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Che ci azzecca il potere con l’arte?

Scritto da Gabriella Montanari il 1 novembre 2012
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Il “caso” Ezio Camorani, pittore del “segnico gestuale”.

A guardarlo bene non sembra neanche italiano. Con quegli occhi a mandorla che si ritrova, pare sbucato dalle steppe della Mongolia, un Gengis Khan in bicicletta, armato di pennellesse da imbianchino e secchi di acrilici. Al bar del paese lo sfottono e gli chiedono, a proposito dei tratti da cinese: “Son del papà o della mamma?” E lui risponde: “La nonna!”

Poi però, appena apre la bocca per un saluto o una bestemmia, la Romagna intera si spalanca sul suo volto. Al pari della porta di casa, sulla cui soglia l’artista mi accoglie, in canottiera e sorriso. M’invita a entrare dentro “l’inferno” e mi fa: “Mò te, chi sei?”. Si scusa per il casino e mi dice che prima o poi i quadri sbatteranno fuori lui e la moglie.

Ezio Camorani, classe 1940, nativo di Massa Lombarda, comune della profonda campagna ravennate.

Le varie scuole e accademie d’arte locali le ha frequentate ma da autodidatta, imparando le tecniche più con spirito di bottega che di ateneo, che si trattasse dell’incisione, della xilografia o della pittura. La vita, i viaggi, i soggiorni all’estero, lo studio dei grandi del passato e dei contemporanei sono stati i veri maestri. Oltre a quella curiosità testarda e maniacale che non si accontenta dei sentieri battuti e che lo ha sempre spinto a cercare, a sperimentare, a osare. E, non in ultimo, una splendida musa dal profilo alla francese, Lella, l’amore fattosi donna di carne e intelligenza.

Dal 1967 ad oggi più di trecento lastre e una ricchissima produzione pittorico-plastica, mostre di pittura e incisione ovunque. Negli anni Settanta la partecipazione alla X Quadriennale di Roma (1975) e alla Biennale di Venezia (1976 – sezione ambiente sociale). Il critico Giorgio di Genova gli ha consacrato varie pagine nella sua monumentale “Storia dell’arte per generazione”. In seguito ancora recensioni, mostre, premi, riconoscimenti, acquisizioni da parte di collezionisti privati, musei e fondazioni. Ma tutto in sordina, a livello per lo più locale. Poi quasi più niente. Non si può neppure dire “Tanto rumore per nulla”, perché attorno a Ezio di rumore se n’è fatto sin troppo poco.

Eppure non ci troviamo davanti a un fuoco di paglia, anche un cieco se ne accorgerebbe. Nei suoi lavori c’è tecnica, testa, un sacco di cuore e quell’ironia bonaria più efficace di tanta volgare provocazione. Una miscela esplosiva. Perché allora non è esplosa e non se n’è ancora sentito il botto nel panorama italiano dell’arte figurativa? Aspettano che l’artista crepi per accorgersi che in effetti, tutto sommato, era bravo? Forse una ragione c’è. Camorani non è uno che sta zitto, parla “pane al pane e vino al vino”. Non sa vendersi perché non è ossequioso, reverenziale. Ha l’indole burlesca e incendiaria, è un Cecco Angiolieri della tela. Non gli piace ascoltare il “critichese”, il linguaggio criptico degli esperti d’arte. È diffidente, e a ragione, perché qualche fregatura se l’è anche presa. E forse un po’ rassegnato all’idea che, nella migliore delle ipotesi, il suo lavoro sarà riconosciuto quando lui non ci sarà più a foraggiarlo. Certo, con gli anni, la crosta si è fatta pelle e gli angoli si sono un po’ smussati, ma Ezio resta un puro, un verace. E lavora, da stacanovista della creatività, con lo stesso entusiasmo di sempre. C’è da dire che ha scelto di restare nella sua terra, tra i filari di kiwi e i campi di granturco, fuori dai circuiti del potere fatti di clientelismo, pseudo-mecenatismo, prostituzione artistica e vernissages per esperti scrocca-prosecco.

