria della Colla o del Colle; Fede ed Opere di Popolo e Clero in sette secoli (1183- 1883) “ Edizione il Coscile 2000, pag.17, Lo stesso prof. Crea ha elaborato una rievocazione storica della donazione entrata ormai a far parte delle tradizionali celebrazioni dell’agosto mormannese.

[14] Biagio Cappelli ibidem pagina  38

[15] Il monastero di Carbone, inserito nell’eparchia della valle del Sinni, fu fondato dai Santi Elia ed Anastasio dell’ordine di San Basilio quivi giunti dal Mercurion. Di esso rimangono solo pochi ruderi in località Valle Cancello.

[16] Nella città di Mormanno vi sono oltre duecento tre fuochi - leggi famiglie - che producono una rendita annuale di 36 once d’oro. L’oncia aveva un valore monetario variabile. In dialetto, ùnza, significa pochezza, miseria. Non vàli mancu n’ùnza:  è cosa di pochissimo valore. Riferito a persone ha il significato d’inaffidabilità, di miseria morale. La voce focularia, cioè focolare, è sinonimo di famiglia. Fuochi sta quindi per famiglie.

[17] Napoli, Archivio di Stato, volume 155 intitolato Carolus II, foglio 992,

[18] E. Pandolfi, Catalogo citato 

[19] A favore della popolazione del castro (paese o luogo abitato) di Mormanno, da parte di Giovanna e dai reggenti la curia viaria del regno di Sicilia. Il periodo storico è quello della lotta tra angioini e aragonesi. Universitas equivaleva all’insieme dei cittadini abitanti il castrum, paese o luogo ove la residenza era accertata e permanente.

[20] Biagio Cappelli, ibidem pag. 43

[21] Vedi E. Pandolfi, Catalogo  citato, pagina 23

[22]  Vedi  Mormanno un paese citato. La costruzione della chiesa, per la cui storia rimando al mio più volte citato Mormanno un paese, richiese tre tempi diversi. Il primo, più antico non sicuramente databile per mancanza di atti ma presumibilmente avvenuto intorno al 1100, vide l’impianto di un tempio alternativo a quello posto sul colle dell’Annunziata già dedicato a San Biagio, protettore della Diocesi di Cassano, il cui culto continuò in una cappella allora fuori porta che si trovava nel rione omonimo come ricorda Vincenzo Minervini in Mormanno d’una volta pag.15 “esisteva presso il mattatoio una cappella dedicata a San Biagio. Io ne ricordo i ruderi, ora scomparsi. In essa vi era un quadro del Santo che ora si conserva in chiesa”. Il secondo fu il rifacimento ad ampliamento di tale fabbrica  che si concluse nel 1568 e infine il terzo che durò fino al 1782 e diede all’edificio sacro l’aspetto che ancor oggi conserva.  Dei due primi templi non restano tracce evidenti perché tutti inglobati  nell’ultimo. 

[23] Tra le più antiche segnalo:

·         Madonna in trono con Bambino, in pietra arenaria, posta sul campanile  protogotico databile al XIV secolo;

·         Affresco della Madonna delle Grazie- prima cappella a sinistra – inizi del XVI secolo;

·         Fonte  battesimale in marmo di scuola nolana datato 1578 e cappello  ligneo dei primi del 1600;

·         Edicola marmorea dell’Olio Santo del 1511;

·         Organo in legno di scuola napoletana costruito nel 1671;

·         Bassorilievi in pietra arenaria raffiguranti i Santi Pietro e Paolo, oggi ai lati dell’altare della Madonna del Rosario, databili alla fine del XIV secolo, già posti all’esterno quale decoro di un edificio adibito a corpo di guardia o, probabilmente, sulla facciata del primo o secondo tempio.

·         Cripta aperta al pubblico l’8.12.1997 dopo lavori di consolidamento  finanziati con fondi CEE gestiti dalla Comunità Montana del Pollino.

 

 

[24]Tanto mi comunicava in una sua lettera il Cav. Amato Campolongo, apprezzato storico contemporaneo, autore di svariate pubblicazioni di carattere storico - genealogico e valido collaboratore del giornale Tribuna Sud, sulle cui colonne si è più volte espresso.

[25] Notizie tramandate oralmente

[26] Catasto Onciario di Mormanno – in Archivio di Stato a Napoli. Notizie fornite dal citato Cav. Amato Campolongo.

 

[27] Patrimoniale della Vle Cappella del S.S.mo di Mormanno, pgg. 219 – 225: Testamentum qm  R. D. Honorati Ferriolo in quo reliquit petium terrarum ubi dicitur Piedi la Scala cum onere solvendi carolenos tres Cappellae S. Honorati stip. In anno 1696.

[28] Don Onorato Ferriolo figlio di Ottavio e Delia Capalbo. Sacerdote. (01.11.1620 + 08.07.1698)

[29] Diminutivo dell’avverbio di tempo latino quondam, che anteposto ad un nome proprio di persona in atti anagrafici o scritture in genere, ne denotava l’avvenuto decesso al momento della stipula (come a dire fu).

[30] In particolare nel Libro della Congregazione della Morte a proposito dell’ubicazione di diversi beni stabili di proprietà della Congrega, quali  orti, case e fundaci (ossia i bassi di un unico complesso strutturale)

[31] La famiglia di Cristofaro Ferraiolo della fornàra deceduto agli inizi del novecento, fu l’ultimo anello di una lunga catena; Elisabetta Ferraiolo (1865+1938) detta  fornarella per la statura, risulta veramente l’ultima persona annotata nei registri con quel cognome.

[32] Che fu sede del Liceo Scientifico sino a qualche anno addietro.

[33] Non si tratta di una mera novella frutto della fantasia, la notizia è tratta da un manoscritto di famiglia del pugno dell’avo F. A. e combacia perfettamente con quanto risulta nella cronotassi dei vescovi di Cassano. Questo vescovo, che tralignava completamente dal suo magistero, dopo essere stato deposto continuava a permanere nell’Episcopio di Mormanno ed oltre ad esser già concubino, pretendeva anche avvalersi dello “ius primae noctis” !.

Per questo e per altri motivi, gli appartenenti alle scomunicate famiglie Molinari e Paternostro, lo rinchiusero in una botte irta di chiodi con le punte rivolte nell’interno, e lo precipitarono verso il fiume per il dirupo predetto, verso l’anno 1428.

[34] Paradiso, Canto I verso 34: può accadere che un incendio scoppi per causa di una piccola scintilla.

[35] Suppongo si tratti del comune di Castronuovo di Sant’Andrea (PZ) dove il cognome è ancora corrente e non dell’omonimo comune in provincia d’ Aquila.

[36] Cfr. Vicende storiche ed uomini più illustri di Mormanno, Attilio Cavaliere

FARONOTIZIE.IT  - Anno II - n° 11,  Febbraio 2007

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