FARONOTIZIE.IT  - Anno I - n° 9,  Dicembre 2006

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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi

L’ESERCITO DI FRANCESCHIELLO

Editoriale del Direttore,  Giorgio Rinaldi

Che ci vuole ?

A tutti quelli che hanno un’auto gli fai pagare un tot.

A tutti quelli che hanno un’auto di una certa cilindrata gli fai pagare un altro tot.

A tutti quelli che possiedono una casa gli fai pagare un tot.

A tutti quelli che hanno un conto corrente gli prelevi, di notte, una percentuale di quello che c’è, un tot

A tutti quelli che possiedono un paio di scarpe gli chiedi un tot.

A tutti quelli che hanno le emorroidi gli fai pagare un tot.

E il gioco è fatto.

C’è bisogno di pagargli 20.000,00 euro al mese a questi scienziati che siedono in Parlamento per risanare i conti pubblici  ?

E come se un amministratore di condominio non si preoccupasse di affittare dei beni condominiali e conseguentemente incassare soldi e, per contro,  si limitasse a  chiedere aumenti dei contributi ai condomini per pagare il maggior costo del gasolio da riscaldamento.

Quanto tempo impieghereste a dargli il benservito e ad indicargli una bella fonderia dove esercitare muscoli e polmoni?

A governare così son buoni tutti”, soleva dire mio padre, vissuto 89 anni, di cui 85  spesi a lavorare prevalentemente in campagna: un uomo che non ha mai posseduto un orologio –perché non ne aveva bisogno- , che non ha mai fatto un giorno di vacanza, che non è stato mai nominato cavaliere del lavoro.

E, come lui tanti e tanti.

La saggezza contadina ha dovuto cedere il passo ai faccendieri, ai delinquenti e agli incapaci: il risultato è davanti agli occhi di tutti!

Pensate, per esempio, agli inauditi privilegi di cui godono gli abitanti di Campione d’Italia.

Per legge sono dei compatrioti disagiati.

Ogni mattina, infatti, quando si svegliano, poveracci loro, sono costretti a guardare dalle loro finestre –gratis- il lago di Lugano.

E, per questa terribile fatalità, vengono pagati in franchi svizzeri, con le tasse ridotte dell’80%.

Per fare due conti, un operatore ecologico (il più noto spazzino) guadagna 5 – 6 mila euro al mese!

Se questi fratelli d’Italia sono disagiati, cosa dovrebbero dare agli abitanti, per esempio di Avena, frazione di Papasidero, montagna Calabrese, che solo per acquistare un chilo di pasta i poveri ottuagenari rimasti devono farsi una quindicina di chilometri a piedi ?

Le pensioni (minime!) gliele dovrebbero centuplicare e pagargliele in diamanti e lingotti d’oro ?

Ma, i nostri governanti non ne sanno nulla, il caso l’ha dovuto portare alla ribalta una giornalista (trasmissione TV: Report, RAI 3) che, come è noto, guadagna molto, ma molto, meno di un ministro, perché i Nostri, se ne accorgessero.

Una volta accortisi della scandalosa situazione, i paladini della Cosa Pubblica avevano ridotto l’esenzione fiscale, poi –però- è tutto miracolosamente tornato come prima!

Tanto, c’è Pantalone che paga !

Qualcuno ci vuole spiegare, per favore,  come stanno le cose ?

A chi dobbiamo ringraziare (nome e cognome, please) alle prossime elezioni per questa manifestazione di grande attenzione per i cittadini disagiati di Campione d’Italia ?

E, giacché ci  siamo, ci volete anche far sapere se Valentino Rossi, che secondo un famoso ministro dovrebbe essere uno dei nuovi simboli dell’Italia vincente, data la sua residenza a Londra, le tasse le paga alla Regina? O, trattandosi di Vip (…!), non è possibile violare la sua…privacy?

L’Italia è il Paese dagli sprechi di proporzioni immani, dove la maggior parte delle  forze politiche hanno suggellato dei patti taciti e segreti con il loro elettorato e si guardano bene dal toccare i privilegi, piccoli e grandi, ora degli uni, ora degli altri.

Ricordate la Democrazia Cristiana ?

Gli elettori del Sud Italia, del Veneto, del Friuli la votavano in massa e in cambio fioccavano le pensioni di invalidità, i finanziamenti a fondo perduto, a pioggia, a restituzione centennale senza interessi etc. per le imprese ed iniziative più strampalate.

Per non dire di controlli, a tutti i livelli, pari a zero.

Gli eredi della “balena bianca” hanno ben imparato la lezione e ogni “orticello” elettorale viene coltivato con amorevole cura, tanto c’è sempre il signor Pantalone che paga.

Ci siamo ridotti ad affidare la denuncia e la lotta politica a trasmissioni televisive (Report, Le iene, Striscia la notizia, Anno zero) e a qualche giornalista (vedi Travaglio, Deaglio), perché –oramai- il panorama politico brilla per la totale diserzione  dei naturali combattenti.

E’ un po’ come l’esercito di Francesco II di Borbone, il famigerato “Re Bomba”, nel quale –si diceva- assumeva il comando chi prima si alzava la mattina.

Pensate: Previti, avvocato di Berlusconi, ex ministro della difesa del governo Berlusconi  e parlamentare di Forza Italia, nonostante la condanna a 6 anni di reclusione e alla interdizione dai pubblici uffici confermata dalla Suprema Corte di Cassazione, cosicché sarebbe dovuto decadere immediatamente dalla carica di deputato, è ancora al suo posto, a 20.000,00 euro al mese, perché l’apposita giunta parlamentare, che dovrebbe limitarsi a prendere atto della sentenza e dell’oggettivo “impedimento” dell’Avv. Previti a guadagnarsi lo stipendio di onorevole deputato, e cancellarlo pertanto dai ruoli parlamentari, da mesi non ha ancora deciso e, anzi, ha dichiarato che “non rallenterà e non accelererà” i suoi lavori.

E nessuno dice niente ?

Nessuno si indigna ?

Perché il Presidente della Camera non convoca la commissione e non spiega ai pargoli che è loro dovere “accelerare” per rispetto della giurisdizione e del portafogli dei contribuenti ?

Ma che Paese è mai questo ?

Ma che Paese è quello dove il Governo uscente dichiara che l’economia va a gonfie vele, le entrate si sono moltiplicate, il debito pubblico è sceso, tanto da poter abolire anche l’ICI, e il Governo entrante denuncia, invece,  buchi di bilancio, debiti, quasi la bancarotta e la necessità di ricorrere a nuove entrate fiscali ?

Qualcuno, certamente, mente, sapendolo, perché la materia non può tollerare incompetenti (ancorché se ne sono visti e se ne vedono).

Qualcuno, certamente, quindi, ha truffato o sta truffando gli italiani.

Dobbiamo chiedere l’intervento dell’ONU per sapere chi è ?

E, che Paese è quello dove milioni di lavoratori  sono stati ridotti in stato di vera e propria schiavitù con tutta una pletora di contratti “a progetto”, “co.co.co.”, “a tempo” etc., etc., cioè con contratti che hanno tolto anche i più elementari diritti ai lavoratori ?

Eppure, nessuno parla, nessuno denuncia.

Perché ?

Ma, questa è un’altra storia.

O, è sempre la stessa ?


NELLA TRINCEA DEL CINEMA

Ricardo Sangiovanni e Vítor Rocha (collaboratore speciale in questa intervista)

La sua arma è la videocamera. Le munizioni, i fatti. La trasformazione è la sua ambizione. Dove c’è una mobilitazione sociale, ecco l’argentino (figlio d’italiani) Carlos Pronzato! E’ venuto dall’Argentina per abitare in Bahia dal 1989. Nel suo lavoro, il regista, fa la doppia funzione di girare le riprese e partecipare agli eventi come militante politico: “Sono un militante con una videocamera in mano”, ci dice. In questa intervista, Pronzato parla del suo libro “Dal Che al Evo”, del film che prepara su Che Guevara e di come è riuscito a riprendere per la prima volta l’arma con la quale hanno ucciso il guerrigliero.

Faronotizie: Perchè fare un film in Bolivia, sulla vittoria di Evo Morales?

Carlos Pronzato: Sono andato in Bolivia per la prima volta nel 2003, per osservare quanto accadeva alla rinunzia del presidente Sanchez de Lozada, quando il popolo protestava contro la vendita del gas agli Stati Uniti. Allora Evo Morales ha mostrato la sua forza. Allora io ho fatto il primo film li, che si chiama “Bolivia, la guerra del gas”. Dopo, sono avvenuti grandi fatti sul piano sociale, e alla fine è stato eletto un indigeno presidente della repubblica per la prima volta. Prima di ricevere la notizia della vittoria, non pensavo di andare in Bolivia in quel momento. Ma sono dovuto andare subito e sono riuscito a fare il film (che si chiama Yallalla Evo!). Secondo me un lavoro molto importante – non ho sentito voci contrarie- è proprio pro-Evo, malgrado ci siano punti deboli nella sua politica, che secondo me potrebbe essere più influente.

FN - E poi scrive il saggio “Dal Evo al Che”. Dove vede il rapporto tra questi due personaggi?

CP – L’idea mi è venuta durante il viaggio. Ho visto che nel programma del MAS (il Movimento al Socialismo, a che fa capo a Evo Morales) c’erano molti punti in cui appariva la figura del Che. E non solamente come una figura decorativa. Era molto più profondo. Nel MAS e in Bolivia in generale, l’immagine del Che è ancora molto forte. Dunque, il racconto è come una metafora politica, dove la lotta del Che è coronata dall’arrivo di un indigeno alla presidenza. Faccio un rapporto tra i due perchè la regione dove à nato politicamente Morales – dove si coltiva la foglia di coca – è la stessa dove il Che ha fatto la guerriglia negli anni 60.

FN – Lei ha ripreso la moglie dell’ufficiale del esercito proprietario dell’arma con la quale hanno ucciso il Che. Come è stato il riscatto di questo processo storico?

CP – Quando ho detto che avrei fatto un film sul Che, mi dicevano: guarda, è un personaggio di cui si è molto parlato negli universi giornalistici ed artistici, allora bisogna trovare un modo originale di fare un nuovo film. Ma io lavoro con il Che in ogni cosa che faccio, perchè lui è sempre li, in ogni mobilitazione, in ogni luogo, in ogni parola. In tutto quel che si scrive sulla rivoluzione, ecco il Che! Allora, come riuscire a lavorare con questo tema in un modo obiettivo? Ho cominciato intervistando uno storico, Carlos Soria Galvarro, che è stato la mia grande guida in questo lavoro. Poi ho contattato la moglie dell’ufficiale e le ho fatto vedere qual era il mio lavoro, qual era la mia trincea. Lei ha concordato e mi ha raccontato la storia dell’arma, perchè era presso di lei e non nei magazzini dell’ esercito o in qualche museo. Lei non aveva mai aperto la porta a nessuno... allora, questa ripresa è un esclusiva.

FN – E qual è la storia dell’arma?

CP – Questa arma era di suo marito, il tenente Carlos Perez, che, secondo lei, era stato incaricato di uccidere il Che. Ma lui non ha avuto coraggio, non voleva. Allora, il sergente Mario Terán ha fatto il “servizio” usando, però, l’arma del collega Perez, una carabina M2 automatica, molto moderna, e ha mitragliato il Che. Perez, alla fine, chiese a sua moglie di  tenere l’arma e non restituirla più all’esercito.  

FN – Allora l’arma è un trofeo per questa famiglia?

CP – Si, si, un trofeo. Lei pensa che suo marito doveva avere ricevuto un omaggio, perchè lei pensa che il Che era venuto per uccidere i boliviani – c’è gente li che ancora pensa così. Sebbene lei avesse detto che il marito rispettava molto il Che, che non voleva ucciderlo. Ha detto pure che lui è stato vittima della “maledizione del Che”: dopo morto, il Che ha ... eliminato ogni ufficiale che aveva partecipato al suo assassinio. Tutti hanno avuto grossi problemi, o hanno subito incidenti fatali... Incluso Carlos Perez, che ha avuto problemi psicologici ed è diventato cieco prima di morire.

FN – Quando sarà pronto il film?

CP – Penso  nell’anno prossimo, ad ottobre, per le commemorazione dei quarant’anni dalla morte del Che.

FN – Ha detto che è in una “trincea”. Qual è la parte più presente nel suo lavoro: il documentarista o il militante politico?

CP – Io prendo una frase di un regista argentino, Raymundo Gleyzen, che diceva: ‘prima sono militante, poi giornalista e regista.’ Sono un manifestante con una camera in mano e perciò ho già avuto problemi. Una volta mi hanno detto: “Pronzato, fa la tua ripresa ma non ti mettere nei casini!” Non sono d’accordo! Con questa mano (la destra) sto filmando, con quest’altra (la sinistra) e con la testa, sto partecipando. I miei film sono girati davanti alla polizia, non dietro. Il mio rischio è lo stesso di quelli che manifestano. È un tipo di protesta dove la camera ha un significato provocatorio. 

FN – L’obbiettivo dei suoi film è la trasformazione sociale?

CP – L’obbiettivo è socializzare le possibilità di trasformazione che capitano in America Latina. L’idea è provocare una riflessione e un’azione. Ma è difficile, non si può dire che il film provocherà una determinata reazione. È molto complesso, il tempo passa e non si vedono molte trasformazioni...

FN – Come sopravvivere con questo cinema indipendente senza ricevere finanziamenti pubblici? (In Brasile il cinema sopravvive sopratutto con gli incentivi finanziari dello Stato.)

