www.faronotizie.it - Anno XIX - n. 215 - Marzo

Il rito dell’ammaina bandiera alla frontiera Indo-Pakistana

Scritto da Raffaele Miraglia il 1 ottobre 2012
facebooktwitterfacebooktwitter

Prova ad immaginare una frontiera.
Ci sarà di sicuro un gabbiotto dove lavora un poliziotto o un soldato. E non mancherà una sbarra.
Ora immagina che – sia dalla parte da dove arrivi, sia dalla parte dove dovresti andare – il tutto sia contornato da tribune da stadio e che al posto della sbarra ci sia un cancello, come quello che hai visto tante volte davanti a una vecchia villa. E immagina che le tribune si riempiano di una folla festosa proprio quando la frontiera viene chiusa. Pensa che le persone che compongono questa folla sono arrivate almeno un’ora prima, si sono accalcate in lunghe fila, si sono sottoposte a più di una perquisizione e ora stanno cantando inni patriottici. Se riesci ad immaginare tutto questo, allora con la mente sei giunto al confine tra l’India e il Pakistan, tra Attari, una manciata di chilometri da Amritsar (India), e Wagah, un’altra manciata di chilometri da Lahore (Pakistan).

Si sa che India e Pakistan non sono propriamente degli Stati amici fra loro. L’ultima guerra l’hanno combattuta nel 1999. E l’attacco terroristico del 2008 a Mumbai ha gettato benzina su un fuoco mai spento. Eppure, proprio nella più trafficata fra le strade di confine, India e Pakistan hanno creato un rito che li gemella: la chiusura della frontiera e l’ammaina bandiera.

Andiamo per ordine.
Nel bus che ci dovrebbe portare da Chandigarh a Amritsar dopo una ventina di chilometri l’aria condizionata viene a mancare. Questione irrilevante, se non fosse che i finestrini sono tutti ermeticamente sigillati e la temperatura interna raggiunge i 40 gradi (molto umidi). L’autista apre le porte – un refolo è meglio di niente – e raggiunge un’officina. Non c’è nulla da fare. Si prosegue sino a Jalandhar e lì si trasborda su un bus decisamente più sbrindellato. Il ventilatore – sì, proprio un piccolo ventilatore – posto sopra di noi induce Rosella ad estrarre dalla zainetto una sciarpa e a trasformarsi in una perfetta donna mussulmana.  Siamo in vista dell’uscita dall’autostrada (???) quando inizio a sentire un rumore strano. Il bus si ferma e scendiamo tutti. Arriva un altro bus. I viaggiatori senza bagagli ci salgono sopra. Io e Rosella, insieme ad altre due ragazze locali, rimaniamo a terra. Si ferma un auto risciò di ultima generazione – assomigliano alle vetture su cui viaggiano, tra una buca e l’altra, i giocatori di golf –  e decidiamo di prenderlo. Il ragazzo alla guida non parla inglese e insiste nel parlarmi in hindi (presumo). Non sa leggere, ma si ferma quando vede persone che ritiene sappiano leggere e parlare inglese. Io mostro la guida e il nome e l’indirizzo dell’albergo dove vogliamo andare e loro spiegano all’autista la strada da fare. Dieci chilometri di taxi (e vari interpelli) ci costano la bellezza di quattro euro, il doppio di quanto avevamo speso per il bus. Una doccia (indispensabile!) e via verso il tempio d’oro di Amritsar. Fuori dal cancello dell’albergo sostano dei ciclo risciò. Rapida contrattazione e al prezzo di un ottanta centesimi l’anziano (all’apparenza, ma ho il dubbio che sia più giovane di me) ci scarrozzerà per tre chilometri, superando anche un ripido cavalcavia. Arrivati alle porte del tempio d’oro, lui non si fa pagare. In cambio, ci aspetterà domattina per portarci in giro negli altri luoghi da visitare in città. Ci chiede se vogliamo andare anche al confine tra India e Pakistan. Lui potrebbe trovarci un taxi a un prezzo conveniente. O.K. Siamo al pomeriggio del giorno dopo e abbiamo già scoperto all’interno del Maharaja Ranjit Singh Panorama (un fanciullesco diorama) la figura di Paolo Avitabile, nato ad Agerola – provincia di Napoli – e vissuto come soldato, mercenario e avventuriero (cito da Wikipedia). Dal 1827 al 1843 visse nel Punjab, diventando governatore di Peshawar. Tornò ricchissimo al paesello – cosa rara di quei tempi – e sposò Enrichetta Coccia, prima di morire e lasciare che gli eredi si dedicassero ad una storica battaglia per dilapidare i suoi averi (immagino la gioia degli avvocati). Il nostro ciclo taxista ci porta vicino alla stazione ferroviaria. Ci lascia in consegna il suo mezzo e poco dopo riappare a bordo di un taxi a quattro ruote. Abbiamo già stabilito il prezzo. Ci porterà alla frontiera (30 chilometri), attenderà per due ore e ci porterà indietro e noi gli daremo dieci euro. Un euro, almeno, va sicuramente nelle tasche del mediatore, il nostro ciclo taxista, che ci ha trasportato in giro per l’intera mattinata (per non parlare del pomeriggio antecedente). A lui non chiedo nemmeno quanto vuole. Gli metto nelle mani  sette euro e so che mi ringrazierà di cuore.

