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Orrore siriano e cristiano

Scritto da Carlo Di Stanislao il 1 febbraio 2013
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In meno di due anni il conflitto in Siria ha causato 60.000 morti, secondo una stima ritenuta molto attendibile e divulgata dalla Commissione Onu per i diritti umani, due giorni fa, stima elaborata dal   centro di ricerche Benetech che ha verificato le liste delle vittime fornite da sette fonti differenti.

Lo studio non è riuscito  a precisare se le vittime sono soldati o civili, ma mostra che il 76,1% degli uccisi sono maschi; il 7,5 donne e che le zone più colpite sono la periferia di Damasco e la provincia di Homs.

La ricerca ci dice anche che i morti ci sono stati da entrambe le parti, soldati del governo e gruppi dell’opposizione armata, dato molto importante che ci suggerisce che vi sono violenze anche da parte del Free Syrian Army e dei gruppi fondamentalisti islamici che combattono contro il regime baasista.

Nei giorni scorsi, suor Agnes-Mariam de la Croix, superiora carmelitana di un monastero siriano, che ha dovuto trovare rifugio in Libano, ha diffuso la notizia di un cristiano di 38 anni, Andrei Arbashe, il cui corpo decapitato è stato trovato lungo una strada, preda dei cani randagi. La religiosa afferma che l’uomo è stato giustiziato solo perchè il fratello di lui ha espresso giudizi negativi sui ribelli, accusandoli di essere dei banditi.

Il giorno di Natale, dopo il messaggio Urbi et Orbi, Benedetto XVI ha detto: “Sì, la pace germogli per la popolazione siriana, profondamente ferita e divisa da un conflitto che non risparmia neanche gli inermi e miete vittime innocenti. Ancora una volta faccio appello perché cessi lo spargimento di sangue, si facilitino i soccorsi ai profughi e agli sfollati e, tramite il dialogo, si persegua una soluzione politica al conflitto”.

Va riconosciuto che, nel mondo, al di fuori del Papa, dei Patriarcati siriani e del movimento Mussalaha (un movimento trasversale a tutte le componenti siriane che vuol dire “riconciliazione”), nessuno ha abbracciato la scomoda via della pace. I media continuano a darci conto della guerra civile con la malcelata convinzione che un intervento internazionale ‘stile Libia’ riporti pace, concordia e giustizia. Anche i governi, che hanno chiuso le loro sedi diplomatiche ed espulso gli ambasciatori, hanno sposato le linee più intransigenti della ribellione armata e non hanno trovato di meglio che decretare un embargo durissimo che colpisce soprattutto la popolazione. “L’unico colpevole di tutto quello che succede – ci ripetono – è Assad”. La vulgata generale ha accettato ormai questa ‘verità’ e non ha il tempo né la voglia di cambiare idea né prospettare nuove soluzioni.

Eppure, come scrivono alcuni giornali cattolici, una via d’uscita per preservare dalla totale rovina quello che resta della Siria c’è da tempo: l’accordo di Ginevra del 30 giugno sottoscritto dai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU, più Qatar, Turchia Kuwait e Iraq, che prevede il varo di “un processo politico che porti ad una transizione che soddisfi le legittime aspirazioni del popolo siriano” e la creazione di un organo esecutivo di transizione formato da “membri dell’attuale governo, dell’opposizione e di altri gruppi”. Il problema è che l’opposizione armata, sostenuta dalla comunità internazionale, non accetta questo piano, né ha accolto quello del negoziatore Brahimi, che prevedeva anche la non rieleggibilità di Assad.
In questo contesto, la comunità internazionale ha assunto una posizione fortemente ambigua: pur non opponendosi alle trattative, le ha subito delegittimate e inopinatamente accantonate. Interessi terzi hanno fatto che si riconoscesse l’opposizione armata come unica rappresentante del popolo siriano e si adottasse un modo di operare del tutto irrazionale: con una mano si organizzano le trattative e con l’altra si arma si finanzia la ribellione.

Di recente il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon,  ha dichiarato che: “In Siria non c’è prospettiva di una fine del conflitto o dell’avvio di un dialogo politico fra governo e opposizione. L’unico modo per porre fine alla violenza è un accordo politico”. Ban ha invitato il Consiglio di sicurezza dell’Onu a trovare una posizione unica e a “Dare un a direzione politica molto forte alle parti in conflitto. La Siria ha cominciato l’anno in conflitto e conclude l’anno in guerra. Giorno dopo giorno il bilancio dei morti è salito; mese dopo mese il conflitto si è esteso sempre più  nella regione”.