CP – Molto è fatto con scambi. Ho già ricevuto collaborazione di canali TV, giornali, sindacati. La maggior parte dell’aiuto si manifesta nel luogo dove sto lavorando, non chiamo nessuno per chiedere alcunché. È anche una scarica di  adrenalina dalla quale non riesco a separarmi. Guadagno qualcosa anche con la vendita dei video, ma poco poco.

FN – Da quanto tempo sei in giro?

CP – Le questioni vengono accompagnando la storia recente dell’America Latina. Negli anni 90 i movimenti sociali provano a riorganizzarsi, richiamare quel che è nostro, il nostro continente latino-americano. Prima ho viaggiato 5 o 6 anni senza una rotta definita, in giro per tutto il continente, facendo diversi mestieri, dal Mexico al Cile. Nel 1989 sono arrivato in Bahia per fare un corso di teatro. Ma dagli anni 90 ho abbandonato un po’ il teatro e ho scelto il documentario. Mi sono accorto che l’esplorazione era molto distruttiva, allora ho sentito che dovevo oppormi. Così ho scelto il documentario, i commenti delle persone, le immagini del video. Mi pare che ha funzionato. Penso che si è creato un tipo di “grif”, una marca di questo tipo di documentario militante, che funziona perchè alimenta tutto il movimento sociale.

QUANDO PER L’OSTE
SEI UN POLLO DA SPENNARE

di Giorgio Rinaldi

Diciamocelo francamente: al ristorante siamo i clienti più stupidi del mondo.

Sarà, forse, perché non ci  siamo liberati compiutamente del complesso di morti di fame, che ci accompagna da sempre.

I delinquenti d’ogni risma, dai mafiosi italo-americani alla “banda del Brenta”, a quella della “Magliana”, l’offesa che ritengono più crudele e spregevole è quella di essere chiamati, o chiamarti, “pezzente”.

L’atavica paura di passare per “poveracci” ci costringe a comportarci, varcate le soglie di un ristorante, come attori in una farsa di Scarpetta o di Eduardo.

Il cameriere assurge al ruolo di colonnello e noi ci immedesimiamo nel ruolo di soldato semplice, al più caporale, nel caso fossimo accompagnati da amici più timidi.

Ci lasciamo, quindi, “consigliare” dallo sconosciuto cameriere-colonnello il quale, ovviamente, ha tutto l’interesse a consigliare quello che la cucina deve smaltire più in fretta, al di là della bontà della pietanza, ovvero ti consiglia quello che è più costoso, ma questo dipende, generalmente, dal tipo di comitiva, da quanto sembriamo soldati semplici.

Il timore di essere scambiati per degli sprovveduti ci induce a comportarci come dei veri e propri “provinciali” appena sbarcati nella grande città.

Ricordate il film “Totò, Peppino e la malafemmina” nella memorabile scena al night club dove Totò, incalzato dai camerieri, sperpera i soldi di Peppino?

Ecco, noi siamo più o meno così.

Lo “sbruffone” che alberga nella maggior parte degli italiani in trasferta nei ristoranti, fa di noi la gioia dei ristoratori e dei camerieri di tutto il mondo.

E’ cosa nota tra gli addetti degli alberghi e ristoranti che gli italiani, unici  al mondo, non controllano il conto (sempre per la ridicola paura di essere ritenuti come “chi non se lo può permettere”).

E’ il momento in cui si scatenano gli appetiti degli operatori della ristorazione e degli alberghi: conti maggiorati, extra “erroneamente” addebitati, pietanze “sdoppiate”.

Un esempio: solo nei ristoranti italiani a parte si paga –assurdamente- il “coperto”, il “servizio”, il “pane”, il “contorno”.

All’estero, dove queste “voci” in massima parte sono sconosciute, lo sanno e, quando arriva un italiano, il conto, miracolosamente, lievita con tutte quelle voci che, se applicate agli indigeni, metterebbero a

repentaglio la vita del ristoratore, dei camerieri, del sindaco e del capo della polizia.

Ma, l’italiano, anche se non ha i soldi per prendere il taxi, è un “grande”: paga senza batter ciglio e lascia sontuose mance, mentre tutti, ma proprio tutti, dai camerieri agli altri clienti, gli ridono alle spalle, commiserandolo !

I ristoratori nostrani, che conoscono meglio delle loro pentole l’italica debolezza, se le inventano tutte per far costare una cena, alla fine, almeno il triplo di quanto dovrebbe.

Vediamo come:

-         non ti portano il menù. In questo caso spesso è il proprietario che con fare amichevole si siede al tuo tavolo e ti snocciola le sue specialità, ammiccando su quelle che ritiene meglio per te, che sei per lui un perfetto sconosciuto, ma il ristoratore è più psicologo di un professore universitario della materia, e sa come “cucinarti”, e tu lo scoprirai al momento del conto;

-         ti portano il menù ma non la carta dei vini. Il cameriere ti consiglia un vino che tu non hai mai bevuto, a differenza di lui che è un intenditore e notoriamente beve a casa sua solo vini di annata e fa il cameriere per hobby. Non ti dice il prezzo (dettaglio…infimo) perché ha piacere a fartelo scoprire alla fine, quando non puoi più tirargli la bottiglia dietro;

-         ti portano menù e carta dei vini. Tu scegli un vino, che hai reputato interessante e, magari, con un buon rapporto qualità/prezzo (spesso trovi vini da 2 euro che ti vendono a 18/20 euro!), il cameriere-colonnello ti dice, prontamente, che il vino che tu hai scelto è, guarda caso, terminato e che si sono scordati di toglierlo dalla carta (specchietto per le allodole). Però, dice di averne un altro “ugualmente buono”. Ti porta un’altra bottiglia e, sempre per il famoso complesso del militare, del pezzente, dello sprovveduto e dello sbruffone, non chiedi se costa uguale e a fine pasto ne paghi le conseguenze economiche;

-         non ti stappano la bottiglia davanti a te: può essere, non sempre, ma capita, che berrai i rimasugli di altre bottiglie lasciati da altri clienti. Le tue smorfie di disgusto nel sorseggiare la criminale mistura, saranno fermamente redarguite dal cameriere-colonnello il quale, come i vignaioli del Chianti sanno, è un esperto sommelier soltanto prestato al servizio ai tavoli!

-         arrivi e trovi sul tavolo una bella bottiglia di “frizzantino” aperta e delle bruschette a seguire: pensi ad un gentile omaggio di accoglienza del ristoratore, così bevi e mangi. Peccato che alla fine li trovi nel conto a caro prezzo;

-         il cameriere insiste per portarti un bel piatto di “antipastini”, tanto per stuzzicare l’appetito, poi per le pietanze ti coccola con l’immagine di “qualche patatina”, “qualche verdurina”, sempre in un unico piatto, “un assaggino per chi lo vuole”. Al momento del conto trovi tutto
puntigliosamente annotato e moltiplicato per il numero degli avventori, e quelle tre (di numero!) acciughe, quelle tre (di numero!) fettine di salame, che erano per “assaggino”, diventano costosissimi“2 antipasti mare” e “3 antipasti monti”;

-         alla fine del pasto ti offriranno un terribile “nocino” o “lemoncello” fatto nei sobborghi di Napoli: servirà per addolcirti ed evitare contestazioni al momento del conto, anche se scoprirai –solo se guarderai il conto- che (ovviamente per…errore) ti hanno aggiunto delle cose che non hai mangiato o bevuto. E, magari, ti accorgerai pure che è un “pre-conto”, cioè una ricevuta uguale in tutto e per tutto ad una ricevuta-fiscale, tranne che per i riferimenti del…ristorante!

Se si lascia a casa la casacca italiota, è bene seguire pochi ma utili consigli:

1)     rifiutarsi di mangiare, e andare subito via, dove non ti portano immediatamente il menù (tranne che si tratti di un posto che conoscete bene, o di qualche modesta trattoria che non può riservare sorprese più di tanto, o di un locale dove già sapete che dovrete ipotecare la casa per pagare il conto);

2)     rifiutarsi di mangiare dove è previsto il pagamento di “servizio”, “coperto” e “pane”: è semplicemente immorale pagare un terzo del conto per prestazioni che tu già paghi nel prezzo di ciò che mangi (non puoi certo servirti da solo in cucina o mangiare con il piatto sulle gambe o senza il pane, che fa parte della tradizione culinaria italiana!!!);

3)     chiedere sempre il prezzo di ciò che pensi  (erroneamente!)  che ti offrano, oppure dei vini quando non è segnato nella carta.

E’ bene considerare, poi, per stabilire se un ristorante è “caro” o meno, che il prezzo di un pranzo non è fatto e non nasce a caso.

Bisogna tener conto, infatti, di una serie di elementi che lo determinano.

Citiamone alcuni:

-         posizione del locale (centro, periferia etc.);

-         tipologia interna: una sala, più salette, anche per la potenziale rumorosità dovuta al numero degli avventori;

-         sistemazione dei tavoli, per numero e distanza tra essi;

-         arredi di qualità e gusto;

-         qualità delle porcellane, cristalleria e posateria;

-         qualità delle tovaglie;

-         accoglienza;

-         presentazione dei piatti;

-         qualità delle materie prime;

-         ricchezza della cantina;

-         preparazione e capacità dei camerieri;

-         presenza di un sommelier;


bravura dello chef;

-         carte dell’acqua e dell’olio

-          guardaroba.

-          

E, perché no, una cucina attrezzata e pulita che bisognerebbe chiedere di visitare prima di sedersi a tavola.

Si può andare a ristorante per necessità, per abitudine o per piacere.

In ogni caso, deve essere un momento di felicità.

Facciamo in modo di evitare che i ristoratori disonesti ce la neghino.

A PINO

di Francesco M. T. Tarantino

Nascesti di maggio e andasti via in giugno

L’arco di un unico sogno impossibile

Fra le tue pieghe lacerate da un pugno

Che ti ha costretto in un ruolo terribile

Eri sereno con i tuoi occhi da bambino

E l’aria gioviale di un vivere impreciso

Benvoluto sfottuto con un poco di vino

Non eri quel che sembravi con un io diviso

Incazzato e ribelle docile e mansueto

Non c’era peso di troppo per le tue spalle

Più di una banca un tesoro concreto

In milioni per commercianti senza palle

Quante ricchezze poggiano sulla tua forza

In cambio di un pane neanche fresco

Mangiato per strada per indurir la scorza

E sopportar l’atteggiamento furfantesco

Di matrone imbellettate e senza scrupoli

Sei stato un’icona da filmare ed esportare

Da guardare e rallegrare chi non ha vincoli

Di riservatezza e pudore da manifestare

E di un possibile amore sei stato deriso

Fino a lasciarti ancor prima di poter fare

Una eventuale carezza lungo il suo viso

Pino perdonaci per questo brutto affare

E un giorno ti portarono in un ospedale

E rimase solo, Fritz, il tuo amico cane

Ad abbaiare alla luna in modo innaturale

Non aveva nessuno con cui dividere il pane

Vennero a dirci che t’aveva rapito la morte

Restammo attoniti come tanti deficienti

Con qualche lacrima senza piangere forte

E guardandoci ci scoprimmo insufficienti

* Francesco M. T. Tarantino ha di recente pubblicato una raccolta di poesie dal titolo “Cose Mie”, MEF - L’Autore Libri Firenze.

RICONOSCERSI UGUALI !?
A NATALE È POSSIBILE

di Raffaella Santulli

La festa delle feste.

Nessun'altra, infatti, riesce a coinvolgere grandi e piccini altrettanto reciprocamente, ed in senso così ampio, partendo dal cuore e trascinandosi in affare: questa gioia dell'anima che si trasforma, senza alcun pudore, in un'orgia di cattivo gusto, di acquisti insensati, di rincorse all'ultima sfida, riesce a non perdere il valore illuminante che ha in sé.

Si grida allo scandalo, perché ogni anno si spendono milioni di euro in giocattoli, in dolciumi, in idee più o meno percorse dall'originalità.

In addobbi.

Il baccanale natalizio, che comincia con gli  "ornamenti", un tempo aveva  inizio la notte di Natale con l'albero a sorpresa, -per i bambini piccoli -, e terminava con l'Epifania: invece, estremamente decorativo, e, pregno di suggestioni e di simbolismi cui è difficile sottrarsi, è divenuto l'emblema stesso del Natale , e colma, con la sua ingombrante presenza , le case, le strade, i luoghi pubblici, i grandi magazzini ed i negozi, sin dai primi giorni di dicembre.

Ci sono alberi a " soggetto ", tutti bleu o tutti d'oro, con le palle di vetro o con i nastri fiorati. Tradizionali, colorati, disordinati, infantili, stupendi per riferimenti ad un'epoca più povera di oggetti, ma assai ricca di immaginazione e di idee; ci sono alberi luminosi, giganteschi.

Architettonici o alberi scultura. Alberi che ruotano su se stessi, che emettono suoni o che agitano improbabili angeli di carta; alberi minuscoli, in sospensione, animati da un carillon. Ma, ogni tentativo di sbiadire il Natale, nel lusso di un colore elegantemente alla moda, risulta deludente: inutile cambiare.

Il Natale è bianco e oro, è rosso e verde, è tutto rosso.

Tentare di evitare "banalità", significa non aver capito che il giorno di Natale, la festa delle feste, è l'unico momento prezioso ed irripetibile, in cui tutti, -assolutamente tutti in ogni parte del mondo-, sanno riconoscersi uguali.

L’INGANNO

di  Giorgio Rinaldi

In Turchia considerano Mustafa Kemal detto Ataturk il Padre della Patria, il Padre dei Turchi.

