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Riflessioni dal 25 aprile

il 1 maggio 2013
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Due anni fa abbiamo celebrato i 150 anni della nostra Unità ed oggi, nel giorno della liberazione, ci torna in mente che una vera unità in Italia non è stata mai davvero fatta.  Oggi la Nazione affida ad un uomo di 87 anni, stanco ma ancora lucido e tenace, la sua idea di Nazione unita e lui, nel giorno della commemorazione della liberazione dal fascismo,  ci ammonisce che: “Nei momenti cruciali per il Paese in tempo di crisi la memoria è fondamentale” ed aggiunge che: ”serve coraggio, fermezza e senso dell’unità, che furono decisivi per vincere la battaglia della Resistenza”, facendo intendere che qui si farà la “nobilità” di tutti e che tutti, ora, politici e cittadini, dovranno fare la loro parte.

Il concetto di nazione, ignoto al mondo greco e a quello romano, si andò sviluppando nel medioevo con un significato relativo alle differenze etnolinguistiche e alle consuetudini giuridiche particolari che esse comportavano; ma fu solo nel Settecento che si affermò nel mondo germanico in reazione al cosmopolitismo di cui erano paladini i philosophes francesi;  a sua volta, di esso si appropriò il giacobinismo per costruirvi attorno un nuovo tipo di aggregazione lealistica, da contrapporre a quella tradizionale che trovava il suo centro nel trono e nell’altare.

E fu proprio in Italia che – paradossalmente attraverso la dominazione straniera di Napoleone e di Murat, consacrata dal “Proclama di Rimini” -   di quest’ultimo, l’idea di nazione penetrò in ristretti ambienti intellettuali e rivoluzionari che se ne servirono per scalzare l’ordine europeo rifondato con la restaurazione.

Ma, al di là della propaganda carbonara e mazziniana, un importante ruolo nell’elaborazione di tale idea fu apportato da un oggi semidimenticato giurista avellinese, Pasquale Stanislao Mancini, che rifugiatosi a Torino dove aveva ottenuto una cattedra universitaria pubblicò nel 1851 un saggio dal titolo Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti.

Più volte ministro dell’Italia unita, Mancini fu tra i promotori della triplice alleanza con Austria e Germania nel 1882 e, dopo aver declinato l’offerta inglese per un intervento comune in Egitto, sostenne tre anni dopo l’occupazione di Massaua avviando la non fortunata politica colonialista italiana. Dall’Europa, l’idea di nazione si diffuse anche nel continente americano, in Asia e in Africa, dove si coniugò con le idee d’indipendenza e con la lotta anticolonialista. Facendo leva sui contenuti identitari, la nazione dipende con ogni evidenza da un’interpretazione del passato; e in ciò l’idea di nazione si differenzia da quella di popolo, che ordinariamente riguarda la medesima comunità umana ma la considera nel suo rapporto dinamico con il presente e con il futuro.  Sono stati semmai i grandi movimenti nazionalisti del Novecento a cercar di collegare le idee di “nazione”, di “popolo” e di “patria” – un antico concetto sacrale, quest’ultimo, con il quale un popolo identifica il territorio nel quale abita come contesto spaziale nel quale si è realizzata la comunanza di tradizioni che lo caratterizza -, favorendo il radicarsi di un concetto “forte” ed espansionistico di nazione collegato con l’aspirazione a farne la base per le stese istituzioni statuali.

Risultati di tutto ciò sono stati la prima guerra mondiale, che spazzò via gli imperi multietnici e sovranazionali – Austria, Russia, Turchia – e scatenò la danza macabra delle lotte e dei revanscismi nazionali: a causa della “pace ingiusta” di Versailles, che seminò ingiustizia, squilibri e discordie tra bacino renano, Balcani e Vicino Oriente, abbiamo avuto il nazismo, al seconda guerra mondiale e la crisi israeliano-palestinese. Ancora oggi, stiamo pagando gli errori di allora.

Il fatto è, come scrive lo storico Franco Cardini, che gli italiani ci sono e ciò che è mancato e che manca è uno stato italiano.

Com’è noto (e non solo da noi), la finanza condiziona la politica, la utilizza come piú gli conviene e da noi tutto questo rischia di trascinare il paese alla rovina.  L´Italia é un paese che, a causa del suo stato, entrò nei G7 senza possedere materie prime, una società di contadini per i quali si costruì il sogno di inventare automobili, formaggi come quelli francesi, vestiti e profumi.

Certo in quel sogno abbiamo creato la Ferrari, la Ducati ed il Parmigiano, ma poi sono mancate le regole ed il sogno è svanito.

Siamo uno stato economicamente debole e socialmente ingiusto, in cui ancora esistono fratture fra nord e sud e fra classi sociali, siamo uno stato che non ha volto perché non ha né etica né morale e, come ammoniva già Leopardi nel  Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, non abbiamo volto e quindi prospettiva e futuro e non sapendo riconoscerci, incapaci di accettare il nuovo e il diverso.

Tanto di cap­pello agli Ita­liani, che con­ti­nuano, nonostante tutto,  ad andare avanti ed a pro­durre nono­stante la poli­tica. In Fran­cia arri­vano già da un bel po’ certe pez­zone di peco­rino squi­sito che il paese dei 450 for­maggi si pre­ci­pita a con­su­mare con deli­zia.

Siamo bravi singolarmente e singolarmente sappiamo di essere italiani, ma ci manca un senso civico e statale perché mancano e sono mancate stato e società.

Nei paesi civili ci si rivolge alle isti­tu­zioni con fidu­cia, la ragione sociale dell’apparato è quella di rego­la­men­tare diritti e doveri fon­da­men­tali dei cit­ta­dini senza immi­schiarsi nelle fac­cende pri­vate e rappresentarli con autorevolezza discreta. Gover­nare in demo­cra­zia vuol dire gestire una delega per favo­rire il benes­sere di una collettività, inco­rag­gian­done l’iniziativa e pre­ser­vando l’identità che è ele­mento fondamentale per aver voce e spes­sore in una realtà globale.

Orbene, da noi, appare evidente che una cosa sono gli Ita­liani, ed una cosa è lo Stato, uno stato in cui ogni diritto diventa favore   e nessuno può avere conforto o certezza.

In un Paese in cui lo stato manca ed  i soliti noti con­ti­nuano a fare il loro comodo e con totale assenza di pro­grammi inno­va­tivi e corag­giosi, la cedibilità è un miraggio.

Continuano le immolazioni in Tibet per protestare contro la presenza cinese nella regione: tre nuovi casi di immolazione nelle ultime ore, due monaci e una donna, che fanno salire il totale a 118 dal 2009, quando è iniziata la protesta.

Ma lì, per quanto schiacciata, esiste una idea comune di società e di nazione ed uno stato, che anche se da lontano, esiliato, dà un respiro di coesione e di unità.

Qui si chiedono sacrifici ai singoli per salvare politica ed economia, caste e gruppi di potere e si pretende poi una nazione unita.