Ed eccoci quasi arrivati.
Il taxi posteggia a qualche centinaia di metri dalla frontiera. Noi passeggiamo, evitando i rivenditori di bandierine. Eccoci al primo sbarramento. Sulla destra si accalcano le donne, sulla sinistra gli uomini. Un ragazzo ci dice che noi non dobbiamo metterci in fila e ci indirizza sulla destra, accanto alle donne. Altri cinque visi pallidi sono lì. La fila diventa una folla che pressa. E  finalmente si apre il varco per le donne. Attorno a noi i visi pallidi si sono fatto più numerosi. Quando le donne indiane stanno per finire, le donne viso pallide si lanciano nella mischia. Noi uomini le talloniamo per essere i primi rappresentanti del sesso maschile a superare lo sbarramento. E così sarà. Ed eccoci in vista del  secondo sbarramento. Soldati a cavallo costringono uomini e donne a mettersi in fila. Agitano un frustino. Per un  attimo mi sento dentro a un film. Poi mi faccio perquisire. Salvo dal sequestro le sigarette, giurando che non avrei fumato durante la cerimonia.
Tutti corrono per accaparrarsi i posti migliori, ma noi visi pallidi camminiamo con calma. Sappiamo che ci è  riservata una zona privilegiata delle tribune (c’è anche la zona V.I.P., ma dovresti pagare). Dopo la terza perquisizione eccoci finalmente tra coloro che avranno una visione migliore. Gli spalti indiani sono gremiti, quelli pakistani vuoti. Dopo venti minuti anche i pakistani e le pakistane arrivano. Salta subito agli occhi che il confine divide due popolazioni veramente diverse. Versante indiano: gli spalti sono gremiti da uomini, donne e bambini, tutti mischiati. Versante pakistano: la divisione fra i sessi è rigida, gli uomini sugli spalti di sinistra, le donne (poche) dall’altra parte della strada. In India le donne portano il sari, in Pakistan le donne sono tutte velate e con un abito lungo che nasconde ogni rotondità. In India gli uomini sono vestiti quasi tutti all’occidentale, in Pakistan predominano quelli vestiti in modo locale (camicione bianco lungo fino ai polpacci su pantaloni bianchi).

I due versanti non si differenziano, però, quanto alla presenza di altoparlanti, dai quali sgorgano inni e slogans patriottici. Ci sono animatori con il microfono in mano e agitano le braccia per galvanizzare la folla. Poco ci manca che si facciano dello ola. Nello spicchio di strada indiana contornata dagli spalti scendono e si mettono in fila un bel po’ di donne. Un uomo consegna loro una bandiera e, una alla volta, le ragazze e le donne fanno una corsa fino al cancello e tornano indietro agitando il vessillo. Correre indossando il sari non è una cosa semplice, ma lo fanno con evidente gioia. Scattano innumerevoli i click delle macchine fotografiche.

Ed eccoci finalmente ai soldati, che eseguono la cerimonia di chiusura della frontiera. Indossano un improbabile cappello con una cresta punk. La divisa è simile per entrambi i paesi, cambiano i colori, tortora con bande e cappelli rossi per l’India, verde con bande rosse e bianche per il Pakistan. Si esegue uno strano rituale e i soldati marciano ad uno ad uno o in coppia sino al confine. Partono slanciando la gamba destra più in alto che possono, in una sorta di passo dell’oca estremo. Il tutto fra il tripudio della folla, che agita quelle bandierine che noi non abbiamo comperato. Quando, al termine di un complicato gioco incrociato di fili, le due bandiere vengono ammainate all’unisono e quasi intrecciandosi, la folla si acquieta e lentamente prende la via del ritorno. Per noi è ormai tempo di andare a mangiare l’amritsari fish.

So di non aver descritto bene la parata e per questo vi consiglio un salto su youtube, lì potrete avere una visione completa. Nel motore di ricerca mettete queste parole: “attari wagah border”.