Non a caso.

E’ stato l’uomo che ha fatto diventare grande e moderna una nazione che albergava nel passato remoto.

Uno dei suoi primi atti, da presidente della da lui voluta Repubblica Turca, fu quella di vietare ogni rappresentazione pubblica religiosa, singola o collettiva che fosse: e di ogni religione.

Fatto dirompente in un Paese a stragrande maggioranza di fede islamica, e che di questa aveva fatto la religione di Stato.

Eppure c’è riuscito, e la Turchia è stata il vanto di uno Stato laico in mezzo alle teocrazie islamiche.

Almeno sino a qualche anno fa., quando gli eredi politici del defunto Presidente non sono più stati all’altezza del grande Statista.

Dal pensiero di Ataturk si possono ricavare almeno due insegnamenti: la religione è un fatto personale ed individuale e ciascuno la deve vivere nell’alveo dei suoi sentimenti.

La politica e l’ideologia sono tutt’altra cosa: la loro essenza è  consenso, propaganda e proselitismo.

Con la politica e l’ideologia si consegue il potere temporale per cambiare l’ordine delle cose esistenti.

La religione, invece, nutre lo spirito, è il mezzo con il quale, per chi ci crede, si stabiliscono le perenni relazioni con il Divino.

Fuori da ogni analisi filosofica, vale la pena qui evidenziare l’uso strumentale che di ogni religione è stato fatto nei secoli, per conservare o sovvertire il potere esistente.

Tale uso è passato, spesso, attraverso l’imposizione di simboli, di rituali, di manifestazioni.

I segni visibili dell’appartenenza religiosa sono, in genere, falsi e fuorvianti, perché nessun testo sacro di qualsiasi religione li prescrive, quantomeno esteriorizzati al di fuori dei luoghi di culto.

Del burka, chador, hijab o di cappucci e stoffe che ingabbiano i visi, o di altri camicioni che intrappolano le donne mussulmane, a dire degli esperti, non v’è una imposizione ineludibile nel Corano ma,  come accade sovente, l’obbligo nasce dalla interpretazione delle scritture fatta dal clero.

Come non v’è  negli antichi libri della cristianità alcuna indicazione per le donne cattoliche di portare il velo.

Così per le altre religioni.

Nel caso delle donne cattoliche fu  Papa Lino II da Volterra, poi divenuto santo, ad istituire l’obbligo del capo coperto,  ma solo in chiesa.

Ai Sik, per esempio, oltre ad essere intimato non solo di levarsi le scarpe ma anche di togliersi i calzini già a centinaia di metri prima del Tempio, è consentito accedere ai luoghi di culto solo a uomini e donne col capo coperto .

Quando le religioni escono dalle coscienze individuali, c’è subito qualcuno che tenta di politicizzare il fenomeno, e così, dalle Crociate alla Guerra Santa, dall’Olocausto degli ebrei alla Sharia (il Corano che assurge a legge dello Stato), oggi si è arrivati a parlare di “scontro di civiltà”, con le prevedibili e immaginabili conseguenze.

Anzichè impegnarsi nel dialogo, nel ricondurre nella giusta dimensione il rapporto tra la persona e il divino, sempre per i credenti, si agitano gli stendardi, si urlano le parole d’ordine: Gott mit uns, Dio lo vuole, Allah akbar.

C’è una religione migliore delle altre ?


“HAFLINGER FOLIE”.
DALL’ALTO ADIGE ALLA BASILICATA.

di Paola Saraceno

Una passione unisce l’Alto Adige alla Basilicata. E’ quella per un cavallo dal manto sauro dorato e dai crini con frange d’oro, di incredibile docilità, resistente e robusto anche nei percorsi difficili di montagna. La passione per il cavallo di razza Haflinger Italia, noto ai più come Avelignese. Animale perfettamente integrato nei paesaggi naturali tanto delle Alpi quanto dell’Appennino lucano.

Nella valle di Hafling (Avelengo), paese in provincia di Bolzano vicino Merano da cui prende il nome, pare pascolasse un tipo di cavallo, robusto e non molto alto, derivato da uno stallone che un certo Lodovico IV  fece venire dal regno dei Borgognoni per farne dono al figlio in occasione delle sue nozze con la Principessa del Tirolo nel 1342.

Ufficialmente tale razza con le caratteristiche attuali nasce nel 1874 con “Folie” nato dall’accoppiamento dello stallone orientale “El Bedavi XXII” con una cavalla locale.

A Piano del Conte, nel comune di Avigliano (Potenza) , i primi esemplari di cavalli di razza Avelignese fecero la loro comparsa intorno al 1920, acquistati da Luigi Croce amministratore dei Doria dalla zona di origine.

A Piano del Conte l’agronomo napoletano fece costruire un moderno villaggio agricolo con una stalla moderna per l’allevamento dei bovini e degli equini, un caseificio, alloggi confortevoli per gli addetti all’azienda, una scuola agraria, la chiesa. Suddivise, poi, i circa 200 ettari di terreno dissodati in sette aziende affidate in mezzadria ad altrettante famiglia  della zona, che si avvalevano del prezioso aiuto dell’Avelignese per l’aratura dei campi e per il trasporto delle legna e delle derrate alimentari.

Nel 1953, nella stessa area, gli operatori della Riforma Fondiaria ripresero l’esperimento di Croce, suddividendo gli oltre seicento ettari espropriati ai Doria Pamphilij in ventotto aziende. Gli assegnatari della Riforma, oltre al terreno ed alla casa colonica, ricevettero una fattrice di razza Avelignese. Da qui la diffusione in Basilicata di questo straordinario cavallo, che tanto ha alleviato il lavoro dell’uomo prima dell’avvento della meccanizzazione agricola. 

L’Haflinger può ben definirsi un cavallo straordinario per il suo carattere docile e per la sua facilità d’apprendimento che lo rende adatto a qualsiasi uso. Perfetto come prima cavalcatura, consigliabile ai più piccini ed ai meno esperti, adatto alle lunghe passeggiate in campagna. In passato usato per i lavori in agricoltura, oggi è molto apprezzato dagli amanti dell'equitazione di campagna ed impiegato da tanti centri ippici per l’ippoterapia. Se lasciato allo stato brado vive anche su pascoli poveri ed è un ottimo pulitore di sottoboschi o diserbatore di uliveti di cui non ne danneggia gli alberi.

Il nostro Avelignese ha conquistato il mondo.  Viene allevato in tutti i continenti, Australia compresa. In Italia  conta una popolazione di 13.000 magnifici esemplari iscritti al libro genealogico e marchiati con una stella alpina con al centro le iniziali H-I (Haflinger Italiano).  La selezione di questa straordinaria razza equina è compito dell’ANACHRAI (Associazione Nazionale Allevatori di Razza Haflinger Italia). E nello show "Haflinger Folie", dedicato a questi splendidi animali in occasione dell’edizione 108 della Fiera Internazionale dei Cavalli di Verona, sono state dimostrate tutte le possibili espressioni dell’Avelignese. Dagli attacchi al salto ostacoli, dal lavoro, come se fosse in alta montagna, alla monta western. Un’attrazione giocata sulla parola "folie": follia che coglie chi incontra questo simpatico e bel cavallo e "Folie", nome del capostipite della razza. Uno spettacolo irresistibile che ha arricchito la  66^ mostra nazionale. Stalloni e fattrici Haflinger, che trasmettono geneticamente alla discendenza le doti di docilità, resistenza, nevrilità hanno sfilato nella città scaligera, sotto i vigili occhi dei giudici.

Tanti i premi per gli allevatori lucani.

VACANZE DI NATALE:
CONSIGLI E SUGGERIMENTI.

di Nicola Perrelli

Le statistiche ufficiali lo confermano: tra Natale e  Capodanno sono sempre di più le persone che vanno in vacanza,seppure per pochi giorni. Il bisogno di riposo, di piacere o di svago accomuna ormai tutte le categorie sociali. Affrontare in forma e soddisfatti la ripresa delle proprie attività e degli impegni è divenuta una necessità,oserei dire un imperativo. In nessuna altra epoca infatti ci si è mai tanto preoccupati del benessere della persona e del tempo libero come in questa, probabilmente è il riflesso della enorme mole di malessere che paradossalmente produce la modernità.

Tramite internet o direttamente in agenzia in molti in questi giorni hanno già prenotato o perlomeno richiesto informazioni. Ma non basta. Una parte dell’organizzazione della vacanza resta a nostro carico. Anche se per pochi giorni di vacanza non dobbiamo sottovalutare che  inconvenienti e piccole insidie sono sempre in agguato. Buona informazione e cura dei preparativi sono fondamentali per trascorrere una vacanza tranquilla: chi ben comincia è a metà dell’opera,recita il vecchio detto.

Ecco allora un breve memorandum per chi sta pensando di passare qualche giorno fuori casa.

Prima di partire è fondamentale controllare di avere tutti i documenti personali che servono. Per muoversi nei Paesi dell’UE e in qualche altro Paese del Mediterraneo basta avere la Carta d’identità, non scaduta e valida per l’espatrio. Per recarsi in Paesi non UE è invece necessario il passaporto, sul quale ,dopo il primo anno dal rilascio, soltanto se si viaggia, va applicata una marca da bollo di € 40,29. Inoltre va tenuto presente che molti Paesi non accettano passaporti con una validità residua inferiore a tre o sei mesi.

I figli minorenni possono essere iscritti sul passaporto dei genitori fino ai 16 anni, con l’obbligo delle loro fotografie se ne hanno più di 10. Dai 16 anni in poi occorre invece  il passaporto individuale che devono richiedere i genitori rilasciando una dichiarazione di assenso.

Discorso a parte per i Visti d’ingresso, che vanno richiesti con un certo anticipo e variano secondo la durata del soggiorno e del tipo di viaggio, se individuale o con tour operator. Nel primo caso bisogna darsi da fare personalmente presso i Consolati in Italia, nel secondo se ne occupa direttamente l’agenzia di viaggio.

Per andare negli USA bisogna avere il passaporto a lettura ottica rilasciato entro il 25/10/2005, oppure il  nuovo passaporto a lettura ottica  con foto digitale se la data di rilascio è successiva. Per tutti gli altri casi è necessario procurarsi il Visto d’ingresso direttamente ai Consolati USA in Italia, anche quando è previsto  solo il transito in un aeroporto americano.

Per partire con l’auto i documenti devono essere in regola. A bordo sono obbligatori: la patente, la carta di circolazione ed il contrassegno dell’assicurazione esposto sul parabrezza. Controllare quindi la scadenza della patente e dell’assicurazione e se il veicolo è in regola con la revisione periodica. Diversamente si incorre in multe, anche salate. Analoghe le prescrizioni per andare all’estero. Con le soli varianti che qui la patente deve essere sempre quella originale, non essendo valido il duplicato e/o altra documentazione, e che per i Paesi non UE è obbligatoria la carta verde.

Per stare fuori casa si spende, ed in qualche occasione anche molto. Non bisogna allora “dimenticarsi “ dei contanti e delle carte di credito. Con il contante si farà fronte alla piccole spese e a qualche imprevisto, con le card a tutti gli altri pagamenti, dall’albergo ai ristoranti, dallo shopping al rent a car. Le Credit e Plastic card sono comunque da preferire. Consentono di ridurre i contanti nel portafoglio e di poter pagare indipendentemente dalla valuta del Paese in cui ci si trova. Hanno un plafond di spesa superiore ai 2.500 €, quindi più che sufficiente per le quotidiane necessità, danno la possibilità di prelevare al bisogno contante nella valuta del posto e spesso includono  anche coperture assicurative legate ai rischi di viaggio.

Per non avere sorprese è opportuno prenotare l’alloggio. Niente vieta di presentarsi direttamente alla struttura ma è meglio essere previdenti. Per la prenotazione può bastare una telefonata. Suffragata possibilmente  da una conferma scritta, nella quale risultino ben evidenziati il periodo di soggiorno, gli orari di check-in e check-out, il prezzo e i servizi eventualmente concordati, dalla camera con vista alla possibilità di portare animali. Le medesime attenzioni vanno prestate per le prenotazioni effettuate tramite internet. Con la sola differenza che la conferma in questo caso viene data solo dopo aver comunicato il numero della propria carta di credito.

E’ bene inoltre sapere che l’albergatore risponde del furto e del danneggiamento degli oggetti del cliente,sia di quelli depositati presso la reception che di quelli lasciati in camera o in locali facenti parte del complesso.

Una buona vacanza dipende ovviamente dalla efficienza e puntualità del mezzo di trasporto scelto. Ritardi, cancellazioni, bagagli che non arrivano a destinazione o smarriti, overbooking e modifiche varie sono gli nconvenienti più frequenti che capitano a chi viaggia in aereo, in treno o in traghetto. Per tutti questi disagi sono previsti risarcimenti o compensazioni a favore dei passeggeri. In particolare per i voli valgono le normative internazionali contenute nella Carta dei diritti del passeggero che è utile procurarsi prima di partire ( il documento è disponibile sul sito).

Per i treni è opportuno sapere che i biglietti sono utilizzabili entro due mesi dall’acquisto e che nello stesso periodo si possono ottenere modifiche di itinerario o destinazione in qualsiasi biglietteria o agenzia di viaggio. Se si rinuncia a partire è previsto il rimborso con una penale. Che non viene applicata optando per il bonus che però deve essere utilizzato entro sei mesi dall’emissione del biglietto. Per maggiori informazioni controllare il sito. Per i traghetti valgono invece le regole della navigazione ed in caso di situazioni non previste si fa riferimento al contratto stipulato con l’acquisto del biglietto. Il risarcimento è previsto se la partenza viene ritardata di almeno 12 ore o viene cancellata.

