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Il brodo di giuggiole

Scritto da Piero Valdiserra il 1 maggio 2013
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Nel 1612 venne pubblicato in prima edizione il Vocabolario dell’Accademia della Crusca, nata a Firenze alcuni decenni prima con lo scopo di dare dignità, stabilità e identità alla lingua italiana. Già al suo primo apparire, la grande opera lessicografica riportava l’espressione metaforica “andare in brodo di giuggiole”, e la definiva come una situazione in cui è possibile “godere di molto di chicchessia”.

Si tratta dunque di un modo di dire molto antico. Ma qual è la sua origine? E a quale strano significato letterale è legata?

L’origine va ricercata nel giuggiolo, un piccolo albero di provenienza asiatica che nel corso dei secoli si è diffuso largamente anche in tutti i paesi mediterranei. I suoi frutti, naturalmente, si chiamano giuggiole: una volta giunte a maturazione, sono delle drupe ovoidali, lisce e lucenti, di color marrone tendente al rosso, con polpa dalla consistenza farinosa e dal sapore dolce – acidulo. Le giuggiole possono essere consumate fresche o, trascorso qualche giorno dalla raccolta, avvizzite; sono inoltre molto indicate per preparare confetture e sciroppi, per essere messe sotto spirito o anche per entrare nella ricetta di alcuni liquori.

I liquori a base di giuggiole erano già noti presso molte civiltà del bacino del Mediterraneo. Egizi e Fenici crearono i preparati più antichi di cui siamo a conoscenza. Nelle sue Storie, Erodoto ebbe a paragonare la dolcezza della giuggiola a quella del dattero, sottolineando come dalla polpa fermentata della prima si ottenesse un liquido molto inebriante. Si ipotizza inoltre da parte di alcuni che il loto di cui parlò Omero nel nono libro dell’Odissea fosse una specie di giuggiolo selvatico, e che quindi l’incantesimo dei Lotofagi non fosse provocato da narcotici, ma dalla bevanda alcolica preparata con i frutti del nostro piccolo albero. Presso i Romani il giuggiolo divenne il simbolo arboreo del silenzio, e come tale fu usato per adornare i templi della dea Prudenza; ciò non impedì comunque alle popolazioni latine di farne anche un uso profano, e in particolare di ottenerne preparati liquidi fermentati.

Nel corso del Medioevo la sapienza artigianale delle popolazioni antiche riuscì a conservarsi nella tranquillità delle campagne e all’ombra dei conventi. Ed ecco finalmente che col Rinascimento il giuggiolo e i suoi frutti conobbero una specie di seconda giovinezza, anzi un autentico momento di nobiltà. In quell’epoca infatti in prossimità del lago di Garda, la potente famiglia dei Gonzaga aveva la propria residenza estiva, “Il Serraglio”: qui veniva prodotto, e offerto agli ospiti, un delizioso elisir a base di giuggiole – il “brodo di giuggiole”, appunto – ideale per accompagnare le torte e i biscotti secchi che venivano inzuppati nel liquido, oppure per essere centellinato come liquore in eleganti bicchierini. Il successo e la fama del brodo di giuggiole furono tali che in breve l’espressione assunse un carattere addirittura proverbiale, a indicare qualcosa di talmente buono da far sdilinquire, da far uscire quasi di sé per la contentezza.

I tempi dei Gonzaga sono ormai passati, ma la coltivazione del giuggiolo è ancora diffusa nel Basso Garda (Desenzano, Maderno), nel padovano (Arquà Petrarca) e nel vicentino. La ragione è  semplice: pur essendo in grado di adattarsi a terreni di varia natura, il giuggiolo predilige climi piuttosto temperati, con inverni abbastanza miti e con estati lunghe e calde; la sua coltivazione richiede in particolare le condizioni atmosferiche che si creano in prossimità di laghi o di colline con buona esposizione.

Ecco perché, in queste zone, la produzione casalinga di brodo di giuggiole è proseguita nel corso dei secoli fino ad arrivare a noi. Ed ecco perché, negli ultimi tempi, dello storico liquore è nata una produzione dalle ambizioni più alte, vale a dire farsi conoscere e apprezzare anche al di fuori del territorio classico. La ricetta odierna si basa sull’infusione idroalcolica di giuggiole mature, mele cotogne, scorze di limone, uva bianca e altra frutta, intera o in succo, con l’aggiunta di zucchero. Si lascia macerare per un paio di mesi e poi si filtra e si imbottiglia. Il risultato è un liquore dal colore rosso, dal profumo tipico di giuggiole e dal gusto pieno, dolce, vellutato e avvolgente. Può essere servito ghiacciato, in piccoli calici, oppure a temperatura ambiente a fine pasto, come digestivo. Grazie alla sua composizione si abbina egregiamente al gusto del cioccolato; può infine essere usato come ingrediente in pasticceria, nell’elaborazione di dolci particolari, o al bar, per preparare insoliti cocktail.