E in questa situazione che appare inestricabilmente disperata, l’Iran, alleato di ferro del regime di Damasco, ha pensato bene di cominciare i lavori di costruzione di un gasdotto per rifornire l’Iraq e la Siria. Il network televisivo Al-Alam ha spiegato che il gasdotto sarà lungo 1.500 km e fornirà ogni giorno 25 milioni di m3 di gas all’Iraq (che di gas ne avrebbe per conto suo) e 20 – 25 milioni  alla Siria.

Il progetto principale, 1.500 km di lunghezza, che porterà il gas da Assalouyeh a Damasco richiede 10 miliardi dollari e dovrebbe portare nella capitale siriana 110 milioni di m3 di gas naturale al giorno.

Il gas sarà prodotto dal giacimento di gas iraniano di South Pars nel Golfo Persico, che l’Iran condivide con il Qatar e che ha riserve stimate di 16 miliardi di metri cubi di gas recuperabile.

La commissione d’inchiesta Onu sulla Siria, nell’ultimo rapporto, riguardante il periodo 28 settembre-16 dicembre 2012, elaborato senza poter entrare nel Paese ma intervistando oltre 1200 testimoni e vittime, ha dichiarato che ”Il conflitto in Siria e’ diventato chiaramente un confronto tra etnie, tra alawiti e sunniti, con le altre minoranze etniche costrette a prendere le armi per difendersi, e molti combattenti che vengono da altri Paesi”.

Il 2 gennaio sul Foglio, che ha riportato la notizia pubblicata da  Martin Chulov, giornalista del Guardian che entra ed esce clandestinamente dalla Siria,  abbiamo letto che Jihad Makdissi, portavoce del governo siriano,  sta collaborando con la Cia che è in cerca di informazioni sulla struttura del potere a Damasco attorno al presidente Bashar el Assad.

Makdissi ha implicitamente ammesso  l’esistenza delle armi chimiche a disposizione del governo di Assad e ne ha minacciato l’uso “non contro il popolo siriano”, ma contro “i nemici esterni”.

Anche dalle sue parole è evidente che la comunità più a rischio in Siria è oggi quella cristiana, tanto da giustificare l’accorato appello alla comunità internazionale del Vescovo di Aleppo il giorno di Natale, criticando l’atteggiamento del mondo occidentale che tace di fronte alle reiterate stragi.

In effetti, soprattutto durante gli ultimi mesi,  è oramai diventata consuetudine assistere, attraverso i mezzi di comunicazione, alla macellazione, defenestrazione ed isolamento delle minoranze religiose, specialmente quella cristiana, in paesi con maggioranza islamica. 

Nel frattempo, però, essi chiedono il rispetto, profondo rispetto dall’Occidente, suggerendo, anzi ordinando, ossequio totale per il loro credo e argomentando maggiori diritti.

La situazione dei cristiani nei paesi islamici è agghiacciante.  L’Egitto, nazione dichiaratamente anti cristiana, fa poco o nulla per frenare i massacri copti compiuti nelle chiese, con le autorità civili che emettono condanne di basso rilievo, dimostrando che, in quel paese, i cristiani sono cittadini di seconda classe.

In Turchia Monsignor Luigi Padovese è stato  decapitato dal suo autista al grido ‘Allah è grande’, con l’omicida  inizialmente bollato  come folle criminale, ma che poi si è scoperto essere stato nominato dallo stesso esecutivo di governo.  In Iraq molti  cristiani sono stati costretti a lasciare il paese e chi è rimasto continua a subire attacchi, mentre in Siria dopo l’assalto alla Cattedrale di Baghdad, si sono moltiplicati quelli ad altre chiese e in Nigeria  decine di cristiani vengono massacrati dai radicali islamici nel tentativo di instaurare in loco la sharia. 

Infine, in Pakistan, durante le inondazioni che hanno colpito il paese lo scorso agosto, a molti battezzati sono stati negati gli aiuti umanitari, nonostante tali invii, siano stati effettuati da parte di paesi e organizzazioni di ispirazione cristiana, chiedendo loro per evitare di morire di fame, di convertirsi all’Islam. In altri casi, i villaggi cristiani sono stati inondati per salvare quelli delle autorità civili.

Di fronte a tutto questo l’Europa tace o fa finta di non vedere, con un atteggiamento di paura per rappresentato da quello che è accaduto dopo la pubblicazione delle caricature di Maometto sui vari media, con l’autore ha ricevuto minacce di morte ed è stato vittima di duri attacchi, criticato per avere  per avere offeso i sentimenti religiosi dei musulmani, con il deputato olandese Geert Wilders, che è stato denunciato, perchè in un dibattito ha tenuto a conferire che il musulmanesimo è un “regime totalitario paragonabile al “Mein Kampf2” di Hitler.

E ancora, un’altra dimostrazione, arriva  dalla Spagna, dove una discoteca di Murcia ha dovuto cambiare il suo nome “Mecca”, per le continue minacce ricevute, nonostante fossero anni che il locale si chiamasse così.