Per finire ancora due raccomandazioni: la prima, di mettere nella valigia la tessera sanitaria, valida nell’UE ma anche in Svizzera, Norvegia, Islanda e Liechtenstein. In caso di bisogno di cure o di assistenza d’urgenza basterà mostrarla per non dover mettere mano al portafogli. La seconda, di tenere presente che negli aeroporti  sono da poco entrate in vigore le nuove regole per il bagaglio a mano. Il trasporto di sostanze liquide (acqua,bevande,sciroppi,creme,ecc) risponde ora a precise condizioni. Ogni liquido deve essere contenuto in un recipiente di massimo 100 cc o 100 gr. di capacità ed inserito in una busta di plastica trasparente. Attenzione, la preparazione del bagaglio, come il  reperimento di contenitori e buste,  spetta ai passeggeri. 

Vi siete scoraggiati?  persi d’animo? Non disperate , a tutto c’è rimedio. In famiglia o con gli amici di sempre  nel solito locale  la sera di  capodanno,  magari all’Happy moment, sicuramente vi rilasserete!! 

A tutti ,comunque, auguri di Buone Feste.

Per saperne di più:

-         www.viaggiaresicuri.mae.aci.it

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-         www.sosconsumatori.it

-         www.altroconsumo.it

-         www.enac-italia.it

-         www.trenitalia.com

FAMILISMO AMORALE A CHIAROMONTE

Raffaele Miraglia

Correva l’anno 1954 quando Edward C. Banfield, sua moglie Laura Fasano e i loro due bimbi si trasferirono dagli Stati Uniti nel paesino di Chiaromonte in provincia di Potenza. Qui vivranno per nove mesi.

Nel 1958 Banfield pubblica il saggio “Le basi morali di una società arretrata”. Racconta e spiega la ricerca che ha svolto in quei nove mesi. Scrive nell’introduzione: “Lo studio concerne un solo paese dell’Italia meridionale, la cui estrema povertà e arretratezza si possono spiegare in gran parte – ma non interamente – con l’incapacità degli abitanti di agire insieme per il bene comune o, addirittura, per qualsivoglia fine che trascenda l’interesse materiale immediato della famiglia nucleare. Tale incapacità di organizzarsi attivamente al di là della ristretta cerchia familiare deriva da un ethos – quello del “familismo amorale” – prodotto da tre fattori operanti congiuntamente: l’alta mortalità, un determinato assetto fondiario, e l’inesistenza dell’istituto della famiglia estesa, cioè di tipo patriarcale.”

Il familismo amorale diviene una definizione conosciuta universalmente. Il saggio di Banfield viene tradotto in moltissime lingue, fa scuola e crea polemiche fra antropologi, sociologi e politici.

Oggi questo lavoro viene ripubblicato nelle edizioni Il Mulino con una introduzione di Arnaldo Bagnasco che aiuta a comprendere sia pregi e limiti del lavoro di colui che Bagnasco definisce il political scientist americano, sia il dibattito che seguì la pubblicazione del saggio.

Vale la pena di leggere le poco meno di duecento pagine di questa edizione.

Vale la pena perché, nonostante un pò ipocritamente Banfield dica che le sue conclusioni non si possano estendere a tutto il meridione italiano - salvo poi citare autori che possono confortare la sua teoria con gli studi che hanno compiuto in altre parti del Sud Italia (per esempio gli studi dell’australiano J.S. McDonald sulla Calabria) - il familismo amorale è da allora diventato una delle principali chiavi di lettura del sottosviluppo meridionale e del suo quasi ineluttabile futuro.

Chiaromonte diventa nel libro Montegrano e secondo Balfield “i montegranesi agiscono come se seguissero questa regola generale: “massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare; supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo”. E’ per questo che, in primo luogo, il concetto di bene comune non esiste e, conseguentemente, non esiste vita associativa, né controllo sull’attività di chi ha incarichi pubblici.

Al lettore ogni ulteriore commento e critica del saggio.

A me, che qualche anno dopo cominciai a frequentare ogni agosto Chiaromonte, qualche considerazione e qualche ricordo.

Ovviamente i primi a risentirsi della definizione furono i cittadini bene di Chiaromonte. Eppure alcune delle caratteristiche descritte come proprie della  socialità chiaromontese erano ben avvertibili persino da un bambino, poi ragazzo, che dal nord scendeva ogni estate. La malinconia, la cocciutaggine, la sospettosità, l’inesistenza di luoghi e aggregazioni sociali diverse dalle panchine sulla piazza centrale del paese.

A quel tempo la popolazione povera di Chiaromonte, secondo Banfield, si aspettava qualcosa solo da due uomini benestanti, che vivevano altrove, il colonnello Viviani e il barone di Giura. Da tempo esiste un ospedale grazie al colonnello. Del barone, che si lamentava del proprio mezzadro che aveva avuto l’ardire di mandare il figlio a studiare, non rimane – mi pare - traccia e i figli, se le mie informazioni sono giuste, risiedono a Montecarlo, ma hanno lasciato nel paese la biblioteca di testi cinesi di Ludovico di Giura, medico personale dell’imperatrice Tze-Hsi e dell’imperatore Pu Yi (e autore del libro “Le famose concubine imperiali”).

Già allora dei cinquantanove maschi lavorativamente attivi e appartenenti alle ventisei famiglie definite benestanti, solo diciannove erano rimasti in paese.

Mi sono chiesto se tra i contadini intervistati da Banfield ci fosse anche quel Giovanni U ciampone (non ho mai saputo il suo cognome), che ogni sera parcheggiava l’asino davanti alla casa di mio nonno e che portava a noi bambini i granchi catturati alla fontana del Corige. Un lungo ramo di salice legato ad una delle chele ci permetteva di farli camminare a nostro piacimento per casa.

Ho scoperto che nel 1955 nessun chiaromontese possedeva un’auto e mi è venuto in mente che mio padre, al nord, l’avrebbe acquistata due anni dopo e per risparmiare sul costo di quella seicento - con cui nel ‘57

porterà la moglie veneta a conoscere il paese d’origine e con cui nel ’60 trasporterà me quasi in fasce lì a Chiaromonte - era andato dalla provincia di Venezia a Torino a ritirarla direttamente dalla fabbrica.

Mi sono tornati alla mente gli Argentini, due anziani coniugi che negli anni ’60 erano tornati al paese e dai quali andavo a prendere il ghiaccio. Loro possedevano un frigorifero. Nella casa di mio nonno non c’era, ma c’era la cantina scavata nella roccia e lì si conservavano in un stipetto dotato di una fine rete metallica antiinsetti i beni alimentari deperibili.

Mi è tornato alla mente il cinema del paese. Era un locale costruito proprio sotto la casa di mio nonno. I muri erano di sua proprietà e io ci andavo passando da una botola posta nella cucina e prendevo paura al termine della scaletta in legno perchè la prima cosa che vedevo nella penombra era un enorme – per me bambino – manifesto di un film horror. Da molti anni il cinema non c’è più (al suo posto un appartamento) e anche il gestore, Ricciardi, ora riposa insieme al proprietario dei muri lì dove finisce la campagna di Sotto Croce.

Mi sono tornati alla mente i compari, figure di cui avevo dimenticato l’esistenza, e ho trovato strano che nel saggio non si menzioni mai il gioco del padrone e sotto che, con la commistione di sorte legata alle carte e di strategie amico/nemico per distribuire il giro di birra o di vino, tante cose, forse, avrebbe potuto svelare a Banfield sui rapporti interpersonali e sociali del tempo che fu.
Se fu e non è ancora.                                

SPAGO E VALIGIA DI CARTONE

di Luigi Paternostro

Soffermiamoci ancora su gli anni compresi  tra il 1943 e il 1952.

Dagli Usa arrivano pacchi di vestiti. Le cravatte sono sfarzose e le camice hanno disegni mai visti. Molti non le indossano per vergogna, dicono.

Si vedono pure grossi barattoli di latta. Alcuni contengono un cheese compatto di colore giallognolo, gommoso, insaporito da conservanti, altri del latte in polvere.

Sono i doni dell’U.N.R.R.A.(United Nations Relief and Rehabilitation Administration). [1] Vengono distribuiti dalle Suore e per di più consumati alla refezione dell’Asilo Infantile Ludovico Romano, ormai chiuso da anni per mancanza, si dice e si è voluto far credere, di vocazioni religiose.

Si riavvia una timida ripresa economica. Per il paese girano ancora telaiòli, (venditori di tele e merletti), sapunàri (venditori di saponi), ogghjàri (venditori di olio) piccoli commercianti che comprano, vendono, barattano sbarcando il lunario. Nascono nuovi negozianti molti dei quali dovranno chiudere l’attività non potendo competere con i vecchi volponi che hanno resistito alla guerra e che oltre tutto tengono in mano con il sistema della libretta tutte le economie familiari.

Il 10 marzo del 1946 l’avvocato Francesco Piragino ritorna da Roma e a capo della lista civica I Fucili con 1.039 voti e 16 consiglieri vince le elezioni amministrative. Il 13 luglio gli viene revocato il mandato e gli subentra l’insegnante Mario Sangiovanni che resterà in carica fino al 15 maggio del ‘52.

Il 25 maggio del 1952, dopo un’aspra battaglia elettorale con il Campanile, vince le elezioni amministrative lo Scudo crociato, con 1.494 voti contro 792 e diviene sindaco il dott. Domenico Sarno che aveva promesso dal palco l’acqua e che poi si dimette il 10 ottobre del 54 consegnando la carica al maresciallo dell’esercito in pensione Giuseppe Palazzo.

Sono gli anni dell’incontrastato dominio della Democrazia Cristiana e sono pure gli anni in cui si incominciano a vedere quei favoritismi che, mutatis mutandis, sono diretti ai lecchini di turno.

Diplomati e laureati tentano concorsi che per fortuna vincono ma sono costretti a partire. Sono fuori Mormanno giudici di chiara ed illustre fama, dirigenti di uffici statali, sacerdoti, professori. 

Nasce in quegli anni il Pastificio D’Alessandro e sembra che l’industria sia destinata a cambiare il volto del Paese. 

Il Pastificio e il successivo biscottificio [2] non riusciranno ad assorbire tutti e così, legato lo spago alle valige di cartone partono altre rondini. Le mete quasi predestinate e comuni a tutta la gente del sud sono dapprima Milano e Torino.

A Savignano (Cuneo) si spostano circa 100 persone che qualche anno fa sono stato a visitare. Con fede e coraggio si sono tutte inserite in quella nobile terra di Piemonte, meritando rispetto e ammirazione per la tenacia, la serietà, la costanza e l’impegno lavorativo. So che i due Comuni sono gemellati ma sembra che in questi ultimi anni un pietoso velo di silenzio sia calato su un fatto così importante. Tutti gli anni ritornano in estate a Mormanno. Tra essi vi sono i miei primi alunni. Sono trattati come estranei pur se si indice ogni anno una Festa dell’emigrante

che non ha alcuna eco nella popolazione, frastornata da un inutile bailamme rappresentato dall’agosto mormannese.

Si parte anche per il Belgio, la Francia (ricordo il mio amico e compagno Mario Russo) spostando intere famiglie, e poi per la Germania e la Svizzera (e qui mi sovviene di Titino Virgilio). Le mete oltreoceaniche non attirano più nessuno e danno meno sicurezza economica. A Mormanno resta solo chi lavora a posto fisso.

Sono i medici, gli insegnanti, gli impiegati comunali e postali, il procuratore del registro, i carabinieri  della locale stazione che ogni tanto arrestano qualche disgraziato lainese e papasiderese, denunziato per pascolo abusivo, o qualche incallito ladruncolo di polli e fichi,  tradotto nel locale carcere mandamentale, esposto ai freddi dell’austro che batte d’inverno il sollevato quartiere della Costa.

Restano ancora a Mormanno tante donne che nascondono nel lunghi e gelidi inverni una maternità maturata nel fugace abbraccio estivo e tante madri che allevano in ristrettezza nidiate di figli o accudiscono ad anziani genitori che d’inverno avvolti nella cappa prendono il sole sulla gradiata o al limite a Posillipo seduti su un cumulo di travi.

Si cominciano ad aggiustare le vecchie case! Arrivano le lire. Sanno di sudore, fatica, rinunce.

Tommaso Grossi, il poeta dialettale lombardo amico del nostro Niccolò Perrone così cantò la rondine in una poesia studiata e sentita da mio nonno Luigi: ne riporto alcune parti attribuendo alla rondine che piange e al poeta che ne ascolta il canto, il dolore dei partenti e l’attesa di chi è rimasto a vivere una mezza vita.

“Solitaria nell'oblio
dal tuo sposo abbandonata
piangi forse al pianto
mio vedovella sconsolata,
piangi, piangi in tua favella,
pellegrina rondinella.

Ed io tutte le mattine
riaprendo gli occhi al pianto
fra le nevi, fra le brine
crederò d'udir quel canto,
onde par, che in tua favella
mi compianga rondinella.”

RISCHIO IDROGEOLOGICO E DIFESA DEL SUOLO: TRA EMERGENZA E PIANIFICAZIONE (terza ed ultima parte)

di Nedo  Biancani

È possibile intervenire in situazioni di rischio idrogeologico con interventi di tipo strutturale o non strutturale.