Camorani scruta il mondo e le sue bolgie dallo schermo del piccolo televisore sempre acceso in cucina. Come un bambino che sbircia nella camera dei genitori dal buco della serratura, desideroso di sapere cosa succede là dentro, ma consapevole che non è posto per lui. Che ci sono “cose che non si fanno”. L’attualità entra nelle tele senza diventarne protagonista. L’ispirazione gli viene dal suo variopinto mondo interiore che è materiale poetico allo stato di immagini brade. E dalle donne. Ezio è un tattile, deve toccare con mano, deve affondare le dita nei barattoli dei colori per sentirne la materia, il calore e la consistenza. Dice che “col pennello non si sente il profumo…”.  Allora le sue dita si sono fatte pennelli, coltelli e spatole e stendono la pasta di pigmenti su lenzuoli di lino, come se adagiassero il corpo di una donna sul letto. Sì, perché Camorani coi colori ci fa l’amore. “È come scopare. Se non palpi…”

La sua è una pittura sensoriale con una forte componente erotica, non tanto nei soggetti rappresentati (più o meno espliciti) quanto nella fase di realizzazione. A vederlo all’opera vien da chiedersi se ogni quadro non gli procuri un orgasmo… Maltratta e poi accarezza. Taglia, lacera, ricompone, stropiccia e increspa. Anche le sue opere hanno i tratti caratteriali del romagnolo d.o.c. : la durezza che dissimula la bontà d’animo, l’offesa per fare un complimento, l’augurarti “un canchero” per dirti che è contento di vederti. Dare della scema alla moglie e due minuti dopo reclamare la dosa giornaliera di baci.

Ezio esce spesso fuori dal quadro, inteso come schema e come cornice, per inseguire una libertà autentica ma controllata. In lui la rottura crea dinamicità e movimento ma la ricostituzione è fatta di calcolo e non d’istinto. Tecnica “a manazza” (dal dialetto romagnolo: con le mani) ma anche precisione della siringa da cui cola il colore sullo sfondo ancora bagnato. Il risultato è una sinfonia di colori, un jazz caldo.

A farla breve, si respira Fellini nelle tele di Ezio, la carnalità dalle tinte oniriche e il forte accento locale.

Come incisore, in Italia gli addetti ai lavori conoscono bene il suo nome e la sua opera, ma Camorani pittore aspetta ancora. Una galleria seria che lo prenda in scuderia? Critici e curatori che si degnino di infangarsi i mocassini e venire in campagna a dare un’occhiata alla sua produzione? La moglie Lella dice che non appena lo avrà sepolto ci sarà la fila di avvoltoi fuori dalla porta… E lui continua a non capire perché i suoi quadri siano nei musei ma nessuno se li compra. Avanziamo insieme alcune ipotesi, neanche troppo mirabolanti…

Il mercato dell’arte contemporanea, italiana ma anche internazionale, è in mano ai critici, ai galleristi, alle case d’asta e nel nostro paese solo quattro o cinque artisti hanno veramente varcato i confini. Alcuni altri, pur non essendo delle star, ci campano, ma la maggiorparte deve fare altro per sbarcare il lunario. E fin qui niente di nuovo. Questione di fare gli incontri giusti? Di piegarsi ai compromessi di mercato? Di rendersi fruibili e commerciabili? Di creare per provocare e attirare l’attenzione? Perché, in tutta onestà e ingenuità, il talento non basta? Perché il valore intrinseco e oggettivo dell’opera non legittima da solo l’artista? Perché altrimenti di cosa campa lo stuolo di parassiti che giudicano, scrivono, speculano sull’opera dell’ingegno altrui? Purtroppo questo è un male comune a tutte le arti ma quando si getta uno sguardo alle vergognose quotazioni di artisti viventi, appena trentenni, che passano più tempo a presenziare eventi che a imbrattarsi le mani nei loro ateliers, viene voglia di comprarsi un poster della Gioconda per il salotto…

Oggi, poi, nel paniere del “concettuale” ci entra di tutto. Le installazioni non se le può portare a casa nessuno e le banche si dotano di consulenti artistici per consigliare gli investitori desiderosi di “diversificare”.

Quando Ezio mi chiede “ma chi vuoi che venga qui a vederli i miei quadri?”, sono tentata di raccontargli un mio sogno ricorrente. Una galleria a cielo aperto, fatta di piazze, pareti e palchi, in cui artisti, poeti, musicisti e attori espongono, vivendo, la loro arte. Senza intermediari e per solo organo di giudizio, il cuore degli spettatori.

Ma non lo faccio. Perché l’utopia non va più di moda e certi sogni non aiutano a vivere.

Il caso Camorani, emblematico di tanta arte lasciata vergognosamente a marcire come le noci non raccolte da terra, ancora caso non è, ma speriamo possa diventarlo.