In Siria le fazioni jihadiste, secondo molteplici fonti,  stanno acquistando fama e sempre più peso all’interno dell’opposizione armata. Le minacce arrivate a due villaggi cristiani, sempre nella provincia di Hama, hanno anche la conferenza islamica (Oci) a condannare i gruppi estremisti: “Queste minacce sono contrarie ai principi dell’Islam, la tolleranza, la fratellanza e la pace”, si legge in un comunicato dell’Oci in riferimento all’ultimatum lanciato contro le città cristiane di Mharda e Sqilbiya, che gli insorti sunniti hanno posto sotto assedio, chiedendo ai residenti di schierarsi contro il regime se vogliono evitare un attacco.

Molti cristiani hanno abbandonato la Siria per riparare in Libano, ma anche lì la situazione non pare accogliente e tranquilla.

E, durante queste ultime ceste natalizie, si sono moltiplicate le minacce ai cristiani in India.

Come ha scritto in una lettera al direttore di Avvenire Ugo Volli, sarà il caso di aprire gli occhi e prendere posizione, ricordando a chi di dovere la nostra convinzione che la libertà è una,  oppure non è affatto  e che non ci può essere la mia libertà senza la tua, perché allora non vi sarebbe libertà, ma privilegio. Ciò vale in particolare per la libertà di pensiero, di religione, di culto. Se una religione non è libera, nessun’altra lo è. Se in un Paese non si è liberi di credere e di non credere e di pregare secondo la propria religione o di non pregare, di pensare come la maggioranza o diversamente da essa – anche noi siamo tutti meno liberi, in un certo senso prigionieri del nostro privilegio.

A questo punto vale anche la pena ricordare ciò che Indro Montanelli scrisse sul Corriere della Sera il 16 settembre 1972 a proposito della questione fra Israele e Palestina. Ecco un brano del pezzo: “Che i profughi palestinesi siano delle povere vittime, non c’è dubbio. Ma lo sono degli Stati Arabi, non d’Israele. Quanto ai loro diritti sulla casa dei padri, non ne hanno nessuno perché i loro padri erano dei senzatetto. Il tetto apparteneva solo a una piccola categoria di sceicchi, che se lo vendettero allegramente e di loro propria scelta.  Oggi, ubriacato da una propaganda di stampo razzista e nazionalsocialista, lo sciagurato fedain scarica su Israele l’odio che dovrebbe rivolgere contro coloro che lo mandarono allo sbaraglio. E il suo pietoso caso, in un modo o nell’altro, bisognerà pure risolverlo. Ma non ci si venga a dire che i responsabili di questa sua miseranda condizione sono gli “usurpatori” ebrei. Questo è storicamente, politicamente e giuridicamente falso”.

Secondo il quotidiano cattolico Avvenire, al 2011 i cristiani sono vittime del 75% delle violenze anti-religiose ed in Medio Oriente rischiano l’estinzione.I martiri cristiani sono stati calcolati in 105.000 all’anno, uno ogni cinque minuti.

Attualmente i due continenti nei quali le persecuzioni contro i cristiani sono maggiormente presenti sono l’Africa e l’Asia. In generale nei paesi arabi i cristiani nonostante che in tutto il Vicino Oriente ed in Nordafrica incluso il Sudan costituissero la popolazione originaria, sono oggetto, da parte della popolazione musulmana, di forme di discriminazione più o meno gravi, che negli ultimi decenni hanno portato molti di loro a emigrare o forzati a convertirsi all’Islam. La popolazione cristiana è in calo più o meno pronunciato in tutti i paesi del Vicino Oriente, ed in via di sparizione dall’Iraq. La conversione di musulmani al Cristianesimo è poi vista come un crimine (apostasia) la cui pena è la morte e, anche nei paesi in cui la legge non la vieta apertamente, i convertiti sono spesso oggetto di minacce, vendette, ricatti, linciaggi da parte della popolazione.

Lo scorso ottobre un rapporto sulla libertà religiosa nel mondo (http://www.tempi.it/rapporto-acs-sulla-liberta-religiosa-in-medio-oriente-si-rischia-la-dittatura-islamista#.UIEipWmorFw) ci ha informato che mentre e nei 131 paesi di cultura cristiana non ce n’è uno che ostacoli la libertà religiosa, né nella legislazione né nei fatti, ben diversa è la situazione dei paesi di cultura musulmana. Come ha spiegato Marc Fromage, direttore della sezione francese di Acs che ha curato il rapporto, in 17 paesi islamici su 49 totali le religioni diverse dall’islam non sono tollerate e cristiani e non musulmani sono sottoposti a “controllo forzato”. Mentre in 19 di questi paesi la libertà religiosa è riconosciuta soltanto sulla carta ma non è applicata in pratica.