Gli interventi strutturali hanno in genere costi elevati, e sono giustificabili solo in condizioni di rischio eccezionale. Con tali interventi è possibile ridurre la probabilità di occorrenza (pericolosità) del rischio con due criteri: intervenendo sulle cause predisponenti (ad esempio mediante opere di bonifica e di sistemazione idrogeologica del territorio, oppure con la razionalizzazione delle pratiche agricole o di utilizzo del suolo), oppure intervenendo direttamente sui fenomeni esistenti al fine di prevenire la loro riattivazione o limitare la loro evoluzione, mediante interventi di stabilizzazione. Altri interventi di tipo strutturale sono quelli finalizzati al rimboschimento (con il duplice vantaggio di operare un contenimento dei fronti instabili, grazie all’azione degli apparati radicali della vegetazione, unitamente alla minimizzazione del dilavamento e dell’impatto delle precipitazioni atmosferiche. Ulteriori interventi, per quanto paradossali possano apparire, sono costituiti dall’eliminazione di opere antropiche realizzate in contesti a rischio idrogeologico, o che perturbano il naturale deflusso pluviale.

Gli interventi non strutturali possono limitare il danno potenziale in una determinata zona intervenendo sugli elementi a rischio o sulla loro vulnerabilità. La riduzione del valore degli elementi a rischio si esplica soprattutto in sede di pianificazione territoriale e di normativa (nell’ambito delle quali possono essere programmate, ad esempio, le seguenti azioni: evacuazione di aree instabili e trasferimento dei centri abitati a rischio, interdizione o limitazione dell’espansione urbanistica in zone instabili, definizione dell’utilizzo del suolo più consono per le aree instabili). La vulnerabilità può essere invece ridotta mediante interventi di tipo tecnico oppure di tipo normativo, che riguardano l’organizzazione sociale del territorio (ad esempio con il consolidamento degli edifici, con conseguente riduzione dell’entità di danneggiamento dell’elemento interessato dalla frana, l’installazione di misure di protezione quali reti o strutture paramassi, con la messa a punto di sistemi di monitoraggio e di allarme, che consentano un adeguato preannuncio in modo da limitare la probabilità che la vita umana sia vulnerata dall’evento franoso, con l’organizzazione di piani di emergenza e di soccorso, al fine di limitare il più possibile i danni).

Gli interventi non strutturali, rispetto a quelli strutturali, presentano una maggiore flessibilità ed un costo relativamente ridotto, per cui devono essere comunque promossi nelle zone a rischio elevato.

Nell’approcci ai problemi del rischio idrogeologico risulta vincente un approccio che tenga nella dovuta considerazione la compresenza dei diversi strumenti di pianificazione di area vasta, superando la separazione degli strumenti di pianificazione, valorizzandone le capacità e potenzialità di armonizzazione. La necessità del completamento sia degli strumenti specialistici che di quelli generali, appare quindi centrale, e ciò anche al fine di consentire l'efficace interazione tra i loro differenti contenuti.

È solo attraverso una maggiore interazione e condivisione dei contenuti tra i differenti strumenti di governo del territorio che è possibile affrontare efficacemente le problematiche legate alla difesa del suolo ed alla tutela del territorio in generale, programmando strategie ed interventi e sviluppando una incisiva azione che conduca ad un uso del territorio coerente con le sue reali possibilità di utilizzazione [3] . In sostanza, in sede di pianificazione provinciale le disposizioni derivanti da livelli superiori o collaterali, a partire da quelle legate alla difesa del suolo, potrebbero trovare momenti di specificazione e approfondimento che ne facilitino il trasferimento alla dimensione operativa comunale, titolare dei poteri abilitativi.

Un arricchimento della informazione e dei conseguenti vincoli che, se lasciato senza mediazioni, nel passaggio da un livello nazionale e di bacino o regionale a quello comunale, rischierebbe facilmente di perdere i necessari elementi di coerenza metodologica e di contesto. In altri termini, la dimensione provinciale appare in genere ottimale per conciliare i caratteri peculiari dei luoghi con le esigenze di omogeneità e di garanzia scientifica delle valutazioni tecniche da cui derivano sia i vincoli e le limitazioni alle trasformazioni che le opportunità di sviluppo.

Questi principi sono validi laddove vi è concreta sperimentazione e presenza di piani. Lo scenario attuale mette in evidenza come vaste aree del Paese, soprattutto localizzate al Sud, siano scarsamente dotate o addirittura sprovviste di alcuni strumenti di pianificazione capaci di tutelare il territorio, in particolare laddove siano previste profonde trasformazioni. Ma anche in aree tradizionalmente attente al binomio uso coerente del territorio-programmazione, in alcuni casi, vi è una insufficiente compresenza degli strumenti finalizzati alla tutela dell'integrità fisica ed ambientale del territorio.

Da quanto abbiamo sinora avuto modo di vedere, appare evidente come lo Stato e gli Enti Locali debbano investire sulla manutenzione e sulla gestione del territorio, spendendo poco oggi, per non spendere troppo domani e non trovarsi ancora una volta di fronte a drammatici lutti e sofferenze.

Molti sforzi devono inoltre essere compiuti nella direzione della pianificazione e gestione del territorio. A tale riguardo, le Autorità di Bacino rappresentano un elemento di novità nel quadro legislativo; il loro lavoro porterà alla redazione di Piani di Bacino, strumenti fondamentali che permetteranno oltre alla definizione di un quadro reale ed aggiornato del nostro territorio, la disciplina coordinata delle risorse ambientali e territoriali.

Attualmente non tutte le Autorità hanno ancora completato l’iter di approvazione dei Piani stralcio per l’Assetto Idrogeologico (PAI) [4] . I PAI, una volta approvati, individueranno e disciplineranno l’uso del suolo delle aree a rischio idrogeologico molto elevato, elevato, moderato e basso. Questo strumento sarà molto importante perché, oltre all’individuazione delle aree a rischio, obbligherà i Comuni ad adeguarsi alle normative previste dai PAI, definendo così finalmente un quadro organico d’intervento, a cui i vari enti territoriali potranno far riferimento per attuare finalmente strategie integrate di difesa del suolo.

Nonostante l’ottimo lavoro svolto dalla maggior parte delle Autorità di Bacino, i PAI si trovano in una situazione di stallo, dovuta ad una scarsa collaborazione da parte di molti Enti Locali, ancora drammaticamente legati ad un sorpassato ed inefficace approccio alla mitigazione del rischio idrogeologico e alla gestione del territorio, che aumenta la possibilità di catastrofe piuttosto che diminuirla.

Con il Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 recante “Norme in materia ambientale”, di recente pubblicazione [5] , è stata operata la riscrittura delle principali norme ambientali. Al di là del periodo di incertezza nel quale tutti gli operatori coinvolti avranno non poche difficoltà a rimettere a fuoco il nuovo scenario, tipico di ogni fase di transizione in cui cambiano le regole generali, una prima analisi del cosiddetto “Testo Unico” ambientale evidenzia non solo incongruenze e problematiche, ma autorizza a ritenere non colto l’obiettivo di un effettivo riordino della materia ambientale. Le questioni di fondo sono costituite dalla ripetuta subordinazione della potestà normativa (e politica) regionale ad atti ministeriali, di natura prettamente amministrativa, dall’insistente previsione di casi in cui le potestà di pianificazione e programmazione  risultano sottoposte alla “supervisione” del Ministero dell’Ambiente, e dalla riappropriazione da parte dello Stato di funzioni amministrative già decentrate a livello locale; si tratta di questioni che vanno in direzione opposta alla giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo la quale la tutela dell’ambiente non può essere configurata come una sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, dal momento che si intreccia inestricabilmente con interessi e competenze regionali.

La Parte Terza del Decreto, “Norme in materia di difesa del suolo e lotta alla desertificazione, di tutela delle acque dall'inquinamento e di gestione delle risorse idriche”, ridisegna le competenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Comitato dei Ministri per gli interventi nel settore della difesa del suolo, del Ministro dell'ambiente, della conferenza Stato-Regioni, dell'APAT, di Regioni e Enti Locali (artt. 57-62), e ripartisce il territorio nazionale in Distretti idrografici, all’interno dei quali è istituita l'Autorità di bacino distrettuale (art. 63), con il compito preminente di adottare e approvare il Piano di bacino (art. 66).

È previsto che i piani di bacino siano attuati con Programmi triennali di intervento contenenti l'indicazione dei mezzi per farvi fronte e della relativa copertura finanziaria (art. 69), adottati dalla Conferenza istituzionale permanente, organo dell'Autorità di bacino.

In tal modo, viene operata una centralizzazione della gestione della prevenzione del rischio idrogeologico e nella difesa del suolo che, come giustamente si fa notare, «non ha un oggetto unitario ben delineato, ma composito», rientrando in questa nozione anche attività che riguardano la realizzazione di opere e interventi aventi oggetti diversi «il cui intreccio è condizionato dall’evolversi degli usi del territorio in ragione del suo processo di sviluppo economico» [6] . Tale approccio al problema appare confermato dall’orientamento della Corte Costituzionale, che ha individuato nella difesa de suolo non una materia ma un «obiettivo» da perseguire mediante la pianificazione [7] .

Il sistema della pianificazione nella difesa del suolo contenuto nel cosiddetto “Testo Unico” contiene quindi disposizioni fortemente innovative, che definiscono un quadro complesso all’interno del quale è possibile discriminare tre principali tipi di strumenti di pianificazione.

Si tratta del Piano di Bacino distrettuale, del Piano di gestione e del Piano tutela delle acque.

Il Piano di Bacino distrettuale [8] , è redatto dall’Autorità di bacino sulla base degli indirizzi stabiliti dalla conferenza istituzionale permanente, la cui figura prevista già dalla L. 183/1989 viene quindi confermata, con la previsione dell’obbligo di sottoporre tali piani alla Valutazione Ambientale Strategica in sede statale secondo la Dir. 2001/42/CE.

Il Piano di gestione [9] , inquadrato dal legislatore come piano stralcio del Piano di Bacino di distretto, con la sua stessa procedura di formazione.

Infine, il Piano tutela delle acque, di competenza regionale, che contiene le misure necessarie alla «tutela quantitativa e qualitativa del sistema idrico» [10] .

Se la scelta di affidare ai Distretti idrografici le aree dei bacini previsti dall’art. 64 della L. 183/1989 e di lasciare alla competenza dell’Autorità di bacino la redazione del Piano di bacino – ora di distretto – facendone il momento più importante del sistema di pianificazione generale, più criticabile appare il ruolo dominante assegnato alla Conferenza istituzionale permanente nell’ambito dell’approvazione del Piano di bacino, con il rischio di una minimizzazione del ruolo svolto dagli organismi tecnici dell’Autorità di bacino; tale ruolo è invece importante, dal momento che siamo in un ambito di pianificazione che., pur essendo localizzato in area vasta, è pur sempre di carattere settoriale.

L’aspetto più problematico è quello dei rapporti tra Piano di gestione e altri strumenti di pianificazione (come ad esempio il Piano regionale di tutela delle acque), ed è auspicabile che negli sviluppi futuri della normativa in materia di difesa del suolo e dal rischio idrogeologico non si perda di vista l’obiettivo di un sistema che deve essere necessariamente articolato, non trascurandone tuttavia le esigenze del suo coordinamento.

PRESEPI A MORMANNO

di Nicola Perrelli

L’ASSOCIAZIONE COMUNALIA

organizza

PRESEPI A MORMANNO

dal 17 dicembre 2006 al 7 gennaio 2007

nelle suggestive Cripte della Cattedrale di S.Maria del Colle

3°  edizione

La partecipazione è aperta a tutti, artisti o aspiranti tale ed è in forma gratuita.

E’ lasciata del tutto libera la scelta dei materiali da usare,
delle tecniche e della struttura compositiva.

Ognuno può dotare il Presepe di un adeguato supporto preferibilmente in legno o juta.

Ogni Presepe sarà corredato dei dati dell’autore.

L’organizzazione mette a disposizione di ogni partecipante un punto luce.

A conclusione delle mostra saranno consegnati , ad ogni artista, attestato di partecipazione e DVD fotografico di tutte le opere esposte.

Per informazioni  telefonare  ai seguenti numeri:

0981 81895 – 329 3432448 – 329 2404700

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L’evento preannuncia l’arrivo del Natale e la sua magica atmosfera.  Senza dubbio  è la ricorrenza che più di ogni altra richiama alla memoria gli inconfondibili ricordi della fanciullezza. Il Natale è innanzitutto la festa dei bambini. E’ la festa che racconta la storia di un altro straordinario bambino, Gesù. Una storia che incanta e accende la loro fantasia. Che viene ripetuta, alla lettera, con il Presepe. La tradizionale rappresentazione del luogo di nascita del figlio di Dio divenuto umile uomo, avvenuta in una mangiatoia in una delle più lunghe e fredde notti dell’inverno.

Come una volta, quando il presepe lo si preparava in chiesa, perché in casa lo facevano solo i ricchi, anche “PRESEPI A MORMANNO” si svolgerà nella bellissima cripta della Cattedrale. E sarà, ancora una volta, l’occasione per conoscere la bravura e spesso la genialità dei più bravi bambini, ragazzi  ed artisti  delle nostre zone.

Sicuramente i più estrosi in pochi giorni riusciranno a costruire e a plasmare con abilità i personaggi e gli ambienti del “ praesepium “ ovvero recinto chiuso. Riprenderanno allora  vita: la Madonna e San Giuseppe, i re magi, i pastori, i popolani e gli animali domestici, risplenderà  il cielo stellato di quella notte e come  per magia ritornerà la luce intensa della

cometa.  E il bambino coricato sulla paglia,nudo,tremante di freddo, sarà ancora riscaldato amorevolmente dal fiato della mucca e dell’asino.

Con la mostra l’Associazione si prefigge quindi di tenere ancora vivo il ricordo e il culto del presepe. Questa rappresentazione niente affatto fantastica per chi  nella notte di Natale va in  chiesa per cogliere il messaggio di fratellanza e di solidarietà di quei personaggi e celebrare il mistero della natività.

E’ quindi un appuntamento al quale Vi invitiamo a non mancare, visto il crescente successo delle precedenti edizioni.

DEVIAZIONI DI VIAGGIO: LE METEORE

di Francesco Aronne

Clicca qui per accedere alla galleria fotografica

Un giorno di fine dicembre mi trovo ad Igoumenitza in attesa del traghetto per Paxos. Il termometro fermo a un grado, ed io, con altri sconosciuti viaggiatori, sul molo all’ora di imbarco, sospeso nell’indeterminatezza della partenza.

Ognuno cerca nello sguardo altrui un indizio che induca fiducia.

La biglietteria chiusa è il segno che nessuno di quanti in attesa vorrebbe vedere. Il temuto accade: il traghetto non parte (ma neanche arriva) ed in poco tempo ogni passeggero scompare, deluso e rassegnato. Resto a guardare il molo deserto che mi sembra una muta vedetta verso il mare aperto. Le imbarcazioni più grandi continuano ad andare e venire aumentando il senso di prostrazione e sconforto: sembra che ogni cosa sia al suo posto tranne  il Vivì. Mancando alla vista, l’atteso traghetto potrebbe essere in qualsiasi altrove possibile, magari, anche se improbabile, inghiottito da Swelki, il gorgo che a settentrione delle Orcadi  terrorizzava i naviganti di altri tempi. La terrificante porta sul “Mundus subterraneus” dell’alchimista gesuita Athanasius Kirker è la prima cosa che mi viene in mente in questi delusi frangenti. A Igoumenitza ogni attesa è snervante ed è sempre aleatoria la sua durata. Il tempo in questa terra già immobile, qui si cristallizza e potrebbe trasformare ogni incauto viaggiatore che si ferma, in una statua di sale…Esagerazione immeritata, ma voglio andare altrove.

Dove? Alle Meteore! Una suggestiva cartolina vista tempo fa, su questo posto non so altro. Il giovane interlocutore dell’ufficio turistico con lo sguardo perplesso mi segna la localizzazione su una cartina. Decido di andare, sottovalutando le difficoltà stagionali del percorso. Parto alla volta di Ioannina, prima tappa distante circa 100 km. All’epoca non era ancora aperta l’autostrada che collega Igoumenitza con Ioannina e quindi ho cominciato la mia inerpicata attraverso i tornanti della E92 che portano verso il capoluogo dell’Epiro. Con la mente protesa alla nuova meta, ed il disappunto per l’ancora indigesta mancata partenza, arrivo a Ioannina. Attraverso senza fermarmi questa città carica di storia, intravedendo dal finestrino il minareto della moschea di Fetichie che dall’alto del Borgo Vecchio richiama le gesta del tiranno Alì Pascià (che qui fu decapitato) e della dominazione turca. Costeggio il lago Pamvotis e ricomincio la salita. Continuo sulla E92 strada dove il sorpasso, comunque difficile, è quasi sempre un azzardo e nei rari tratti in cui è agevolato si finisce con l’incrociare altri veicoli (Legge di Murphy?). La strada continua a salire e dopo una curva la sorpresa: tutto bianco e innevato. Il termometro è ormai fermo a –10. La neve ai lati è sempre più alta. Dopo il bivio che porta a Metsovo mi fermo ad un punto di ristoro, è ormai l’una e devo decidere se

proseguire o tornare indietro. Mangio stufato di carne con patate e una crema di formaggio gradevolmente piccante. Decido di proseguire, nonostante il fondo a tratti ampiamente ghiacciato e la neve ai lati che supera il metro. Si viaggia comunque senza le catene che restano nel cofano, e sulla strada che continua a salire è impossibile l’inversione di marcia. Trovo un cartello di confine: finisce l’Epiro, comincia la Tessaglia. Sono al Katara pass, 1690 metri. Solo più tardi, in un più agevole transito estivo, ho scoperto che quel nome in greco significa maledizione. Disciolta la neve come lugubri e frequenti pietre miliari, le memorie di incidenti mortali demandate ad arrugginite urne su aste metalliche conficcate nel terreno. Questi altarini (in qualche caso in muratura) con icone e lampade ad olio, lungo tutto il cammino, sono un severo monito sulla pericolosità del percorso, che induce ogni automobilista alla prudenza. Insensibili a ciò gli indigeni autieri continuano a sfrecciare cimentandosi in arditi sorpassi, spiegando, con la loro guida spericolata, la penosa ecatombe.

I pini loricati sono ammantati di neve proprio come nel Parco Nazionale del Pollino, nell’Appennino Calabro-Lucano. Una stazione di manutenzione stradale con una casa cantoniera ed alcuni spazzaneve e mezzi spargisale piuttosto antiquati non rassicurano affatto chi è in viaggio. Comincia la ostica discesa e la neve diminuisce lestamente fino a scomparire del tutto. Lascio alla mia sinistra la catena dei monti Pindos, la  pianura sembra davanti a me sconfinata ma non vedo nulla che in qualche modo possa darmi indicazione della meta. Proseguo in direzione Trikala per molti chilometri, e d’improvviso all’orizzonte vedo un monolito scuro che si erge maestoso a sinistra. Più mi avvicino e più il paesaggio diventa straordinario. Dalla pianura circostante si elevano verso il cielo formazioni rocciose di indescrivibile imponenza. Numerosi blocchi di roccia granitica risalenti a 60 milioni di anni fa. Da lontano, l’insieme sembra un tutt’uno, quasi una immensa cattedrale che suscita il desiderio della elevazione spirituale protesa alla congiunzione col divino. La pietra, ancora la pietra, anzi la roccia antica, gigante e maestosa ammantata della sua aura di sacralità come ad Ayers Rock in Australia.

Proseguo e vedo le rocce sempre più vicine e imponenti. Lascio la E92 ed entro nella città di Kalambaka, ai piedi del massiccio. Mi fermo in centro, la strada è deserta. Compro una cartina dettagliata, una icona di San Giorgio (gran parte delle icone che si comprano in Grecia vengono da qui) e una bottiglia di Tzipouro (locale acquavite). Decido di arrivare ai monasteri da Est. Ad una biforcazione vado verso il monastero di Agios Stefanos (S. Stefano) passando sopra il monastero della Agia Trias (Santa Trinità). Lo spettacolo è straordinario, accosto l’auto e scendo a godere della indescrivibile maestosità e bellezza del luogo. Come sospesi nel vuoto su alte e maestose rupi, gioielli di arte bizantina miracolosamente incastonati sulle rocce. Appollaiati come aquile, sembrano quasi naturali propaggini delle stesse pietre. Un turbinio di sensazioni in un gelido ed irreale silenzio. Rocce assetate di energie e fatiche incalcolabili di anonimi dimoranti del pianeta, che nel corso dei secoli ci hanno lasciato in custodia geometrie di misteri eterni. Luoghi magici e antichissime pietre che da Stonehenge, al cerchio di Brodgar, dalla Sco zia preistorica a Er Grah la pietra delle fate, dai viali bretoni di Carnac a Castel del Monte passando dalle piramidi di Giza, per l’isola di Pasqua, per le chiese di Lalibela, fino alla cattedrale di Chartres hanno visto l’uomo proteso verso l’eternità, il mistero e la grandezza dell’unico Dio possibile.

Decido di visitare Agios Stefanos, alla portineria le suore rievocano la sacralità del luogo. Mi aggiro in uno spazio di straordinaria semplicità e bellezza. Il pensiero è distante dagli ordinari percorsi quotidiani, si è pervasi dal soffio dell’eterno. La vetta come propaggine naturale e materiale di ascesi spirituale, resa dimora da anacoreti e uomini semplici che lontano dalle cose di questo mondo hanno vissuto la loro vita in preghiera. Provo un profondo senso di gratitudine per questi umili eremiti e costruttori che vissero “implorando Dio di regalare a loro una quiete psichica dopo la morte…e che lasciarono qui il loro ultimo respiro eremi e dimenticati”. Visito la chiesa deserta e qui resto obnubilato dalle raffigurazioni di arte bizantina in essa contenute. Resto attratto da una effigie, che sa di Apocalisse, di un orrendo demone. Incalzato da un battagliero santo precipita all’indietro in un vuoto senza speranza come il male che vuole simboleggiare.

Attraverso una delle tre porte dell’iconostasi ritrovandomi nel presbiterio. Dietro di me la presenza discreta e tollerante di una suora che controlla ogni mio movimento in un’area in cui, apprendo dopo, non è prevista la presenza dei fedeli. In alto intravedo un giovane intento in lavori di restauro. I brontolii e fischi del vento di tramontana lambiscono il cupolino della chiesa rompendo il silenzio metafisico in cui gravita il luogo. Esco all’aperto e mi trovo in quello che un tempo doveva essere l’orto. Tento di affacciarmi verso il vuoto, ci riesco a fatica, il forte e freddo vento mi respinge. Sono avvolto da suoni indistinti di incomprensibili voci che non so se del vento, delle rocce o di quanti hanno vissuto questi luoghi in santità pregando l’Inviolato. Da questo superbo punto d’osservazione vedo in lontananza il Katara Pass. Oscure e minacciose nubi si addensano sulla cima, ricordo quanto mi dissero due volontari della Croce Rossa tedesca diretti in Bulgaria: il passo d’inverno poteva chiudere per settimane e anche mesi. Un brivido. Ho ancora un po’ di luce e voglio comunque utilizzarla. Vedo sulla cartina “Psaropetra panorama” mi fermo e salgo sulle accessibili rocce, sotto oltre al vuoto il monastero di Roussanou, più in alto a destra quello di Varlaam o oltre l’imponente “Megalo Meteoro” la grande Meteora detta anche della Trasfigurazione (Metamorfosi). In basso ed in lontananza si intravede il Monastero Agios Nikolaos Anapafsas. Questo è quanto resta dei 24 monasteri che si potevano contare nel XV secolo. Di alcuni è possibile vedere le rovine mentre di altri solo il ricordo. Vado verso la grande Meteora che è ormai chiusa alle visite. Da vicino è ancora più imponente di quanto immaginato.

Scendono le prime ombre della sera, decido di riprendere la strada del ritorno. Scendo per la strada che passa sotto la rupe del monastero Roussanou, passo vicino al Monastero di Agios Nikolaos ed attraverso il villaggio di Kastraki. Lascio Kalambaka in direzione Ioannina. Frastornato dalla inimmaginabile bellezza del luogo lascio le Meteore con la consapevolezza di un futuro ritorno. Sostenuto dalle sensazioni forti e dalle immagini delle sacre rocce che mi porto dentro, avanzo con relativa apprensione verso il Katara Pass. La temperatura è scesa ancora ed i fari illuminano sul percorso cristalli di nevischio danzanti nell’aria. I timori si disciolgono con i km e quando incrocio altri veicoli che confermano l’apertura del passo; confido nella bassa temperatura che in genere non porta neve.

Arrivo tardi ad Igoumenitza ed il giorno dopo, di buon ora, sono al molo. La sagoma del Vivì, ormai familiare, avanza lentamente verso l’attracco, non sono adirato nei suoi confronti per il forfait del giorno prima, anzi provo riconoscenza e ripenso all’antico detto delle mie parti che recita saggiamente “storta va e diritta veni”. Procedo meccanicamente all’imbarco. Salito sul ponte, in attesa della partenza, guardo in lontananza i monti dell’Epiro. Il mio pensiero va oltre, è ancora ipnoticamente fermo alle Meteore, tra le Sacre rocce delle quali, una volta viste, si rimane inesorabilmente prigionieri.

LIBERTÀ IN GABBIA

di Marilena Rodica Chiretu

Mi sento un uccello in gabbia cresciuto,
che libero in cielo volare ha voluto,
quando le larghe ali provavo ad aprire,
tante vicende brutte avevo da subire.
In gabbia già adesso, le porte son aperte,
però le giuste strade non son ancor scoperte.
Mi sento chiusa anch’ io, un povero uccello,
che ha sognato sempre il volo nel suo cielo.
Se il dolce pensiero provava a volare,
tutto il mio cielo sembrava sprofondare.
Son tante le parole raccolte in gabbia mia,
però il freddo vento le sta portando via.
È libero l’ uccello, ma non potrà volare,
la libertà in gabbia non lascia mai cantare.
Anche se il cielo non ha più un confine
ecco, il mio volo sta ora per finire.
Adesso mi nascondo, in gabbia, per sognare,
il mio cielo azzurro, il verde del tuo mare.
mi chiudo in parole perché vorrei capire
per quanto tempo ancora dovrò io mai soffrire?
E chi dovrà aprire, in gabbia, la finestra
perché io viva meglio il tempo che mi resta?
Nel mondo delle ombre, chi mai potrà restare,
senza alcuna parola, senza poter cantare?  

2004

 

 

Settimo posto al Premio Internazionale per inediti Elsa Morante- 2005”-ROMA- VI edizione,  Sezione ”Poesia Singola”.

ZUPPA DI FAGIOLI CON COTICHE

di Antonio Penzo

I nostri avi ci hanno tramandato oralmente le ricette relative al loro desinare. L’esperienza del cucinare si perde nei secoli e, solo il continuo insegnamento di padre in figlio o di madre in figlia, ha potuto portare fino a noi la conoscenza della preparazione delle vivande.

Con l’avvento della stampa e del libro ma ancora più con l’alfabetizzazione della popolazione, la ricetta non è più a conoscenza della persona colta, ma anche nelle nostre case si è iniziato ad avere la tradizione di scrivere sulle cose quotidiane, scritti che poi si passavano di generazione in generazione, integrandoli gradualmente. Fra questi i ricettari culinari familiari che sono stati la gioia di molte famiglie odierne che li hanno scovati nei bauli in soffitta.

Non dobbiamo tralasciare il fatto che con l’avvento della radio ed ancora di più con quello della televisione si è completamente perduta la trasmissione per via orale, nell’ambito delle famiglia, di tutte le conoscenze che si erano accumulate nel corso dei secoli. A ciò si è aggiunto il fenomeno devastante del “1968” durante il quale è stata irrisa la conoscenza, la tradizione, la cultura e l’educazione atavica di trasmettere ai propri figli e nipoti le conoscenze acquisite, distruggendo così la famiglia.

Con la riscoperta dei ricettari familiari, quando le brave donne di casa (e non solo) si preoccupavano di scrivere le note sulla preparazione delle vivande dei pasti principali, anche se con prodotti che oggi si denominano “poveri”, si è avuta la conoscenza di una vera cultura domestica, legata alle proprie ascendenze ed in particolare al territorio in cui si abitava e caratterizzato dal fatto che nulla si buttava via.

Una pietanza che è nei miei ricordi infantili è la “zuppa di fagioli con le cotiche”.

Piatto che non è tipicamente invernale, ma data la presenza delle cotiche, era caratteristico dell’epoca in cui si ammazzava il maiale e lo s’investiva.

Il procedimento, a memoria, era il seguente.

Si prendevano fagioli borlotti secchi per circa sette etti e si ponevano in acqua la sera precedente, perché rinvenissero. La mattina, si scolavano i fagioli e si ponevano in una pentola con due litri d’acqua, delle patate, alcune cotiche o cotenne di maiale, alcuni pezzi di crosta di parmigiano e se c’era l’osso del prosciutto stagionato. Se i fagioli erano freschi o da poco sgranati, si usavano direttamente la mattina.

La pentola, con il coperchio, si poneva sul piano della cucina economica, di lato, in maniera che bollisse lentamente per oltre un’ora.

Dopo circa un’ora si toglievano le cotiche, le croste di formaggio e circa un quarto di fagioli e si ponevano a parte, mentre l’osso del prosciutto era dato al cane da guardia Il resto era ridotto a poltiglia attraverso il passaverdura e di nuovo si metteva il tutto nella pentola, dopo avere aggiustato il sapore con un po’ di sale.

A parte si preparava un sugo a base di pomodoro, tritando finemente aglio, cipolla e peperoncini, facendoli imbiondire nell’olio e aggiungendo un mezzo bicchiere d’acqua, che era fatta evaporare lentamente, poi si univano circa otto etti di pomodoro a pezzetti. Si aggiungeva un dado da brodo oppure del brodo e si aggiustava il sale. Giunto a cottura, si passava tutto nel passaverdura e si univa alla crema di fagioli nella pentola, versandovi acqua bollente fino a raggiungere la densità desiderata. A questo punto si univano alcune manciate di maltagliati (pezzi di sfoglia per pasta rimasta tagliata grossolanamente) ed un po’ di prezzemolo.

Si rimescolava continuamente per evitare che la pasta si attaccasse sul fondo. A cottura della pasta, si portava direttamente in tavola, dove con il mescolo si riempivano le scodelle e si aggiungeva parmigiano grattugiato e un filo d’olio extravergine crudo.

UN PAESAGGISTA
ALLA CORTE.. DEI MORMANNESI

di Nicola Perrelli

In paese lo conoscono tutti. Stiamo parlando del bravo pittore Giuseppe De Franco approdato ormai alla notorietà con numerose segnalazioni di stima anche fuori delle mura amiche di Mormanno.

E non potrebbe essere altrimenti per chi, come lui, da più di trent’anni, espone opere, facendosi apprezzare. L’amore per l’arte e il  bisogno di esprimersi sono la  costante del suo percorso esplorativo all’interno della tematica della rappresentazione. 

Il paesaggio reale o immaginario è il soggetto a lui più caro, dal quale riesce ad estrapolare il meglio di sé  e a dare altra figura poetica alla stessa natura. I suoi dipinti, cosi pieni di colore, di riverberi e di realismo rappresentano scene di vita quotidiana e del lavoro del contadino,  luoghi e profili di volti famigliari, l’incanto della  natura. Tutto si sviluppa intorno a questi temi e all’amore per la pittura di paese, intesa come legame affettivo con il posto, e dei suoi personaggi. Cerca i boschi, gli uccelli, gli scampoli di vita agreste, il lavoro nei campi ma resta  affascinato dagli scorci e dalle prospettive del suo paese e dai personaggi che scaturiscono dalla cultura e dalla tradizione popolare.

Che scelga di dipingere un bosco caliginoso, un campo sepolto dalla neve o un viale alberato, il Nostro lo fa “dal vivo” per coglierne l’essenza e la luce. Le emozioni provate vengono cosi, grazie all’abile uso di linee morbide e sinuose e di colori caldi ed intensi, trasferite sulla tela. E da questo mirabile gioco di tratti e di toni  si resta  soggiogati. L’artista, si serve del colore per toccare l’animo dello spettatore e trascinarlo con dolcezza nel limbo della sua sfuggente malinconia.

Il cromatismo intenso, vitale e avvolgente dei suoi paesaggi raffiguranti case, vicoli, alberi, montagne e figure, riflette indubbiamente i moti del suo animo. E’ impossibile sfuggire al fascino delle sue policromie. Davanti ai suoi quadri non  si sofferma solo l’occhio ad esplorare, il coinvolgimento è totale. Delle insolite atmosfere ,rese con spontaneità dall’artista sulla tela, si ha quasi la sensazione di sentirne i suoni ed di avvertirne i climi.

I suoi quadri non deludono mai: sono tempo, memoria, dimensione umana, concetto della vita.

Carichi di tensione e di pathos. Riflettenti uno spirito costretto entro una latente sofferenza  da un destino avverso. E’ forse questa la nota che più di ogni altra  da’ la misura corretta della validità dell’opera dell’artista mormannese.


IL PERSONAGGIO: GIORGIO  TERZOLI ,

MISTERI PER CASO

di Pier Luigi Trombetta

Un appassionato di storia antica di Bologna protagonista della prossima serie televisiva di Rai Tre intitolata ‘Misteri per caso’ e condotta da Syusy Blady.

Si tratta di Giorgio Terzoli, 45 anni, imprenditore e scrittore, che da sempre si occupa per passione e per hobby di antichi misteri, egittologia, numerologia, archeoastronomia.

“Abbiamo iniziato le registrazioni - spiega Terzoli – in questi giorni. Stiamo girando Bologna in lungo e in largo e spiegheremo il significato da un altro punta di vista di celebri monumenti e opere d’arte della città. Posso fare alcuni esempi: il portico di san Luca rispecchia la costellazione della Vergine; le volte del portico in Piazza Maggiore, dove i turisti si fermano ad ascoltare le eco delle loro voci, presentano un soffitto astronomico; oppure la chiesa di san Domenico: sopra il portone principale si vede il santo al centro con una stella in testa e alla sua sinistra un cane con in bocca il fuoco. Questa raffigurazione porta gli stessi simbolismi della grande piramide di Cheope della Piana di Giza”.

Già nel passato Terzoli è stato ospite di trasmissioni televisive nazionali come Stargate  e in alcune emittenti della nostra regione. E si definisce anche lo scopritore di un codice che correrebbe lungo la storia dell’umanità.

“In sostanza - continua Terzoli - la mia ricerca che ho chiamato appunto per comodità ‘Codice Terzo’ è partita dalle tesi dei professori Giorgio de Santillana e Herta von Dechend che affermano che almeno dal  7.000 a.C. nel mondo esistevano conoscenze astronomiche e scientifiche. E che tale sapienza utilizzava convenzioni mitologiche per esprimerle. Dal mio canto sono riuscito allora a trovare altri elementi comuni che danno la possibilità di decifrare - con senso logico e compiuto - il significato della  maggior parte della mitologia arrivata fino a noi”.


L’ASSAGGIO DEL VINO NUOVO, OVVERO PERCIAVUTTI

di Nicola Perrelli

Il giorno della vendemmia, per quanto atteso e piacevole, porta sempre con sé un preoccupante interrogativo: il mosto appena fatto, diventerà un buon vino?

La prova del nove è rimandata all’ 8 di dicembre, giorno dell’Immacolata per la nazione, di “ perciavutti ” per Mormanno.

In questo fatidico giorno , quasi tutti, volente o nolente, vengono coinvolti nei preparativi che preludono all’assaggio del vino novello. Le ore e ore passate in piazza a sentire  parlare di vino hanno avuto un preciso ruolo: accrescere, se mai ce n’era bisogno, l’attesa e le aspettative per il primo sorso. Discussioni, spesso appassionate, improvvisati dibattiti e curiose notizie sul vino, sugli uomini che lo fanno e sulle vigne, hanno creato in paese la giusta atmosfera:quella magica dell’ancestrale legame della nostra gente con il vino e  la sua millenaria storia, che in Calabria possiamo sicuramente far risalire alle prime migrazioni dei greci nel VIII secolo A.C..  E  risvegliato ancora una volta  l’amore per la nostra cultura e per il nostro essere.

Se torniamo al passato, quando la vita scorreva secondo altri ritmi, quando i confini delle persone erano ristretti ai posti in cui si viveva, è facile capire che le tradizioni rappresentavano e simboleggiavano le ragioni stesse di una comunità.  Un patrimonio di valori e di intese che negli ultimi decenni, per effetto dell’emigrazione forzata e della incombente modernità, si è gradualmente disperso. Per fortuna  non del tutto.

Da qualche anno a questa parte  la festa di “Perciavutti”  è stata ad esempio riscoperta. Certo le nuove botti non vengono come una volta “perciate” ossia forate  con quell’arnese simile ad un grosso chiodo a forma di elle, e una volta spillato il primo vino, turate  con la pece. Ma l’ansia del primo assaggio è immutata. Il vino si sa…alle volte  è acido, alle volte è buono ma inconsistente, alle volte è velato ,alle volte sa di spunto e cosi via. E allora pazienza, tutti lo sanno: a Mormanno il vino buono viene un anno si e cinque o più  no . Ma la festa continua. Nel cuore  del centro storico si rivive oggi l’incanto del passato. Nei quattro  quartieri (Casalicchio, Capo lo Serro, Torretta e Costa) le vecchie cantine (i vuttari) danno la possibilità di assistere  nuovamente al rituale della perciatura delle botti e degustare il vino nuovo con piatti tipici preparati dalle massaie del posto.

Sarà il fascino del centro storico con le sue piazzette ed i suoi vicoli, che fa da stupenda cornice alla festa, sarà  il vino in mescita nelle cantine, il lasciarsi travolgere dalla bontà dei prodotti caserecci e poi conoscere, assaporare e divertirsi, certo è che la Festa delle Cantine si è imposta, sin dalla prima edizione, non solo  all’attenzione dei residenti ma di un vasto comprensorio.

Tutto questo è  la festa di “ perciavutti”, una giornata di spensierato relax in cui il vino rinnova incredibilmente il gusto di vivere, invoglia a socializzare  e riporta un  pò di serenità interiore. E’ insomma un’occasione da non perdere.


LA TERZA

di Francesco Regina

Tutto ciò che avvenne a Mormanno a partire dal settecento è indissolubilmente ed intrinsecamente correlato ad un evento senza precedenti che coinvolse energie fisiche ed intellettive in misura incommensurabile e che ebbe sorprendenti risvolti socio – economici: ci riferiamo all’edificazione della matrice chiesa [11] .

Non è inoltre un mero caso che il clero mormannese rifiorisse proprio in quel periodo [12] e che i prelati più illustri e rappresentativi di questo nostro piccolo mondo fuori le mura vissero ed operarono nel secolo medesimo. [13]

Evidentemente i due aspetti non sono del tutto estranei tra loro: l’occasione esclusiva ed irripetibile di essere in stretto contatto con il clero consentì ai capimastri e ad i manovali più intraprendenti di avviare i propri figli (altrimenti condannati ad una vita di stenti e mortificazioni nella condizione di garzone in qualche agro locale ) alla vita ecclesiastica per indi proseguire l’ascesa verso gli ordini maggiori.

E’ peraltro molto probabile che ciò sia avvenuto a titolo di compensazione remunerativa per le prestazioni offerte dalle maestranze stesse; giova infatti ricordare come allora non fosse diffuso il pagamento contante ma esistessero invece forme diversificate di baratto.

L’ingresso in seminario e la successiva ordinazione sacerdotale, per il basso ceto era l’unica strada che portava verso una condizione di benessere per la famiglia tutta: la saggezza popolare, dando anche in questo caso prova della sua infallibilità, riconosceva infatti nel prete una delle tre fonti propiziatorie potenzialmente foriere di ricchezza o comunque benestare. [14]

Fu pressappoco così che si affermò lento pede una nuova classe borghese [15] che per più decenni detenne il potere ed il controllo sul territorio, soppiantando quel che restava delle ormai tramontate famiglie seicentesche.

La nobiltà vera e propria aveva ceduto il posto ad una pseudo – nobiltà derivante non dalla tradizione o dal lignaggio, ma da meriti conquistati sul campo con maestria e sacrifici.

Tra le famiglie costituenti questa nuova frangia, si stagliò prepotentemente quella dei La Terza, cognome la cui evocazione induce ancor oggi i memori nonagenari superstiti a pensare a palazzi grandiosi, servitù assortita all’uopo, proprietà sterminate e cose simili.

Anche se il buco anagrafico compreso tra il 1574 ed il 1590 ci vieta di conoscere il paese d’origine del capostipite [16] , pensare ad un possibile riferimento all’omonimo  paese pugliese risalente all’anno mille [17] è più che legittimo.

Le generazioni mormannesi, tuttavia riconoscevano unanimemente come loro stipite il tale Onofrio, in memoria del quale venne eretto nell’ottocento un sacello rurale, dedicato appunto a Santo Onofrio, nel loro fondo sito in contrada Carrosa.

Da Mastro Antonio (14.09.1713+22.06.1792) alias frittolèllo discesero il ministro Antonio La Terza, al quale dobbiamo la strada rotabile che attraversa il paese (1860), ed i germani D. Federico, D. Ulisse e D. Costantino, esempi inimitabili di fervente patriottismo.

Della famiglia di mastro Carlo (03.06.1715+22.01.1799) alias fiantòsa faceva parte il sacerdote D. Francesco La Terza, Maestro di Cerimonie ed impareggiabile Procuratore del Clero, il quale con grande determinazione, volendo seguire le vestigia dei suoi avi, costruì dalle fondamenta l’attuale sacristia della matrice [18] contribuendone all’arredo e dotò le celle

campanarie della campana maggiore impiegando i fondi necessari con impegno e solerzia [19]

Dallo stesso ceppo discese Don Rocco La Terza [20] , signorile nell’aspetto e nei modi, funzionante da Sindaco e Presidente della Commissione Sanitaria nel periodo del Colera Morbus [21] , nella qual infausta circostanza si adoperò con zelo, alto senso civico congiunto a grande umanità, per il soccorso dei malati ed il cristiano nonché decoroso seppellimento dei cadaveri.

Vogliamo ricordare infine Don Nicola Maria La Terza, esempio d’insegnante severo ed adamantino, al quale gli intellettuali ed i professionisti del novecento dovevano in larga parte la loro formazione.

L’ABITO BIANCO IL VESTITO NERO

di Antonio De Luca

A Francesco M. T. Tarantino

Passi lenti misurati

Non controllati non studiati

Di lontano ti si vede arrivare

Tu che vorresti non apparire

La tua figura ti svela

Il tuo vestito nero

Che la tua casa è la notte

Il suo uscio la sera

Guardi in alto per non cadere

Interroghi gli astri e la luna per sapere

Di verità segrete all’umana fortuna

La luce fioca sui tuoi bianchi capelli

La barba bagnata a cercare la stella

Condanna sensata supremo dolore

Ora ti svesti dell’antica corazza

Di giorno poi la riavrai addosso

Coerenza da non contaminare

Paura che gli altri lo possano fare

Così a catalogare forse t’inganni

In rigidità che non ti si attagliano

Gli amici i nemici lo stupido e il savio

Un consiglio se così posso dire

Distingui sempre dall’umano apparire

L’essere vero e il divenire

Passa sopra ogni cura

Appartiene al mondo l’eterno dolore

Testimone di fede

Custode di sacre memorie

Ai cercatori di luce

Non è data la pace

Va’ per il mondo a tracciare la via

Dell’abito bianco del vestito nero

Finchè per te non sarà più sera

Qualcuno forse vincerà l’oblio

Deve esserci il mare

Oltre quei rovi di spine

Deve esserci il sole

Al di là di ogni male

Verrà il giorno dove senza sapere

Ti ritroverai lì dove aneli

 

MARIE  ANTONIETTE

visto da Carla  Rinaldi

L’ottima operazione commerciale del nuovo film di Sofia Coppola, ha visto “Maria Antonietta” salire in pochi giorni, all’apice del box office internazionale.

La giovane regina di Francia, inesperta e capricciosa, abulica e forse anche bulimica, ci viene mostrata e presentata perché le possiamo volere bene, perché ci possiamo immedesimare con gli imberbi desideri di una teen-ager di duecento anni fa. Con queste parole, più o meno, la regista prodigio del cinema fintamente indi americano, ha parlato della pellicola. Visto che ci troviamo di fronte a quei rari casi in cui il finale lo conosciamo già tutti, altro caso è quello di Gesù di Nazaret per esempio, mi soffermerò sui dettagli: scarpe reali Manolo Blahnik, le torte di corte sono della celebre pasticceria parigina Ladurée, piumino per incipriarsi la pelle candida Anna Sui, svariate e luccicanti riproduzioni dei diamanti da 2.800 carati del gioielliere Charles Bohmer, vasca effetto marmo Devon &Devon, poltrona-trono Moodà. Attorno a tutti questi must, ruota la storia della scatenata ragazza austriaca ghigliottinata a soli 37 anni nel 1793, sposata al delfino di Francia Luigi XVI poco incline, pare, alle gioie del sesso coniugale alle quali, l’inquieta Maria Antonietta, sperava di sottoporsi al più presto.

Ma, intanto, prima di sfornare due figli, prima di pronunciare la storica frase “il popolo non ha il pane? Che mangi brioche”, l’antesignana di Lady D, si diede alla pazza frivolezza e al lusso più scellerato, in una corte senza rivali in fatto di superfluo dove transitava e veniva vagliata la moda di tutti i tempi. Una scena del film, descrive molto bene il clima reale, ogni mattina per la vestizione, attorno al letto, si riunivano una quindicina di dame, alle quali spettava il privilegio di vestirla, alternandosi a infilarle le mille crinoline e a stringerle i mille nastrini del bustier, mentre lei, la regina, in silenzio, senza poter neanche sfiorare una manica, subiva il rito interminabile. In un trionfo di colori shock, la delfina trascorse la sua esistenza tra un ballo in maschera e seduta lunghe ore di acconciature bizzarre per capelli. Trovò anche in tempo di consumare una torbida liaison con un aitante militare scandinavo, mentre il consorte, era intento a fabbricare chiavi di ogni tipo, il suo passatempo preferito. E non contenta di sfarzi accecanti, si fece erigere il Petit Trianon, il rifugio bucolico, che in qualche modo forse le ricordava la sua Austria, dove trascorreva il tempo  a spettegolare e a scegliere gli abiti per la prossima festa circondata da “comari” pari al suo rango.

Sofia Coppola ci ha tenuto a sottolineare che Maria Antonietta, prima ancora di essere un blasone, era una quattordicenne curiosa e superficiale come tutte le ragazze del mondo, di ieri, e di oggi. Ci è riuscita bene a trasmettere questo segnale e, seppure il montaggio del film è molto rudimentale, le immagini scorrono piacevoli, coadiuvate anche dalla bellezza delle location naturali.

Per rendere la pellicola ancora più rock, invece di inserire musiche con organetto e arpa del tempo, ha scelto una colonna sonora contemporanea e sperimentale.  E, per suggellare la contemporaneità del racconto, ad un certo punto, fa spuntare tra le mille scarpe barocche, un paio di All Star viola.

Alla sua terza prova come regista, dopo “Il giardino delle vergini suicide” e, soprattutto dopo “Lost in traslation”superba storia di solitudine e nichilismo in un Giappone lunare, nella sua terza pellicola forse scivola un po’ troppo nell’imporre i suoi gusti personali e nel voler marcare una libertà di espressione nei confronti di una storia che spesso viene narrata in maniera didascalica. Niente da eccepire sulla visione personale di una storia universale, il cinema è proprio questo, ma né il glam vorticoso, né la musica sperimentale, né le superbe torte decorative, bastano ad inchiodare lo spettatore, soprattutto quando è già a conoscenza del finale.

Il regista britannico Derek Jarman, più di venti anni fa, raccontava “Caravaggio”e gli faceva indossare, mentre dipingeva, un cappello di carta ricavato da un quotidiano, proprio come i muratori del ventesimo secolo, e contaminava la storia con altri oggetti contemporanei. Insomma, il concetto dell’universalità è già stato espresso e a lui non importava di diventare icona di stile. La Coppola invece pare essersi servita di questa storia per lanciare tendenze e presenziare a tutte le sfilate di alta moda che, guarda caso, quest’anno sfruttano il mito di Maria Antonietta. Il cinema cita la moda, la moda cita il cinema, la Coppola cita Jarman e non lo sa, Jarman non citava nessuno e faceva buoni film.  Che il sogno di Sofia bambina fosse proprio quello di essere Maria Antonietta e il padre, il grande Francis Ford, l’abbia accontentata sempre proprio come una regina?  Se fosse così, speriamo almeno che questo film le sia servito a non andare più dallo psicanalista visto che svela tutti i suoi desideri e ci narra, proprio come una ragazza ricca  di oggi, i suoi sogni, i suoi progetti, ad esempio quello di fare un film, aprire una casa di produzione e diventare guest star ai vernissage, proprio come una Maria Antonietta qualsiasi.

 


[1] L’Organizzazione nacque il 9 settembre 1943 e cessò di esistere nel 1947

[2] vedi L. Paternostro Uomini, tradizioni, vita e costumi di Mormanno, www.paternostro.org 

[3] La sentenza della Corte Costituzionale 524/2002 (che sostanzialmente assume la pianificazione territoriale come elemento di raccordo tra le previsioni della pianificazione di bacino e le scelte comunali) e l’avvio da parte dell’Autorità di bacino del Po di una specifica procedura di “integrazione” tra i PAI (Piani per l’Assetto Idrogeologico) e i PTCP (Piani Territoriali di Coordinamento Provinciale), rafforzano questa linea di tendenza soprattutto nella direzione della complementarietà e della integrazione.

[4] Solo 4 Autorità di Bacino hanno approvato, 3 lo hanno adottato, 14 hanno adottato il progetto di piano stralcio, 7 hanno predisposto il piano, 7 lo stanno elaborando, mentre sono 4 le autorità di bacino che non stanno elaborando piani.

[5] Supplemento ordinario n. 96 alla Gazzetta ufficiale 14 aprile 2006 n. 88.

[6] Si veda, fra l’altro, G. Garzia, “La difesa del suolo e il sistema di pianificazione nel nuovo Testo Unico”, in Ambiente & Sviluppo, n. 5, 2006, pp. 452-6.

[7] C.Cost., sentenza n. 85 del 1990.

[8] Cfr. D.Lgs.152/2006, art. 65.

[9] Art. 117.

[10] Art. 121, comma 3.

[11] La necessità di competenze specifiche in materia di costruzioni chiesastiche fece si che diverse famiglie quivi si trasferirono da paesi vicini e lontani (Aragona da Cavarzano, Cantisani da Lauria, Donnici da Rogliano, Scardino da Padula, Anselmi da Castrovillari, Accurso da Orsomarzo ecc.) contribuendo all’incremento demografico con notevole apporto di know how tramandato sino alle generazioni a noi più prossime.

[12] Da ricordare che il quaresimale dell’anno 1735 presenziato dal Beato Angelo da Acri fu un cofattore essenziale di non secondaria  importanza.

[13] Ci riferiamo a ben quattro Vescovi ed un Porporato, ciascuno dei quali lasciò traccia indelebile e fu tenuto in ottimo concetto nella rispettiva sede d’assegnazione.

[14] Il proverbio “n’ortu, nu pòrcu e nà chjìrica ràsa su la ricchìzzi di la casa” sintetizza in maniera estremamente icastica e rimarca adeguatamente il concetto.

[15] Senza addentrarci in discorsi troppo impegnativi che esulerebbero dai nostri propositi, vogliamo tuttavia rilevare come non si possa non percepire una forte

assonanza con le origini della massoneria: l’etimologia stessa del termine, dal francese franc macon ossia libero muratore, ci rammenta come le prime forme associazionistiche sorte in Inghilterra nel XVIII secolo ed aventi per scopo la tutela dei loro interessi, traessero ispirazione proprio dall’arte muraria.

[16] Dal 1545 fino al 1574 il cognome non appare in nessun atto di battesimo.

[17] Dibattuta la questione dell' origine del nome di Laterza, alcuni scrittori pensano che derivi da Latentia, luogo di caverne e di nascondigli; per altri deriverebbe dal latino Tertiam con riferimento ai militi della terza legione romana che fissarono in loco il loro accampamento. Tale ipotesi è avvalorata dal fatto che Laterza è situata lungo la via Appia nuova che unisce Taranto a Roma ricalcando il tracciato dell' Appia antica visibile ancora in alcuni punti. Altra suggestiva ipotesi fa risalire il nome Laterza ai Cretesi che fuggiti dopo la guerra con i Micenei fondarono qui una colonia in onore di Laerte, padre di Ulisse.

[18] Ne è testimonianza imperitura la celebre iscrizione latina, in più testi di storia locale riportata e tradotta, soprastante la porta d’ingresso della sacristia (parte interna).

[19] “… stipibus erogatis diligentia omnisceque studio ea fundenda curavit…” recita l’iscrizione a risalto riportata sulla detta campana.

[20] Fu padre dei signori D. Ferdinando, D. Biase e D. Onofrio, di cui i primi due sono sepolti nella citata cappella di S. Onofrio.

[21] Computo dell’Amministrazione della Matrice Chiesa dell’anno 1837, anno in cui l’introito superò l’esito di ducati 194 e grani 20, di cui ducati 50 furono stornati per sopperire alle anzidette esigenze.

FARONOTIZIE.IT  - Anno I - n° 9,  Dicembre 2006

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